Lo ZEN e le DIECI IMMAGINI

del BUE-domato       (del Ven. Dr.Walpola Rahula) 

                                                     Prefazione di Graeme Lyall 

Il seguente articolo del Ven. Dr. Rahula fu dato originalmente come conferenza nel 1975 presso la Societ? buddhista di Londra. Spesso, molti seguaci della tradizione Theravadin hanno numerosi equivoci sulla tradizione Mahayana e sullo Zen in particolare. Essi ritengono che la tradizione Mahayana sia quasi un’altra religione, e che l'unica forma "pura" di buddhismo sia il Theravada. Grazie a questo articolo, persone con tale 'mente chiusa' potrebbero fare un certo progresso nel buddhismo. Anche alcuni seguaci dello Zen credono che il buddhismo e lo Zen siano due insegnamenti diversi. Una volta, io stesso sentii un praticante Zen chiedere al Ven. Maestro Zen Thich Nhat Hanh, quale differenza vi fosse tra il buddhismo e lo Zen. Egli rispose "nessuna", indic?che lo Zen ?basato sul Satipatthana Sutta e consigli? tutti i praticanti Zen di studiare questo importante Sutra, cos?da poter capire le radici della loro pratica. Il Ven. Rahula mostra che, invero, la pratica Zen e quella tradizionale Theravada sono essenzialmente la stessa. Egli mostra che i famosi "Dieci Ritratti del Bue addomesticato", che sono familiari a tutti i praticanti di Zen ed attribuiti al Maestro Ch'an Kaku-an Shi-en, della dinastia Sung, hanno le loro radici nelle primitive fonti buddhiste Pali. 

Per coloro che hanno poco familiarit?col significato di questi ritratti, il bue sta per la mente - prima selvatico e non-domato ?incline a correre qua e l? Il mandriano deve prima legare il bue - ma il bue continua a resistere, essendo ancora voglioso di fare il suo comodo. Il mandriano deve allacciare il bue ad un albero, cos?che essendo fissato ad un punto fermo, presto sar?calmo e sottomesso. Una volta che il bue ?calmato e addomesticato, pu?essere lasciato in pace, e il mandriano non ha pi?bisogno di prestare attenzione al bue. Questa ?una similitudine superba della pratica di meditazione. Ora vediamo ci?che il Venerabile Walpola Rahula ha da dire circa " Lo Zen ed i Dieci Ritratti del Bue-addomesticato". 

I libri introduttivi sullo Zen contengono di solito sei o dieci disegni, chiamati con il nome di 'Ritratti del Bue domato? che mostrano la storia di un bue indisciplinato e selvatico, da addomesticare. Questi furono disegnati da alcuni antichi maestri Zen, segnatamente da Kaku-an e Jitoku del XII?secolo. Il bue rappresenta la mente ed il mandriano che addomestica quel bue ?lo yoghi, la persona che ?impegnata nella meditazione. 

?significativo che questa similitudine dell'addomesticamento del bue risalga a tempi molto antichi. Discutendo l'importanza dell'espressione 'arannagato va rukkhamulagato va sunnagaragato va', 'andato in una foresta o andato alla radice di un albero o andato in una vuota (quieta) casa (o stanza)', che si trova nel Satipatthana sutta, i commentari Pali elaborano: “La mente del bhikku (cio? la mente del meditante),/ che per lungo tempo fu riempita di tali oggetti come le forme visibili (rupadisu arammanesu) non gradisce entrare nel Sentiero (la Via) di un soggetto di meditazione (kammatthana-vithi), ma corre soltanto verso una via sbagliata, come un carro trainato da un bue non-domato (indisciplinato). Proprio come un mandriano che desidera avere un indomito vitello cresciuto su con il latte che ha bevuto dall'indomita (madre) mucca, lo toglierebbe alla mucca, e avendo fissato un palo da un lato vi legherebbe il vitello con una corda; e allora poi quel suo vitello, cos?lottando e incapace di fuggire, pu?fermarsi o sdraiarsi gi?vicino al palo; allo stesso modo, questo bhikku (meditante) che desidera addomesticare la mente villana, diventata cos?come risultato del bere per lungo tempo i piaceri degli oggetti sensoriali come le forme visibili, ed essendo andato in una foresta o ai piedi di un albero o in una casa vuota, dovrebbe legarla al palo dell'oggetto della presenza (satipatthanarammanatthamba) con la corda della consapevolezza (sati-yotta). Poi, la sua mente, perfino dopo che ha cos?lottato e che, non pi?trovando l'oggetto con cui prima si appagava, incapace di rompere la corda della consapevolezza e fuggire, si siede e si distende gi?vicino a quello stesso oggetto (di consapevolezza) grazie alla concentrazione dell’ambiente circostante e grazie al suo conseguimento della concentrazione (upacarappanavasena). 

Perci? gli antichi dissero: “Proprio come un uomo legherebbe ad un palo 

                                      Un vitello che dovrebbe essere addomesticato, 

                                    Cos?pure uno dovrebbe qui legare strettamente

                                     La propria mente all'oggetto di consapevolezza? 

In questa similitudine del commentario, il mandriano fissa per terra un palo e vi lega il vitello, mentre nei ritratti Zen il toro ?legato ad un albero. I due commentari in cui questa similitudine si trova, sono le traduzioni Pali fatte nel quinto secolo d.C. da Buddhaghosa Thera degli originali Commentari di Sinhala, che risalgono al terzo secolo a.C. Gli Antichi (porana), grandi maestri anonimi, di cui si riferisce nel passaggio succitato (ed in numerosi altri punti nei Commentari Pali), potevano appartenere anche ad una data precedente agli stessi Commentari di Sinhala, cio? ancor prima del terzo secolo a.C. L'ultimo verso di questo passaggio, attribuito a questi antichi maestri, contiene in miniatura la similitudine del vitello. La storia dell'addomesticamento del bue, quindi, pu?forse essere riportata perfino ad un periodo anteriore del terzo secolo a.C. 

Dunque, in quattro brevi righe, gli Anziani avevano chiaramente e concisamente paragonato l'addestramento della mente all'addomesticamento del vitello. Altri commentatori ampliarono questo tema con maggiori dettagli e chiarimenti. I maestri Zen svilupparono ed elaborarono la stessa idea, dipingendo tramite bei disegni l’affascinante storia dell'addestramento graduale, la purificazione e perfezione della mente. Dietro questo sviluppo, appare ovvio che vi sia stata la comune tradizione buddhista. E sembra che tanto il Theravada quanto il Mahayana abbiano seguito una comune tradizione di commentari. 

Nei 'Ritratti del Bue domato' il bue all'inizio ?nero, ma nel corso del suo addomesticamento e mentre lo si addestra diviene gradualmente bianco, fino a che alla fine esso ? completamente bianco. La sottostante idea fondamentale ?che la mente, che ? naturalmente pura, ?inquinata da impurit?estranee e che potrebbe e dovrebbe essere pulita tramite disciplina e meditazione. 

Nell'Anguttara-nikaya vi sono due sutra essenziali e molto importanti che servono come indice al concetto del bue nero che gradualmente diventa bianco. Un sutta dice: Pabhassaram idam bhikkave cittam, tan ca kho agantukehi upakkiesehi upakkilittham. (Bhikkhu, la mente ?pura e luminosa, ma ?inquinata da contaminazioni avventizie). L'altro sutra dice: Pabhassaram idam bhikkhave cittam, tan ca kho agantukehi upakkilesehi vippamuttam. (Bhikkhu, questa mente ?pura e luminosa, ed ?poi liberata dalle contaminazioni avventizie). Per di pi? questi due sutra dichiarano che non vi ?alcuna coltivazione della mente (citta-bhavana) per l’uomo comune e ignorante che non capisce precisamente come questa ? ma che la coltivazione della mente ?possibile per il discepolo nobile ed istruito che capisce precisamente come questa ? 

Qui, ?istruttivo notare che c'?un impressionante accordo tra il concetto di citta che c’è nei due sutra e la dottrina Mahayana del tathagatagarbha. Citta ?valutato dal termine Pali pabhassara. Il Lankavatara-sutra (un sutra Mahayana di epoca pi?tarda rispetto all'Anguttara-nikaya e che ha grandemente influenzato lo Zen), qualifica il tathagatagarbha dalla corrispondente parola Sanskrita prabhasvara (luminoso). Esso dice che il tathatagarbha ? prakrtiparisuddha (puro per natura) e prakrtiprabhasvara (luminoso per natura), ma appare impuro 'perch??inquinato dalle contaminazioni avventizie (agantuklesopaklistataya). (Cf. l'espressione Pali nei due sutra sopra: agantukehi upakkilesehi upakkilittham). Nel Lankavatara-sutra il termine tathagatagarbha ?usato come sinonimo di alayavijnana. Ora, alayavijnana ?un altro termine per citta (coscienza). Quindi l'asserzione del Lankavatara-sutra che il tathatagarbha ?'puro per natura' e 'luminoso per natura', e che ?'inquinato da contaminazioni avventizie, ?uguale a dire che il citta (la coscienza mentale) ?'puro per natura' e 'luminoso per natura', e che ?'inquinato solo a causa di contaminazioni avventizie'. E?ovvio poi che il concetto dei 'Ritratti del Bue-domato' derivi dai sutra Pali e Sanskrito, cos?come dai commentari antichi, e che fu pi?tardi elaborato in una serie di disegni grafici. 

Il principio fondamentale dello Zen ?basato sul Satipatthana (Skt. Smrtyupasthana), comune al Theravada ed ai sistemi Mahayana. Nello Zen, lo scopo principale dello zazen ?lo stesso come l?i>anapanasati del Satipatthana. In anapanasati, ci si siede a gambe incrociate e si concentra la propria mente sull’inspirare ed espirare. Al primo stadio dello sviluppo di jhana (Skt. dhyana), i desideri, le passioni ed alcuni pensieri impuri sono abbandonati, e sensazioni di gioia e felicit?rimangono insieme ad alcune attivit?mentali. Nel secondo stadio, tutte le attivit?intellettuali sono soppresse, si sviluppano tranquillit?e focalit?di mente, e le sensazioni di gioia e felicit?ancora rimangono. Nel terzo stadio, anche la sensazione di gioia, che ?una sensazione attiva, scompare, mentre rimane ancora la tendenza alla felicit?oltre ad una consapevole equanimit? Nel quarto stadio, tutte le sensazioni come felicit?e infelicit? la gioia ed il dolore, scompaiono, lasciando solo pura equanimit?e consapevolezza. Cos? alla fine, la mente diviene totalmente libera da ogni genere di pensiero, o sensazione, o sentimento. Similmente, il principio dello zazen ?di sedere a gambe incrociate e concentrare la propria mente svuotandola fino a che essa diviene completamente libera da ogni genere di pensiero, o sensazione, o sentimento. 

Un punto molto significativo sempre enfatizzato come caratteristica nella disciplina Zen ?che si dovrebbe vivere nel fatto, vivere nel momento stesso, senza preoccuparsi n?disturbarsi con pensieri del passato e futuro. Un distinto insegnante di Zen, interrogato su come egli si fosse disciplinato nella verit? semplicemente disse: 'Quando ho fame, mangio; quando sono stanco, dormo'. L'interrogante replic?che questo era ci?che ognuno faceva e chiese se questo poteva essere considerato il praticare la disciplina, come faceva lui. L'insegnante rispose: 'No; perch?quando gli altri mangiano, loro non mangiano, ma stanno pensando alle varie altre cose che poi li renderanno disturbati; quando dormono, essi non dormono, ma sognano le mille cose. Ecco perch?loro non sono come me'. 

Questo ?precisamente ci? che insegna la sezione del Satipatthana Sutta chiamata sampajana-pabha (attenzione con chiara comprensione). Secondo esso, sia che si cammini, si stia in piedi, si sieda, si sia sdraiati o si dorma, sia che si sia piegati, che si guardi in giro, che ci si vesta, che si parli o si stia in silenzio, sia che si beva, o anche quando si risponde ai bisogni naturali - in tutte queste ed altre attivit?- si dovrebbe essere sempre completamente consapevoli ed attenti dell'azione che si compie in quel momento. Cio? si dovrebbe vivere nel momento stesso, nella azione presente, e non si dovrebbe essere inutilmente disturbati da pensieri sul passato ed il futuro. (Si dovrebbe ricordare che, oltre a questo, il Satipatthana Sutta tratta molte altre forme di meditazione, costituendo un completo sistema basato sulla consapevolezza). Inoltre, quando al Buddha fu chiesto perch?i suoi discepoli erano cos?raggianti, lui rispose: 'E? perch?essi non rimpiangono il passato, n?rimuginano sul futuro. Essi vivono nel presente. Perci?loro sono raggianti. Pensando al futuro e rimpiangendo il passato, gli sciocchi si rinseccano come canne verdi (tagliate e lasciate al sole)'. 

L'origine dello Zen ? rivelata in una deliziosa piccola storia della tradizione apocrifa. Un giorno, mentre stava predicando all’assemblea sul Picco dell'Avvoltoio (Grdhrakuta), il Buddha sollev?in alto un fiore di loto dorato. Nessuno nell’asseblea cap?il significato del suo atto eccetto Maha-Kasyapa, il grande anziano, che guard?il Buddha e sorrise. Allora il Buddha disse: 'Io ho il Vero Occhio del Dharma, la meravigliosa mente del Nirvana. Ora questo te lo trasmetto a te, Maha-Kasyapa'. Quindi, si considera che Maha-Kasyapa sia il primo nella linea dei Patriarchi Indiani dello Zen. L'intero episodio ?di dubbia origine. Comunque ci?possa essere, l’idea stessa che la realizzazione della verit?possa essere trasmessa e tramandata in una successione discepolare come tradizione orale dell’insegnamento e che un custode della Verit?possa essere nominato in una linea gerarchica ?assolutamente ripugnante allo spirito dell’insegnamento del Buddha. Un patriarca di una setta, o una linea, o un ordine, certamente pu? essere nominato, ma questo appartiene al dominio della religione istituzionale organizzata, e non al reame della Verit? Uno dovrebbe essere estremamente cauto nel confondere il reame della Verit?col lato istituzionale di una religione o di un sistema filosofico. 

Generalmente si crede che lo Zen sia diverso da tutti gli altri sistemi di buddhismo. Questa errata impressione ?stata probabilmente generata dai successivi sviluppi in Cina, ma soprattutto in Giappone. Lo Zen Giapponese proviene dal Ch'an Cinese, che deriva dal Sanskrito 'dhyana' (Pali, 'jhana'), che significa 'meditazione'. Questa fu portata dall'India in Cina nel sesto secolo d.C., probabilmente da Bodhidharma. Ma in Cina, e pi?tardi in Giappone, la sua pratica pass?attra-verso cos? tremende trasformazioni, quasi oltre il suo riconoscimento, in base al carattere e alla cultura di quei paesi, che ora ?generalmente considerato come Cinese, o quasi Giapponese. Lo spirito originale del buddhismo Indiano rimane ancora, malgrado tutto, come la vita dello Zen. I suoi dogmi fondamentali sono tutti basati sugli insegnamenti e le idee che si trovano nei testi Canonici originali. 

Alcuni importanti assiomi, considerati particolarmente Zen, sono mantenuti dall?insegnamento e dalla tradizione Theravada originale. Ad esempio, lo Zen sostiene che l’ottenimento del satori (il Risveglio, o Illuminazione) ?aldifuori delle scritture e che ?impossibile ottenere l’esperienza del satori con il mero studio dei sutra a livello scolastico e che non si dovrebbe restare attaccati alla lettera della Legge. Ci?non significa affatto che non si debbano studiare i sutra o i testi. Anzi, quasi tutti i maestri Zen erano, e sono ben versati nei testi. Come il Dr. D.T.Suzuki ha osservato umoristicamente: 'Lo Zen pretende di essere "una specifica trasmissione aldifuori delle scritture e insieme essere indipendente dal verbalismo", ma sono proprio i maestri Zen ad essere molto ciarlieri e pi? assuefatti a tutti i tipi di scritture'. 

Che la realizzazione della Verit?(il Nirvana) non possa essere raggiunta dal mero studio del Dharma senza una vera pratica, ?un dogma fondamentale del Theravada. Ma una conoscenza del Dharma (pariyatti) ?un aiuto direi necessario. Tuttavia, questa conoscenza da sola non sar?sufficiente. Essa dovrebbe essere messa in pratica nella vita (patipatti). Come il Dhammapada (vv.19,20) dice, una persona che conosce molto bene i testi ma non mette in pratica la sua conoscenza ?come un uomo che conta le vacche di un altro. Un'altra persona potrebbe solo conoscerne un p? ma se egli pratica questo poco ne gode i risultati. In accordo alla tradizione Theravada, se una persona studiasse i testi senza per?applicare la sua conoscenza ai risultati spirituali, sarebbe meglio per essa dormire piuttosto che sprecare il suo tempo nello studio. Dal Buddha, il Dharma (l'insegnamento) ?paragonato ad una zattera (Kullupama), per attraversare il fiume ed arrivare all'altra riva, e non per far sorgere l’attaccamento (nittharantthaya no gaha-natthaya). Se voi appena seduti sulla zattera vi attaccate febbrilmente ad essa, senza remare adeguatamente, non arriverete mai all'altra sponda. Una volta che avete attraversato il fiume,  non dovreste portare sulla vostra schiena la zattera, o la barca, perch?vi ?stata utile, ma la dovreste lasciare l?per il beneficio di altri. E, comunque, non dovreste nemmeno disprezzarla o bruciarla dopo averla usata. Un dotto monaco chiamato T'okusan (782-865), che era specialista nel Sutra del Diamante, si dice che abbia bruciato il sutra e tutte le sue note, apparentemente per disprezzo, dopo aver avuto il suo 'risveglio improvviso'. Ma questa ?un’esibizione altezzosa e stravagante, e non necessaria, di un entusiasta privo di calma ed equilibrio, piuttosto che la reazione di un uomo 'risvegliato'. Senza dubbio, ci?che contribu?parzialmente al suo cos?detto 'risveglio-improvviso' fu proprio il suo lungo studio del sutra. 

Un altro assioma dello Zen ? che esso mira a focalizzare la propria mente; in altre parole, punta all'esperienza diretta. Questo ?precisamente ci?che ?trasmesso dal termine Pali ‘sacchikaroti?/i>? che significa 'vedere coi propri occhi', 'sperimentare direttamente'. Cosippure il termine Dharma (Verit? 'dovrebbe essere individualmente compreso dai saggi, proprio all’interno di se stessi' (paccattam veditabbo vinnuhi).  

Ma nello Zen, il pi? importante assioma ?il conseguimento dello Stato di Buddha, arrivando a vedere direttamente nella propria natura. Questo “vedere nella propria Natura?di 'Realt? o 'Verit? nei testi Pali ?denotato da espressioni come nanadassana (vedere con saggezza), cakkhum udapadi (aprire l’occhio), panna udapadi (far sorgere la saggezza), aloko udapadi (c’è luce, sia guardandosi intorno, sia vestendosi, sia parlando o tacendo, mangiando o bevendo, e perfino quando si risponde alle necessit?di natura, tutte queste e le altre attivit?- si dovrebbe essere sempre totalmente consapevoli ed attenti dell'atto che si sta compiendo in quel dato momento. Cio? si dovrebbe vivere nel momento stesso, nell'effettiva azione, e non si dovrebbe essere disturbati inutilmente da pensieri riguardanti il passato ed il futuro. (In aggiunta a questo dovrebbe essere ricordato il risveglio del Satipatthana Sutta). Chiunque abbia realizzato questa Verit?(il Nirvana), proprio in questo senso, potrebbe essere chiamato 'Buddha', anche secondo la tradizione Theravada. L'Upasakajanalankara, un trattato Pali che tratta dell’etica del buddhista laico, scritto nel dodicesimo secolo da un Thera chiamato Ananda, nella tradizione Theravada del Mahavihara, in Anuradhapura, dichiara che, quando un discepolo raggiunge l’illuminazione (savaka-bodhi), egli diviene un Savaka-Buddha (Discepolo-Buddha). Nel Theragatha, il termine sambodhi (la piena illuminazione) ?usato nei riguardi del conseguimento dello Stato di Arahant di un thera. Il Commentario dice che qui il termine sambodhi identifica arahatta (lo stato di 'arahant'). Anche un Samasambuddha ?un arahant?araham sammasambuddho). Il Theravada ed il Mahayana sono entrambi d'accordo su ci?che riguarda vimutti o vimukti (emancipazione, liberazione), cio?che con riferimento allo Stato di arahant - la liberazione dalle contaminazioni, non c'?differenza tra un Sammasambuddha (Skt. Samyaksambuddha), un Paccekabuddha (Skt. Pratyekabuddha) ed un savaka (Skt. sravaka) che ?un liberato (cio? un arahant). Anche se un Sammasambuddha ?superiore ad un Paccekabuddha e ad un discepolo liberato, nella sfera di conoscenza e con riguardo ad altre innumerevoli qualit? capacit?e abilit? E bench?anche un discepolo che ha realizzato il Nirvana, che ha cio?raggiunto lo Stato di Arahant, possa essere chiamato 'Buddha', il Theravada, forse per modestia, di solito non usa cos?generosamente e liberamente l'espressione, come invece fa lo Zen che impiega il termine nei riguardi di qualcuno che si suppone abbia raggiunto il satori

Lo Zen mette molta enfasi sull’improvviso conseguimento del satori, come sua distinzione particolare, e riferisce storie per illustrare questo punto. Ad esempio, il Maestro Zen Reiun, dopo trent’anni di dura disciplina e addestramento, speriment?il suo satori (risveglio o illuminazione), quando vide fiorire un comune fiore di pesco. Il Maestro Kyogen, dopo una lunga ed ardua ricerca, ebbe il suo satori quando sent?il suono di una pietra che colpiva un bamb? Un Maestro Zen chiamato Mumon, pass?sei anni di dura disciplina e meditazione col famoso koan 'Mu' (vacuit? senza alcun risultato. Un giorno, lui sent?il battito del tamburo che annunciava il pasto e cos? all'improvviso, ebbe un satori. 

Esempi di questo tipo di 'improvviso' risveglio o 'improvviso' ottenimento dello stato di arahant non mancano nemmeno nei Commentari Pali. Un acrobata di nome Uggasena raggiunse lo stato di arahant stando pericolosamente in equilibrio sulla cima di un palo di bamb? nel corso di una rischiosa esecuzione acrobatica, dopo aver udito dal Buddha un'espressione come un koan Zen:  

“Lascia andare davanti; Lascia andare dietro; Lascia andare nel mezzo, 

Andato oltre l’esistenza, dappertutto con una mente liberata, 

Tu non tornerai pi?a nascere nuovamente n?a morire? 

Un thera di nome Usabha che viveva in una grotta in una foresta ai piedi di una montagna, una mattina fu sommerso dalla gloriosa bellezza della foresta e delle montagne (vanaramaneyyakam pabbataramaneyyakam), e raggiunse lo stato di arahant. Mahanama Thera, mentre anche lui stava vivendo su una montagna, era totalmente disgustato della sua vita, perch?non riusciva a liberarsi di pensieri cos?impuri come la concupiscenza, e nel momento stesso in cui lui stava quasi per commettere un suicidio saltando gi?da un costone, raggiunse lo stato di arahant. 

Il Principe Vitasoka, fratello pi?giovane dell’Imperatore Asoka dell'India (terzo secolo a.C.), era un discepolo di Giridatta Thera, e ben versato nel Dharma. Un giorno egli prese lo specchio dal suo barbiere, mentre quest’ultimo gli stava aggiustando la barba, vi vide la sua faccia riflessa e raggiunse lo stadio di sotapatti (entrata nel flusso), proprio non appena egli si fu seduto in quel posto. Pi? tardi lui divenne un bhikkhu (monaco) sotto il suo maestro Giridatta Thera e a tempo debito divenne un arahant. 

Bhagu Thera, per superare la sua sonnolenza, and?fuori della sua stanza, e mentre egli stava andando nel chiostro per la meditazione camminata (cankama), cadde a terra, ed ecco allora che subito divenne un arahant. Similmente, una anziana theri (monaca), di nome Dhamma, mentre era sulla strada di ritorno dal mendicare elemosine, cadde a terra. Improvvisamente ed inaspettatamente la sua mente fu emancipata (cio? si illumin?. 

Siha Theri, sorella del Generale Siha, perfino dopo sette anni di duro sforzarsi nella meditazione, non realizz? la pace della sua mente. Completamente delusa e depressa per la sua incapacit? di realizzare la liberazione della mente dalle contaminazioni, lei decise di suicidarsi impiccandosi. Per? arrotolando la corda al ramo di un albero, per mettersi il cappio intorno al collo, essa si risvegli?all’improvviso alla Verit?e divenne un arahant. 

Patacara Theri, che aveva gi?realizzato lo stadio di sotapatti, stava cercando di raggiungere gli stadi pi?elevati. Un giorno, lei si stava lavando i piedi nell’acqua di un catino. Ad un certo punto, un po?d'acqua cadde e scomparve nella terra asciutta. Di nuovo lei vers?acqua sui suoi piedi, questa volta ne cadde un po? di pi?e di nuovo scomparve. Per la terza volta, l’acqua flu?ancora via e svan? nella terra. Vedendo questo, lei fu improvvisamente assorbita nel pensiero dell’impermanenza, di come gli aggregati appaiono e scompaiono. Mentre era presa in questo pensiero, lei vide il Buddha che le diceva: 'Un solo giorno di vita di una persona che percepisce il sorgere e svanire (delle cose condizionate) ?migliore di quella di una persona che vive cento anni senza percepirlo'. Immediatamente Patacara raggiunse lo stato di arahant.

Bench?il conseguimento del risveglio, o l’illuminazione, o l'emancipazione, riferiti in queste storie Theravada e Zen, sembri essere 'improvviso', di fatto, non ? veramente cos? In questi e in molti altri esempi, il cos?detto 'risveglio-improvviso' accade solamente dopo una lunga e dura disciplina, con l’addestramento, lo sforzo e la pratica fatti, se non in questa vita, di sicuro in altre vite precedenti, secondo l'insegnamento e la credenza buddhista. ?'improvviso' soltanto nel senso che non pu?essere predetto o previsto, n?si pu?decidere che, dopo cos?tanti mesi o anni di disciplina e meditazione, l’illuminazione accadr?in tale data, o in tale momento. Accade di solito nel momento pi?inaspettato, in una maniera mai anticipata, talvolta perfino in modo drammatico. Ma questo momento arriva come risultato di un lungo e duro addestramento e di uno deciso sforzo. Gli stessi Maestri Zen ammettono 'che nessuno pu?aspettarsi di ricevere il richiesto addestramento dovuto per il conseguimento delllo squisito momento del satori.' 

 

 

Nastro 4: ????? F I N E

 

 

BuddhaNet File Library (http://www.buddhanet.net) BuddhaNet BBS

Buddha Dhamma Meditation Association Inc. P.O.Box K1020 ?Haymarket, NSW 2000 ?AUSTRALIA    ----------------------------- (Traduz. In Italiano di ALIBERTH ?Roma, 2006)