Traduzioni di Dharma

TORNARE a SHIKANTAZA
(O solo Stare Seduti…)
 

Presentato dal Wanderling e tratto da:
http://www.angelfire.com/electronic/awakening101/shikantaza.html
Traduzione in Italiano di Aliberth


 

 


SHIKANTAZA: "Shikan" significa ‘nulla’, "Ta" significa colpire, e "Za" significa sedersi.
SHIKANTAZA, o "solo sedere", è la vigile attenzione non-selettiva che non insegue e né sopprime i pensieri, le sensazioni, ecc., ma, piuttosto, produce un’attiva attenzione distaccata a qualunque cosa che sorga e che svanisca dalla coscienza.

I. Le pratiche di meditazione sottolineate dalle scuole Zen Soto e Rinzai sono distintivamente le versioni Zen dei due tipi di meditazione buddhista:

Consapevolezza che porta a Conoscenza Interiore

Concentrazione che porta ad Assorbimento.

La Shikantaza di Dogen è una variante di quella n.1.

L’esercizio dei Koan sottolineato da Rinzai (Lin-chi) è una variante del n. 2.


II. Distintivo dell’approccio di Dogen allo Zazen come Shikantaza, è che lo Zazen non è concepito come un mezzo per conseguire un fine ma come una pratica fine a se stessa.

La coltivazione (shu) non è diversa dall’autenticazione (Sho), pratica per l’ Illuminazione.

Se stiamo praticando correttamente Shikantaza, allora stiamo praticando l’Illuminazione stessa.

1. Questo è il paradosso centrale dello Zen. a), ma se siamo già Illuminati dalla nostra stessa natura di Buddha, perché abbiamo bisogno di praticare, spesso per anni?

Dogen lottò con il problema del Risveglio Originale, cioè, un risveglio fondamentale o innato in tutti, ed il Risveglio Acquisito, un risveglio raggiunto o acquisito attraverso la pratica. Dogen li respinse entrambi, rompendo la relatività di originale e acquisito, aprendo una più profonda base. Egli scrisse: "Il principio della Buddha-natura è che non è precedentemente dotata dell’Illuminazione. .. la Natura di Buddha è senza dubbio realizzata simultaneamente con l’Illuminazione". Lo Shobogenzo elabora assai lucidamente le sue preoccupazioni sull’argomento, da lui scritte in uno stato Illuminato proprio in seguito alla sua realizzazione, sotto la guida del Maestro Chan Cinese Ju-Ching (1163-1228).

Dogen non sostiene che non vi sia alcuna differenza ultima tra coltivazione (shu) e autenticazione (Sho) o tra Illuminazione originale ed acquisita. Pertanto, Dogen non voleva certo dire che egli stava descrivendo la "coscienza-Zen" o "coscienza Illuminata", con l'esclusione della "coscienza ordinaria". Fondamentalmente, la nostra esperienza del vivere non è diversa da quella dei maestri Zen. Dove è diversa è che noi mettiamo un particolare tipo di sovrapposizione concettuale su tale esperienza e quindi procediamo a fare un investimento emotivo in questa sovrapposizione, prendendolo come se fosse "vero-e-reale" in sé e per sé, piuttosto che essere una "espressione" (dotoku) della "situazione" (jisetsu), in cui noi pensiamo o parliamo circa quella data esperienza. In un certo senso, noi abbiamo un doppio strato di descrizione. Prima, vi è l'esperienza pre-riflessiva, non ancora concettualizzata, - quella che noi tutti condividiamo, sia gli stessi maestri Zen che il resto di noi. In secondo luogo, vi è l'espressione o la caratterizzazione di qualsiasi esperienza all’interno di una particolare situazione o evento. Se colui che parla non porta personali ed egoistici fatti illusori in questa espressione, vi è l'occasione che parla da sé, solo l’intera situazione determina ciò che viene detto o fatto. Così, nel caso del maestro Zen, ciò-che-è-detto è semplicemente ciò che è. Nel caso della persona illusa, tuttavia, il "ciò-che-è" comprende in più il suo bagaglio concettuale con i suoi componenti affettivi, le sue idee illusorie circa la natura del "sé", "cosa", "tempo", e così via, che costituiscono la particolare distorsione propria della persona di ciò che effettivamente e realmente è.


III. Distintivo dell’approccio di Dogen a Shikantaza è anche che essa è la pratica del ‘non-pensiero’ o "senza pensiero" (hishiryo): che è chiamata anche non-mente (Mushin; wu-Hsin), l'essenza della Illuminazione Zen. Ora, qui discuteremo di "pensiero", "non-pensiero" e "senza pensiero".


A. PENSIERO (shiryo): Questa è la nostra abituale tendenza a rimanere nella modalità di pensiero concettualizzante.
1. Riguardo al "pensiero" a) Attitudine Noetica: posizionale (cioè, affermare o negare), b) Contenuto Noematico: oggetti concettualizzati.

(a) L’Attitudine Noetica è detta posizionale (affermare o negare): Un soggetto adotta un intenzionale atteggiamento verso un oggetto e, in particolare, pensandolo in un modo positivo o negativo: "Questo è X" o "Questo non è X"," Fare X" o "Non fare X".

(1) La coscienza è un vettore intenzionale che procede da un soggetto ad un oggetto. Il soggetto è un agente cognitivo.

(b) Contenuto Noematico: X è un oggetto intenzionale indicato e concepito tramite i nostri pensieri.
2. Il "Pensiero" può essere descritto come segue: c) Aspetti del "pensiero":

Divisione attuale soggetto-oggetto: un soggetto attivo pensa un oggetto.

Non immediatezza: Non sperimentiamo l'oggetto immediatamente, ma solo a distanza, come gli oggetti rimossi, e solo attraverso i pensieri che abbiamo dell'oggetto.

Non pienezza: Non sperimentiamo l'oggetto nella sua pienezza o "talità", ma piuttosto, solo filtrato attraverso il nostro pensiero riguardo ad esso.

B. NON-PENSIERO (fushiryo): circa il "non-pensiero":

(1) Attitudine Noetica: posizione (solo negazione); (2) Contenuto Noematico: pensare (oggettificato).
1. Attitudine Noetica di posizione (solo negazione): Il Soggetto è l’agente che cerca di sopprimere il suo pensiero.

2. Contenuto Noematico: L'oggetto è ora il "secondo ordine" dell’oggetto "che pensa ad X".

Il "Non-pensiero" può essere descritto come segue:

3. Aspetti del "non-pensiero": Gli stessi come per il "pensiero".

a) La coscienza è ancora un vettore intenzionale che procede da un soggetto verso l'oggetto. Il soggetto è ancora funzionante in qualità di agente, anche se si cerca di porre fine all’essere un agente.

C. SENZA-PENSIERO (hishiryo): Questo è il non-pensiero (munen; wu-nien) o non-mente (Mushin; wu-Hsin): pura immediatezza nella pienezza delle cose così come sono.

1. A proposito di "non-pensiero": (1) Attitudine Noetica: nonposizionale (né affermare, né negare); (2) Contenuto Noematico: pura presenza delle cose così come sono (genjokoan).

a) L’atteggiamento noetico è non posizionale (né affermare, né negare): La coscienza non è più un vettore intenzionale che procede da un soggetto ad un oggetto, ma è, piuttosto, un dinamico campo aperto in cui gli oggetti si presentano.

b) Contenuto noematico: L'oggetto non è più un oggetto che è l'obiettivo di un atto intenzionale, ma è, invece, l'oggetto stesso che si presenta all'interno di un dinamico campo aperto della coscienza.
c) Aspetti del "senza-pensiero":

(1) Nessuna distinzione soggetto-oggetto: Il soggetto è scomparso, questa è l'interpretazione Zen del buddhista anatta, o non-mente.

(2) Immediatezza: Senza un soggetto permanente, l'esperienza è quella dell’immediatezza all’interno del dinamico campo della coscienza.

(3) Pienezza: Poiché l'oggetto non è filtrato attraverso un atto intenzionale, esso si presenta nella sua pienezza.
(4) Tale immediatezza e pienezza sono genjokoan, "pura presenza delle cose così come sono."


E’ un grave errore di comprensione dello Zen riferirsi meramente alla "negazione" o "cessazione" del "pensiero concettuale". Indipendentemente dal fatto che si possa o meno provare che l’etimologia sanscrita pre-buddhista del termine dhyana possa mostrare di aver connotazioni di non-pensiero, qui la cosa principale è lo sviluppo semantico subito dal termine Cinese ch'an nel corso della produzione dei testi Ch'an nell’Asia Orientale.

E' evidente che non-mente, nel buddhismo Ch'an, piuttosto che riferirsi ad un’assenza di pensiero, si riferisce alla condizione di non essere intrappolati nei pensieri, non aderendo ad una certa abitudine o posizione concettuale.

L'errore di interpretazione fatta da molti studiosi (ed anche da praticanti Zen) sta precisamente nel prendere il termine "non-pensiero" per riferirsi ad un tipo di assenza permanente, o progressiva, del pensiero. Anche se questo è un’assunto di routine, è impossibile da confermare nel Ch'an canonico. Se studiamo con attenzione i testi seminali, troviamo descrizioni di esperienze di un taglio istantaneo del pensiero che si verifica nel corso di una approfondita ricerca di un esercizio meditativo buddhista.
In nessuna parte del ‘Sutra-Piattaforma’, Sutra dell’Illuminazione Perfetta, Sutra-Diamante, o in un qualsiasi altro importante testo del Ch'an, il termine "non-mente" è spiegato come una permanente incapacità della facoltà di pensare, o la cessazione definitiva di ogni e qualunque attività concettuale. Il locus classicus per il concetto di non-pensiero nel Sutra-Piattaforma, per quanto riguarda il non-pensiero, dice queste parole:

“"Non-pensiero" significa "non-pensare all'interno del pensiero". Il Non-dimorare è l’originaria natura dell'uomo. I pensieri non si fermano da un momento all’altro. Ad ogni istante il pensiero precedente viene seguito dal pensiero successivo, ed i pensieri continuano uno dopo l'altro senza mai cessare. Se, per un solo momento-pensiero vi è una pausa, il corpo-di-Dharma si separa dal corpo fisico, e nel mezzo dei pensieri successivi non ci saranno attaccamenti a nessun tipo di problema. Se, per un solo momento-pensiero vi è il dimorare, allora poi ci si fermerà in tutti i successivi pensieri, e questo è chiamato afferrarsi o attaccarsi ai pensieri. Se riguardo a tutte le cose non c’è dimorare da momento-pensiero a momento-pensiero, allora non vi è attaccamento. Il Non-dimorare è la base”.

Come si può vedere, dopo la pausa nel pensiero, i pensieri successivi continueranno a fluire, ma uno non vi dimora più, né si aggrappa più a questi pensieri. In nessuna parte vi è menzione di un qualche tipo di scomparsa, o assenza di pensiero. "Non-pensiero" si riferisce a nient’altro che all’assenza di attaccamento, cioè del dimorare. Altri seminali testi Ch'an, come il Sutra della Perfetta Illuminazione, caratterizzano il ‘non-pensiero’ proprio allo stesso modo. (fonte)

Genjokoan è il titolo del primo capitolo dello Shobogenzo, e la sua preminente posizione nel testo è indicativa dell’importanza di questo concetto nel pensiero di Dogen. La parola è una combinazione di Genjo ("presenza stessa") e Koan. Altre interpretazioni di questo concetto possono differire; il mio è in sintonia con la visione di Dogen che vide il Genjo proprio come un Koan. Genjokoan, quindi, in un certo senso può essere inteso come il nome di un KOAN che, se correttamente colto, indica "le cose come realmente sono". "Afferrare correttamente" questo KOAN deriva dalla pre-riflessiva esperienza manifestata dal ‘non-pensiero’. Un noto passo dal "Genjokoan" dice: “Studiare la Via significa studiare il ‘sé’. Studiare il ‘sé’ significa dimenticare il sé. Dimenticare il ‘sé’ significa essere Illuminati da tutte le cose”.

"Essere Illuminati da tutte le cose" esprime l'attività mentale ‘senza-pensiero’ in cui il "sé", come pure il ‘non-sé’ (ed anche gli "altri") sono "dimenticati", perché la consapevolezza di tali distinzioni non è presente. E’ presente un ‘Sé Non-separato che percepisce le "altre" cose. Anzi, il Sé è tutte queste cose, e viceversa, proprio in questo momento. Dal ‘senza-pensiero’ fluisce la sola identi-ficabile "realtà", vale a dire l'incessante, immutabile, impermanente dispiegamento dell’esperienza. Dall’Illuminazione/Senza-Pensiero, quindi, vediamo le cose come realmente sono (genjokoan).

Per Dogen, genjokoan non è altro che Prajna, cioè "saggezza intuitiva". Inoltre, Dogen è d’accordo con la tradizione Mahayana, sostenendo che Prajna e Karuna (Saggezza e Compassione, ciò che è il Purificatore-d’Oro), sono "non-due". Egli inoltre si attiene alla tradizionale concezione del Mahayana della ‘Retta Azione’ morale come proveniente da Prajna/Karuna. Perciò, Dogen vede la retta azione morale come il procedimento corretto per vedere le cose come realmente sono, che si manifesta a noi nei momenti del senza-pensiero.


IV. Come praticare "senza-pensiero" durante lo zazen?

A. Cosa fare? - Risposta: Niente, perché fare qualcosa significa adottare una posizione intenzionale o noetica come soggetto. In nessun modo... sto suggerendo che non devono essere fatte le pratiche, solo che non vi è alcun praticante che sia l’agente dietro di esse. Questo è vero per ogni attività.... E solo perché non vi è alcun praticante (e mai vi è stato) non significa che la pratica non avrà luogo. Se è ovvio che una particolare pratica spirituale si verifichi, allora essa si verificherà.(Suzanne Segal, Una Collisione con l'Infinito).

B. Ma se poi sorgono pensieri? Non sono forse questi parte del "pensiero", e quindi, non dovrebbero essere soppressi? - Risposta: Essi non dovrebbero essere soppressi, e questo sarebbe "non-pensare".
C. Ma quali altre opzioni ci sono? - Risposta: Rilassarsi, disimpegnarsi, sospendere. Nel liberarsi del pensiero, noi lasciamo andare la posizione soggettiva del pensiero interno e ci apriamo al campo di esperienza immediata.

- E gli oggetti, non più "stampati" dal pensiero concettualizzante, stanno nel campo della immediata esperienza, presentandosi pienamente e nella loro vera natura.

- Noi ci liberiamo dal dover agire e, quindi, liberiamo gli oggetti dalla concettualizzazione. In tal modo liberando sia il soggetto che l’oggetto, si pratica l’immediata presenza nella pienezza di esperienza: cioè, genjokoan. (E questa è l'Illuminazione che noi già siamo!).

D. Vedi anche: Hua-T'ou, lo stato di mente prima che la mente sia disturbata dal pensiero.

Abbastanza interessante, in un apparente contrasto di approccio con Suzanne Segal di cui sopra, il commento di Aziz Kristof, un non tradizionale maestro Advaita-zen e illuminato di suo proprio diritto, che parlando di Dogen scrive: "Il suo concetto (di Dogen) di Shikantaza era molto sottile e profondo. La comprensione dello Zazen non è più uno strumento per diventare Buddha, ma l'espressione della verità. Zazen è Buddha! Sono stato molto ispirato da questa dottrina. Il suo insegnamento per me è stato un ponte tra la visione Advaita del 'Risveglio-Qui-e-Ora' e il vedere l’Illuminazione come un obiettivo futuro. Tuttavia, il suo concetto di coltivazione infinita dimostra che egli non era pienamente auto-realizzato. (Dogen) disprezzava fortemente l'idea che dopo l'Illuminazione non è più necessario praticare…". Il che, ci porta al paragrafo successivo…


V. SAIJOJO: Né la non-consapevolezza che porta all’Insight, né la non-Concentrazione che porta all’ Assorbimento
JISHU-ZAMMI - Prima di diventare il Buddha, all'inizio della sua ricerca spirituale, Siddharta Gautama studiò sotto due maestri. Il primo insegnante gli insegnò i primi sette Jhana, l'altro insegnante gli insegnò l'ottavo Jhana. Entrambi gli insegnanti dissero che gli avevano insegnato tutto ciò che c'è da imparare. Ma Siddharta ancora non conosceva il motivo per cui c’era la sofferenza, quindi egli lasciò entrambi questi insegnanti e li contraddisse facendo sei anni di pratiche di austerità. Anche questi però non fornirono la risposta alla sua domanda ed egli abbandonò queste pratiche per quella che fu poi nota come la Via di Mezzo. I sutta indicano che nella notte della sua Illuminazione, si sedette sotto l’Albero-Bodhi e qui egli iniziò la sua meditazione praticando i Jhana (come esempio,vedere la Mahasaccaka Sutta-Majjhima Nikaya#36). Appena la sua mente fu "concentrata, purificata, luminosa, immacolata, libera da imperfezioni, malleabile, esercitata e costante, raggiunse l’imperturbabilità", poi egli la diresse verso la "vera conoscenza" che dette origine alla sua incredibile penetrazione nella coscienza, conosciuta nei sutra come Anuttara-Samyak-Sambodhi, ben aldilà dell'ottavo Jhana. (fonte)
La Dualità, che è la fondamentale distinzione tra soggetto e oggetto, si affievolisce durante il sonno profondo e nel Samadhi, così come in altre condizioni come lo svenimento ed il coma, ma la dualità è solo temporaneamente cancellata, perché essa riappare quando ci si sveglia dal sonno o si riacquista la coscienza dopo lo svenimento. Ed essa riappare anche quando lo yogi (il meditante) riemerge dal Samadhi. Il motivo per cui la dualità persiste è perché la falsa conoscenza (mithyajana) non è stata rimossa. Poiché la falsa conoscenza è la causa della schiavitù, il Samadhi non può quindi essere la causa della liberazione. (fonte)

C'è uno stato poco noto di meditazione-profonda-risveglio-continuum, oltre il maha dharma-samadhi e ben oltre l'ottavo Jhana, basato in parte sullo Shikantaza di Dogen, che è né entrare-in e né venire-da, che allevia quanto riferito sopra, alimentato in sostanza dal Wanderling e da altri, che non è né Consapevolezza che porta all’Insight né Non-Consapevolezza che porta all’Insight, e non è neanche Concentrazione che porta ad Assorbimento né Non-concentrazione che porta ad Assorbimento e che da alcuni è chiamato ‘kaivalya’, ma, poiché alla fine non è che una negazione, e non ha alcun nome, nelle cose-zen si riferisce semplicemente al fatto di essere menzionato Jishu Zammi, dove ‘Ji’ significa "sé", ‘Shu’ significa "padronanza" e ‘Zammi’ significa "Samadhi"; Padronanza di sé nel Samadhi.
Il Maestro Zen Tai-Yung, passando per il ritiro di un altro maestro Zen di nome Chih-Huang, si fermò e, durante la sua visita, rispettosamente chiese: "Mi è stato detto che spesso tu entri in Samadhi. In occasione di tali entrate, la tua coscienza continua, o tu sei in uno stato di incoscienza? Se continua, tutti gli esseri viventi, essendo dotati di coscienza, possono entrare in Samadhi come te. Se, d'altro canto, sei in uno stato di incoscienza, allora pure le piante e le rocce possono entrare in Samadhi". Huang rispose, "Quando entro in Samadhi, io non sono consapevole di qualunque condizione". Yung disse: "Se non sei consapevole di alcuna condizione, questo è dimorare nell’Eterno Samadhi, e non vi può essere né l’entrare-in Samadhi, né l’uscire-fuori di esso". (Fonte)

KHANIKA SAMADHI- è la concentrazione momentanea (sequenziale e momentanea concentrazione profonda), perché si verifica solo al momento di mettere l’attenzione e, nel caso della Vipassana, non su un oggetto fisso come la meditazione Samatha-Jhana, ma sulla modificazione degli oggetti o dei fenomeni che si verificano nella mente e nel corpo. Ma quando il meditante Vipassana sviluppa forza e abilità nell’attenzione, la sua concentrazione Khanika si verifica ininterrottamente in una serie senza pause. Questa concentrazione, quando accade momento per momento senza una pausa, diventa così potente da poter superare I Cinque Ostacoli, e quindi provocare la purificazione della mente (citta-visuddhi) che potrà permettere al meditante di raggiungere tutte le conoscenze-insight fino al livello di Arahat.


VI. La base stessa di Shikantaza si basa su una incrollabile fede che:

Sedendo come sedeva il Buddha, con la mente vuota di ogni concezione, di ogni credenza, e punti di vista, è l'attualizzazione o lo sviluppo della inerente Illuminata Mente-Bodhi di cui tutti sono dotati.
Allo stesso tempo, questo sedere è entrato nella fede che un giorno si culminerà nella percezione diretta ed improvvisa della Vera Natura di questa Mente - in altre parole, l'Illuminazione.

Pertanto, tendere in modo auto-consapevole al Satori, o a qualunque altra realizzazione con lo Zazen, è tanto indesiderabile quanto inutile. Il pensiero conscio "Devo diventare Illuminato" può essere assai di ostacolo, come qualsiasi altro pensiero che si blocchi nella mente.

Nell’autentico Shikantaza non possono essere evitati questi due elementi di fede. Escludere Satori da Shikantaza necessariamente coinvolgerebbe lo stigmatizzare, come privi di senso e pure masochisti, gli strenui sforzi del Buddha verso l'Illuminazione, e impugnare le stesse dolorose lotte dei patriarchi e di Dogen per quello scopo. Questa relazione di Satori a Shikantaza è della massima importanza. Purtroppo, essa è stata spesso fraintesa, in particolare da coloro ai quali sono inaccessibili gli scritti completi di Dogen. E, quindi, non di rado accade che studenti Occidentali arrivino ad a un monastero o tempio Soto che utilizza i Koans nel suo insegnamento e protestano con il Roshi per il suo riferirsi ad un Koan, sulla base che i Koans hanno come obiettivo l’Illuminazione; poiché essi sostengono che tutti sono già intrinsecamente illuminati, non vi è alcuno scopo nel ricercare il Satori. Quindi, ciò che chiedono di praticare è Shikan-taza, che essi ritengono non comporti l'esperienza dell'Illuminazione.
Tale attitudine rivela non solo mancanza di fede nell’ingiunzione del maestro, ma un vero e proprio malinteso fondamentale sia sulla natura che sulla difficoltà di Shikan-taza, per non parlare dei metodi di insegnamento impiegati nei templi e monasteri Soto. Una lettura attenta degli incontri di Yasutani Hakuun Roshi con alcuni Occidentali, ad esempio, metterebbe in chiaro il motivo per cui l’autentico Shikantaza non può essere intrapreso con successo da coloro che hanno il rango di novizio, i quali devono ancora imparare a sedersi con stabilità ed equanimità, o il cui ardore necessita di essere regolarmente rafforzato dalla seduta comune o dall'incoraggiamento da parte dell’insegnante, o che, soprattutto, manca di una forte fede nella propria Mente-Bodhi, unita ad una devota intenzione di sperimentare la sua vera realtà nella sua attuale vita quotidiana.

Poiché, dichiarano i Maestri Zen, i devoti oggi sono nel complesso molto meno desiderosi nel voler conoscere la verità, e poiché gli ostacoli alla pratica imposti dalla complessità della vita moderna sono assai più numerosi, i validi maestri Soto raramente assegnano Shikantaza ad un principiante. Essi preferiscono che egli prima unifichi la sua mente attraverso la concentrazione sul contare i respiri, o laddove esista un ardente desiderio di Illuminazione, esaurire l’intelletto discorsivo tramite il proporre uno speciale tipo di enigma-Zen, chiamato Koan, e quindi preparare la strada per il Kensho.
Non significa, quindi, che il sistema Koan sia limitato alla setta Rinzai come molti credono. Yasutani Hakuun Roshi è solo uno dei tanti maestri Soto che utilizzano i Koans nel loro insegnamento. Il Roshi Genshu Watanabe, l'ex abate di Soji-ji, uno dei due templi principali della setta Soto in Giappone, usa regolarmente Koans, ed anche al monastero Soto di Hosshinji, di cui l'illustre Harada Roshi fu abate durante la sua vita, i Koans sono ampiamente utilizzati.

Lo stesso Dogen Zenji, come abbiamo visto, disciplinò se stesso nei Koan Zen per otto anni prima di andare in Cina a praticare Shikantaza. E se, dopo il suo ritorno in Giappone, Dogen scrisse a lungo di Shikantaza e lo raccomandò al suo gruppo interno di discepoli, non va dimenticato che questi suoi discepoli erano devoti alla ricerca della verità, per i quali i Koans erano un incoraggiamento inutile alla pratica intensa. Nonostante questa enfasi sulla Shikantaza, Dogen fece una raccolta di trecento più noti Koans, a ciascuno dei quali vi aggiunse il suo commento. Da ciò, e per il fatto che la sua opera prima, lo Shobogenzo (Il Tesoro dell’Occhio del Vero Dharma), contiene una serie di Koans, si può quindi ben concludere che egli utilizzò i Koans nel suo insegnamento.


(Uno speciale ringraziamento alla Indiana University South Bend, che è la fonte delle note di cui sopra, se non indicato diversamente. Ricostruite, curate, modificate, e rese leggibili dal Wanderling).
La Parte VI
è tratta dalla prefazione del testo: INTRODUCTORY LECTURES ON ZEN TRAINING - del Roshi Phillip Kapleau


Finito di tradurre nel mese di Dicembre 2008 – a cura del Centro Nirvana di Roma - Senza scopo di lucro