Traduzioni di Dharma


COS’E’ LO ZAZEN?
Presentato da il Wanderling - (Trad. di Aliberth Meng)
http://www.angelfire.com/electronic/bodhidharma/zazen2.html)

 

Zazen: Seduta Zen; Sedersi in assorbimento meditativo.


Radicato nelle antiche pratiche meditative, lo Zazen si differenzia da altre forme di meditazione, in quanto il meditante stesso non utilizza alcun oggetto di meditazione o astratto concetto, per il suo concentrarsi. Lo scopo dello zazen è prima di tutto ‘fermare la mente’ – l’animale e disorganizzata mente di tutti i giorni del praticante - e quindi, attraverso la pratica, raggiungere uno stato di pura e desta attenzione, libera dal pensiero, così che la mente possa realizzare la propria Natura di Buddha. E, a differenza di altre forme di meditazione, lo Zazen non è meramente un mezzo per raggiungere uno scopo. Dogen Zenji disse: "Zazen è esso-stesso 'Illuminazione’, un minuto di seduta, è un minuto di essere Buddha".

I tre obiettivi dello Zazen, sono:

1. Sviluppo della capacità di concentrazione (Joriki)

2. Satori-Risveglio (Kensho)

3. Attualizzazione della Via Suprema nella nostra vita quotidiana (mujudo no taigen).

Questi tre formano un insieme inscindibile, ma ai fini di una discussione saranno affrontati uno alla volta singolarmente.



JORIKI
Joriki, il primo di questi, è il potere o la forza che sorge quando la mente è stata unificata e portata a un acuta e profonda concentrazione in Zazen. Questo è ancor più che la capacità di concentrarsi, nel senso usuale del termine. E’ un potere dinamico che, una volta attivato, ci permette di agire subito, anche nelle situazioni più impreviste e inaspettate, senza aspettare di raccogliere le facoltà mentali, e in modo del tutto adeguato alle circostanze. Colui che ha sviluppato Joriki non è più schiavo delle sue passioni e non è più in balia del suo ambiente. Mantenendo sempre il comando di se stesso e delle circostanze della sua vita, egli è in grado di muoversi con piena libertà ed equanimità. Con Joriki, è reso anche possibile lo sviluppo di certi poteri supernormali, come pure uno stato in cui la mente diventa chiara e trasparente come acqua immobile. (Vedi anche: siddhi).
Ora, benché i poteri di Joriki possano essere ampliati all'infinito tramite una pratica regolare, se però si trascura lo Zazen essi si ritirano e spariscono. E pur se è vero che molti poteri straordinari derivano da Joriki, tuttavia tramite esso da solo noi non possiamo tagliare le radici della nostra visione illusoria del mondo. La sola forza della concentrazione non è sufficiente per i più elevati livelli di Zen e deve essere tenuto in considerazione un percorso non dissimile da shikantaza. E, contemporaneamente, ci deve essere il Risveglio-Satori. In un documento poco conosciuto, tramandato da Shih-t'ou Hsi-ch'ien (Sekito Kisen, in Giapponese), seguace del Sesto Patriarca Hui-neng e fondatore di una delle prime "nétte Zen, appare la seguente frase: "Nella nostra setta, è fondamentale la realizzazione della Natura di Buddha, e non la mera devozione o la forza di concentrazione".     Il buddhismo insegna che quando un praticante raggiunge un certo grado di realizzazione, si sviluppa il potere spirituale. Si dice che uno che sia al livello di un Arhat abbia dei poteri sovrannaturali. Anche così, resta inteso che è attraverso l'illuminazione che si manifestano poteri soprannaturali, piuttosto che questi poteri soprannaturali rafforzino l'Illuminazione. Inoltre, è anche riconosciuto che i poteri soprannaturali non sono esclusivamente ottenibili proprio e SOLO dai buddhisti. E' possibile sviluppare una sorta di "poteri ultra-normali" per chiunque abbia una profonda coltivazione religiosa e spirituale. (Fonte)



KENSHO
Il secondo di questi obiettivi è Kensho, ‘Vedere-nella-propria-vera-natura’ e allo stesso tempo, Vedere nella Natura Ultima dell'Universo e "tutte le diecimila cose" contenute in esso. E' la realizzazione improvvisa del fatto che "Io sono completo e perfetto sin dall'inizio. Che meraviglia, che miracolo!" Se è un vero Kensho, la sua sostanza sarà sempre la stessa per chiunque la sperimenti, sia egli Buddha Shakyamuni, il Buddha Amida, o una persona qualunque. Ma questo non significa che tutti possiamo sperimentare Kensho allo stesso livello, perché nella chiarezza, profondità e completezza di quel tipo di esperienza ci sono grandi differenze. Come esempio, immaginate una persona cieca dalla nascita che poco a poco comincia a recuperare la vista. All’inizio, essa può vedere in maniera molto vaga e oscura, e solo gli oggetti a lui vicini. Poi, allorché la vista migliora, essa è in grado di distinguere le cose ad un metro di distanza, quindi gli oggetti a una decina di metri, poi a un centinaio di metri, fino a quando alla fine sarà in grado di riconoscere ogni cosa fino a mille metri. In ciascuna di queste fasi, il mondo fenomenico che egli vede è lo stesso, ma le differenze in chiarezza e in precisione delle sue visioni di quel mondo sono enormi, come quelle che ci sono tra la neve e il carbone. Così, le stesse differenze di chiarezza e di profondità ci sono nelle nostre esperienze di Kensho.


MUJODO NO TAIGEN

L'ultimo dei tre obiettivi è mujodo no taigen, l'Attualizzazione della Via Suprema con tutto il nostro essere e in tutte le nostre attività quotidiane. A questo punto, noi non distinguiamo il fine dai mezzi. Quando ti siedi con fervore e senza-ego in conformità con le istruzioni di un insegnante competente - con la mente pienamente cosciente, però così libera dal pensiero come un puro foglio di carta bianca che è privo di qualunque macchia - c'è un dispiegarsi della vostra ‘natura di Buddha’ intrinsecamente pura, sia che abbiate o meno avuto un Satori. Ma ciò che qui dev’essere enfatizzato è che solo con il vero risveglio tu potrai direttamente comprendere la verità della tua natura di Buddha e percepire che il più puro tipo di Zen, cioè Saijojo, non è affatto diverso da quello praticato da tutti i Buddha.
La pratica del buddhista Zen dovrebbe abbracciare tutti e tre questi obiettivi, perché interconnessi. Per esempio, vi è una essenziale connessione tra Joriki e Kensho. Kensho, infatti, è "saggezza associata naturalmente a Joriki", il quale è il potere derivante dalla concentrazione. Joriki è collegato pure in un altro modo con Kensho. Molte persone non potranno mai essere in grado di raggiungere Kensho se non hanno prima coltivato una certa quantità di Joriki, perché altrimenti potrebbero sentirsi troppo agitate, troppo nervose e inquiete per proseguire il loro Zazen. Inoltre, a meno che non sia fortificata da Joriki, una singola esperienza di Kensho non avrà alcun apprezzabile effetto sulla nostra vita, e si esaurirà in un mero ricordo. Infatti, anche se tramite l'esperienza di Kensho con l'occhio della mente voi avrete appreso l'unità fondamentale del cosmo, senza Joriki voi sarete incapaci di agire con tutta la forza del vostro essere su ciò che la vostra visione interiore vi ha rivelato. Similmente, vi è una connessione tra Kensho e il terzo obiettivo dello Zazen, mujodo no taigen. E quando Kensho si manifesterà in tutte le vostre azioni, allora c’è mujodo-no-taigen. Con la perfetta Illuminazione, Anuttarasamyak-Sambodhi, ci accorgiamo che la nostra concezione duale e antitetica del mondo è falsa, e da questa realizzazione si rivela il mondo di unicità, di vera armonia e di pace.
La setta Rinzai tende a rendere il Satori-risveglio lo scopo finale della zen-seduta e sorvola su Joriki e su Mujodo-no-taigen. In tal modo, la necessità di una pratica continua dopo l'illuminazione è ridotta al minimo, e lo studio dei koan, dal momento che non è supportato da Zazen e poco legato alla vita quotidiana, diventa essenzialmente un gioco intellettuale, anziché un mezzo attraverso cui amplificare e rafforzare l'Illuminazione.
D'altra parte, mentre il tipo di pratica sostenuta oggi negli ambienti ufficiali della setta Soto enfatizza il mujodo no taigen, in realtà, essa non è altro che poco più di un aumento di Joriki, che, come già detto in precedenza, "si perde o si indebolisce" e in ultima analisi scompare a meno che non si svolga regolarmente zazen. Oggigiorno, la tesi della setta Soto è che Kensho sia inutile, e che uno avrebbe più bisogno di maliziosità nella sua attività quotidiana con la Mente di Buddha che è speciosa, perché senza Kensho non si può mai sapere che cosa sia questa mente-di-Buddha. In questi ultimi tempi, questi squilibri di entrambe le sette hanno, purtroppo, compromesso la qualità dell'insegnamento Zen.
Zazen non deve essere confuso con la meditazione. La meditazione implica immettere qualcosa nella mente, un'immagine o una parola sacra che viene visualizzata, o un concetto su cui si deve pensare e rifletterci su, o entrambi. In alcuni tipi di meditazione, il meditante immagina, contempla o analizza alcune forme elementari, tenendole nella sua mente con l'esclusione di ogni altra cosa. Oppure egli può contemplare in uno stato di adorazione un’immagine di Buddha o di un Bodhisattva, sperando di suscitare in sé paralleli stati di mente. Egli può riflettere su delle qualità astratte come la gentilezza amorevole e la compassione. Nei sistemi meditativi del buddhismo Tantrico, i mandala contengono varie sillabe-seme dell’alfabeto Sanscrito - come, per esempio Om – che sono visualizzate e fermate nel modo prescritto. Impiegati anche per scopi di meditazione, i mandala sono costituiti di speciali forme di Buddha, Bodhisattva e altre figure.
L'unicità dello Zazen sta nel fatto che la mente è liberata dalla schiavitù di tutte le forme-pensiero, visioni, oggetti, e fantasie, sia pur sacri o elevati, e portati ad uno stato di assoluta vacuità, soltanto dal quale si potrà un giorno percepire la propria vera natura, o natura dell'universo. Questi esercizi iniziali, come il contare o seguire il respiro, non possono ovviamente essere chiamati meditazione, in quanto non comportano visualizzazione di un oggetto o riflessione su un'idea. Per le stesse ragioni, un Koan Zazen non può essere chiamato meditazione. Sia che uno stia sforzandosi di ottenere l'unità con il suo Koan o, per esempio, chiedendosi intensamente "Che cosa è Mu?", egli non sta meditando nel senso tecnico del termine. Lo Zazen che porta all’auto-realizzazione del Sé non è né una fantasia né un’inerzia inattiva, ma una intensa lotta interiore per ottenere il controllo della mente e quindi saperla usare, come un silenzioso missile, per penetrare la barriera dei cinque sensi e l'intelletto discorsivo (che è il sesto senso). Esso richiede energia, determinazione e coraggio. Yasutani Hakuun Roshi lo chiama "una battaglia tra le forze opposte dell’illusione e il Bodhi (Risveglio)". Questo stato mentale è stato vividamente descritto con queste parole, che si dice siano state pronunciate da Shakyamuni Buddha seduto sotto l'albero del Bodhi mentre faceva il suo sforzo supremo, e citate spesso nel zendo durante le sesshin: "Anche se mi restassero solo la pelle, i tendini, e le ossa, e il mio sangue e la carne si disperdessero, io mai potrei muovermi da questa seduta finché non avrò raggiunto la piena Illuminazione".                                                                       Da un lato, la spinta verso l'illuminazione è alimentata da una schiavitù interiore sentita con una forte sofferenza - una sorta di frustrazione verso la vita, paura della morte, o per entrambi - e, dall'altro, dalla convinzione che attraverso il Risveglio si possa ottenere la liberazione. Ma è nello Zazen che la forza e il vigore del corpo-mente sono allargate e mobilitate per la svolta in questo nuovo mondo di libertà. Le energie che prima venivano sprecate in nevrotiche corse e azioni compulsive senza scopo ora sono conservate e incanalate in una unità tramite la corretta seduta Zen, e nella misura in cui la mente raggiunge acutezza attraverso lo Zazen non disperde più la sua forza-energia nell’incontrollata proliferazione di pensieri oziosi. L'intero sistema nervoso è calmo e rilassato, son eliminate le tensioni interne, e rafforzato il tono di tutti gli organi. Inoltre, la ricerca che interessa un elettrocardiografo ed altri strumenti su soggetti che praticano Zazen da uno o due anni, ha dimostrato che lo Zazen porta un rilassamento della tensione psicofisica ed una maggiore stabilità dell’insieme corpo-mente con un abbassamento della frequenza cardiaca, del polso, della respirazione e del metabolismo. In breve, lo Zazen riallineando le energie fisiche, mentali e psichiche attraverso una corretta seduta, respirazione, e concentrazione, ristabilisce anche un nuovo equilibrio del corpo e della mente. Ed ora una storia:                                                                                                                                Ma-tsu stava facendo il suo Zazen quotidiano nella sua capanna, sul monte Nan-Yueh. Un giorno, il suo maestro Huai-Jang (Nanyue Huairang, Nangaku Ejo, 677-744), osservandolo pensò: "Diventerà un grande monaco", e chiese: "Reverendo, cosa stai cercando di raggiungere stando così seduto?"

Ma-tsu rispose: "Sto cercando di diventare un Buddha". Allora Huai-Jang prese un pezzo di tegola e cominciò a strofinarla su una roccia di fronte a lui.

"Che cosa stai facendo, maestro?" chiese Ma-tsu.

"La sto lucidando per farne uno specchio", disse Huai-Jang.

"Come si può lucidare una tegola per farne uno specchio?"

"E come, lo stare seduti in Zazen, potrebbe fare un Buddha?"

Ma-tsu chiese: "Cosa devo fare, allora?"

Huai-Jang rispose: "Se tu fossi alla guida di un carro, e questo non si muove, tu frusteresti il carro o frusteresti il bue?" Ma-tsu non rispose.

Huai-Jang continuò: "Ti stai allenando in Zazen? Stai cercando di diventare un Buddha seduto? Se ti stai allenando in Zazen, lascia che ti dica che la vera sostanza dello Zazen non è né lo stare seduti, e né sdraiati. Se ti stai allenando a diventare un Buddha seduto, lascia che ti dica che il Buddha non ha una forma [come, ad es. la seduta]. Il Dharma, che non ha fissa dimora, non ammette distinzioni. Se uno cerca di diventare un Buddha seduto, questo è come uccidere il Buddha. Se ci si aggrappa alla forma della seduta, non si potrà raggiungere la verità essenziale". Per cui, dovrebbero essere considerati i seguenti punti: "In nessun modo... io sto suggerendo che le pratiche non debbano essere fatte, solo che dietro di esse non c'è un praticante che sia il colui che agisce. Questo è vero per ogni attività.. .. Proprio perché non c'è nessun praticante (e mai c’è stato), non significa che non avrà luogo la pratica. Se è evidente che una particolare pratica spirituale abbia a verificarsi, allora ci sarà…".


 

 

II° Parte: LA PRATICA DELLO ZAZEN – tratto da ‘Shobogenzo’ di Dogen,

di Master Dogen Zenji (Con i commenti di Kosho Uchiyama Roshi)

"Bendowa Talk on Wholehearted Practice of the Way"(Commento: Kosho Uchiyama Roshi),

(Kyoto Soto Zen Center, Giappone, 1993, p. 161-165)

 

Abbiamo letto che la virtù dello Zazen è immensa. Qualcuno può metterlo in discussione, chiedendo: "Ci sono molte porte per il Buddha-Dharma. Perché raccomandare solo Zazen? Perché è solo questa la Vera Porta?"

Domanda (1) – ‘Ci sono molte porte per il Dharma del Buddha. Perché tu consigli soltanto lo Zazen?’

Risposta: “Nel buddhismo, ci sono diversi tipi di pratica, per esempio l’offrire incenso e il prostrarsi davanti a una statua del Buddha, recitare il Nembutsu, recitare sutra e mantra, applicare molti tipi di contemplazione e meditazione, o la visualizzazione, la pratica della generosità (dana), la pratica della pazienza, e così via... Si dice che poiché gli esseri umani hanno ottantaquattromila desideri, ci sono lo stesso numero di pratiche (porte del Dharma) per diventare liberi da ogni desiderio. Perché Dogen Zenji raccomanda esclusivamente la pratica di Zazen? La sua risposta è stata:

"Perché questa è la Vera Porta del Buddha-Dharma".

Suppongo che in tempi antichi, sentendo questo tipo di risposta, c’erano persone che erano convinte e dicevano: "Mi hai convinto". Tuttavia, al giorno d’oggi, come reagiscono le persone quando ad esse vien detto di "Praticare Zazen, perché Zazen è la vera porta del Buddha-Dharma!"? Poiché gli antichi credevano che il Buddha-Dharma fosse da venerare, ciò poteva funzionare solo dicendo che Zazen è la vera porta del Buddha-Dharma. Ma nei tempi moderni la gente questo non lo accetta. Ed allora, come dovremmo rispondere? A me piacerebbe dire che lo Zazen è la vera porta alla vita del Sé. Noi esseri umani comuni tendiamo ad essere presi dall’illusione, spesso colpendo nel segno sbagliato. In altre parole, di solito dividiamo il tempo in piccoli periodi, e all’interno di questi periodi facciamo cose senza senso come lottare con gli altri, desiderare le cose o provare rancore verso qualcuno. Creiamo il Karma a causa di eccitazione o delusione e di conseguenza siamo coinvolti nel reame del desiderio, del Karma, e della sofferenza. Il pensiero è illusione, l'azione è la realtà, il risultato è un'apparizione.
Sebbene vari pensieri sorgano mentre si fa Zazen, i pensieri sono semplicemente secrezioni. Quando lasciamo andare i pensieri e si agisce sulla base della realtà, ci distacchiamo dal nostro entusiasmo.
Quindi le persone che NON praticano Zazen, ritengono di fare qualcosa solo dopo averci pensato su a lungo. Se non smettete un po’ di pensare, è importante fare le cose mentre state osservando Zazen.
In questo senso Zazen è la vera porta della nostra stessa vita, la porta per vedere la vita con l'Occhio del Risveglio.


Domanda (2) Perché è solo questa, la Vera Porta?

Risposta: Il Grande Maestro Buddha Shakyamuni correttamente trasmise il metodo straordinario per raggiungere la Via, ed anche tutti i Tathagata dei Tre Tempi raggiunsero la Via attraverso lo Zazen. Per questo motivo, lo Zazen è stato trasmesso da una persona all'altra, come la vera Porta. Non solo, ma tutti gli antenati in India e Cina raggiunsero la Via attraverso lo Zazen. Perciò, ora io mostrerò la vera porta agli esseri umani e celesti.

Dopo una ben lunga esperienza di pratica Zazen, io ora penso che il nostro cervello ha una qualche curiosa relazione con la postura Zazen di sedere a gambe incrociate e mantenendo la schiena dritta. Non so il perché, ma lo vedo attraverso la mia esperienza. Quando siamo seduti in questa posizione, sentiamo che il nostro addome poggia comodamente sulle nostre gambe incrociate, e noi respiriamo naturalmente con l'addome. Il diaframma si apre in giù e l’aria scende in profondità nell'hara. Questa postura è meravigliosa, ma non riuscirete a comprenderla se non vi metterete davvero nella seduta. Io credo che questo sia un punto di una grande cultura, scoperto grazie alle religioni asiatiche.
In passato, l'umanità ha inventato tante cose, come la televisione, l'automobile, gli aerei, i jet, razzi e computer. Anche se noi abbiamo così tante cose, esse sono tutte prive di significato. Perché? Perché nessuna di esse ha reso nobili gli esseri umani. Invece, lo Zazen rende l'uomo nobile. Lo Zazen dà modo agli esseri umani di trovare il Vero Sé. In questo senso, lo Zazen è realmente lo straordinario metodo per ottenere la Via.

Il ‘sé’ è nato con il mondo del sé, vive all'interno del mondo del sé, e poi muore con il mondo del sé. Benché questo sia completamente diverso dal punto di vista del senso comune, se ti siedi giù vedrai che questa è la realtà. Poiché Shakyamuni comprese la verità proprio attraverso la pratica di Zazen, egli trasmise questa realtà come ‘Buddha-Dharma’. Se non avesse praticato lo Zazen, non avrebbe compreso questa realtà del mondo.




 

Parte III° - SHIKANTAZA (SOLTANTO SEDERSI)

"Shikan" significa ‘Soltanto’; "Ta" significa ‘colpire’, "Za" significa ‘sedersi’.

Fonte: "I Tre Pilastri dello Zen", di Phillip Roshi Kapleau, pg.44-52. Pubblicato da Doubleday, una divisione della Bantam Doubleday Dell Publishing Group. Copyright 1989 di Roshi Phillip Kapleau. Con un particolare ringraziamento al Dharma, nonché a EasternReligions.com e Ronald Henry Olsommer.
Gli ultimi cinque paragrafi sullo Zazen sono tratti dalla prefazione di Yasutani Hakuun Roshi, in ‘LEZIONI INTRODUTTIVE sulla PRATICA ZEN’ anch’esso attribuito al Roshi Phillip Kapleau.


Shikantaza, o "solo-sedere", è una forma di acuta attenzione non selettiva, che non insegue e non sopprime i pensieri, le sensazioni, ecc, ma, piuttosto, dà una focalizzata attenzione distaccata a tutto ciò che nasce e sparisce dalla e nella coscienza.

I. Le pratiche di meditazione sottolineate dalle scuole Soto e Rinzai sono tipicamente versioni Zen dei due tipi di meditazione buddhista:

  1. Consapevolezza che conduce all’Insight
  2. Concentrazione che porta ad Assorbimento.

Lo SHIKANTAZA di Dogen è una variante della (1) qui sopra.

L'esercizio dei Koan sottolineato dal Rinzai è una variante della (2).

II. Distintivo di Dogen nel mostrare lo Zazen come shikantaza è che lo Zazen non è concepito come un mezzo per raggiungere un fine, ma come pratica stessa del fine.

  A. La coltivazione (shu) non è diversa dall’autenticazione (sho), la pratica di Illuminazione.

  B. Se stiamo praticando correttamente shikantaza, stiamo quindi praticando l’Illuminazione stessa.

1. Questo è il paradosso centrale dello Zen. a) Ma se noi siamo già illuminati per la nostra natura di Buddha stessa, perché abbiamo bisogno di praticare, spesso per anni, la seduta Zen?

Dogen lottò con il problema del Risveglio Originale, cioè, un risveglio fondamentale o innato in noi, in ognuno di noi, e il Risveglio Acquisito, e cioè un risveglio raggiunto o acquisito attraverso la pratica. Dogen respinse entrambi, irrompendo nella relatività di originale e acquisito, aprendo una questione più approfondita. Egli scrisse: "Il principio della Natura-di-Buddha è quello di cui essa non è dotata prima dell'Illuminazione... la Natura-di-Buddha è indiscutibilmente realizzata contemporaneamente con l'Illuminazione". ‘Shobogenzo’ elabora abbastanza lucidamente il suo interesse per l’argomento, da lui scritto in uno stato illuminato a seguito della sua stessa Realizzazione, sotto la guida del maestro Zen Cinese Ju-ching (1163-1228).

Dogen non sostiene che vi sia una qualche differenza fondamentale tra coltivazione (shu) ed auten-ticazione (sho) o tra Illuminazione Originale ed Acquisita. Quindi, Dogen non vorrebbe certo dire che egli sta descrivendo la "Coscienza Zen" o "Coscienza Illuminata", escludendo la "coscienza ordinaria". Fondamentalmente, la nostra esperienza vissuta non è diversa da quello di un maestro Zen. Ciò che è diverso, è che noi poniamo un particolare tipo di sovrapposizione concettuale su tale esperienza e poi procediamo col fare degli investimenti emotivi su queste sovrapposizioni, portandole ad essere "reali" in sé e per sé, piuttosto che essere una mera "espressione (dotoku) dell'occasione"(jisetsu) in cui si pensa o si parla di quella data esperienza. In un certo senso, abbiamo una descrizione a doppio strato. In primo luogo, vi è l'esperienza pre-riflessiva, non ancora concettualizzata, che tutti noi allo stesso modo condividiamo, sia il maestro Zen che il resto di noi. In secondo luogo, vi è l'espressione o la caratterizzazione di ogni esperienza all'interno di una particolare situazione o circostanza. Così, se l'oratore non porta personali, egoistiche illusioni in questa espressione, l'occasione parla da sola, la complessiva situazione da sola determina ciò che viene detto o fatto. Quindi, nel caso del maestro Zen, ciò-che-è-detto è semplicemente ciò-che-è. Nel caso della persona illusa, tuttavia, il "ciò-che-è" comprende il suo bagaglio concettuale eccessivo con le sue componenti affettive, le personali illusorie idee sulla natura del "sé", di "cosa", "tempo", e così via, che costituiscono la particolare distorsione della stessa persona, di ciò che realmente è.

III. Anche distintivo dello shikantaza di Dogen è che esso è la pratica dell’essere "senza-pensare" (hishiryo): che è anche chiamato non-mente (Mushin; wu-hsin), l'essenza dell’Illuminazione Zen. Qui ora discuteremo di "pensiero", "non-pensiero", e "senza-pensiero".

 

A. Pensiero (shiryo): Questa è la nostra tendenza abituale a rimanere nella modalità di pensiero concettualizzante.
1. Riguardo al "pensiero" possiamo distinguere in: a) Attitudine Noetica: posizionale (affermativa o negativa), b) Contenuto Noematico: oggetti concettualizzati.

a) L'Attitudine Noetica è posizionale (o affermativa o negativa): Un soggetto adotta un atteggiamento intenzionale verso un oggetto e, in particolare, pensando di esso o in modo positivo o negativo, cioè: "Questo è X" oppure "Questo non è X", "Fare X" o "Non fare X".

 (1) La coscienza è un vettore intenzionale che procede da un soggetto ad un oggetto. Il soggetto è un agente cognitivo.

b) Contenuto Noematico: X è un oggetto intenzionale puntato e concepito attraverso i nostri pensieri.
2. Il "Pensiero" può essere descritto come segue: c) gli aspetti del "pensare": (1) attuale divisione in soggetto-oggetto: un soggetto attivo pensa un oggetto. (2) non-immediatezza: Noi sperimentiamo l'oggetto non immediatamente, ma solo a distanza, come soggetti rimossi, e solo attraverso i pensieri che abbiamo dell'oggetto. (3) non-pienezza: Noi non sperimentiamo l'oggetto nella sua pienezza o "quiddità", ma piuttosto, solo filtrato attraverso ciò che noi pensiamo riguardo ad esso.

 

B. Non-pensiero (fushiryo): Riguardo al "non-pensiero": (1) Attitudine Noetica: posizionale (cioè, solo la negazione); (2) Contenuto Noematico: pensare il pensiero (come oggettivato).

1. L’Attitudine Noetica è posizionale (solo negazione): Il soggetto è l'agente che cerca di sopprimere il suo pensiero.

2. Contenuto Noematico: L'oggetto è ora l’oggetto di "secondo-ordine" "che pensa ad X".

Il "Non-pensiero" può essere descritto come segue: 3. Aspetti del "non-pensiero": gli stessi che per il "pensiero". a) La Coscienza è ancora un vettore intenzionale che procede da un soggetto all'oggetto. Il soggetto è ancora funzionante come un agente, anche se uno cerca di porre fine alla suo stato di agente.

 

C. Senza-pensiero (hishiryo): Questo è il vero stato di non-pensiero (munen; wu-nien) o non-mente (Mushin; wu-hsin): pura immediatezza nella pienezza delle cose così come sono. 1. Riguardo al "non-pensiero": (1) Attitudine Noetica: non-posizionale (non afferma né nega); (2) contenuto noematico: pura presenza delle cose così come sono (genjokoan). a) L’Attitudine Noetica è non-posizionale (non afferma né nega): La coscienza non è più un vettore intenzionale che procede da un soggetto ad un oggetto ma, piuttosto, è un aperto campo dinamico, in cui gli oggetti si presentano. b) Il contenuto noematico: L'oggetto non è più un oggetto che è il bersaglio di un atto intenzionale ma, piuttosto, è l'oggetto stesso, così come si presenta all'interno dell’aperto campo dinamico della coscienza. c) Gli aspetti del "senza pensiero" sono: (1) Nessuna distinzione tra soggetto e oggetto: infatti, il soggetto è scomparso, essendo questa l'interpretazione Zen dell’ anatta buddhista o della non-mente. (2) Immediatezza: Senza esservi più un soggetto, l'esperienza è quella dell’immediatezza nell’aperto campo dinamico della coscienza. (3) Pienezza: Poiché l'oggetto non è mai filtrato attraverso un atto intenzionale, esso si presenta nella sua pienezza. (4) Tale immediatezza e pienezza sono genjokoan, cioè "pura presenza delle cose così come sono."

E' un grave errore di comprensione dello Zen, il riferirsi semplicemente al "negare" o al "far cessare" il cosiddetto "pensiero concettuale". Indipendentemente dal fatto che non si può dimostrare che la etimologia pre-buddhista del termine sanscrito Dhyana possa dimostrare di avere connotazioni di non-pensiero, qui il punto principale è lo sviluppo semantico subito dal termine Cnese ch'an nel corso del la produzione dei testi Ch'an in Asia Orientale. E' evidente che nel buddhismo Ch'an, la ‘non-mente’, invece di riferirsi ad una assenza di pensiero, si riferisce alla condizione di non essere intrappolati nei pensieri, non aderendo ad una certa abitudine o posizione concettuale.

L'errore di interpretazione fatto da molti studiosi (ed anche dai praticanti Zen) sta precisamente nel ritenere il termine "non-pensiero" come riferibile ad un qualche tipo di permanente, o continuata, assenza del pensiero. Mentre questa ipotesi è fatta abitualmente, non è possibile riconfermarla come tale nel Canone Ch'an. Se si studiano con attenzione i testi originali, si potrà trovare una descrizione delle esperienze di un istantaneo ‘taglio’ del pensiero che si verifica nel corso di una approfondita ricerca nell’esercizio della pratica di meditazione buddhista.

In nessuna parte del Sutra della Piattaforma, Sutra della Perfetta Illuminazione, Sutra del Diamante, o in nessun altro dei maggiori testi del Ch'an, il termine "non-mente" è spiegato come un’incapacità permanente della facoltà di pensare o una sorta di cessazione definitiva di ogni attività concettuale.
Il locus classicus per il concetto di non-pensiero è il Sutra della Piattaforma, che riguardo al termine ‘non-pensiero’ dice quanto segue: “"Non-pensiero" significa "non-pensare all’interno del pensiero". Il ‘Non-dimorare’ è la natura originaria dell'uomo. I pensieri non si fermano momento per momento. Il pensiero precedente è seguito in ciascun momento dal pensiero successivo, e i pensieri continuano uno dopo l'altro senza tregua. Se, per un singolo momento-pensiero, vi fosse un break, il corpo-di-Dharma si separerà dal corpo fisico, e nel mezzo dei pensieri successivi non vi sarà attaccamento ad alcun tipo di materia. Se, per un solo momento-pensiero, vi è un permanere, allora vi sarà adesione a tutti i successivi pensieri, e questo è chiamato attaccamento. Se, per ogni questione non c'è dimora né permanere da un momento-pensiero all’altro, allora non c'è adesione né attaccamento. Il ‘Non-dimorare’ è la base.

Come si può vedere, dopo il break del pensiero, i pensieri successivi continueranno a fluire, ma uno non vi dimorerà più, né si attaccherà più a questi pensieri. Da nessuna parte vi è la menzione di un qualche tipo di scomparsa, o assenza di pensiero. "Non-pensiero" si riferisce a nient’altro che ad una assenza di dimora o attaccamento al pensiero. Altri testi-radice del Ch'an, come il Sutra della Perfetta Illuminazione, caratterizzano esattamente nella stessa maniera il ‘non-pensiero’. (fonte)

Genjokoan è il titolo del primo capitolo dello Shobogenzo, e la sua preminente posizione nel testo è indicativa dell'importanza di questo concetto nel pensiero di Dogen. Il termine è una congiunzione di Genjo ("presenza stessa") e koan. Le interpretazioni di questo concetto sono diverse, la mia concorda proprio con la visione che Dogen vide che lo stesso Genjo era un koan. Quindi, in un certo senso, il genjokoan può essere inteso come il nome di un koan che, se preso correttamente, indica proprio "le cose così come realmente sono". Il "Prendere-Correttamente" questo koan deriva dall'esperienza pre-riflessiva manifestata dallo stato senza-pensiero.

Un celebre passo dal "Genjokoan" afferma: “Studiare la Via significa studiare il ‘sé’. E studiare il ‘sé’ significa dimenticare il sé. Dimenticare il sé significa essere illuminato da ogni cosa”.

"Essere illuminato da ogni cosa" esprime l'attività mentale dello stato ‘senza-pensiero’, in cui il ‘sé’, come pure il non-sé (e quindi, l’altro) è "dimenticato", perché la consapevolezza di queste distinzioni non è presente. Nessun ‘sé’ separato è qui presente a percepire qualche "altra" cosa. Piuttosto, il Sé è tutte queste cose, e vice-versa, in questo stesso momento. E dal ‘Senza-pensiero’ fluisce l'unica identificabile "realtà", cioè l'incessante, immutabile, impermanente spiegamento dell’esperienza. Così dall’Illuminazione/Senza-pensiero vediamo le cose come esse realmente sono (genjokoan).

Per Dogen, genjokoan non è altro che Prajna, o "saggezza intuitiva". Inoltre, Dogen è in accordo con la tradizione Mahayana sostenendo che Prajna e Karuna, cioè "la compassione o il purificatore d'oro", sono advaya, "non-due". Egli sostiene anche la tradizionale concezione Mahayana che la Retta Azione Morale provenga proprio da Prajna/Karuna. Così Dogen ritiene la giusta azione morale, proveniente dal vedere correttamente le cose così come sono realmente, cosa che si manifesta a noi nei momenti di non-pensiero.


 

Parte IV. Come fare la pratica Zazen "senza-pensiero"

A. Che cosa si deve fare?

1. Risposta: Niente, perché fare qualcosa significa adottare un atteggiamento intenzionale o noetico come un soggetto. Tuttavia, non sto affatto suggerendo che le pratiche non dovrebbero essere fatte, solo che dietro di loro non c'è alcun praticante che sia colui che agisce. Questo è vero per qualunque attività. Proprio perché non c'è nessun praticante (né mai c’è stato), non significa che non avrà luogo una pratica. E’ ovvio che se una particolare pratica spirituale abbia a verificarsi, allora essa vi sarà.

B. Ma se sorgono i pensieri? Se essi fanno parte del "pensare", non dovrebbero quindi essere anche questi soppressi?

1. Risposta: Essi non devono essere soppressi, perché proprio questo sarebbe il "non-pensiero".

C. Ma quali altre opzioni ci sono?

1. Risposta: Rilassarsi, disimpegnarsi, abbandonarsi. Nel rilasciare il pensiero, noi lasciamo andare la presa dei soggetti del pensiero interiore e ci apriamo al campo dell’esperienza immediata.

2. E anche gli oggetti, non più "stampati" dal pensiero concettualizzante, manifestati nel campo della immediata esperienza, si presenteranno pienamente e nella loro vera natura.

3. Noi ci rilassiamo dall'assunzione di azione, e quindi rilasciamo gli oggetti dalla concettualizzazione. Così, abbandonando sia soggetto ed oggetto, praticheremo la immediata presenza nella pienezza dell’esperienza: cioè, genjokoan. E questa presenza è l'Illuminazione, che già siamo.

D. Si veda anche: Hua-T'ou, lo stato della mente prima che la mente sia disturbata dal pensiero.

È interessante notare che, in un apparente contrasto di approccio tra Suzanne Segal e Aziz Kristof, (un non-tradizionale maestro Advaita-Zen e Illuminato per suo proprio diritto), quest’ultimo parlando di Dogen scrive: "Il concetto di Dogen su shikantaza era molto sottile e profondo. Lo Zazen nella sua comprensione non era più uno strumento per diventare Buddha, ma l'espressione della Verità. Zazen è Buddha! Io sono stato molto ispirato da questo insegnamento. Il suo insegnamento per me è stato un ponte tra la visione Advaita di 'Risveglio-qui-ed-ora' e il vedere l’Illuminazione come mèta futura. Tuttavia, il suo concetto di coltivazione-senza-fine sta a dimostrare che egli non era completamente auto-realizzato. A Dogen non piaceva molto l'idea che dopo l'Illuminazione non vi è più bisogno di praticare". Il che ci porta ai punti seguenti:

SAIJOJO: Uno stato che è né senza Consapevolezza che porta all’Insight, né senza Concentrazione che porta all’Assorbimento

JISHU-ZAMMI: Siddharta Gautama, all'inizio della sua ricerca spirituale, prima di diventare il Buddha,  studiò sotto due insegnanti. Il primo maestro gli insegnò i primi sette jhana, e l'altro maestro gli insegnò l’ottavo Jhana. Entrambi gli insegnanti gli dissero di avergli insegnato tutto quello che c'era da imparare. Ma Siddharta non sapeva ancora perché c’era la sofferenza, così lasciò entrambi questi insegnanti e iniziò a fare sei anni di dure pratiche austere. Anche queste però non riuscirono a dargli la risposta alle sue domande e così le abbandonò per quella che venne ad essere conosciuta come la Via di Mezzo. I Sutra indicano che la notte della sua illuminazione, egli si sedette sotto l'albero della Bodhi e cominciò la sua meditazione, praticando le jhana (vedi ‘Mahasaccaka-Sutta, Majjhima-Nikaya’ #36). Quando la sua mente fu "concentrata, purificata, luminosa, immacolata, libera da imperfezioni, malleabile, maneggevole, stabilizzata, ottenendo così l’imperturbabilità", egli allora la diresse verso la "vera" conoscenza che dette origine alla sua incredibile penetrazione nella Coscienza, nota nei Sutra come Anuttara-samyak-Sambodhi, aldilà ed oltre l’ottavo Jhana. (fonte)

La Dualità, che è la fondamentale distinzione tra il soggetto e l’oggetto, viene annullata nel sonno profondo e nel Samadhi, come pure in altre condizioni come il coma e lo svenimento, ma la dualità è cancellata solo temporaneamente per riapparire quando ci si risveglia dal sonno o quando si riprende coscienza dopo lo svenimento, e ricompare anche quando (chi medita) lo yoga esce dal Samadhi. La ragione per cui la dualità persiste è perché la falsa conoscenza (mithyajana) non è stata rimossa. Poiché la falsa conoscenza è la causa della schiavitù, il Samadhi non può quindi essere la vera causa della liberazione. (fonte)

Vi è un poco noto stato-di-risveglio nel continuum di meditazione profonda, oltre il megha-dharma-samadhi ed oltre l’aldilà dell’ottavo Jhana, basato in parte dallo Shikantaza di Dogen, che non rientra all’interno né esce fuori, che allevia il sopra, intrattenuto nella sostanza dal Wanderling e da altri, che non è né Consapevolezza che porta all’Insight, né non Consapevolezza che porta all’Insight; e come pure che non è né Concentrazione che porta all’Assorbimento né non Concentrazione che porta all’ Assorbimento, e da alcuni chiamato ‘Kaivalya’, ma, poiché alla fine NON è e non ha un nome, esso se nello Zen deve essere menzionato è semplicemente Jishu Zammi, dove Ji significa "sé", Shu significa "maestria" e Zammi significa "Samadhi",... Samadhi dell’auto-padronanza.

Il Maestro Zen Tai-yung, passando per il ritiro di un altro Maestro Zen di nome Chih-huang, si fermò ivi e durante la sua visita rispettosamente chiese: "Mi hanno detto che tu entri frequentemente in Samadhi. Al momento di tali entrate, la tua coscienza continua o sei in uno stato di incoscienza? Se la tua coscienza continua, tutti gli esseri viventi sono dotati di coscienza e possono entrare in Samadhi come te. Se, d'altro canto, tu sei in uno stato di incoscienza, allora anche piante e rocce potrebbero entrare in Samadhi". Huang rispose: "Quando entro in Samadhi, io non sono affatto consapevole di una qualche condizione". Yung disse: "Se tu non sei cosciente di una qualche condizione, questo è il dimorare nell’Eterno Samadhi, e allora non vi può essere né l’entrare in un Samadhi, né l'uscire fuori di esso." (Fonte)

KHANIKA SAMADHI: Questo tipo di Samadhi è chiamato concentrazione momentanea (momentanea concentrazione profonda sequenziale) perché si verifica solo al momento del prendere atto di essa e, nel caso della Vipassana, non su un oggetto fisso, come la meditazione Samatha-Jhana, ma su di oggetti o fenomeni mutevoli che si verificano nella mente e nel corpo. Tuttavia, quando il meditatore della Vipassana sviluppa forza e abilità in questa presa d’atto, la sua concentrazione Khanika accade ininterrottamente in una serie senza interruzioni. Questa concentrazione, quando avviene senza una pausa, da un momento all'altro, diventa così potente che può superare i Cinque Ostacoli, apportando così la purificazione della mente (citta visuddhi) che può consentire a un meditatore di raggiungere tutte le conoscenze interiori fino al livello di Arahat.

La base stessa della shikantaza si basa su una incrollabile fede che: Sedendo come sedeva il Buddha, con la mente vuota di tutte le concezioni, di tutte le credenze e i punti di vista, c’è la realizzazione ed il dispiegarsi della intrinsecamente Illuminata Mente-del-Risveglio, di cui tutti gli esseri sono dotati.
Allo stesso tempo, questo sedersi ha attivato la fede che un giorno culminerà nell’improvvisa e diretta percezione della vera natura di questa Mente - in altre parole, l’Illuminazione. E quindi, lo sforzarsi consapevolmente per il Satori o per qualsiasi altra cosa che si ottenga dallo Zazen è superfluo e non necessario, perciò non è auspicabile. Il volontario e cosciente pensiero "Devo diventare Illuminato". potrebbe perciò essere un vero ostacolo, come qualsiasi altra cosa che pende nella mente. (vedi)

Tuttavia, nell’autentico ‘shikantaza’ non si può fare a meno di nessuno di questi due elementi di fede. Escludere il Satori da shikantaza implicherebbe necessariamente stigmatizzare come privi di senso e perfino masochisti gli strenui sforzi del Buddha per l'Illuminazione, e impugnare le stesse dolorose lotte di Dogen  e dei Patriarchi a tale scopo. Questa relazione di Satori a Shikantaza è della massima importanza. Sfortunatamente, essa è stata spesso fraintesa, in particolare da coloro ai quali gli scritti completi di Dogen sono inaccessibili. E quindi non di rado accade che gli studenti occidentali vadano in un tempio o monastero Soto per utilizzare i koan del suo insegnamento e protestano con il Roshi che assegna loro un koan, a causa del fatto che i Koans hanno come loro scopo l'Illuminazione; dato che essi sostengono che tutti sono già  intrinsecamente Illuminati, e quindi non vi è alcun punto nella ricerca del Satori. Così, ciò che essi chiedono di praticare è solo Shikantaza, che a loro avviso non comporta l'esperienza dell’Illuminazione.

Un tale atteggiamento non solo si rivela una mancanza di fiducia nel giudizio del proprio insegnante, ma una fondamentale incomprensione sia della natura che della difficoltà di ‘Shikantaza’, per non parlare dei metodi di insegnamento utilizzati nei templi e monasteri Soto. Per esempio, una attenta lettura degli incontri di Yasutani Hakuun Roshi con dieci Occidentali, renderà più chiaro il motivo per cui il genuino shikantaza non può essere intrapreso con successo dal rango dei principianti, che deve ancora imparare come sedere con stabilità ed equanimità, o il cui iniziale ardore necessita di essere regolarmente rafforzato dalla seduta in comune o dall'incoraggiamento di un insegnante, o che, soprattutto, manca di una forte fede nella sua propria mente-Bodhi unita ad una dedicata risoluzione a sperimentare la sua stessa realtà nella sua vita quotidiana.

I maestri Zen dicono che, poiché oggi i devoti praticanti sono nel complesso molto meno zelanti per la verità, e poiché gli ostacoli alla pratica posti dalla complessità della vita moderna sono sempre più numerosi, di rado i maestri abili assegnano shikantaza ai principianti. Così, essi preferiscono che i debuttanti prima unifichino la loro mente attraverso la concentrazione nel contare i respiri, oppure se e quando un ardente desiderio di Illuminazione esiste, di esaurire l'intelletto discorsivo attraverso l'imposizione di un particolare tipo di enigma Zen, chiamato Koan, e così preparare la Via per Kensho.
Quindi, il sistema Koan non è in nessun modo limitato alla setta Rinzai, come molti credono. Yasutani Hakuun Roshi è solo uno di una serie di maestri Soto che utilizzano regolarmente i koan nel loro insegnamento. Anche Genshu Watanabe Roshi, primo abate di Soji-ji, uno dei due principali templi della setta Soto in Giappone, impiegava regolarmente i koan e anche al monastero Soto di Hosshinji, di cui l'illustre Harada-Roshi era stato abate durante la sua vita, i koan sono ampiamente utilizzati.

Perfino lo stesso Dogen Zenji, come abbiamo visto, disciplinò se stesso nei Koan Zen per otto anni prima di andare in Cina a praticare shikantaza. E anche se poi, al suo ritorno in Giappone, egli scrisse a lungo sulla shikantaza e la raccomandò al suo gruppo interno di discepoli, non si deve dimenticare che questi discepoli erano devoti ricercatori della verità per i quali i Koans furono un incoraggiamento non troppo utile alla sostenuta pratica. Nonostante questa enfasi sulla shikantaza, Dogen fece una raccolta di trecento noti koan, a ciascuno dei quali egli aggiunse il proprio commento. Da questo e dal fatto che la sua opera più importante, lo Shobogenzo (Il Tesoro dell'Occhio del Vero Dharma), contiene una serie di koan, si può ragionevolmente concludere che egli ha fatto buon uso dei koan nel suo insegnamento.