La Morte dell’Ego:
Una Visione buddhista

Articolo di David Loy - Filosofia Oriente e Occidente - Volume 40, n.2 (aprile 1990) P.151-174. Stampa Università degli Studi delle Hawaii (C) - Trad. di Aliberth

Tratto da:

http://www.angelfire.com/electronic/bodhidharma/ego.html

 

 "Quando ero ragazzo, io ero abituato a far visita a mia nonna a casa sua ogni volta che ne avevo la possibilità. La sua casa era una di quelle case più antiche fatte di legno, ad un solo livello, che avevano pesanti tende su entrambi i lati delle finestre. Esse coprivano la finestra e c’era anche una cortina all’interno fatta da un materiale simile ad una garza che faceva trasparire un po’ di luce solare così diffondendola nelle varie camere. Le finestre avevano inoltre delle tapparelle di un traslucido e opaco giallo-marrone che funzionavano tirando un cordoncino collegato ad un anello circolare che si poteva tirare con il dito. E così sia tirando verso l’alto che verso il basso l'ombra poteva spandersi tutt’intorno, fino a quando si lasciava l'anello. Quell’ombra è la stessa visione che da sempre mi viene in mente quando tanti anni dopo, ripensando a ciò che erano quei giorni, in un campo militare presi la consapevole decisione di lasciar andare la mia forza vitale... essa mi svolazzava intorno senza pietà ancora e ancora fino a che non ebbe esaurito il suo potere e subito svanì" (Il Wanderling, da: ‘La Morte davanti agli Occhi’)
"Nel mio caso, fatta eccezione per la linea ondulata della EEG (elettroencefalogramma) che veniva debitamente guardata da un certo numero di osservatori esterni e medici assistenti, per me, se la sottile linea tra l'esser ancora vivo e ciò che è il non-essere-più-in-vita era realmente violata o attraversata, non era nota perché nessuna differenza, fu ricordato, era stata accertata. In quello che sembra essere quasi diametralmente opposto a tale scenario, ogni precedente o residua "paura della morte" essendo stata ricondotta o riportata indietro a seconda dei casi, in apparenza dissipata con la perdita dell’ego - determinando sia l’ego che la paura, si indovina, dall’esperienza - in cui l’ "Io" era in uno stato (o non stato) totalmente integrato e lineare per cessare in appena trenta minuti, e, tranne forse per non essere totalmente imprigionato, messo nel sacco di un corpo, perfino più lungo, e accatastato in fila insieme ad altri cadaveri". [da: Il Wanderling, di Alfred Pulyan, “Richard Rose, Il mio Mentore ed Io”]. (1)
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La Paura della Morte non è un istinto: è una reazione dell'animale, che è abbastanza conscio di divenire consapevole di se stesso e del suo inevitabile destino; Quello che abbiamo imparato è così. Ma, in realtà, cos’è esattamente CIO’ che abbiamo imparato? È il dilemma della vita-che-si-confronta-con-la-morte, un fatto oggettivo che vediamo appena, oppure è un qualcosa di costruito e proiettato, quasi un gioco inconscio che ognuno di noi sta giocando con se stesso? Secondo il buddhismo, la vita-contro-la-morte è un illusorio modo di pensare dualistico: il negare di essere morti è come l'Io che afferma di essere esso stesso vivo; quindi, è l'atto con cui l'Ego si costituisce. Perciò, essere auto- consapevole significa essere consapevole di sé, sostenere se stessi, come vivi. (Nonostante che tutti si sforzino di evitare la morte, altri animali non temono di morire, perché non sono consapevoli di se stessi come vivi). Quindi, il terrore della morte non è qualcosa che è nell'Ego, è ciò che l'Ego è'. Questo ben si adegua con la teoria buddhista che sostiene che l'Ego non è una cosa, non è ciò che io realmente sono, ma è solo una costruzione mentale. L’ansia è generata dal fatto che ci si identifica con questa falsa idea, per il semplice motivo che noi non conosciamo e non possiamo conoscere ciò che è questa cosa in cui presumibilmente noi ci riconosciamo. Questo è il motivo per cui l’"ombra" del senso di sé inevitabilmente sarà un senso di non-esistenza.
Ora vediamo perché l'Ego è composto da: terrore per la morte. L'ironia del fatto, è che il terrore della morte è solo il modo in cui l'Ego difende se stesso. Tutto ciò, esternamente, è che l’Ego è 'terrorizzato', ma cosa c’è interiormente? All’interno, c’è la paura, e ciò rende tutto il resto 'esterno'. La cosa tragica è che l'auto-protezione che questo genera è di per sé controproducente, perché le barriere da noi erette per difendere l'Ego rafforzano anche il nostro sospetto che vi sia effettivamente qualcosa di mancante nel nostro 'sanctum' intimo che ha bisogno di protezione. E se si scopre che ciò che è intimo, è così debole perché è. .. un nulla, quindi nessuno sviluppo di una protezione potrà mai essere ritenuto sufficiente e noi finiremo col cercare di estendere il nostro controllo ai limiti stessi del- l'universo. Se, tuttavia, l'Ego è costituito da un siffatto modo dualistico di pensare, ciò significa che un Ego può morire senza una vera morte fisica e senza che la coscienza arrivi ad una fine.
Ciò che rende tutto ciò molto più di una sterile speculazione è che c’è un’ampia evidenza della possibilità di una simile morte dell’Ego:
• Nessuno ottiene così tanto da Dio come l'uomo che è totalmente morto. (San Gregorio)
• Il Regno di Dio non è che per coloro che sono completamente morti. (Eckhart)
• Noi siamo in un mondo di generazione e morte, e questo mondo lo dobbiamo lasciare. (W. Blake)
• La tua gloria si trova là dove si cessa di esistere. (Ramana Maharshi):
"Tutto ad'un tratto, egli fu preso da un pizzico di paura. Egli sentì che stava quasi morendo a causa di una onnicomprensiva paura della morte. Cercando di evitare questa sensazione che lo faceva sentire più indebolito, egli cominciò a pensare a ciò che doveva fare. Egli disse a se stesso:
" 'Ora la morte si avvicina. Sto morendo. Che cos'è la morte? Questo corpo svanirà'.
"Poi trattenne completamente il suo respiro, chiuse le sue labbra e gli occhi, e si distese come morto, e cominciò a riflettere:
" 'Ora il mio corpo è morto. Porteranno via questo corpo, immobile, nel luogo della cremazione e lo bruceranno. Ma posso veramente morire con questo corpo? Sono solo questo corpo, io? Il mio corpo ora è immobile. Però io so ancora il mio nome. Mi ricordo dei miei genitori, zii, fratelli, amici e tutti gli altri. Ciò significa che ho una coscienza della mia individualità. Se è così, l’"Io" che è in me non è soltanto il mio corpo, ma è uno spirito immortale'.
"Così, come in un flash, una nuova realizzazione arrivò a Venkataramana. I suoi pensieri potevano sembrare fantasie puerili. Ma occorre ricordare una cosa. Di solito un uomo ottiene la realizzazione di Dio praticando ‘tapas’ (penitenze) per anni e anni, privandosi del cibo e del sonno; egli sottomette il corpo a grandi sofferenze. Ma Venkataramana ottenne la Suprema Conoscenza senza tutto ciò. La paura della morte se ne andò, e Venkataramana divenne il Bhagavan Sri Ramana Maharshi".
Un commovente esempio di morte e risurrezione è ovviamente una delle radici della cultura dell’ Occidente, ma questi esempi sono presenti anche in molte altre tradizioni religiose. Il problema è di demitizzare questi miti, estraendo il cuore della verità psicologica e spirituale dalle concrescenze e superstizioni del dogma che troppo spesso oscurano il loro significato, così che all'interno del nostro mito possa di nuovo emergere la verità - l’oggettivante linguaggio tecnico della scienza moderna (in questo caso, la psicologia). La citazione di Blake (da: La Visione del Giudizio Universale) indica la Via, perché essa implica che noi non stiamo chiaramente vedendo, ma invece stiamo proiettiando quando percepiamo il mondo in termini delle categorie dualistiche di nascita e morte.
E proprio un tale dogma è fondamentale per la tradizione buddhista. "Perché io sono nato se non è per sempre?" si lamenta Ionesco; la risposta sta nella dottrina del ‘Non-sé’ (anaatman), secondo cui noi non possiamo morire perché non siamo mai nati. Questo ‘Anaatma’ è la "Via di Mezzo" tra gli estremi dell’'eternalismo' (il ‘sé’ che sopravvive alla morte) e del 'nichilismo' (il ‘sé’ che è distrutto alla morte). Il buddhismo risolve il problema di ‘vita e morte’ destrutturandolo. L'evaporazione di questo modo di pensare dualistico rivela ciò che è precedente ad esso. Vi sono molti nomi per questo essere "precedente", ma è sicuramente significativo che uno dei più comuni è il "non-nato".
Nel Canone Pali, vi sono forse le due più note descrizioni del Nirvana, entrambe riferentesi al "non-nato". Esse sono: "Non é questo mondo né l'altro, non c’è venire, né andare, né stare, né nascita né morte, e né vi si trovano oggetti sensoriali". "O monaci, vi è un non-nato, un non-venuto, un non-fatto, un incondizionato; O monaci, se qui non ci fosse questo non-nato, non venuto, non-fatto, incondizionato, qui non potrebbe esservi una fuga dal nascere, dal divenire, dal fare, e da ciò che è condizionato. Ma poiché vi è un non-nascere,. ..vi è quindi una fuga dal nascere, ecc.. ..."
(Udana, VIII,3)
Analoghe dichiarazioni sono comuni nelle scritture e commenti del Mahayana. Nel Mahayana, il più importante termine è ‘Sunyata’, "vacuità" o "vuoto", e gli aggettivi più usati per spiegare Sunyata sono, "non-nato", "increato" e "non-prodotto". La più nota Scrittura del Mahayana, il Sutra del Cuore, spiega che tutte le cose sono ‘sunya’ (vuote) perché sono "non create, non annientate, né pure e né impure, non crescono e non diminuiscono". A questo fa eco Nagarjuna nella prefazione al suo MMK, (Mula Madhyamaka Karika), il quale utilizza otto negazioni per descrivere la vera natura delle cose: "le cose non nascono e non muoiono, non cessano di essere e non sono eterne, non sono uguali né sono differenti, esse non vengono e non vanno".
Passando dall’India alla Cina, nel "Canto dell’Illuminazione" di Yung-Chia, un discepolo di Hui-neng, Sesto Patriarca del Chan, possiamo leggere: "Da quando realizzai bruscamente all’improvviso il ‘Non-nato’, non ho avuto più alcun motivo di gioia o dolore, nell’onore o nel biasimo". Il fatto che "tutte le cose siano perfettamente risolte nel Non-nato" è stata la grande realizzazione e in seguito la dottrina centrale di Bankei, maestro Zen giapponese del XVII secolo: "Quando si dimora direttamente nel Non-nato, si sta dimorando nella stessa sorgente dei Buddha e patriarchi". Il ‘Non-nato’ è la Mente-di-Buddha, e questa Mente-di-Buddha è al di là di vita e morte.
Questi passaggi (e si potrebbero aggiungerne molti altri) sono importanti perché, anche se può non essere chiaro a che cosa si riferisce il "Non-nato", in ogni caso essa è una esperienza immediata che viene descritta (o almeno dichiarata), anziché una congettura filosofica riguardo alla natura della realtà. Per un caso che combina esperienza personale con l’acume filosofico, ci rivolgiamo al più famoso maestro Zen e filosofo Giapponese, Dogen:
"Il dualismo tra la vita e la morte, per il buddhismo è solo un esempio di un problema più generale, che è il pensiero dualistico. Perché il modo di pensare dualistico è un problema? Noi distinguiamo tra il bene e il male, tra successo e fallimento, tra la vita e la morte, e così via, perché noi desideriamo mantenere l'uno e respingere l'altro. Ma non si può avere l'uno senza l'altro, perché le due cose sono interdipendenti: affermandone una metà se ne sostiene anche l’altra. Vivere una vita "pura", richiede perciò l’aver a che fare con l’impurità, e la nostra speranza per il successo sarà proporzionale alla nostra paura di fallire. Noi discriminiamo tra la vita e la morte, al fine di affermare la prima e negare l'altra e, come abbiamo visto, la nostra tragedia sta nel paradosso che questi due opposti sono invece interdipendenti: non c'è vita senza morte e - ciò che è più probabile osservare - non c'è morte senza vita. Ciò significa che il nostro problema non è la morte, ma il vivere-e-morire".
In questione, vi sono i limiti del Sé come entità simboleggiata. Vi è un chiaro senso del rapporto tra la consapevolezza della morte e un Sé delimitato. Il secondo è impossibile senza la prima. Perfino prima dell’inquietante sillogismo: "Se la morte esiste, allora io morirò", ce n'è uno precedente: "Dal momento che 'Io' sono nato e morirò, Io 'devo' esistere".
Se possiamo realizzare che non vi è un delineato Ego-sé che è vivo ora, il problema della vita e della morte è risolto. E tale è l'obiettivo buddhista: l'esperienza di ciò che non può morire, perché non è mai nato. ‘Se la nostra mente ha creato questo dualismo, essa dovrebbe essere in grado di farlo svanire o destrutturarlo’.
Questo non è un deviante trucco intellettuale che pretende di risolvere logicamente il problema, lasciandoci però la nostra angoscia profonda come prima. Gli esempi di cui sopra rendono chiaro che noi stiamo riferendoci ad una esperienza, non ad una qualche comprensione concettuale. Può non essere una coincidenza che le scritture del Mahayana sulla praj~naparamita sottolineano anche ripetutamente che in realtà non ci sono esseri senzienti…
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Qui di seguito vi sono due punti di vista di venerati Maestri per quanto riguarda l'Io e la sua stessa morte: -> da un non tradizionale Maestro Advaita-Zen, Aziz Kristof:
“L'illuminazione non annienta l'Ego. Perché qualcuno dovrebbe voler annientare qualcosa di così utile e straordinario? Non è stato un caso che abbiamo già detto più volte quanto siano importanti l’Ego e la mente come forza creativa della nostra intelligenza. Noi dobbiamo dissolvere questo pericoloso condizionamento spirituale che si è profondamente radicato nel nostro abituale modo di pensare. Il linguaggio psicologico irresponsabile ha causato enormi danni a coloro che sono sulla Via. Il concetto di ‘Ego’ deve essere definito in un modo che riguarda la nostra esperienza quotidiana, ed a tutti quei complicati processi nella meditazione e sul cammino spirituale.
“Nel caso di persone che non hanno avuto l’insight nella natura della coscienza, l'attività mentale è al centro della coscienza. Ogni pensiero crea un nuovo centro, una nuova identificazione che è l'ego - e lì non vi è nulla di altro. Non possiamo parlare di "un" ego, ma piuttosto di un flusso di eventi consci o semi-consci, che sono in grado di operare in un modo relativamente integrato. Questa è la funzione dell’ego.
“Quando ha luogo l’Illuminazione, la Presenza diventa il centro, e vi è la sensazione che tutti i propri pensieri siano solo testimoniati oggetti-eventi sulla periferia della coscienza, essi sono degli ospiti che vanno e vengono, e che non hanno nulla a che fare con la serena quiete del nostro essere. Per questo motivo, è facile concludere che vi è solo il Testimone, e che il resto è irrilevante, impersonale e oggettivo. Ma questa popolare conclusione è unidimensionale e non è in grado di cogliere le dinamiche della coscienza umana. I pensieri stanno venendo testimoniati e osservati. Mentre il centro è vuoto e non-coinvolto. E questo è tutto? No, niente affatto. Anche se i pensieri sono testimoniati, l'intelligenza che pure li sta usando rappresenta un centro parallelo di relativa coscienza - ed anche questo è il "Me".
Possiamo parlare di due centri all’interno di noi, come manifestati esseri: uno è la Coscienza-Che- Testimonia, un costante flusso di Presenza, e il secondo è il mobile centro auto-cosciente della nostra personalità. Quando vediamo chiaramente tutto ciò, non vi è alcun dubbio che i pensieri, che stanno venendo testimoniati, sono simultaneamente un’indivisibile parte di Me, ed è proprio questo Me che li sta pensando! Nel caso di un Essere Illuminato, anche se i pensieri hanno una diversa qualità, pure essi rimangono come una funzione di coscienza e come un funzionale centro auto-relazionale, che noi interpretiamo come "me". Il ‘Me’ assoluto ed il ‘me’ relativo sono un solo ‘Io’. L’Essere e l’auto- consapevolezza sono un’unica espressione.
Il concetto ‘Ego’ si riferisce non solo al livello grossolano di pensiero o di grezza volontà. Abbiamo già parlato del fatto che dividere la nostra coscienza in pensiero e non-pensiero è una cosa troppo semplicistica. La Coscienza è straordinariamente ricca. Vi è conoscenza intuitiva, sensazione, gentile controllo e un essere attenti a ciò che sta accadendo nella nostra coscienza e dintorni. Questo movimento intelligente ha una qualità di auto-riferimento, che è anche ciò che noi chiamiamo l'Ego. La personalità senza la Presenza è ovviamente ‘ignoranza’, ma la Presenza senza la personalità è come un albero senza frutti, un sole senza raggi, o un fiore senza profumo. Essi sono un tutto organico. Quando siamo pienamente consapevoli che l’ego è "buono", tutta l’intera faccenda della sua eliminazione decade da sola. Ma questa però non è la sua fine.
Ed ora, veniamo al successivo complesso problema: Quale tipo di Ego dovremmo avere?
Dal libro ‘Qui vi è il Cuore’, c’è una risposta scritta dell'autore Mercedes Da Acosta, all’Illuminato saggio Sri Ramana Maharshi:
“A Bhagavan fu chiesto molte volte riguardo al suo ‘stato-senza-ego’. Egli lo spiegava dicendo: "Uno Gnani (Illuminato) gode continuamente di trascendente ed ininterrotta esperienza, mantenendo la sua attenzione interiore sempre sulla Sorgente, nonostante l'apparente esistenza del suo Ego, che gli ignoranti immaginano essere reale. Questo ‘ego’ apparente è innocuo; esso è come il residuo di una corda bruciata - ed anche se ha la forma, non è di alcuna utilità per legarsi a nulla".
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> Aldilà delle cose del mondo accademico, religioso e filosofico, tre tipi di test clinici determinano comunemente la morte cerebrale e quindi, di conseguenza, la morte:
• Il primo, un normale elettroencefalogramma, o EEG, che misura le onde cerebrali. Un ‘EEG’ piatto denota il non-funzionamento della corteccia cerebrale - il guscio esterno del cervello.
• Secondo, alcuni ascoltatori hanno evocato come esempio potenziali clic suscitati dalle orecchie misurano la funzionalità del tronco del cervello. L’assenza di tali potenziali indica la non-funzione del tronco cerebrale.
• Terzo, la documentazione della mancanza del flusso sanguigno al cervello è un marcatore per una generalizzata mancanza della funzione cerebrale.
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Note sull’articolo di cui sopra: David Loy è un professore di ruolo presso la Facoltà di Studi internazionali alla Bunkyo University di Chagasaki, Giappone. Il Dr. Loy ha anche servito come Senior Tutor presso il Dipartimento di Filosofia della National University of Singapore dal 1978 al 1984. David Loy si è laureato al Carleton College di Northfield, Minnesota, e ottenne la sua laurea in Filosofie Asiatiche presso la University of Hawaii in Honolulu, Hawaii. Il Dr. Loy in seguito perseguì il suo dottorato in Filosofia presso la National University of Singapore. Successivamente, egli intraprese nel 1971 un corso Zen che includeva la partecipazione ad una sesshin con Yamada-Roshi a Honolulu, In seguito, il Dr. Loy nel 1985 si trasferisce a Kamakura per continuare gli studi sui Koan, e nel 1987 completò il corso formale di studi Koan e fu riconosciuto come ‘Zen Sensei’. Le sue pubblicazioni più recenti sono state, A Buddhist History of the West: Studies in Lack (2002) and The Great Awakening: A Buddhist Social Theory: che uscirono nel giugno 2003. Il Dr Loy fa anche parte del comitato editoriale di Cultural Dynamics, Worldviews, Contemporary Buddhism, and the Journal of Transpersonal Psychology.
(Cortesia dell’Istituto per la Pace e la Giustizia - Università degli Studi di San Diego)

 


 

ANATTA  - Il Concetto

del “Non-sé” nel buddhismo

di Thanissaro Bhikkhu

http://www.angelfire.com/electronic/awakening101/noself.html)
Copyright © 1996 Thanissaro Bhikkhu

Trad. di Aliberth Meng

Uno dei primi ostacoli che gli occidentali spesso incontrano quando giungono a conoscere il buddhismo è l'insegnamento di Anatta, spesso tradotto come ‘non-sé’. Questo insegnamento è un ostacolo per due motivi. In primo luogo, l'idea che non vi è nessun ‘sé’ non si adatta con altri insegnamenti buddhisti, come ad esempio la dottrina del Karma e della Rinascita: Se non c'è un ‘sé’, chi è che sperimenta i risultati del Karma e prende rinascita? Secondo, esso non collima con il predominante ‘background’ Giudaico-Cristiano, che presuppone l'esistenza di un’anima o ‘sé’ eterno, come presupposto di base: Se non c'è un ‘sé’, qual è lo scopo di una vita spirituale? Molti libri cercano di rispondere a queste domande, ma, se si guarda al Canone Pali - le più antiche registrazioni esistenti degli insegnamenti del Buddha - non le troverete affatto indicate. Infatti, l'unico punto in cui al Buddha fu chiesto di punto in bianco - se c’era o no un ‘sé’, egli rifiutò di rispondere. Più tardi, quando gli fu chiesto il perché, egli disse che sostenere che vi sia o che non vi sia un ‘sé’, significa cadere nelle forme estreme di visioni errate, che rendono la Via della pratica buddhista impossibile (Samyutta Nikaya XLIV.10). Quindi la questione dovrebbe essere abbandonata. Per capire ciò che il suo silenzio su tale questione volesse dire sul significato di Anatta, noi dovremmo prima osservare i suoi insegnamenti su come si dovrebbero porre domande e risposte, e come interpretare le sue risposte. Il Buddha divise tutte le domande in quattro classi:
• Quelle che meritano una risposta categorica (semplici sì o no).
• Quelle che meritano una risposta analitica, definendo e qualificando i termini della domanda.
• Quelle che meritano una contro-domanda, rimettendo la palla in mano all’interrogante.
• Quelle che meritano di essere abbandonate.
L'ultima classe di domande consiste di quelle che non conducono a far cessare sofferenza e angoscia. Il primo dovere di un insegnante, quando gli vien posta una domanda, è di capire a quale classe di domande essa appartiene, e quindi di reagire in modo appropriato. Ad esempio, di non rispondere sì o no ad una domanda che dovrebbe essere messa da parte. Se siete la persona che fa la domanda e volete una risposta, allora voi dovreste determinare in quale modo la risposta dev’essere interpretata. Il Buddha disse che vi sono due tipi di persone che lo fraintendono in modo sbagliato:
• Coloro che traggono deduzioni da dichiarazioni che non avrebbero dovuto dedurre.
• Coloro che non traggono deduzioni che dovrebbero dedurre.
Queste sono le regole di base per interpretare gli insegnamenti del Buddha ma, se andiamo a vedere il modo in cui la maggioranza degli scrittori tratta la dottrina di Anatta, troviamo che queste regole basilari sono ignorate. Alcuni scrittori cercano di qualificare l’interpretazione del ‘non-sé’ dicendo che il Buddha ha negato l'esistenza di un ‘sé’ eterno o separato, ma questo è dare una risposta analitica ad un quesito che il Buddha dimostrò che dovrebbe essere messo da parte. Altri cercano di trarre deduzioni da poche frasi nel discorso che sembrano voler implicare che non vi è alcun sé, ma appare certo supporre che se uno forza quelle dichiarazioni per dare risposta a una domanda che dovrebbe essere messa da parte, è come se stesse facendo deduzioni là dove esse non dovrebbero essere fatte.
Così, invece di rispondere "no" alla domanda se vi sia o non non vi sia un ‘sé’ - eterno o non-eterno, interconnesso o separato - il Buddha ritenne che la domanda fosse una di quelle da non dover fare. Perché? Non importa come voi definite la linea di demarcazione tra "sé" e "altro", il concetto di sé comporta un elemento di auto-identificazione e attaccamento e, quindi, sofferenza e ansia. Questo vale tanto per un sé interconnesso, che non riconosce "altri", come pure per un sé separato. Se uno si identifica con tutta la natura, si addolora anche per ogni albero abbattuto. E ciò vale anche per un "altro" universo, in cui il senso di alienazione e futilità diventerebbe così debilitante da rendere la ricerca della felicità impossibile - sia la propria che quella degli altri. Per queste ragioni, il Buddha consigliò di prestare attenzione a domande del tipo, "Io esisto?" o "Io non esisto?" perché comunque si risponda, esse conducono alla sofferenza ed all’ansia.
Al fine di evitare l’implicita sofferenza nelle questioni sul "sé" e "altri", egli offrì un modo alternativo di suddividere l’esperienza: le Quattro Nobili Verità della sofferenza, la sua causa, la sua cessazione, e la Via alla sua cessazione (il Sentiero).
“Piuttosto che vedere queste verità come pertinenti alla ricerca del ‘Sé’ o ‘Altro’, egli disse, uno dovrebbe riconoscerle semplicemente per quello che sono, in sé e per sé, così come esse sono direttamente sperimentate, e in seguito applicare il dharma adeguato a ciascuna”.
Si dovrebbe quindi comprendere la sofferenza ansiosa, abbandonare poi la sua causa, realizzare la sua cessazione, e sviluppare il sentiero della sua cessazione. Questi doveri costituiscono il contesto in cui la dottrina dell’Anatta è meglio capita. Se si sviluppa il sentiero della virtù, della concentrazione, del discernimento e di uno stato di calma, il benessere e l'uso di questo stato di calma porta ad osservare l’esperienza in termini di Nobili Verità, le domande che arrivano alla mente non sono più, "C'è un sé? Cos’è il mio sé?", ma piuttosto "Sto forse soffrendo l’angoscia perché io sono attaccato a questo particolare fenomeno? Ma esso è davvero me, me stesso, o è mio? Se è così doloroso, ma non è realmente me, o il mio, perché mi ci attacco?" Queste ultime domande meritano risposte dirette, poiché esse vi aiutano a comprendere il dolore ed a scacciar via l’attaccarsi e l’aggrapparsi - al residuo senso di auto-identificazione - che, in ultima analisi, provocano fino a che tutte le tracce di auto-identificazione se ne sono andate, e tutto ciò che rimane è la illimitata libertà.
In questo senso, l’insegnamento di Anatta non è una dottrina del ‘Non-sé’, ma una strategia del non-sé, per far sì che la sofferenza abbandoni la sua causa, e possa portare alla suprema ed immortale felicità. A quel punto, le questioni del sé, non-sé, e nessun-sé, non hanno più alcuna importanza. Una volta che c'è l'esperienza di questa totale libertà, dove potrebbe mai esservi una qualche presunta preoccupazione su ciò che si sta sperimentando, o se vi sia o meno un ‘sé’?