Traduzioni di Dharma

L'Illuminazione ed il Karma:
Il loro ruolo nell'esperienza del Risveglio
http://www.angelfire.com/indie/anna_jones1/enlight_karma.htm
Trad. di Aliberth Meng
 

 
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Il fatto se la persona Illuminata sia soggetta al Karma, è un importante questione filosofica. Se è così, allora a che serve l’Illuminazione? Invece, se non è così, allora la legge di nesso di causalità non è universale. Il concetto di Karma svolge un ruolo molto importante nel buddhismo e nello Zen. In generale, le religioni asiatiche in base a questa legge hanno stabilito il famoso codice morale universale, che le azioni buone producono effetti buoni e le azioni cattive producono effetti cattivi. Tuttavia, pur avendo studiato lo Zen, arrivai ad una ulteriore forma di conoscenza quando, circa una ventina di anni fa, io fui apprendista di magia sotto un Giamaicano chiamato Obeah. In questo processo io imparai che, nello schema delle cose, tutte le cose devono tornare ad un equilibrio. Se si crea un movimento nel normale flusso delle cose, in qualche modo, da qualche parte ci deve essere un ritorno all’equilibrio. Cioè, nel processo del regno magico di Obeah, per esempio, se tu sei un medium tra la persona che può dare la magia e la persona che riceve la magia, la persona che attiva la magia è responsabile  per le conseguenze. Se, al contrario, tu sei il proponente della magia per il tuo proprio tornaconto, allora solo tu dovrai accettarne le conseguenze. Nulla è gratuito, c'è sempre una resa dei conti da qualche parte. In entrambi i casi, ciò non viola le premesse del Karma, così come è presentato. Parlo per esperienza.
La giustizia non è rinviata. Un perfetto equilibrio aggiusta il suo bilanciamento in tutte le parti della vita. ‘Oi chusoi Dios aei enpiptousi’ (I dadi di Dio sono sempre caricati). Il mondo è simile ad una tavola pitagorica, o ad una equazione matematica che, giratela come vi pare, si riporta sempre in equilibrio. Prendete qualunque rappresentazione, il suo valore esatto, né più né meno, però vi ritorna ancora. Ogni segreto è riferito, ogni reato è punito, ogni virtù premiata, ogni errore rimediato, in silenzio e con certezza. Ciò che noi chiamiamo retribuzione è la necessità universale per cui l'insieme appare ovunque appaia una parte. Se si vede del fumo, ci deve essere il fuoco. Se si vede una mano o un arto, sapete che il tronco a cui esso appartiene è lì dietro (Ralph W. Emerson,"Compensazioni").
Una volta, Ejo domandò: "Che cosa si intende con l'espressione: 'Causa ed effetto non sono nascoste'?". Questa espressione si trova nel famoso Koan noto come "The Wild Fox" o "Hyakujo's Fox" (La volpe di Hyakuyo) e la seguente è la prima parte della storia come appare nel ‘Mumonkan’:
“Quando Hyakujo (noto anche come Pai-Chang-Huai Hai) rilasciò una certa serie di sermoni, c’era un vecchio che seguiva sempre i monaci nella sala principale e ascoltava i supoi sermoni. Quando i monaci lasciavano la sala, anche il vecchio uomo la lasciava. Un giorno, tuttavia, egli rimase indietro e Hyakujo gli chiese: "Chi sei tu, che stai qui davanti a me?" Il vecchio rispose: "Io non sono un essere umano. Nell’antichità, al tempo di Kashyapa Buddha, io ero un capo monaco che viveva qui su questa montagna. Un giorno, uno studente mi chiese, 'Può un uomo Illuminato cadere sotto il giogo della causa ed effetto, o no?' Io risposi, 'No, non può'. Da allora, sono stato condannato a subire cinquecento rinascite come volpe. Ora, io ti prego di darmi la parola magica per liberarmi da questa mia vita come volpe. Perciò, dimmi, può un uomo Illuminato cadere sotto il giogo della legge di causa ed effetto, o no?" Hyakujo rispose: "Egli non ignora [l’oscurazione] della causalità [causa ed effetto]". Appena il vecchio ascoltò queste parole, egli fu subito Illuminato.
La "causalità" di cui si parla in questo passaggio si riferisce alla "causalità morale". Il concetto buddhista di Karma riconosce che le buone o le cattive azioni, parole, pensieri, e così via, danno come risultati buoni o cattivi effetti. Quindi, l'importanza della domanda posta dal vecchio, costretto ad essere una "volpe", era se una persona Illuminata è soggetta al Karma. La risposta di Hyakujo, in effetti, afferma che la persona Illuminata è soggetta alla causalità morale. Katsuki Sekida offre nel suo commento una comune interpretazione Zen di questo passo: "Così, ignorare il nesso di causalità è ciò che produce la nostra malattia. Invece, riconoscere il nesso di causalità costituisce il rimedio".
Dogen Zenji utilizzò questa storia nel capitolo "Daishugyo" del suo Shobogenzo, implicando che, ad un certo livello, egli ritiene che la risposta di Hyakujo fornisce in realtà un "rimedio" per la situazione del vecchio uomo. Eppure Dogen era raramente disponibile solo a citare interpretazioni tradizionali Zen di brani; di solito, egli cercava di stimolare i suoi studenti ad una maggiore comprensione tramite una reinterpretazione creativa del passaggio. Per tema che il suo discepolo poi pensasse che questo non riconoscere o ignorare il nesso di causalità fosse, di fatto, un rilascio da esso in un senso ultimo, Dogen rispondeva che il passaggio stava ad indicare che "causa ed effetto sono immutabili". In altre parole, la causalità morale, per Dogen, è un fatto inesorabile dell'esistenza umana.
Dato per buono questo, Koun Ejo Zenji (1198-1280), erede nel Dharma di Dogen Zenji, chiede come noi potremmo mai "sfuggire" la causalità morale. La risposta di Dogen è enigmatica: "Causa ed effetto sorgono contemporaneamente". Nello Shobogenzo, Zuimonki non chiarisce mai ulteriormente questo passaggio. Tuttavia, la chiave per comprendere questa dichiarazione si può ricavare dalla sua discussione sulla causalità nel capitolo "Shoakumakusa" dello Shobogenzo, in cui egli osserva che "la causa non è prima e l’effetto non è dopo". Come spiega Hee-Jin Kim, Dogen vide ‘causa ed effetto’ come momenti assolutamente discontinui che, in una data azione, sorgono simultaneamente dalla "quiddità".. .. Quindi, uno non sceglie e agisce prima, secondo una particolare linea d'azione, che poi dopo sono i risultati (paradiso, inferno, o altro) realizzati in essa. ... L'uomo vive nel mezzo del nesso di causalità, da cui non può sottrarsi neanche per un momento, tuttavia, egli può vivere momento per momento in modo tale che questi momenti siano momenti pieni di libertà e di purezza morale e spirituale nella ‘quiddità-dell’essere’. (Il commentario di cui sopra su "Ejo-Dogen" è tratto da: ‘Azione Morale e Illuminazione, secondo Dogen’).

La “Volpe di Hyakuyo”, Una Elaborazione dei Commentari dal Mumonkan:
Sommario: Un maestro Zen era rinato come una volpe perché aveva insegnato che un Buddha non è soggetto al suo Karma. Hyakujo lo liberò correggendo il suo pensiero, e dicendo che anche un Buddha è unito con il proprio karma. Il discepolo Obaku chiese che cosa sarebbe, se i Maestri Zen dessero sempre la risposta giusta. Quindi, evitò uno schiaffo, dandone lui uno.
Se l'uomo Illuminato è soggetto al Karma, è un’importante questione filosofica. Se è così, allora a che serve l’illuminazione? Se non è così, allora la legge della causalità non è universale. Il Buddha ha insegnato che la filosofia non è la Via (Tao), dal momento che essa conduce inevitabilmente a tali contraddizioni. La soluzione di Hyakujo è stata geniale e corretta. Essa dimostrava che un Illuminato può applicare manipolazioni filosofiche, ma queste non erano Zen. Per risolvere il dilemma in modo filosofico, egli incoraggiò di affidarsi al metodo della "volpe" che avrebbe condotto a nuove ulteriori contraddizioni. Quindi, il ribattere di Obaku fu corretto. Tuttavia, la "volpe" fu poi illuminata. Hyakujo ebbe fortuna. La "volpe" aveva per cinquecento volte così ben preparato il terreno, che i difetti del seme non poterono impedire la germinazione. Ciò che egli dovrebbe aver detto, fu: "L'Illuminato è unito con la legge della causazione".
Nel fascicolo "Daishugyo", Dogen trova una serie di problemi con la storia della volpe. A noi non viene raccontato, ad esempio, ciò che poi accadde al vecchio uomo dopo la sua liberazione dal corpo della volpe. Dogen si domanda anche qual è la probabilità di un maestro Zen di rinascere come una volpe, e per una tale risposta criptica poiché i tradizionali ‘koan’ Zen sono pieni di tali frasi criptiche, Dogen va oltre, dicendo in un punto che egli dubita della veridicità della storia della volpe, e afferma più avanti che non fu Pai-chang a raccontare l’intera storia. Il nodo del fascicolo "Daishugyo" è l'argomento di Dogen contro le fondamentali errate interpretazioni della storia della volpe:
“Tutti coloro che neppure hanno visto e udito il Buddha-Dharma, dicono che dopo la fine delle sue rinascite come volpe, il "vecchio maestro" [o quello che egli era] raggiunse la Suprema Illuminazione (Daigo), e che il corpo di volpe fu completamente assorbito nell'oceano della natura dell’Illuminazione originale (hongaku non shogai). Questo senso implica l'errata nozione di "ritorno ad un sé originale" (honga ni kaeru). Questo non è mai stato un insegnamento buddhista. Inoltre, se diciamo che la volpe non aveva alcuna natura originaria (honsho), o che la volpe non era originariamente Illuminata (hongaku nashi): [anche] questo non è Buddha-Dharma.
Qui vediamo la tradizionale affermazione di Dogen della Natura Originaria e la Natura di Buddha, ma anche un rifiuto di qualsiasi interpretazione sostanzialista o trascendentale. Dogen continua a sostenere che non è l'intenzione della storia dire che "non ricadere nella causa ed effetto" è "negare causa ed effetto" (hatsumu inga). Dogen qui sta affermando il tradizionale insegnamento buddhista di causa ed effetto, ma rimette in discussione la nostra comprensione della Legge di causa ed effetto (Karma) e la sua relazione con la liberazione.
La posizione dei "buddhisti Critici", come ad esempio Hakamaya e Matsumoto, è che nel fascicolo "Jinshin Inga" e altri dei dodici fascicoli dello Shobogenzo, Dogen abbandona la posizione ‘hongaku’ ancora evidente nel fascicolo "Daishugyo" che, come riassume Heine, è una trasformazione. .. da una visione metafisica che parte inconsapevolmente dall’animismo o naturalismo e cerca una fonte unica della realtà (dhaatu) al di là della causalità, fino ad un letterale, rigoroso determinismo karmico che enfatizza un imperativo morale basato sulla fondamentale condizione che la retribuzione karmica è attiva in ogni e ciascun momento impermanente.
Ma, per Dogen, il Karma è realmente una tipo di rigido determinismo, tale che se si verifica la causa "a" allora necessariamente deve verificarsi l’effetto "b", indipendente-mente da altri fattori che possono entrare in gioco? Il fascicolo "Daishugyo" sfida la nostra preconcetta nozione di karma e causa ed effetto (inga), ma gli altri dodici fascicoli dello Shobogenzo sembrano prendere una posizione più semplicistica. Come ha sottolineato Heine, Dogen nel suo testo fa riferimento a miracoli e fatti magici per illustrare il significato del Karma. Però, se noi leggiamo le sue conclusioni, al di là dell’elemento mitico di questi racconti, troviamo un chiaro rifiuto di una comprensione deterministica del Karma.
Si consideri, ad esempio, l’"Hotsu bodaishin" di Dogen, nell’edizione da dodici fascicoli, dove egli enfatizza il "sorgere della ‘mente-Bodhi’(bodaishin), che comporta il voto di salvare tutti gli altri esseri prima di se stessi" (ji mitokudo sendota). Se la causalità non è nient’altro che quella proposizione "se c’è 'a' allora c’è necessariamente 'b'," allora "Hotsu bodaishin" diventa assurdo, dal momento che nessun altro agente causale diverso dal ‘Sé’, può avere quindi nulla a che fare con la salvezza. E cio implicherebbe chiaramente una sorta di personale causalità atomica, in cui il Sé è isolato da tutte le influenze "esterne" - proprio il tipo di posizione che Dogen è ansioso di evitare.
Bisogna ricordare che gli atti positivi, inoltre, producono Karma positivo, ed il Karma positivo inter-agisce con il Karma negativo. Nel "Kuyo shobutsu" di Dogen, edizione 12 fascicoli, si legge che "Può esservi un gran frutto da piccole cause, e grande beneficio da piccoli atti". L'implicazione qui è che il Karma soteriologico è più potente del Karma negativo. Nel "Sanji-go", edizione 12 fascicoli, leggiamo una storia dall’Abhidharma-mahavibhasa-shastra (Sez. 69), che racconta di un buon uomo (in questa sua vita) che, al momento di morire, scopre di dover rinascere in un inferno. Dapprima egli si risente, perché credeva di esser destinato ad una rinascita celeste. Ma poi realizza che la rinascita infernale era per il male che egli aveva fatto in una vita precedente. Questa realizzazione (prajna - saggezza) modificò il suo Karma, così che egli in realtà rinacque in un regno celeste.
Questi passaggi mostrano che Dogen non ha avuto una visione semplicistica e deterministica del Karma. Per Dogen, il Karma non è una statica, sostanziale e lineare serie di cause e di effetti. C'è sempre la possibilità di cambiamento, soprattutto attraverso la realizzazione della saggezza. Quindi, Dogen, senza negare la struttura causale della vita e della pratica, respinge una rigida interpretazione del Karma, in favore di un fluido, interdipendente, universo karmico che dipende dalle nostre azioni e dalla comprensione come parte della sua struttura causale. Come ha sostenuto Kagamishima, Dogen nel "Daishugyo" e nei testi di 12 fascicoli, ha affrontato il problema della causalità da angolazioni e posizioni diverse. Io mi sono sforzato di dimostrare che il giovane Dogen tendeva verso la modalità di espressione dialettica (koan), mentre il successivo Dogen tendeva più verso una modalità didattica e mitic. Nello Shobogenzo, dobbiamo guardare al più ampio contesto dei testi combinati, quali il "Kuyo shobutsu", "Jinshin Inga," e "Sanji-go", e così via, per trovare le posizioni precedentemente proposte nel "Daishugyo". Per il Dogen dei testi dei 12-fascicoli, il "non ricadere nella [morsa] della causalità" chiaramente fu inteso come se fosse stato male interpretato da molti maestri e studenti Cinesi e, soprattutto, da un significativo numero degli stessi discepoli di Dogen, che ritenevano significasse "trascendere il Karma". Anche se Dogen non suggerisce mai una tale nozione di trascendenza nel "Daishugyo", egli apparentemente pensava che l’esplicito rigetto di questa trascendenza per quel tempo fosse necessario.