Traduzioni di Dharma

L'attualità della filosofia di Shankara
Estratto da Tattvaloka e dal Bollettino “Vidyà” di Luglio-Agosto 2008 (*)
 

 
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«I problemi sono causati dall'avidya (non-conoscenza) che si trova al nostro interno; perciò anche la loro soluzione è interiore». (Sri R. Rangan)
 

Presentazione

L'umanità è afflitta da numerosi problemi, molti dei quali non possono essere risolti dalla scienza in quanto si collocano in un dominio che va ben oltre la scienza e appartengono alla mente nella sua interezza. Per affrontarli c'è bisogno di un approccio diverso e il Vedànta fornisce il "metodo" per eccellenza per la loro soluzione.
Shankara Bhagavadpada, il più prestigioso tra gli esponenti del Vedànta, attribuisce la maggior parte dei problemi umani all'avidyà, conoscenza erronea, ancora più perniciosa dell'ignoranza. Una volta rimossa l'avidyà, che costituisce l'ostacolo principale, le difficoltà cessano e la mèta dell'emancipa-zione è a portata di mano: ciò è il nocciolo del suo insegnamento.

Sri R. Rangan è un giovane accademico e studioso vedico, educato alla maniera tradizionale, che ha analizzato l'approccio vedantico in una serie di chiari e convincenti articoli, sotto il titolo ‘L'attualità della Filosofia di Shankara’, scritti con un linguaggio comprensibile e arricchiti da citazioni tratte dal Ramayana e dal Mahabharata.

Sri Rangan ha condotto una sàdhana prolungata, dedicandosi allo studio del Vyakarana (Grammatica e Scienza della scrittura), del Sàhitya (retorica e poetica) e del Bhakti Sàstra (testi che trattano dell' adorazione e venerazione della Divinità); egli ha scritto vari libri su: Veda, Epica (Ramayana) e Yoga. Attualmente è consulente dell'Università Vivekananda Yoga di Bangalore.

 

1. Il problema primordiale

«Poiché la natura del Brahman [la Realtà ultima] è esente da ogni qualificazione, anche la Sruti ci illustra il Brahman proprio attraverso la negazione di qualsiasi aspetto distinto»(1).

 

La scienza da sola non può risolvere tutti i problemi del genere umano in quanto molti di questi dipendono dalla mente con cui la scienza, non ha dimestichezza e inoltre sono più numerosi e complessi dei problemi esterni. Se qualcuno è malato fisicamente, ma mentalmente felice, lo stato mentale può minimizzare l'impatto della malattia; ma se si è infelici non c'è conforto fisico che ci possa rendere lieti.

Gli occidentali, comprendendo che la scienza non poteva risolvere tutti i problemi del genere umano, si sono rivolti alla psicologia che si occupa della mente. Gli psicologi cercano di risolvere i problemi analizzando la mente, indagando sui pensieri che creano disagi di vario tipo.

Tali condizioni mentali sono state definite "complessi" dalla psicologia moderna; complessi vari, come quello di superiorità o inferiorità, che dimorano nella parte inconscia della psiche creando disarmonie; essi vengono studiati come fenomeni a sé stanti e si procede per tentativi in modo da risolverli.

Tuttavia tale metodo non è sufficiente a decifrare tutti i problemi per due ordini di ragioni:

- i complessi non sono né perfettamente quantificabili né numerabili poiché la mente ne ha tanti che risulta impossibile contarli, analizzarli e risolverli tutti;

- un complesso non può esser risolto con la sua semplice scoperta, definizione e analisi.

D'altra parte, il Vedànta risolve simili problemi in modo migliore; è nella sua natura procedere per sintesi accomunando cose apparentemente diverse, ed è questo il motivo per cui una domanda del tipo "Qual’è quella cosa tramite la cui conoscenza tutto ciò che esiste è conosciuto?" nel Vedànta è fondamentale. Questa filosofia lascia ad altri il compito di indagare tutti quei particolari che creano le differenze e si occcupa soprattutto di sintesi.

Il Vedànta si interessa dell'essenza, risponde solo alle domande fondamentali, rivolge il proprio sguardo soprattutto alle fonti, ai semi primari di vita, religione, cultura e spiritualità. Il Vedànta cerca l'unificazione, rintraccia il filo comune che collega le cose. Pertanto è fondamentalmente più una scienza di sintesi che di analisi.

A differenza della psicologia, il Vedànta non vuole definire ogni singola condizione mentale enuclean-dola dall'unitario intero: i complessi non sono affrontati singolarmente. Esso si occupa innanzi tutto del problema primario, radice e causa di tutte le altre disarmonie, in quanto ritiene che tale problema tenda a ripresentarsi ciclicamente sotto forma di blocchi, ossessioni, nodi e, appunto, "complessi".

Se si riesce a trovare la soluzione per il problema primario, c'è la possibilità di risolvere tutti gli altri problemi; questo è ciò che il Vedànta vuole trasmetterci.

Qual’è dunque il vero nocciolo della questione? Il Vedànta non dice, inefficacemente, che la radice-causa di tutti i problemi e le sofferenze del mondo è il desiderio. Il desiderio è la natura stessa di ogni essere vivente, là dove c'è un organismo, c'è desiderio; dal verme fino ai più grandi esseri del mondo, ognuno è mosso da desideri di vario tipo e complessità. Anche dalle Upanishad apprendiamo che il Divino ha avuto il "desiderio" di diventare i molti, e quindi il mondo è stato creato: «Che Io divenga i molti, manifestandomi con il venire all'essere!»(2).

Se il desiderio è la radice-causa di ogni sofferenza, allora il primo essere a divenire proprio vittima delle sofferenze dovrebbe essere lo stesso ‘Divino’, che ha avuto o ha il desiderio di divenire i molti. Ma il Divino, secondo le Upanishad, è del tutto beato, e non soggetto ad alcun tipo di sofferenza; quindi il semplice desiderio non può essere la radice-causa delle sofferenze.

Shankara, uno dei più grandi filosofi del Vedànta, va ancora più in profondità in quanto afferma che è l'avidyà la radice-causa di tutte le sofferenze o problemi, è l'avidyà il problema primordiale origine di tutti i problemi del mondo. Secondo Shankara basta risolvere la sola avidyà, e tutto il resto sarà risolto.

 

2. La nescienza-avidyà

                                    «Avidyà è scambiare qualcosa per ciò che non è» (Adhyàsa Bhàshya)(3).

 

Ma che cosa realmente intende Shankara per ‘avidyà’? Anche se il significato letterale del termine avidyà è ignoranza, per Shankara l'avidyà rappresenta la conoscenza erronea, o la comprensione errata, il che è più problematico e pericoloso della stessa ignoranza.

In un racconto popolare si narra di un maestro che, avenndo posto una domanda, riceve una risposta erronea da parte di uno studente e il silenzio da parte di un altro. Il maestro è più severo con colui che ha sbagliato poiché con la sua risposta non corretta può confondere i compagni di studio. Lo studente che aveva sbagliato si giustificò dicendo che dire qualcosa era meglio che tacere, al che il maestro rispose che era meglio tacere piuttosto che dire stupidaggini.

È evidente per tutti che molti problemi sorgono a causa di una conoscenza erronea o di una errata comprensione. Con una comprensione errata si prende una cosa per un'alltra o si confonde "questo" con "quello". Gaudapada e Shankara hanno dato alcuni esempi di comprensione erronea. Si può scambiare:

- la corda per il serpente;

- il pilastro per il fantasma;

- le forme assunte dalle nuvole per la città degli esseri celesti;

- qualunque oggetto luccicante per argento o oro;

- un miraggio per acqua, ecc.

L'equivocare si può manifestare in vari modi, si può ad esempio confondere:

- una persona per un' altra;

- un concetto per un altro;

- una qualità di un uomo per la qualità di un altro;

- un'ideologia per un'altra, ecc.

 

Scambiare qualcuno per un altro può creare diversi problemi e vari sono gli esempi nei nostri poemi epici. Dal Ramayana leggiamo che Sìta (la sposa di Ràma), attratta dal colore dorato di un cervo - che altri non era se non Màrica, un dèmone sotto mentite spoglie - erroneamente lo ritiene un essere benevolo e meraviglioso, e a causa di tale errore essa poté essere rapita da Ràvana.

Lo stesso Ràvana ritenne erroneamente suo fratello Vibhishana un nemico, mentre scambiò alcuni lestofanti per amici fidati. Anche nel Mahabhàrata ci sono vari esempi:

Il re cieco Dhrtarastra aveva sempre considerato virtuoso Duryodhana e l'errore si è spinto fino al punto di considerare malvagi i Pandava; anche sua moglie Gandhari ritenne che i Pandava e Krishna fossero malvagi. Tali errate valutazioni portarono alla terribile guerra tra i Kaurava (di cui il capo era Duryodhana) e i Pandava con alla testa Arjuna.(4)

Una più attenta osservazione può farci comprendere che la maggior parte di questi giudizi errati si fondano sul senso dell'io: infatti, il desiderio di Sita per il cervo dorato, nonostante le precauzioni del cognato Lakshmana, ha come movente l'avidità dell'io.

Il grande santo-filosofo Vedànta Desika, nella sua opera Samkalpa Suryodaya, mostra come il jiva-tattva (ciò che ha natura del jiva, in questo caso Sita), separato dal para-tattva (la realtà suprema, Ràma), viene attratta dall'avidyà nella forma del cervo dorato. Gli errori di Ravana e di Gandhari, ri-spettivamente a proposito di Vibhisana e di Krishna, sono tutti dovuti al senso dell'io che si manifesta come avidità in Gandhari e amore cieco in Ravana.

La conoscenza erronea o comprensione errata (avidyà) non si basa sulla realtà che va oltre le potenti forze dell'attrazione (ràga) e della repulsione (dvesa); essa è puramente egocentrica. Ad esempio, è l'io che non permette a Ravana di comprendere Ràma o Vibhisana ed è sempre l'io che non ha mai permesso a Duryodhana di capire che i Pandava erano più forti di lui.

Tutto ciò che non si basa su quella realtà che trascende le preferenze e le avversioni (ràga e dvesha) tipiche del senso dell'io e tutto ciò che su di questo si basa, non può essere una virtù ma un vizio, un errore; quindi chi commette un simile errore prima o poi dovrà pentirsene.

 

3. La conoscenza-vidyà.

«La sovrapposizione-adhyàsa senza inizio e senza fine che appare sotto forma di nozione erronea è a tutti evidente. Le Scritture vedànta [Upanishad] si adoperano per rimuoverla e quindi stabilire la giusta conoscenza dell' àtman» (Adhyàsa Bhàsya)(5).

 

È interessante notare come Shankara non raccomandi mai un'azione esterna quale diretta soluzione per problemi che siano dovuti solo all'avidyà, che è del tutto interna. Pertanto, la soluzione di tali problemi non può che venire dall'interno. Ma qual è la soluzione?

Se qualcuno ha paura di un serpente vero che si trova a casa propria, il rimedio può provenire solo da una persona coraggiosa che si munisce di un bastone e allontana il serpente, esercitando uno sforzo notevole; e qui viene senz'altro richiesta un'azione. Ma se qualcuno trema ed ha paura perché ha scambiato una corda per un serpente, l'unica soluzione è un'effettiva comprensione della corda; questa giusta comprensione è detta vidyà, ed è l'unico rimedio diretto per risolvere il problema dell' avidyà.

Ma ci dovrebbe essere un notevole sforzo di volontà per liberarsi della nozione preconcetta su cui si basa la comprensione erronea e, anche dopo aver acquisito la giusta commprensione, la corda può continuare ad apparire un serpente allorché la stessa verrà vista nell'oscurità. Anche se si capisce, si continua a essere confusi poiché nella mente continuano a esistere delle nozioni preconcette; la giusta conoscenza di per sé non è sufficiente, dovrebbe essere completa così da distruggere tutte le nozioni preconcette riguardo alla corda. Shankara definisce samyak-jnana questa giusta e completa comprensione, mentre viene detta solo jnana la giusta conoscenza ordinaria (cioè, mondana).

In genere non è semplice rinunciare a certe nostre convinzioni, perché per poterlo fare bisogna superare il senso dell'io. La maggior parte delle nostre idee preconcette si basa su delle preferenze o forti avversioni che riguardano questioni connesse al senso dell'io, o individualità separata, come ad esempio la casta, il credo, sesso, religione, parenti, razza e lingua.

Vibhisana e Vidura avevano dei compiti davvero difficili in quanto non è poi cosi semplice vedere delle colpe nel proprio fratello a cui si è molto affezionati. Vibhisana lascia Ravana e Vidura lascia Dhrtarastra non perché li odiano, ma perché hanno la capacità di vedere gli aspetti perversi nei loro fratelli.

L'avidyà determina confusione anche tra sofferenza e gioia; alcune persone scambiano la sofferenza per gioia. Un oggetto può dare un piacere immediato ma in seguito può causare una sofferenza prolungata; ad esempio anche l'assuefazione alle droghe può causare un iniziale stato di piacere ma, se osserviamo la natura, scopriamo che la maggior parte delle cose che danno un piacere iniziale ci portano poi verso la sofferenza, mentre spesso le cose inizialmente penose offrono in seguito una gioia prolungata.

Se Duryodhana avesse considerato amici i Pandava ne avrebbe beneficiato in vario modo, ma un fato crudele glieli fece scambiare per nemici con le inevitabili drammatiche conseguenze.

 

 

4. La conoscenza perfetta

«Il dharma delle grandi anime è sottile e non facilmente comprensibile. L' anima unica esistente nel cuore di tutti gli esseri sà ciò che è giusto e ciò che è sbagliato» (Ramayana, 4.18).

 

La vidyà o corretta comprensione chiarisce ed elimina la confusione. Con la confusione provocata dall'avidyà invece, si è infelici; ma con la sua rimozione e con una comprensione appropriata si arriva a conoscere rettamente le cose e si ritorna ad essere felici. La vidyà non solo include una conoscenza ampia e giusta ma anche completa, in quanto una conoscenza parziale non risolverebbe il problema.

Di ciò si hanno molti esempi nella letteratura epica. Quando Vali stava per essere ucciso incominciò a maledire Rama, ma all'improvviso subi una trasformazione e incominciò ad elogiarlo. Come accadde tale miracolo? I poeti Kanban e Tulsi ce lo hanno spiegato: secondo questi due grandi poeti, Sri Rama dotò Vali di saggezza spirituale o giusta comprensione della vita e dell'àtman, avvolgendolo in un benevolo sguardo. Quando Vali comprese le verità più profonde trasmesse da quella grande anima, verità che vanno oltre ciò che è mondano e triviale, non vide più alcuna pecca in lui e fu felice di essere ucciso da Rama; questo è il potere della giusta conoscenza.

Dopo la morte di Ravana, Rama rivolse parole molto dure a Sita malgrado la rivedesse dopo un lungo periodo. Tutti ne furono sconcertati, e la stessa Sita poi decise di gettarsi nel fuoco. Nessuno riusciva a capire il motivo di ciò che stava accadendo. Vàlmiki, autore del Ramayana, narra tutto ciò in modo magistrale. Quando Sita, rivolgendosi a Laksmana, gli chiese di accendere il fuoco, questi lanciò a Rama uno sguardo adirato. Ma non appena vide il volto radioso di Rama, egli riuscì a comprendere le intenzioni di quest'ultimo e accese immediatamente il fuoco. Tutto ciò è davvero interessante: che cosa riuscì a calmare Laksmana?

Tutti i presenti ignoravano la verità più profonda, solo Laksmana era riuscito a capire le motivazioni di Rama e quindi accese il fuoco. A prima vista, potrebbe apparire che Sita, ferita dalle dure parole di Rama, avesse deciso di suicidarsi, ma se andiamo più in profondità ci apparirà chiaro che Sita voleva dimostrare la sua castità; infatti, prima di entrare nel fuoco disse: «Se non ho disonorato Rama con pensiero, parole o azioni, possa questo fuoco proteggermi». Cosi, anche l'intenzione di Rama divenne chiara.

Rama - a causa delle dure parole rivolte a Sita e del suo silenzio mentre Sita si appresta a entrare nel fuoco - sembra davvero crudele, ma in realtà questo suo comportamento, apparentemente spietato, mette in evidenza il suo cuore colmo di compassione divina; Rama desidera non solo mostrare la gloria di Sita al mondo ma anche fugare il timore della stessa Sita. Leggendo il testo originale appare chiaro che Sita aveva un timore: «Che cosa mai penserà la gente di me, rapita dal malvagio Ravana e costretta a vivere da sola nella sua grotta? Potrò mai essere accettata di nuovo?». Con tale timore si era presentata a Rama.

Proprio con l'intenzione di fugare quel timore, Rama si comporta in un modo che per gli astanti appare del tutto spietato. Laksmana, che inizialmente si era molto adirato per il comportamento del fratello Rama, vedendone in seguito l'aspetto sereno ne comprese l'intenzione e non ebbe più alcuna preoccupazione, cosa che non si verificò per gli altri.

Anche Krishna, nel Mahabharata, a differenza degli altri che si mostrano tesi e turbati, appare spesso calmo e sereno nel mezzo di ogni sorta di difficoltà in quanto ha una visione completa del problema. In effetti, Krishna sembra essere inumano quando istruisce Arjuna indicandogli che è suo dovere combattere i propri cugini, i Kaurava. Krishna non è certo propenso alla guerra e ha cercato in tutti i modi di evitarla, chiedendo a Duryodhana di offrire parte del regno ai Pandava. Il rifiuto di Arjuna nel cercare di evitare la battaglia è solo una fuga e non giustizia; Krishna rappresenta la giustizia, e chiede pertanto ad Arjuna di combattere. La giusta conoscenza o comprensione di Krishna poi sta a dimostrare che l'ingiustizia alla fine sarebbe stata distrutta.

I saggi sono coloro che hanno una comprensione dei fatti completa e profonda; la qualificazione fondamentale del saggio è offrire la giusta comprensione o vidyà.

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NOTE:

1) Brahmasutra con il Commento di Shankara, 3.2.17. Traduzione dal sanscrito e note a cura del Gruppo Kevala. Edizioni Ashram Vidyà, Roma.

2) Taittiriya Upanishad, 2.6.1. Traduzione dal sanscrito e note a cura del Gruppo Kevala. Edizioni Ashram Vidyà.

3) Cfr. Brahmasutra con il Commento e Introduzione di Shankara, 1.1.1., p. 8. Op. cit.

4) Cfr. Bhagavadgita. Traduzione dal sanscrito, prefazione e commennto di Raphael. Edizioni Ashram Vidya.

5) Op. cit., Ibidem.

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