Traduzioni di Dharma

 


Morire dopo la morte

La liberazione finale del Buddha

Articolo di Nitin Kumar
Tratto da http://www.exoticindia.com
Trad. di Aliberth M.

 
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La Gioia del Morire

Una volta, mentre il Buddha stava andando in cerca di elemosine con Ananda, suo attendente, un devoto offrì loro due manti dorati. Ananda fu stupito di osservare che quando il Signore indossò il mantello, esso sembrò diminuire il suo splendore, quasi impallidendo a paragone del corpo stesso del Buddha. Gli antichi testi, in un verso, presentano questo ritratto:

“Furono offerti loro due mantelli di oro,

Ma molto di più risplendeva brillante il Maestro”. (Digha Nikaya: 16.4.38)

Il Buddha spiegò al suo discepolo Ananda che ci sono due occasioni in cui la sua pelle diventava insolitamente brillante. Una era stata la notte quando egli ottenne la Suprema Illuminazione (il Nirvana) e l'altra quando lui alla fine sarebbe passato aldilà senza alcun residuo (cioe, nel Completo Pari-nirvana).

Questo non fu l'unico esempio in cui il venerabile Buddha associò l’Illuminazione con la Cessazione Finale. Quando poi, essendo stato invitato a pranzo nella casa di uno dei suoi devoti, chiamato Chunda, egli divenne seriamente malato, fu così capito da tutti che la sua fine era vicina. Affinché i suoi seguaci non castigassero Chunda dopo la sua scomparsa, il Buddha disse:

"È per merito di Chunda, che io sto andando nel Nirvana finale, dopo aver preso quest’ultimo pasto da lui. Due offerte di cibo sono le più meritorie di qualunque altra. La prima è quella che mangiai dopo aver ottenuto la Suprema Illuminazione, e l'altra, quella dopo la quale io otterrò il Nirvana senza residuo". (D.N. 16.4.42)

Infatti, il Buddha aspettava con ansia il giorno in cui il suo corpo sarebbe andato via e lui finalmente sarebbe stato liberato dalla schiavitù della vita e della morte. Durante i suoi ultimi momenti, lui chiese ai suoi seguaci di non addolorarsi, e disse: "Orsù, non piangete in questo momento di gioia!" (Buddhacharita, 25.68); "Vi sembra giusto lamentarvi e piangere per me quando questo corpo, il grande contenitore della sofferenza sta passando via? Il grande pericolo della rinascita finalmente è sradicato, ed io sono liberato". (BC., 25.71). "Quando l'oscurità dell'ignoranza all'interno di me è stata illuminata con la lampada della conoscenza, ed io ho visto che il mondo è realmente senza un’essenza, allora l'appagamento accompagna la mia fine, come quando si guarisce da una malattia." (BC. 26.86)

"La pace è ottenuta solamente quando quella pace non lascia residui". (BC, 27.2)

La Vita del Buddha - La Chiave della Sua Morte

Per comprendere l'approccio del Buddha alla morte, noi dobbiamo risalire alla sua vita. Quando egli giunse a vedere le tre sofferenze inevitabili, che devono essere subite da tutti gli esseri viventi - vale a dire la malattia, la vecchiaia e la morte, il futuro-Buddha fu preso da sconforto e timore.

L'affascinante e antico poema Buddhacharita, che è una delle fonti principali per la vita del Buddha, descrive il suo pungente incontro con la morte:

"Questa persona, privata dell'intelligenza, degli organi di senso e del respiro, non è più che un esanime tronco di legno. Egli è abbandonato dai suoi parenti e amici, che una volta si erano dolorosamente presi cura di lui. In effetti, la distruzione è inevitabile per tutti, in questo mondo" (BC, 3.57)

Così, dopo aver condotto un’esistenza protetta da consumi e godimenti, lo shock del suo eventuale destino, lo scosse profondamente. Il Buddha comprese che la morte è l'unica certezza in questo incerto mondo. Allora, come poteva egli passare il tempo a oziare, quando la spada del tempo (kala) era minacciosamente appesa sulla sua testa? Il vero destino dell’umanità era di arrivare a quello stato senza paura (Abhaya Pada) che trascendeva la morte. Egli si lamentò:

"Quale essere razionale potrebbe mai essere a suo agio, o addirittura a sorridere, quando viene a sapere della malattia, vecchiaia, e morte? Quale essere senziente potrebbe rimanere immobile nel vedere una persona anziana, ammalata o morta? Forse questo è come un albero che rimane indenne anche quando quello vicino a "né cade privo di fiori e frutti ed è spietatamente tagliato". (BC, 4.59-61).

Fu soltanto in seguito che, come monaco errante e con la grande calma del suo viso, Gautama testimoniò che era riuscito a rendere possibile la sua salvezza. Il monaco che si era allontanato dal mondo, in un certo senso era morto ad esso. In effetti, l'unico modo di sconfiggere la morte era di morire prima della morte. Dato che la morte non è che uno stimolo ad una nuova rinascita (e morte), quando la si supera in questo modo, non c'è nessuna possibilità di ritornare in questo mondo.

La Natura della 'Morte Virtuale'

Riguardo alla natura di abbandono di questo mondo esteriore, il Buddha ce ne dà un vivido esempio, quando lui una volta stava in una piccola città e vide che una folla si era radunata vicino alla sua abitazione. Egli chiese ad una persona che stava lì vicino: "Amico, perché tutte queste persone sono riunite qui?"

"Signore, c'è stato un gran temporale che ha ucciso due coltivatori e quattro buoi. Ma Lei, mio signore, dove è stato?"

"Io ho avuto da fare qui, amico".

"Cosa vide il mio signore?"

"Caro amico, io non vidi niente."

"Cosa sentì?"

"Io non sentii niente."

"Stava riposando, o mio signore?"

"No, amico, io non ero addormentato."

"Ma, allora, signore, era consapevole?"

"Sì, io ero consapevole."

Anche se era totalmente sveglio, il Buddha non vide né sentì il grande temporale che stava tuonando di fuori, tanto era così assorbito nel suo proprio ‘sé’. Questo è simile all'antico ideale Indiano di 'atmaram', o l'anima contenta che 'si dilette nel suo proprio sé'. Nessuna meraviglia quindi che questo ideale costituì poi un punto assai importante nel discorso finale del Buddha:

"Io ora sto andando via, dopo aver compiuto ottant’anni. Come un vecchio carro può essere tenuto insieme solo con l'aiuto delle stringhe, così io ho mantenuto il mio corpo unito. È solamente quando io prelevo la mia attenzione da tutte le cose

esterne e la concentro all’interno che io sento conforto. Così anche voi, diventate una lampada (deepa) a voi stessi, illuminando il vostro Sé interiore, non facendo affidamento su nessun tipo di aiuto esterno, e diventando il vostro stesso rifugio." (DN 16.2.26)

E’ interessante notare che la parola Pali 'deepa', resa sopra come lampada, può anche significare 'dvipa' o isola, che invero è preferita da molti traduttori. In quel caso, le parole del Buddha prendono un significato migliore suggerendo a ognuno di noi di vivere come isole, distaccate dal mondo dove, comunque, coloro che ci sono cari e vicini possono sbarcare per un breve periodo e poi disperdersi, senza che noi si sia legati ad essi in nessuna maniera. Il Buddha dice:

"Come gli uccelli che passano insieme una notte su un albero, e che poi la mattina seguente vanno in direzioni diverse, così inevitabilmente l'unione di tutti gli esseri finisce col dividersi". "Come le nubi che arrivano insieme nel cielo solamente per separarsi di nuovo, così le creature si uniscono insieme e poi si disperdono". (BC, 6.46-47)

Il Sentiero verso la Morte Virtuale

L’antica tradizione Indiana riconosce due modi di vivere in questo mondo:

1). Pravrtti Dharma (Essere inclini all’azione)

2). Nivrtti Dharma (Farla finita con l’azione)

Il Buddha, nei suoi discorsi, rende chiara la sua preferenza:

"Stabilite la vostra mente sulla cessazione dell'atti-vità (nivrtti), perché là dove non c'è inclinazione verso l’azione (pravrtti), non c'è più alcuna sofferenza" (BC, 20.43) "La continuità nell’essere attivi (pravrtti) è sofferenza, e la sua cessazione (nivrtti) è libertà dalla sofferenza". (BC, 26.18)

Egli lo disse in modo eloquente nel seguente verso:

"Monaci, mantenete uniti i vostri pensieri e siate attenti a frenare tutti gli impulsi". (DN, 16.3.51)

In considerazione del fatto che col suo parinirvana, il Buddha ottenne la libertà finale e totale da ogni karma (pari-nivrtta), la visibile gioia per la sua imminente fine non può che essere comprensibile. Tuttavia, per le persone ordinarie, come noi, meno abituate a percorree il Sentiero dell’Illuminazione, pensare ad una sorta di privazione, come quella del Buddha, potrebbe essere estremamente traumatico, come lo fu per molti dei suoi discepoli. Il compassionevole Buddha tentò di fare del suo meglio per calmarli, con le seguenti parole:

"Riconoscete la vera natura di questo mondo e non siate preoccupati, dato che la separazione da esso è inevitabile. Sforzatevi, così che questo mondo non possa apparirvi di nuovo (cioè, non dobbiate rinascere)". (BC, 26.85)

Cosa sarà, dopo il Buddha?

Ai monaci, che addolorati erano riuniti alla sua ultima assemblea, preoccupato di come essi avrebbero sopportato la loro separazione da lui, il Buddha disse:

"Che il mio corpo resti, o io trapassi via - sarà uguale, perché perfino allora, il mio Dharmakaya (il Dharma da me predicato) rimarrà in questo mondo. Non importa quindi, che la mia forma resti o no". (BC, 24.20)

"La salvezza non viene dalla mera visione di me, senza applicare strenue pratiche di yoga. Chiunque capisca completamente la mia legge, è liberato dalla rete della sofferenza anche se costui non potrà mai vedermi". (BC, 25.77)

"Proprio come un uomo non può essere guarito da una malattia dalla mera vista di un medico senza prendere la prescritta medicina, similmente colui che sente il mio Dharma, ma non lo mette in pratica, non potrà essere liberato dal solo averlo visto". (BC, 25.78)

Poi, egli disse ciò che può agire come confortante rassicurazione, per quelli che, tra di noi, si sentono sperduti nel vasto oceano del mondo moderno:

"In questo mondo, un abile praticante di Dharma, anche se può essere lontano da me, mi sta vedendo, mentre colui che non si conforma al bene più alto può starmi da presso, e però essere assai distante da me". (BC, 25.79)  

Conclusione: La Compassione del Buddha

Dopo la sua Suprema Illuminazione, rimaneva soltanto un’unica cosa che poteva collegare il Buddha a questo mondo - il suo corpo. Tuttavia, grazie alla compassione per i suoi amici esseri, il Buddha continuò a sopravvivere fisicamente anche dopo il Nirvana. Fu solo quando realizzò che la sua opera era compiuta, ed una solida base per il Dharma era stata messa, che egli alla fine decise di lasciar andare il suo corpo, col mettere i suoi sentimenti nel verso seguente:

"Io comnciai ad avanzare a ventinove anni, cercando il benessere, la vita divina,

Da allora, però, sono passati cinquant’anni sopra questa mia vita". (DN, 16.5.27)

"La mia vita è ormai maturata, rimane poco da prosperare,

Tutto è stato fatto, ed io non ho bisogno di sopravvivere". (DN, 16.3.51)

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Riferimenti ed Ulteriori Letture:

Carus, Paul. Il Vangelo del Buddha (secondo Antiche Registrazioni): Chennai, 2002.

Johnston, E.H. ‘Il Buddhacarita’ di Asvaghosa (Testo Sanskrito con traduzione Inglese): Delhi, 2004.

Schotsman, Irma. Il Buddhacarita di Asvaghosa - La Vita del Buddha (Testo Sanskrito con traduzione letterale): Sarnath, 1995.

Seth, Dott. Ved. Studio delle Biografie del Buddha: Nuova Delhi, 1992.

Shastri, Swami Dwarikadas. Buddhacharitam (Testo Pali con Trad. Hindi in Due Volumi): Varanasi, 2004.

Sivananda, Swami. Dizionario di Yoga Vedanta: Uttaranchal, 2004.

Walshe, Maurice. I Discorsi Lunghi del Buddha (la Traduzione del Digha Nikaya): Boston, 1995.

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Dying After Death: The Buddha's Final Liberation (This article by Nitin Kumar).

The Joy of Death

Once when the Buddha was wandering in search of alms with his disciple Ananda, a devotee offered them two golden drapes. Ananda was astonished to observe that when the lord wore the robe, it seemed to loose its luster, paling in comparison to the Buddha’s own body. The ancient texts present this picture in a verse:

Two robes were they offered of gold, Brighter shone the teacher manifold. (Digha Nikaya: 16.4.38)

The Buddha explained to his disciple that there are two occasions when his skin turns exceptionally bright. One was the night when he gained supreme enlightenment (Nirvana) and the other when he would finally pass away without any remainder (Complete or Pari-Nirvana).

This was not the only instance when the venerable Buddha equated enlightenment with final demise. When eating a meal at the house of one his devotees named Chunda, he became seriously ill and it was clear that the end was near. Lest after him his followers chastise Chunda, the Buddha said:

“It is to your merit Chunda, that I am going to final Nirvana after taking this last meal from you. Two offerings of food are more meritorious than any other. The first is the one after eating which I attain supreme enlightenment, and the other after which I gain the Nirvana without remainder." (D.N. 16.4.42)

In fact, the Buddha looked forward to the day when his body would fall and he be finally released from the bondage of life and death. During his last moments he asked his followers not to grieve and said:

“Don’t mourn at this moment of joy." (BC 25.68)

“Is it proper to lament and weep for me when this body, the great storehouse of suffering is passing away? The great danger of rebirth is at last being uprooted, and I am being released." (Buddhacharita 25.71)

“When the darkness of ignorance within me has been illuminated with the lamp of knowledge, and I have seen the world to be without essence, then contentment accompanies my end as does the cure to an illness." (BC 26.86)

“Peace is gained only from that peace which leaves no residue behind." (BC 27.2)

Buddha’s Life – The Key to His Death

To understand Buddha’s approach to death we have to go back to his life. When he was exposed to the three inevitable sufferings, which must be undergone by all living beings – namely disease, old age and death the would-be-Buddha was taken aback with fear.

The charming and ancient poem Buddhacharita, forming one of the principal sources for the life of Buddha, describes his poignant encounter with death: “This person bereft of intelligence, sense organs and breath, is now but a lifeless log of wood. He is abandoned by his near and dear ones who had once painfully taken care of him. Destruction indeed is inevitable for all in the world" (BC 3.57)

Till then having led a sheltered existence of consumption and enjoyment, the shock of his eventual destiny shook him to the core. Buddha realized that death is the only certainty in this uncertain world. How then could one pass his hours in indulgence when the sword of time ‘kala’ hung threateningly over his head? The true destiny of humanity was to reach that fearless state (Abhaya Pada) which transcended death.

He lamented: “Which rational being could be at ease, or still less laugh, when he knows of old age, disease and death? Which sentient being could remain unmoved on seeing an aged, ill or dead person? This is perhaps like a tree which remains unaffected even as its neighbor falls bereft of flowers and fruit or is cut down mercilessly." (BC 4.59-61).

It was only later when he witnessed a wandering monk with an unmistakable calm on his face did Gautama felt that salvation was possible. The monk who had withdrawn himself from the world had in a sense died to it. Indeed, the only way to defeat death was to die before death. Since death is but an impetus to a fresh birth (and death), when overcome in this manner, there is no coming back to this world.

The Nature of ‘Virtual Death’

Regarding the nature of withdrawal from this external world, the Buddha gives a vivid example of a time when he was staying at a small town and saw a crowd gathered near his dwelling. He asked a person standing nearby:

“Friend, why are all these people assembled here?"

“Sir, there has been a great storm which has killed two farmers and four oxen. But you my lord, where have you been?"

“I have been right here, friend."

“What did you see my lord?"

“Dear friend, I saw nothing."

“What did you hear?"

“I heard nothing."

“Were you sleeping dear sir?"

“No friend I was not asleep."

“Then sir, were you conscious?"

“Yes, I was conscious."

Even though fully awake, the Buddha neither saw nor heard the great storm raging outside, so absorbed was he within his own self. This is parallel to the ancient Indian ideal of ‘atmaram’, or the contented soul ‘which sports within its own self.’

No wonder then that this ideal formed an important constituent in Buddha’s final discourse:

“I am now worn out, having completed eighty years. As an old cart can be held together only with the help of straps so have I kept my body going. It is only when I withdraw my attention from all outward things and concentrate it inwards that I know comfort. Thus you too become a lamp (deepa) unto yourselves, illuminating your inner selves, relying on no external help, becoming your own refuge." (DN 16.2.26)

Interestingly, the Pali word ‘deepa’ rendered above as lamp also can mean ‘dvipa’ or island, which is indeed preferred by many translators. In that case the words of Buddha hold a beautiful meaning suggesting each of us to live like islands, detached from the world, where however, some near and dear ones may alight for a short while and then disperse, without us being attached to them in any manner. The Buddha says:

“Like birds spending a night together on a tree, and going their separate directions the next morning, so inevitably the union of all beings ends in parting."

“As clouds coming together in the sky only to separate again, so do creatures collect together and then disperse." (BC 6.46-47)

The Path to Virtual Death

Ancient Indian tradition recognizes two ways of living in this world:

1). Pravrtti Dharma (Inclination to action)

2). Nivrtti Dharma (Finished with action)

The Buddha makes his preference clear:

“Set your mind on the cessation of activity (nivrtti), because where there is no inclination to action (pravrtti), there is no suffering" (BC 20.43)

“The continuance of active being (pravrtti) is suffering and the cessation thereof (nivrtti) is freedom from suffering." (BC 26.18)

He put it eloquently in a verse: “Monks do collect your thoughts, Be mindful restrain all resolves." (DN 16.3.51)

Considering the fact that with his parinirvana Buddha attained final and total freedom from all karma (pari-nivrrta), his visible joy at his impeding end is but understandable.

However, for ordinary folks like us, less traveled on the path of enlightenment, the thought of bereavement from the Buddha could be highly traumatic as it was for many of his disciples. The ever-compassionate Buddha tried his best to calm them with the words: “Recognize the true nature of this world and don’t be anxious, for separation is but inevitable. Strive that this world never happens to you again (i.e. you are not born again)" (BC 26.85)

What After the Buddha?

To the grieving monks assembled at his final gathering, anxious as to how they would bear their separation from him, the Buddha said: “Whether my body remains or I pass away – it will be the same, because even then my Dharmakaya (the Dharma preached by me) will remain in this world. It does not then matter that my form remains or not." (BC 24.20)

“Salvation does not come from the mere sight of me without strenuous yogic practices. Whoever thoroughly understands my law, is released from the net of suffering even though he may never see me." (BC 25.77)

“Just as man cannot be cured of a disease by the mere sight of a physician without taking the prescribed medicine, similarly the one who hears my Dharma but does not put it into practice, he cannot be liberated by mere sight." (BC 25.78)

Then he said what can act as a comforting reassurance to those of us feeling lost in the vast ocean of the modern world:

“In this world, a self-controlled practitioner of Dharma, even though he may be far from me, is seeing me, while he who does not conform to the highest good may dwell at my side and yet be distant from me." (BC 25.79)

Conclusion: The Compassion of Buddha

After his supreme enlightenment, there remained only one thing binding the Buddha to this world – his body. However, out of compassion for his fellow beings, Buddha continued to survive physically even after Nirvana. It was only when he realized that his work was done, and a solid foundation laid for the Dharma did he finally decide to let his body fall, putting his feelings into the following verse:

I wandered forth when twenty-nine,

To seek well-being, the life divine,

Since then fifty have gone over this life of mine. (DN 16.5.27)

Ripened is my life,

Little remains to thrive,

All’s done I need not survive. (DN 16.3.51)

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