Articoli di Dharma

 

L'albero della Bodhi

Peter Della Santina

(Cap. XVI- XX)
 

 
 

CAPITOLO XVI

METODOLOGIA

Tradotto in italiano da Silvana Ziviani

La diffusione dei testi tradotti è consentita in qualsiasi modo tranne che a fini di lucro

In questo capitolo discuterò i metodi attraverso i quali l’Abhidharma esamina la nostra individualità e i nostri rapporti con il mondo esterno. Ci sono due modi per descrivere una data persona e i suoi rapporti con il mondo intorno a lei: deduttivo e induttivo. Il metodo razionale o deduttivo comincia con un’idea astratta e applica questa idea alla propria esperienza. Il metodo empirico induttivo comincia con i fatti che incontriamo nell’esperienza; osservandoli e analizzandoli, interpretandoli e comprendendoli, costruiamo una immagine di noi e del mondo intorno. In altre parole il metodo razionale comincia con l’astratto e cerca di applicarlo al concreto, mentre il metodo induttivo parte dal concreto e costruisce un’immagine della realtà in modo graduale e progressivo.

Il metodo induttivo, che è quello usato nell’Abhidharma è molto vicino al metodo scientifico, ma mentre nella scienza il punto da cui parte il processo induttivo è esterno, nell’Abhidharma questo è interno, nella mente. E’ per questo che talvolta il metodo abhidharmico è chiamato anche introspezione o, per usare un termine tradizionale, meditazione.

Quando diciamo che il metodo abhidharmico è empirico e induttivo, significa che ha a che fare soprattutto con le esperienze mentali. Si dice che la meditazione sia come un microscopio interno o mentale: è un modo per indagare da vicino i fatti dell’esperienza. E’ un metodo che porta risultati perché riesce, attraverso la meditazione a rallentare i processi mentali fino a che riusciamo a vederli e a osservarli. A questo proposito c’è un evidente parallelismo tra il metodo abhidharmico e quello scientifico. Nella scienza, quando vogliamo scoprire come ha luogo una certa trasformazione, rallentiamo o acceleriamo il processo. Anche nella meditazione abhidharmica possiamo rallentare i processi mentali sino a che siamo in grado di vedere veramente cosa sta accadendo, o possiamo anche accelerarli. Se potessimo vedere la nostra vita dalla nascita alla morte nel giro di cinque minuti, ci darebbe una grande comprensione penetrativa nella natura della vita. Però, siccome questo in genere non è possibile, rallentiamo tutto. Questa è la base della meditazione abhidharmica.

Di primo acchito le liste di fattori mentali e altre cose, nei vari libri dell’Abhidharma, possono sembrare tediose e astratte, ma in effetti non sono che il risvolto scritto dei fatti reali dell’esperienza, che si ricavano da questa accurata indagine. Ben lontano dall’essere astratto, l’Abhidharma è il risultato di una accurata analisi introspettiva dell’esperienza. Detto questo, uno può domandarsi quale sia lo scopo dello studio dell’Abhidharma, ritenendo che è senz’altro meglio sedersi in meditazione e vivere l’esperienza abhidharmica della realtà in prima persona, meditando. Questo in un certo senso è vero, ma in tutti gli aspetti dell’insegnamento buddhista, ci vuole sia la conoscenza diretta che indiretta. Il quadro che ricaviamo, analizzando l’esperienza attraverso la prospettiva abhidharmica dei quattro elementi, è certamente più efficace e più chiaro di quello che potremmo avere con la sola meditazione. Ma anche se è un quadro indiretto ottenuto con lo studio, ci è tuttavia molto utile, perché quando ci sediamo a meditare abbiamo già una certa conoscenza intellettuale dei tratti essenziali del quadro, su cui cerchiamo di fissare l’attenzione. In questo senso lo studio dell’Abhidharma è utile nel darci una indiretta conoscenza di noi stessi e del mondo intorno a noi, in termini abhidharmici.

L’indagine abhidharmica funziona in due modi: attraverso l’analisi e attraverso la sintesi o relazione. La struttura di base di questi due metodi viene esposta rispettivamente nel primo e nell’ultimo dei libri dell’Abhidharma Pitaka, il Dhammasangani (classificazione dei fattori) e il Patthana (libro delle relazioni causali). Sono i due libri più importanti dell’Abhidharma, poiché è attraverso il metodo analitico e sintetico o relazionale che l’Abhidharma arriva alla comprensione fondamentale del non sé e vacuità.

Consideriamo prima il metodo analitico e poi quello relazionale; e infine combiniamo i due in modo da raccogliere tutti i risultati a cui arriva il metodo di indagine abhidharmico. Nel libro “Le domande del Re Milinda” (Milinda panha) Nagasena, in risposta alle domande del re Milinda dice che il Buddha ha compiuto un’opera molto difficile: “Se un uomo andasse in alto mare con una barca e prendesse un po’ d’acqua e fosse in grado di dire che quelle gocce provengono dal Gange, queste dallo Yamuna e queste altre da altri grandi fiumi dell’India, avrebbe compiuto un’opera veramente difficile. Allo stesso modo il Buddha ha analizzato ogni singolo momento di esperienza cosciente (per esempio, l’esperienza del vedere una forma), nelle sue varie componenti: materia, sensazione, percezione, volizione e coscienza”. L’analisi è la dissezione di un tutto apparentemente unitario e omogeneo nelle sue componenti. Questa analisi si può applicare non solo al sé (come nell’analisi dell’esperienza personale), ma anche agli oggetti esterni: come scomponiamo la persona in cinque aggregati, così possiamo suddividere i fenomeni esterni nelle sue componenti. Per esempio possiamo suddividere un tavolo in gambe, ripiano, ecc. e addirittura nelle molecole e atomi dei vari elementi che compongono il tavolo.

Lo scopo di dissezionare un insieme apparente è di sradicare l’attaccamento ai fenomeni esterni ed interni. Quando riconosciamo che questo sé, apparentemente omogeneo, non è che una massa di componenti, si indebolisce l’attaccamento all’idea del sé. Allo stesso modo, quando capiamo che anche i fenomeni esterni non sono che raggruppamenti di componenti singole più piccole, si indebolisce l’attaccamento agli oggetti esterni. Cosa otteniamo alla fine di questo processo analitico? Internamente abbiamo solo momenti di coscienza; esternamente solo atomi. Se li consideriamo insieme, abbiamo solo elementi o fattori di esperienza.

Gli elementi mentali e materiali dell’esperienza non ci portano, di per sé, alla comprensione della realtà ultima, perché abbiamo solo momenti di coscienza e atomi di materia, cioè gli elementi dell’esperienza, che rimangono irriducibili per quanto uno li scomponga. Come risultato di questa dissezione, arriviamo a vedere particelle sempre più piccole e il quadro della realtà spezzettato in particelle sempre più minute. E di per sé questo non è un quadro preciso e completo della realtà.

Per arrivare ad avere un quadro completo dobbiamo usare l’approccio analitico insieme a quello sintetico e relazionale. Per questo il grande maestro e santo buddhista Nagarjuna espresse la sua stima reverenziale verso il Buddha, chiamandolo il “maestro dell’Origine interdipendente”. La verità dell’Origine interdipendente pacifica e calma l’agitazione delle costruzioni mentali. Ciò indica quanto sia importante vedere la relazione, l’interdipendenza o condizionalità delle cose, per poterne capire la vera natura. E’ per questo che gli studiosi ritengono che il “Libro delle Relazioni Causali” costituisca l’altra metà del metodo abhidharmico di indagine. Come, attraverso l’analisi, arriviamo all’insostanzialità delle persone e fenomeni (perché vediamo che sono fatti solo di componenti), così attraverso il processo di indagine relazionale, arriviamo alla vacuità delle persone e dei fenomeni (perché vediamo che le loro parti costituenti sono condizionate e in relazione una con l’altra). Arriviamo quindi all’insostanzialità e alla vacuità concentrando l’attenzione sugli insegnamenti dell’origine interdipendente.

Possiamo vedere come le parti componenti una certa cosa (che sia l’individualità o un oggetto esterno) dipendano le une dalle altre per la loro stessa esistenza. Per esempio, in un certo fenomeno come un tavolo, apparentemente unitario, ci sono molte componenti (gambe, ripiano, ecc.) che dipendono le une dalle altre per esistere come parti di un tavolo. Anche il tavolo dipende da cause precedenti (il legno, il ferro, l’opera dell’artigiano che li ha messi insieme, ecc.) e da condizioni prossime (come il pavimento che lo sostiene).

Possiamo esplorare ulteriormente l’idea di interdipendenza in rapporto alle tre dimensioni di tempo, spazio e karma. Per esempio, in termine di tempo, il tavolo dipende da una serie di eventi che avvennero prima che il tavolo esistesse: il taglio del legno, la costruzione del tavolo, ecc. In termini di spazio il tavolo dipende dal pavimento che lo sostiene, ecc. La terza dimensione della condizionalità opera al di là dello spazio e del tempo. La si spiega con il karma, perché gli effetti del karma si manifestano nel tempo e nello spazio, ma non lo si vede in essi. A causa del karma, un’azione compiuta lontano nel tempo e nello spazio può avere effetto qui e ora. Quindi possiamo dire che la condizionalità non ha solo una dimensione temporale e spaziale, ma anche karmica.

Vorrei fare due esempi per rendere meglio ciò che intendo per approccio analitico e relazionale. Prendiamo un carro, che è un fenomeno, un’entità identificabile. Applicando il metodo analitico, dividiamo il carro nelle sue componenti: ruote, asse, carrozzeria, stanga, ecc. Applicando invece il metodo sintetico vedremo il carro in termini di legname, di opera dei costruttori, ecc. Oppure possiamo prendere il classico esempio della fiamma in una lampada ad olio, che dipende dall’olio e dallo stoppino; oppure quello del germoglio che dipende dal seme, dalla terra, dal sole, ecc.

Il metodo analitico insieme a quello relazionale dà un quadro finale delle cose così come sono. Questa descrizione ultima è il prodotto di un’accurata indagine. Usiamo il metodo analitico per dividere nelle loro componenti le cose che sembrano un tutto unico; poi usiamo il metodo relazionale per mostrare che queste parti non esistono indipendenti e separate, ma dipendono, per la loro esistenza, da altri fattori.

In molti insegnamenti del Buddha questi due metodi sono usati singolarmente e poi combinati insieme. Per esempio applichiamo la coscienza prima ai fenomeni interni, poi a quelli esterni, e infine sia a quelli interni che esterni. In tal modo, usando analisi e relazione insieme, risolviamo molti problemi. Non solo superiamo l’idea di un sé, di una sostanza o individualità, ma anche i problemi sorti dal credere nell’esistenza indipendente di fattori e idee distinte, come esistenza e non esistenza, identità e differenza.

Possiamo vedere che anche la chimica del cervello riflette i due approcci, analitico e sintetico. I neurologi hanno scoperto che il cervello è diviso in due emisferi, uno che ha funzione analitica e l’altro sintetica. Se queste due funzioni non sono in equilibrio armonico, vi sono disturbi di personalità. Una persona troppo analitica tende a trascurare gli aspetti della vita più fluidi, intuitivi, dinamici, mentre quella troppo relazionale può mancare di precisione, di chiarezza, di concentrazione.

Ciò dimostra che è bene combinare insieme il pensiero analitico e sintetico, anche nella nostra vita personale. La dimensione psicologica e quella neurologica di questi due approcci sono evidenti anche nello sviluppo della filosofia e della scienza occidentali.

Quelle filosofie in cui l’approccio analitico è predominante risultano in sistemi positivisti, pluralisti e atomistici come la filosofia di Bertrand Russell. Mentre invece nello sviluppo scientifico più recente, come nella teoria dei quanta, vediamo che sta imponendosi una visuale della realtà più relazionale. Se diamo una scorsa alla storia della filosofia e della scienza in Occidente, vediamo che uno di questi due approcci è stato sempre alternativamente dominante.

Forse è arrivato il momento in cui possiamo combinare i due approcci anche nella scienza e filosofia occidentali. Forse potremo arrivare a una visuale della realtà non molto diversa da quella a cui giunge l’Abhidharma, attraverso l’esperienza della meditazione introspettiva, una visione della realtà che è sia analitica (in quanto respinge l’idea di un tutto omogeneo) che relazionale (in quanto respinge l’idea di frammenti di realtà indipendenti e separati). Avremmo allora una visuale ampia e fluida della realtà, in cui le esperienze sature di sofferenza possono venire dinamicamente trasformate in esperienze libere dalla sofferenza.


 

CAPITOLO XVII

ANALISI DELLA COSCIENZA

Tradotto in italiano da Silvana Ziviani


Data l’importanza e la finalità dell’argomento dedicherò tre capitoli all’analisi della coscienza nella filosofia abhidharmica. In questo capitolo presento alcuni sistemi di classificazione della coscienza e in particolare della coscienza della sfera dei sensi.

Per comprendere perché cominciamo l’analisi abhidharmica con la coscienza, è importante rifarsi all’interesse terapeutico sempre dimostrato dalla filosofia buddhista in generale e dall’Abhidharma in particolare. Il punto di partenza del pensiero buddhista è la verità della sofferenza e la sofferenza è un problema della coscienza; solo ciò che è cosciente soffre. La coscienza è soggetta alla sofferenza a causa dell’ignoranza, di un non conoscere fondamentale, che divide la coscienza fra soggetto e oggetto, tra un sé e un altro-da-sé (cioè gli oggetti e la gente intorno al sé).

Nel buddhismo si definisce ignoranza la nozione di un sé permanente e indipendente dal suo oggetto. Fino a che abbiamo questa divisione della coscienza tra un sé e un altro-da-sé, avremo sofferenza perché tra i due c’è tensione. Abbiamo anche desiderio e avversione, perché vogliamo tutto ciò che sostiene il sé e avversiamo ciò che non riguarda il sé. Questa divisione o discriminazione tra il sé (soggetto) e l’altro-da-sé (oggetto) è la principale causa di sofferenza. E’ l’ignoranza che porta a questa divisione, la credenza nell’esistenza di un sé reale e indipendente, opposto all’altro-da-sé. Perciò non sorprende che l’Abhidharma cominci con l’analisi della soggettività e dell’oggettività.

Infatti, quando esaminiamo l’insegnamento dei cinque aggregati vediamo che la forma (rupa) è la componente oggettiva, mentre il nome (nama) cioè la coscienza e gli aggregati mentali di volizione, percezione e sensazione sono la componente soggettiva.

Prima di vedere come l’Abhidharma lo analizzi, bisogna chiarire ciò che significa. Nel buddhismo, questa divisione non significa che abbiamo un’essenziale dualità irriducibile di mente e materia. Il buddhismo non si occupa di mente e materia come fatti assoluti metafisici, ma di mente e materia così come vengono sperimentati. Mente e materia sono forme di esperienza, non essenze. Per questo il buddhismo è una filosofia fenomenologica, non ontologica e la divisione tra mente e materia è quindi una divisione fenomenologica.

Nell’Abhidharma ci sono due sistemi per classificare la coscienza: oggettivo e soggettivo. La classificazione oggettiva si riferisce agli oggetti della coscienza, mentre la classificazione soggettiva si riferisce alla natura della coscienza.

La classificazione oggettiva considera innanzi tutto la direzione verso cui è orientata la coscienza. All’interno di questo schema oggettivo, c’è una suddivisione in quattro classi di coscienza: 1) la coscienza della sfera dei sensi o coscienza volta verso il mondo dei desideri sensuali (kamavachara); 2) la coscienza volta verso la sfera della forma (rupavachara); 3) la coscienza volta verso la sfera senza forma (arupavachara) e 4) la coscienza rivolta al Nirvana (lokuttara). Le prime tre classi sono mondane (lokiya) e riguardano il mondo delle cose condizionate. L’ultima, detta anche conoscenza sopramondana (alokiya citta) si riferisce alla direzione trascendentale della coscienza (lokuttara) ed è la coscienza che hanno i quattro tipi di Nobili, di chi entra nella corrente, di chi ritorna una sola volta, di chi non ritorna e di chi è liberato (vedi cap. XIX).

L’oggetto del kamavachara è materiale e limitato; l’oggetto di rupavachara non è materiale ma è sempre limitato, e l’oggetto di arupavachara non è materiale ed è illimitato. Se li consideriamo in ordine, vediamo a) un oggetto materiale e limitato, b) un oggetto immateriale ma sempre limitato e c) un oggetto di coscienza immateriale e illimitato. Tutti e tre i tipi di coscienza sono diretti verso oggetti mondani, ma c’è una progressiva unificazione e omogeneità nell’oggetto di ognuna delle tre coscienze. L’oggetto della coscienza della sfera dei desideri sensuali è quello che prolifera e si differenzia maggiormente, mentre gli altri due sono sempre meno dispersivi. Il quarto tipo di coscienza è invece volto verso un oggetto trascendentale.

Vediamo ora la classificazione soggettiva della coscienza. Questa coscienza ha a che fare con la natura della coscienza soggettiva stessa ed è divisa in quattro classi: coscienza salutare (kusala), coscienza non salutare (akusala), coscienza risultante (vipaka) e coscienza funzionale o ineffettiva (kiriya).

Le classi salutari e non salutari sono classi di coscienza attive karmicamente, cioè che hanno un potenziale karmico. I tipi di coscienza risultante e funzionale non sono karmicamente attivi e perciò non hanno potenziale karmico. La classe risultante non ha risultati perché essa stessa è un risultato, mentre quella funzionale non può avere risultati perché la sua potenzialità è esaurita nell’azione stessa. Possiamo quindi mettere in una categoria più generale di coscienze karmicamente attive le due categorie salutari e non salutari e in un’altra categoria di coscienze passive che non hanno potenziale karmico, i tipi di coscienza risultante e funzionale.

E’ utile chiarire il significato dei termini “salutare” (kusala) e “non salutare” (akusala) e della definizione di categorie salutari e non salutari di coscienza soggettiva. Salutare significa “che tende verso la cura” o “che tende verso risultati desiderabili”. Ciò richiama nuovamente l’attenzione sull’aspetto terapeutico della filosofia buddhista. Non salutare significa “ciò che tende verso risultati non desiderabili” o “ciò che tende verso la perpetuazione della sofferenza”. I termini “salutare” e “non salutare” corrispondono ai momenti di coscienza idonei e non idonei, e intelligenti o non intelligenti.

Tuttavia, molti usano “salutare” e “non salutare” come sinonimi di buono e cattivo, morale e immorale. La definizione di salutare e non salutare può rapportarsi alle tre radici salutari e non salutari: rispettivamente non bramosia, non ostilità, non illusione, e bramosia, ostilità e illusione. Bramosia ostilità e illusione derivano direttamente dall’ignoranza di base, che non è altro che l’errata nozione di un sé opposto a un altro-da-sé. Nel suo significato essenziale l’ignoranza può essere paragonata alle radici di un albero, mentre bramosia, ostilità e illusione ai suoi rami.

Il potenziale karmico di ogni momento di coscienza condizionata da una delle tre cause non salutari, è non salutare, mentre il potenziale di un momento condizionato da una delle tre cause salutari, è salutare. Queste categorie di coscienza salutare e non salutare sono attive karmicamente e sono seguite da una categoria risultante, cioè dai risultati maturati da quelle azioni salutari o non salutari. La categoria inattiva o funzionale si riferisce ad azioni che non producono ulteriore karma, che non risultano da karma salutare o non salutare (come le azioni dei Buddha e degli arahat)., e da azioni di contenuto indifferente o neutro.

Oltre a questi due sistemi generali di classificazione della coscienza: quello oggettivo, che la classica a seconda dell’oggetto e della direzione e quello soggettivo che la classifica a seconda della sua natura, c’è un terzo sistema, in cui la coscienza viene distinta a seconda delle sensazioni, conoscenza e volizione.

Nella classificazione secondo le sensazioni, ogni fattore conscio ha una delle tre qualità emotive di piacevolezza, spiacevolezza o indifferenza. Queste tre possono essere portate a cinque dividendo le sensazioni piacevoli in mentali e fisiche e anche quelle spiacevoli in mentalmente spiacevoli e fisicamente spiacevoli. Non c’è una suddivisione della coscienza indifferente, perché l’indifferenza è soprattutto una qualità mentale.

Nella classificazione in termini di conoscenza, abbiamo di nuovo una triplice divisione: fattori consci accompagnati dalla conoscenza della natura dell’oggetto e fattori consci non accompagnati dalla conoscenza della natura dell’oggetto; fattori consci accompagnati da idee sbagliate sulla natura dell’oggetto. Possiamo anche definirli come la presenza della retta conoscenza, l’assenza della retta conoscenza e la presenza della conoscenza sbagliata.

Infine nella classificazione secondo la volizione, vi è una duplice suddivisione in coscienza automatica e volontaria; in altre parole, momenti di coscienza che sono di natura automatica e momenti che hanno un elemento intenzionale.

Passiamo ora alla coscienza della sfera dei sensi (kamavachara). Questo gruppo comprende 54 tipi di coscienza, divisi in tre gruppi. Il primo gruppo è formato da dodici fattori karmicamente attivi e con un potenziale karmico non salutare. Questi dodici fattori possono a loro volta essere suddivisi in fattori condizionati dalle tre condizioni non salutari, di bramosia, odio e illusione.

Il secondo gruppo comprende diciotto fattori di coscienza reattivi o passivi, che a loro volta possono essere suddivisi tra risultanti e funzionali. Quindici su diciotto sono risultanti e si riferiscono alle esperienze piacevoli o spiacevoli, il risultato di fattori salutari e non salutari, sperimentate per mezzo delle cinque porte dei sensi fisici e della sesta porta mentale. Gli altri tre sono funzionali senza potenziale karmico e non conseguenti a fattori salutari o non salutari karmicamente attivi.

La terza categoria consiste di ventiquattro fattori di coscienza salutare, karmicamente attivi e con il potenziale karmico condizionato da non ostilità, non bramosia e non illusione. Quindi nella categoria della coscienza della sfera dei sensi, abbiamo 54 tipi di coscienza che possono essere analizzati in termini di attivi o passivi, salutari o non salutari, risultanti o funzionali e anche in termini di sensazioni, conoscenza e volizione.

Vorrei concludere sottolineando la natura polivalente dei termini nell’Abhidharma in particolare, e nel buddhismo in generale. I fattori di coscienza elencati nell’Abhidharma e i termini usati per descriverli hanno valore e significato diversi, a seconda delle funzioni che esplicano. Se non si tiene presente questo, ci si può confondere sulle varie classificazioni dell’Abhidharma.

Anche nei primi anni dell’Abhidharma ci furono critici che non compresero che i fattori erano classificati funzionalmente, e non ontologicamente. Questo vuol dire che scorrendo i fattori di coscienza elencati nell’Abhidharma, potete trovare lo stesso fattore sotto varie categorie. La prima conclusione a cui uno arriva è che c’è molta ripetizione nel materiale abhidharmico, ma non è così realmente. La presenza dello stesso fattore sotto diverse categorie è dovuta alla diversa funzione che esplica in ognuna di esse.

Il commento al Dhammasangani (classifica dei fattori) riporta questa obiezione di ripetitività fatta da un avversario, e replica con un’analogia: quando un re tassa i suoi sudditi, non lo fa sulla base della loro esistenza come individui, ma sulle loro funzioni di entità produttive. Questo è valido anche oggi: infatti uno paga le tasse come proprietario, come salariato, sulle rendite di azioni e di investimenti, e così via. Allo stesso modo i fattori elencati nell’Abhidharma sono riportati in varie categorie perché ogni volta si tiene conto della funzione del fattore non della sua essenza come tale.

Lo stesso vale per i termini che dobbiamo considerare all’interno del loro contesto, dal modo in cui vengono usati, piuttosto che definirli in modo rigido, essenzialistico e naturalistico. Per esempio: “sofferenza” (dukkha) e “felicità” (sukha), nell’analisi dei fattori della conoscenza, significano sofferenza e felicità fisiche. Però quando si parla di dukkha nel contesto della Prima Nobile Verità, riguarda non solo i quattro tipi di sofferenza fisica, ma anche i quattro tipi di sofferenza mentale. Allo stesso modo “sankhara” significa semplicemente “volizione” in un contesto, ma “tutte le cose composte” in un altro.

Perciò quando si studia l’Abhidharma bisogna capire le parole nel loro contesto. Se teniamo presente ciò, adotteremo lo spirito fenomenologico della filosofia buddhista e ci sarà più facile comprendere il significato di ciò che vien detto. Altrimenti ci troveremo paralizzati in una definizione dei termini rigida e impraticabile, e in idee altrettanto rigide e che non ci aiuteranno a capire i fattori dell’esperienza.



CAPITOLO XVIII

LA SFERA DELLA FORMA E DELLA NON FORMA

Tradotto in italiano da Silvana Ziviani


Nel capitolo precedente ho presentato vari schemi di classificazione della coscienza, che potrebbero risultare difficili da comprendere, soprattutto da parte di chi ha appena cominciato lo studio dell’Abhidharma. Perciò prima di continuare la discussione, vorrei aggiungere due punti. Primo, per acquistare conoscenza uno deve coltivare lo studio, la riflessione e la meditazione. Non basta leggere o sentir parlare delle classificazioni della coscienza; bisogna anche riflettere sul modo in cui funzionano precisamente e il loro esatto significato. Per esperienza personale, devo dire che sono riuscito a capire questi schemi di classificazione, solo dopo averli passati e ripassati in mente per un certo tempo. Infine, dopo averli studiati e averci riflettuto, li si può usare per la propria meditazione.

Secondo: per capire queste classificazioni ci è d’aiuto considerare un esempio più concreto e accessibile. Supponiamo che vogliate sapere quante persone stanno probabilmente guardando la TV di giorno a Singapore. Potete classificare la popolazione in lavoratori e disoccupati, e poi i disoccupati in quelli che parlano inglese o cinese, in modo da sapere quanti guardano i programmi inglesi e quanti quelli cinesi. Potete dividere la popolazione in maschi e femmine, studenti e non studenti, e il gruppo di studenti potete dividerlo in quelli che vanno a una scuola cinese e quelli che vanno ad una scuola inglese. Dato un certo fattore (in questo caso la gente che individualmente forma la popolazione) ci sono vari modi di classificarli a seconda di ciò che volete scoprire.

Lo stesso accade per la classificazione abhidharmica della coscienza; si stabiliscono alcuni tipi di coscienza, e poi li classifichiamo in vari modi a seconda di ciò che vogliamo scoprire. Se teniamo a mente questa regola generale su come e perché classificare i fattori di coscienza, e poi ripassiamo questi schemi in mente per un po’, cominceremo a vederne sempre più chiaramente il senso.

In questo capitolo parleremo della coscienza della sfera della forma (rupavachara) e quella della sfera della non forma (arupavachara. Vedi cap. XVII). La cosa che qui ci interessa è l’analisi dei tipi di coscienza che sorgono dalla meditazione, concentrazione o assorbimento (jhana). Come nell’origine dell’Abhidharma stesso, così per gli inizi dell’analisi abhidharmica della coscienza, Sariputta riveste un ruolo di primaria importanza. Nell’Anupada Sutta si dice che Sariputta, dopo aver raggiunto i vari stadi di meditazione, applicò ai vari tipi di coscienza che aveva sperimentato un’analisi di tipo abhidharmico, enumerandoli, classificandoli e identificandoli.

Fin dall’inizio della storia del buddhismo è sempre stata attribuita particolare importanza all’analisi, poiché l’esperienza di stati straordinari in meditazione poteva essere facilmente fraintesa, come accadeva infatti nelle tradizioni non buddhiste, in cui tali stati erano ritenuti la prova evidente dell’esistenza di un essere soprannaturale e trascendente, e di un’anima eterna. Mettendo in rilievo che i vari stadi di meditazione, come d’altronde tutta l’esperienza in generale, sono caratterizzati da impermanenza, transitorietà e insostanzialità, l’analisi allontana le tre impurità di 1) attaccamento a stati di coscienza soprannaturali e straordinari ottenuti per mezzo della meditazione; 2) false idee, che portano a considerare questi stati meditativi come prova dell’esistenza di un essere trascendente o di un’anima eterna; 3) presunzione che nasce dall’aver ottenuto straordinari stati meditativi.

Lo sviluppo degli stati meditativi e il raggiungimento degli assorbimenti è una parte molto importante della pratica buddhista perché è lo scopo della coltivazione mentale, che a sua volta è una delle principali divisioni della Via buddhista (moralità, coltivazione mentale e saggezza). Per ottenere questi stadi meditativi si deve partire da una base di moralità e ritirarsi il più possibile da attività mondane. Stabilite queste condizioni preliminari, si procede a coltivare gli stati meditativi, attraverso vari metodi, che tradizionalmente comprendono quaranta oggetti di meditazione, in cui sono inclusi dieci supporti (kasina). Questo oggetti sono coordinati con il temperamento del meditatore. In altre parole, particolari oggetti di meditazione sono prescritti per certi temperamenti. In generale uno comincia con un supporto esterno che man mano viene interiorizzato e concettualizzato fino a che viene scartato e si entra così nello stato meditativo vero e proprio.

Per sviluppare gli stati meditativi che risultano in tipi di coscienza appartenenti alle sfere di forma e non forma è importante avere cinque fattori di assorbimento (jhananga): 1) applicazione iniziale (vitakka), 2) applicazione sostenuta (vichara), 3) interesse, entusiasmo o estasi (piti), 4) felicità o beatitudine (sukha) e 5) unificazione mentale (ekaggata). Questi fattori sono presenti in molti tipi di coscienza che include, oltre alla coscienza della sfera dei sensi, anche la coscienza di alcuni animali altamente sviluppati. Prendiamo ad esempio l’unificazione: ogni momento cosciente ne possiede un certo grado ed è essa che ci permette, durante l’esperienza cosciente, di fissarci su un oggetto particolare. Se non fosse per l’unificazione non saremmo in grado di isolare un oggetto di coscienza dal flusso continuo di oggetti di coscienza.

I cinque fattori di assorbimento giocano un ruolo particolare nello sviluppo della coscienza meditativa, in quanto elevano la nostra coscienza dalla sfera dei sensi a quella della forma e poi a quella della non forma, per mezzo dell’intensificazione, che è un rafforzamento e aumento del potere di alcune speciali funzioni della coscienza.

L’intensificazione dei primi due fattori, applicazione iniziale e applicazione sostenuta, porta allo sviluppo dell’intelletto, che a sua volta serve a sviluppare l’intuizione profonda. Allo stesso modo, l’intensificazione del quinto fattore, l’unificazione, porta allo sviluppo di una coscienza completamente concentrata e assorbita. L’intensificazione di tutti e cinque i fattori porta progressivamente alla realizzazione di poteri soprannaturali. I cinque fattori aiutano anche ad elevare la mente dalla sfera dei sensi a quella della forma e della non forma, allontanando i cinque impedimenti (nivarana); l’applicazione iniziale tiene a bada indolenza e torpore; l’applicazione sostenuta tiene a bada il dubbio; l’entusiasmo tiene a bada l’ostilità; la felicità tiene a bada l’agitazione e l’ansia; l’unificazione tiene a bada il desiderio sensuale.

Studiamo ora meglio i cinque fattori di assorbimento per vedere come fanno a produrre una coscienza concentrata e per far ciò dobbiamo conoscere il loro preciso significato. Nel contesto dello sviluppo della coscienza meditativa, l’applicazione iniziale (vitakka) viene più propriamente chiamata “pensiero applicato”, poiché significa urtare, colpire, sovrapporre. Vitakka si sovrappone alla mente portandola verso l’oggetto di meditazione; vichara (applicazione sostenuta) tiene invece la mente ferma sull’oggetto, mantenendola “in posizione”. Il terzo fattore d’assorbimento (entusiasmo, interesse o estasi, piti) dà la motivazione per proseguire la meditazione con diligenza.

E’ utile confrontare piti (interesse) con sukha (felicità) per capire in che rapporto sono tra di loro. Interesse e felicità appartengono a due classi diverse di esperienza: l’interesse appartiene alla classe della volizione (sankhara) e la felicità a quella delle sensazioni (vedana). L’interesse è attiva partecipazione ed entusiasmo, mentre la felicità è una sensazione di contentezza e beatitudine. I commentari, per illustrare la relazione tra i due termini, danno il seguente esempio: supponiamo che un uomo sia nel deserto e gli venga detto che c’è una pozza d’acqua fresca alle porte del villaggio vicino. Sentendo la notizia, egli prova un forte senso di interesse (piti) e viene motivato e incoraggiato a proseguire da queste informazioni. Ma quando realmente raggiunge l’acqua ed estingue la sete, sperimenta felicità (sukha). Quindi è l’interesse o entusiasmo che ci spinge a sviluppare una coscienza concentrata, mentre la felicità o beatitudine è la vera esperienza della felicità che si ottiene con una coscienza concentrata.

L’unificazione (ekaggata) è raccoglimento della mente, non distrazione, focalizzazione della mente sull’oggetto di meditazione senza oscillazioni. E’ come la fiamma di una lampada immobile in una stanza senza correnti d’aria.

Quando sono presenti tutti e cinque i fattori di assorbimento, si è raggiunta la prima coscienza della sfera della forma, o assorbimento. Man mano che i fattori di assorbimento vengono eliminati, si prosegue passo dopo passo verso la quinta coscienza della sfera della forma. In altre parole, quando viene eliminata l’applicazione iniziale si entra nel secondo assorbimento e quando viene rimossa l’applicazione sostenuta si ha il terzo assorbimento; quando si lascia l’interesse si entra nel quarto e lasciando la felicità, infine nel quinto assorbimento della sfera della forma.

Questi cinque tipi di coscienza sono karmicamente attivi e di tipo salutare. Inoltre ci sono cinque tipi di coscienza reattiva, risultante e cinque tipi di coscienza inattiva e funzionale. I primi cinque sono karmicamente attivi e presenti in questa vita; i secondi cinque sono il risultato dei primi cinque. In altre parole, la coltivazione degli assorbimenti nella sfera della forma ha come risultato la rinascita nella sfera della forma. Il terzo gruppo dei cinque sono gli assorbimenti nella sfera della forma praticati dagli arahats che hanno spezzato la catena di azione e reazione ed è per questo che gli assorbimenti praticati da loro sono inattivi.

Perciò ci sono 15 tipi di coscienza della sfera della forma: cinque salutari attivi; cinque risultanti e cinque inattivi. Quando uno ha ottenuto la quinta coscienza della sfera della forma, sperimenta una certa insoddisfazione per la natura limitata degli assorbimenti nella sfera della forma; perciò prosegue verso gli assorbimento nella sfera della non forma, sempre usando un oggetto di meditazione, che di solito è uno dei dieci sostegni (kasina). Per far ciò allarga il sostegno fino a coprire lo spazio infinito, poi lo scarta e medita sull’infinità dello spazio, raggiungendo così il primo assorbimento della sfera della non forma. Poi va avanti verso il secondo assorbimento, dimorando nell’infinità della coscienza. A questo stadio, invece di meditare sull’oggetto della coscienza meditativa (cioè l’infinità dello spazio) si fissa sull’oggetto della coscienza meditativa, cioè sulla coscienza stessa che pervade lo spazio infinito o coscienza infinita.

Il terzo assorbimento nella sfera della non forma si ferma sulla non esistenza attuale della precedente coscienza infinita che pervadeva l’infinito. In altre parole, rimane nel niente assoluto o vuoto. Infine il quarto assorbimento si ferma sulla sfera di “né percezione né non percezione”, una condizione in cui la coscienza è così sottile che non la si può dire né esistente né non esistente.

Come per gli assorbimenti della sfera della forma, anche in questi della non forma ci sono tre gruppi di coscienza (ma con quattro invece che con cinque tipi ognuna). Quattro tipi di coscienza appartengono alla categoria salutare e attiva; quattro a quella risultante-reattiva, cioè alla rinascita nella sfera della non forma; quattro appartengono alla categoria inattiva o funzionale, che sono gli assorbimenti praticati dagli arahat. In tutto ci sono dodici tipi di coscienza della sfera della non forma: quattro salutari-attive, quattro risultanti e quattro inattive.

Se osserviamo la progressione degli assorbimenti in questa sfera della non forma, vediamo una graduale unificazione e rarefazione della coscienza: un assorbimento nell’infinità dell’oggetto (spazio), uno nell’infinità del soggetto (coscienza), uno nel nulla e infine un assorbimento in “né percezione né non percezione”. Ricorderete che quando abbiamo parlato della coscienza e dei suoi oggetti come strutture di base per generare l’esperienza, abbiamo trovato che nella coscienza della sfera dei sensi vi è un tipo di esperienza molto frammentata, in cui la coscienza e i suoi oggetti si spezzettano in molti fattori. Man mano che si progredisce attraverso la sfera della forma e quella della non forma, vi è una graduale unificazione del soggetto e dell’oggetto, per cui quando si arriva al quarto assorbimento della sfera della non forma, si è raggiunto il culmine dell’esperienza mondana.

E’ interessante notare che gli assorbimenti della sfera della forma e della non forma erano praticati dagli yogin prima del tempo del Buddha ed erano ancora praticati dai suoi contemporanei. C’è ragione di credere che i due insegnanti con cui Gotama studiò prima della sua illuminazione, praticassero queste meditazioni. Gli assorbimenti della sfera della non forma erano il livello più alto di sviluppo spirituale a cui l’uomo potesse giungere prima del Buddha. Ma nella notte della sua illuminazione il Buddha dimostrò che gli assorbimenti devono essere uniti alla saggezza per diventare veramente sopramondani.

Per questo si dice che, sebbene uno raggiunga i più alti livelli di sviluppo meditativo e possa così rinascere nei punti più alti della sfera della non forma, tuttavia, quando il potere di quella meditazione (che è comunque impermanente) svanisce, rinascerà in una sfera inferiore. Per questa ragione si deve andare al di là persino di questi livelli di coscienza meditativa, estremamente sottili e altamente sviluppati.

Bisogna saper abbinare la coscienza concentrata e unificata dagli assorbimenti con la saggezza. Solo così si può progredire passando dai vari tipi di coscienza mondana fino a quella sovramondana.



CAPITOLO XIX

COSCIENZA SOVRAMONDANA

Tradotto in italiano da Silvana Ziviani


In questo capitolo concludiamo l’esame dell’analisi della coscienza, con cui termina il primo libro dell’Abhidharma Pitaka, il Dhammasangani (classificazione dei fattori). Parlerò dell’ultima delle quattro classificazioni obiettive della coscienza, la coscienza sopramondana (alokiya chitta) a cui ho già accennato nel capitolo XVI.

Ci sono due modi per distinguere fra i tipi di coscienza sopramondana e quelli di coscienza mondana (cioè della sfera dei sensi, della forma e della non forma). La prima distinzione riguarda la determinazione e la direzione. La coscienza mondana è determinata, indiretta e soggetta al karma e alle condizioni, mentre la coscienza sopramondana è determinante, diretta a uno scopo e non più soggetta a forze fuori dal suo controllo. E’ determinante perché non predomina il karma ma la saggezza.

L’altra distinzione è che i tipi mondani di coscienza hanno come oggetti fenomeni condizionati, mentre quelli sopramondani hanno come oggetto l’incondizionato, cioè il Nirvana. Il Buddha disse che il Nirvana è uno stato non nato e non creato. Un tale stato è necessario affinché possa esistere una via d’uscita dal mondo condizionato della sofferenza. E’ in questo senso che la coscienza sopramondana è non creata e non condizionata.

Possiamo dividere i vari tipi di coscienza sopramondana in quattro gruppi di coscienze attive e in quattro di coscienze passive. Normalmente i tipi di coscienza possono essere attivi o passivi e quelli passivi possono essere reattivi (risultanti) o inattivi (funzionali). Tuttavia in questa categoria non vi sono tipi di coscienza funzionali o inattivi, poiché qui i tipi di coscienza sono determinanti non determinati. Questi otto tipi di coscienza sopramondana (quattro attivi e quattro passivi) corrispondono ognuno alla Via e al Frutto dei quattro tipi di Nobili realizzati: colui che entra nella corrente (sotapanna), colui che ritorna una sola volta (sakadagami), colui che non ritorna più (anagami) e arahat. A questo proposito vorrei fare un’altra distinzione fra coscienza mondana e sopramondana. Nei tipi di coscienza mondana, le coscienze attive e risultanti possono essere separate da periodi di tempo relativamente lunghi. In altre parole, il fattore cosciente attivo può produrre il fattore risultante dopo molto tempo, in questa vita o addirittura in vite future. Per esempio, nel caso della coscienza delle sfere di forma e non forma, la coscienza risultante non si manifesta fino alla prossima vita. Invece nei tipi di coscienza sopramondana, la coscienza risultante (o Frutto) segue immediatamente la coscienza attiva (o Via). Gli otto tipi di coscienza sopramondana possono essere portati a 40, combinando ognuno degli otto tipi con ognuno dei cinque assorbimenti della sfera della forma. Cioè i quattro tipi di coscienza attiva sopramondana (la coscienza della Via di chi è entrato nella corrente e degli altri) si combina con la coscienza appartenente al primo assorbimento e così via, in modo che ci saranno venti tipi di coscienza sopramondana attiva combinata con i quattro tipi di Nobili e con i cinque assorbimenti della sfera della forma. Poi ci sono i 20 tipi di coscienza risultante sopramondana (la coscienza-frutto di chi è entrato nella corrente e gli altri) con la coscienza appartenente al primo assorbimento e poi agli altri.

In tutto sono quaranta. Praticamente avviene così: la coscienza della Via e del Frutto di chi è nella corrente sorge sulla base del primo assorbimento della sfera della forma. Allo stesso modo, basata sul secondo, terzo, quarto e quinto assorbimento della sfera della forma, sorge la coscienza di chi torna una sola volta, di chi non torna più e degli arahat. Cioè la coscienza appartenente alla coscienza sopramondana si sviluppa sulla base dei vari assorbimenti.

Cerchiamo ora di definire i quattro stadi di illuminazione: chi entra nella corrente (sotapanna), chi ritorna una sola volta (sakadagami), chi non ritorna più (anagami) e arahat. Il progresso di un Nobile attraverso i vari stadi è segnato dalla sua abilità a superare alcuni impedimenti che si presentano ad ogni stadio. Vi è una progressiva eliminazione dei dieci impedimenti o vincoli (samyojana) che ci tengono legati all’universo condizionato fino a quando non saremo in grado di liberarcene. L’entrata nella corrente è segnata dall’eliminazione di tre vincoli: il primo è la credenza in un’esistenza indipendente e duratura di un essere individuale (sakkaya ditthi), cioè scambiare i cinque aggregati mentali e fisici di una persona (forma, sensazione, percezione, volizione e coscienza) per un sé. Non è perciò a caso che diciamo che i tipi di coscienza mondani sono condizionati dagli aggregati, mentre i tipi di coscienza sopramondana non sono determinati dagli aggregati. Il superamento di questo primo vincolo segna il passaggio dallo stato di persona comune a quello di Nobile.

Il secondo vincolo superato da chi entra nella corrente è il dubbio (vichikkicca), che riguarda soprattutto il dubbio verso il Buddha, il Dhamma e il Sangha, ma anche sulle regole di disciplina e sull’Origine interdipendente.

Il terzo vincolo è la credenza in regole e rituali (silabbataparamasa). Ci sono parecchi malintesi sul suo significato, ma comunque si riferisce alle pratiche di quei non buddhisti che credono che il solo aderire a codici di disciplina morale e a rituali ascetici, possa condurli alla liberazione.

Quando questi tre vincoli vengono superati uno entra nella corrente e otterrà la liberazione entro un massimo di sette vite. Non rinascerà in stati di dolore (nel regno degli esseri infernali, degli spiriti affamati e degli animali) e la sua fede nel Buddha, Dhamma e Sangha è garantita e incrollabile.

Dopo questo primo stadio di illuminazione, il Nobile continua nella pratica per indebolire altri due vincoli, il desiderio sensuale e la malevolenza, in modo da ottenere lo stato di sakadagami, colui che ritorna una volta sola. Questi due vincoli sono talmente forti che perfino a questo stadio, vengono solo indeboliti, non eliminati del tutto. Desideri sensuali e malevolenza possono ancora sorgere, ma non più in modo così ossessivo come nelle persone comuni. Quando infine questi due vincoli vengono eliminati uno raggiunge lo stato di anagami, di colui che non ritorna più. In questo terzo stadio uno non rinascerà più nella ruota di nascita e morte ma solo nelle pure dimore riservate a loro e agli arahat.

Quando anche gli ultimi cinque vincoli vengono eliminati (attaccamento alla sfera della forma (rupa raga), alla sfera della non forma (arupa raga) alla superbia (mana), all’agitazione (uddhacca) e all’ignoranza (avijja) si arriva alla vetta della coscienza sopramondana, alla coscienza fruitiva dell’arahat.

Questi quattro stadi possono essere divisi in due gruppi: i primi tre, chiamati di addestramento, e il quarto che non ha più bisogno di addestramento o preparazione. Per questo è bene pensare il progresso verso lo stato di arahat come un processo graduale, come in un programma di studi accademici. A ogni stadio si superano certe barriere di ignoranza, fino a “laurearsi” quando si arriva all’apice conclusivo degli studi.

A questo punto avviene un cambiamento qualitativo che porta da una condizione indiretta e determinata, a una diretta e determinante.

Come si fa a rendere il Nirvana oggetto di coscienza, in modo da trasformare la coscienza mondana, il cui oggetto è condizionato, in una coscienza sopramondana il cui oggetto è incondizionato? Come si fa a realizzare il Nirvana? Si ottiene con lo sviluppo dell’intuizione profonda o saggezza (panna). Per sviluppare l’intuizione profonda usiamo i due metodi abhidharmici di analisi e sintesi (vedi cap. XVI). Applichiamo il metodo analitico per esaminare la coscienza e il suo oggetto, cioè la mente e la materia. Attraverso questa analisi si arriva alla comprensione che ciò che abbiamo sempre preso per un fenomeno omogeneo, unitario e sostanziale, è invece un fenomeno composto da elementi singoli, impermanenti e in flusso continuo. E questo vale sia per la mente che per la materia.

Si applica poi il metodo sintetico, considerando le cause e le condizioni della nostra esperienza personale: in rapporto a che fattori esistiamo come entità psico-fisica? Questo esame rivela che la persona esiste in dipendenza di cinque fattori: ignoranza, bramosia, attaccamento, karma e sostegno materiale della vita (cioè nutrimento).

L’intuizione profonda si sviluppa quindi applicando questi due metodi abhidharmici, cioè dissezionando i fenomeni mentali e fisici, interni ed esterni, ed esaminandoli in rapporto alle loro cause e condizioni. Questa duplice indagine analitica e relazionale svela le tre caratteristiche dell’esistenza universali e in reciproco rapporto: impermanenza, sofferenza e non sé. Ogni cosa impermanente è sofferenza, perché quando vediamo i fattori dell’esperienza disintegrarsi, questa stessa disintegrazione e impermanenza è causa di sofferenza. Inoltre ciò che è impermanente e doloroso non può essere il sé, perché il sé non può essere né transitorio né doloroso.

Il penetrare queste tre caratteristiche porta al desiderio di rinunciare e liberarsi da questo universo condizionato. Comprenderle significa anche capire che le tre sfere mondane sono come un albero di banano: senza essenza. Questa comprensione porta alla rinuncia, al distacco dalla sfera condizionata, permettendo alla coscienza di dirigersi verso un oggetto incondizionato, il Nirvana. Ognuna delle tre caratteristiche è una chiave per questa nuova direzione. Come possiamo vedere nella biografia dei principali discepoli del Buddha, ognuna delle tre caratteristiche può essere presa come oggetto di contemplazione per sviluppare l’intuizione profonda. La regina Khema, per esempio ottenne la liberazione, contemplando l’impermanenza.

Quando l’intuizione profonda in una delle tre caratteristiche universali è completamente sviluppata, si può avere una breve visione del Nirvana. La prima esperienza del Nirvana è come la luce di un lampo, che illumina la via nel buio della notte. La chiarezza di questo lampo dura a lungo impressa nella mente e spinge a proseguire la via, sapendo che si sta andando nella direzione giusta.

La prima visione del Nirvana sperimentata da colui che entra nella corrente, serve di orientamento per progredire sulla via verso il Nirvana. Questo graduale sviluppo dell’intuizione potrebbe essere paragonato all’acquisizione di un’abilità tecnica. Dopo essere riusciti a fare pochi metri in bicicletta senza cadere, può passare del tempo prima di diventare un ciclista esperto, ma essendo riusciti a stare in bici per quei pochi metri, non ci si dimentica più quell’esperienza e si ha fiducia di riuscire a raggiungere il traguardo. E’ in questo senso che la contemplazione delle tre caratteristiche conduce alle tre porte della liberazione: la porta del non segno, la porta del non desiderio e la porta del non sé o vacuità. Contemplando la caratteristica di impermanenza si va alla porta del non segno; contemplando la sofferenza si arriva a quella del non desiderio o libertà dal desiderio e contemplando il non sé a quella della vacuità.

In tal modo si avanza attraverso i quattro stadi di illuminazione fino a diventare arahat, lo stadio della vittoria sulle afflizioni, in cui le radici non salutari di bramosia, odio e illusione sono totalmente sradicate. L’arahat, avendo sradicato le afflizioni, è ormai libero dal ciclo di nascita e morte e non rinascerà mai più.

Anche se qualcuno ha cercato di sminuire lo stato di arahat con l’accusa di egoismo, va riconosciuto invece che è uno stato benefico e compassionevole. Basta vedere le istruzioni del Buddha ai suoi principali discepoli arahat e anche la loro stessa vita, per capire che al tempo del Buddha lo stato di arahat non era né passivo né egoista. Sariputta, Moggallana e altri erano molto attivi e impegnati ad insegnare sia ai laici che ai religiosi. Lo stesso Buddha esortò i suoi discepoli arahat ad andare avanti per il beneficio di molti. Lo scopo dell’arahat è glorioso e meritorio e non va sottovalutato, solo perché la tradizione buddhista riconosce anche la realizzazione dello stato di Buddha individuale o isolato (pacceka Buddha) e quello della buddhità


CAPITOLO XX

ANALISI DEGLI STATI MENTALI

Tradotto in italiano da Silvana Ziviani


Nell’Abhidharma gli stati mentali vengono definiti come “fattori che sono collegati alla coscienza, che sorgono e periscono con la coscienza e che hanno la stessa base e oggetto della coscienza”. Questo indica lo stretto rapporto che c’è tra coscienza (citta) e stati mentali (cetasika). Una delle migliori analogie per descrivere il loro rapporto è quella della struttura di un edificio e del materiale da costruzione, o quella di uno scheletro e della carne che lo ricopre. Qui i vari tipi di conoscenza sono lo scheletro, mentre gli stati mentali sono la carne che forma un corpo di esperienza cosciente.

Tenendo presente ciò, è utile considerare i tipi di coscienza enumerati nell’analisi abhidharmica della coscienza a seconda degli stati mentali con cui è probabile che si colleghino. L’analisi che uno fa da sé può non corrispondere a quella dei testi, ma dato che certi stati mentali nascono naturalmente da particolari tipi di coscienza, arriveremo comunque alla comprensione di come certi stati mentali vadano insieme a certi tipi di coscienza. E questo è molto più importante che ricordare a memoria una lista di stati mentali.

Ci sono tre categorie generali di stati mentali: salutare, non salutare e imprecisato. Gli stati mentali imprecisati non sono né salutari né non salutari, ma assumono la natura degli altri stati mentali con cui sono collegati. Gli stati mentali imprecisati hanno un ruolo importante nella costruzione di esperienze consce, sono un po’ come il cemento senza il quale l’edificio dell’esperienza non può tenersi insieme.

Ci sono due gruppi di stati mentali imprecisati: universali (o primari) e specifici (o secondari). Gli stati mentali universali sono presenti in tutti i tipi di coscienza senza eccezione, mentre quelli specifici sono presenti solo in certi tipi di coscienza.

Ci sono sette stati mentali imprecisati universali e sono: 1. Contatto; 2. Sensazione, 3. Percezione, 4. Volizione, 5. Concentrazione, 6. Attenzione e 7. Vitalità.

Il contatto è la congiunzione della coscienza con l’oggetto. E’ la coesistenza di soggetto e oggetto, fondamento di ogni esperienza conscia.

La sensazione è la qualità emotiva dell’esperienza: piacevole, spiacevole o indifferente.

La percezione implica il riconoscimento della sfera sensuale della facoltà a cui una certa impressione sensoriale si riferisce, cioè alla sfera della coscienza dell’occhio, della coscienza dell’orecchio e così via.

La volizione in questo contesto non significa volontà, ma la risposta volitiva istintiva.

L’unificazione mentale o concentrazione non avviene come un fattore di assorbimento, ma come una delimitazione della coscienza su un particolare oggetto. Come già detto nel capitolo XVIII, la concentrazione esiste anche nei tipi di coscienza ordinaria, non meditativa. La concentrazione è uno stato mentale necessario a tutti i tipi di coscienza, perché isola un dato oggetto dal flusso indifferenziato degli oggetti.

L’attenzione può essere rapportata alla concentrazione. La concentrazione e l’attenzione sono rispettivamente l’aspetto negativo e positivo della stessa funzione. La concentrazione limita l’esperienza a un dato oggetto mentre invece l’attenzione dirige la consapevolezza verso un certo oggetto. Entrambe funzionano insieme per isolare e per rendere la mente conscia di un particolare oggetto.

Vitalità è la forza che tiene insieme gli altri sei stati di coscienza.

Gli stati mentali imprecisati specifici sono sei: 1. Applicazione iniziale; 2. Applicazione sostenuta, 3. Decisione, 4. Voglia, 5. Interesse, 6. Desiderio. Abbiamo già incontrato alcuni di essi come fattori di assorbimento. Il terzo stato mentale specifico, generalmente tradotto con “decisione” (adhimokkha) è molto importante in quanto indica una particolare funzione decisiva della coscienza. Il significato letterale del termine originale è “liberazione” nel senso di “liberazione dal dubbio”. Per quanto riguarda il sesto stato mentale specifico, tradotto “desiderio” (chanda) dobbiamo tenere presente la differenza con il desiderio sensuale (kamachanda) che è negativo e distruttivo, mentre il desiderio di liberazione (dhammachanda) è positivo e costruttivo.

Perciò il desiderio ha una funzione sia salutare che non salutare a seconda dell’oggetto del desiderio e degli stati mentali con cui è associato.

Vediamo ora gli stati mentali non salutari. Ce ne sono 14 e sono collegati ai dodici tipi di coscienza non salutare (vedi cap. XVII) in cinque modi, suddivisi in cinque gruppi. I primi tre gruppi assumono il loro carattere dalle tre radici non salutari.: illusione (moha), cupidigia (lobha) e odio (dosa). Il quarto gruppo comprende indolenza e torpore (thina, middha); il quinto comprende il dubbio (vicikicca).

Consideriamo il gruppo dominato dall’illusione: questo gruppo è sempre presente in tutti i tipi di coscienza non salutare e comprende quattro fattori: illusione, sfrontatezza (mancanza di vergogna), mancanza di scrupoli o di timore, irrequietezza. Sia sfrontatezza che mancanza di scrupoli hanno connotati morali ed etici che agiscono esternamente ed internamente.

Quando parliamo qui di sfrontatezza ci riferiamo all’incapacità interna a resistere dal commettere azioni non salutari, a causa dell’incapacità di applicare criteri personali alle proprie azioni. Quando parliamo di mancanza di scrupoli o mancanza di timore intendiamo riferirci all’incapacità di riconoscere l’applicazione di criteri sociali di moralità alle proprie azioni. Questi due termini indicano che i criteri morali vanno seguiti sia partendo dall’interno di se stessi, sia dall’esterno in rapporto agli altri.

La coscienza illusa soprattutto, presenta modelli di comportamento particolari. Quando la coscienza è dominata dall’illusione e non è in grado di applicare criteri interni di moralità, si agisce in modo non salutare. Ugualmente se uno non sa applicare criteri sociali di moralità, non ha scrupoli nelle sue azioni. Questa incapacità ad applicare criteri di moralità interni ed esterni alle proprie azioni crea irrequietezza, il quarto fattore di questo gruppo dominato dall’illusione.

Il secondo dei cinque gruppi di stati mentali non salutari è il gruppo dominato dalla cupidigia, in cui la cupidigia è accompagnata da idee sbagliate e presunzione. A livello personale e pratico, una coscienza dominata dalla cupidigia ha la tendenza alla megalomania, all’accumulazione ed esibizione di conoscenze, a manifestazioni di orgoglio, egoismo e presunzione.

Il terzo gruppo degli stati mentali non salutari è quello dominato dall’odio ed è accompagnato da invidia, avidità e ansia.

Il quarto gruppo include indolenza e torpore, particolarmente rilevanti nel contesto delle categorie di coscienza indotta volontariamente.

Il quinto gruppo comprende il dubbio, che sorge ogni volta che non è presente la decisione, quella decisione (“liberazione dal dubbio”) che è uno degli stati mentali imprecisati specifici.

Ci sono poi 19 stati mentali comuni a tutti i tipi di coscienza salutare. Una parte di essi rientra nei fattori di illuminazione (bodhipakkhiya dhamma) e giocano quindi un ruolo importante nella coltivazione e sviluppo del proprio potenziale spirituale. La lista comincia con fede e comprende consapevolezza, scrupoli, timore, non cupidigia, non odio, equanimità, tranquillità, leggerezza, duttilità, adattabilità, competenza (conoscenza) e rettitudine degli elementi psichici e della mente. Da notare la presenza di scrupoli e timore, direttamente opposti agli stati non salutari di sfrontatezza e mancanza di timore.

Alcune volte questi 19 stati mentali salutari sono accompagnati da altri sei: i tre controlli (retta parola, retta azione e retto sostentamento); i due stati illimitati o immensi (compassione e gioia altruistica); e ragione o saggezza. Quando ci sono anche questi ultimi sei, si hanno in tutto 25 stati mentali salutari.

Tra gli stati mentali salutari, la saggezza occupa una posizione simile al desiderio per quelli imprecisati. Come il desiderio può essere salutare o non salutare a seconda del suo oggetto così la saggezza può essere mondana o sopramondana a seconda che l’oggetto sia la conoscenza ordinaria o la realtà sopramondana.

Per meglio sottolineare lo stretto rapporto tra i vari tipi di coscienza e gli stati mentali, vorrei riproporre la classificazione della coscienza trattata nel cap. IV. Lì abbiamo parlato dei tipi di coscienza a seconda del loro valore karmico: salutare, non salutare, risultante e funzionale. Abbiamo anche parlato, con riferimento alla sfera del desiderio sensuale, di un’ulteriore classifica della coscienza in termini di sensazione, conoscenza e volizione.

Combinandoli insieme, abbiamo, nella sfera del desiderio sensuale, una quadruplice classifica della conoscenza, a seconda del valore karmico, emotivo, intellettuale e volitivo. In altre parole sono classificati in termini di 1) salutare, non salutare e neutro; 2) piacevole, spiacevole o indifferente; 3) combinati con la conoscenza, dissociati dalla conoscenza, combinati con idee sbagliate e 4. in quanto indotti o spontanei.

Grazie a questo schema possiamo vedere come i tipi di coscienza siano determinati dalla presenza di determinati stati mentali. Per esempio, nella categoria che ha valore karmico, gli stati mentali salutari determinano tipi di coscienza salutari. Nella categoria di valenza emotiva i tipi di coscienza vengono determinati dalla presenza di stati appartenenti al gruppo delle sensazioni (piacere e dolore mentale, piacere e dolore fisico, e indifferenza). Nella categoria di valenza intellettuale, la presenza o assenza di illusione determina se quel particolare tipo di coscienza è collegato alla conoscenza, non collegato alla conoscenza o se invece è collegato a idee sbagliate. E nella categoria di valore volitivo la presenza o assenza di dubbio e decisione determina se quel tipo di coscienza è indotto o non indotto, spontaneo o non spontaneo.

Quindi le quattro classificazioni soggettive della coscienza ci chiariscono soltanto in che modo i vari tipi di coscienza sono determinati dalla presenza di stati mentali appropriati: salutari, non salutari, collegati alla conoscenza, ecc.

Infine vorrei esaminare il modo in cui gli stati mentali operano nel contrapporsi ai rispettivi tipi di coscienza. E questo è interessante perché l’analisi abhidharmica della coscienza è stata talvolta paragonata all’analisi degli elementi della Tavola Periodica, a seconda dei loro rispettivi valori atomici. Non si può evitare di rimanere sorpresi dalle proprietà quasi chimiche degli stati mentali. Come in chimica una base neutralizza un acido e viceversa, così nell’analisi della coscienza uno stato mentale neutralizza altri stati mentali e viceversa.

Per esempio, nei fattori di assorbimento (vedi cap. XVIII) i cinque stati mentali neutralizzano i cinque impedimenti (l’applicazione iniziale neutralizza indolenza e torpore, l’applicazione sostenuta neutralizza il dubbio, l’interesse neutralizza l’ostilità, la felicità neutralizza l’irrequietezza e l’ansia, e l’unificazione mentale neutralizza il desiderio sensuale). Dove non c’è il rapporto di uno a uno, c’è un gruppo di fattori salutari che neutralizzano un singolo fattore non salutare o un gruppo di fattori non salutari (la fede neutralizza dubbio e illusione; l’equanimità e la tranquillità neutralizzano dubbio e ansia; la leggerezza, la duttilità, l’adattabilità, l’abilità mentale e gli elementi psichici neutralizzano indolenza e torpore, e così via). E di nuovo quando è presente la decisione non c’è il dubbio.

In questo modo i vari stati mentali salutari neutralizzano e si contrappongono a molti di quelli non salutari. La presenza di alcuni stati mentali elimina quelli opposti, e fa spazio per quegli stati simili ad essi.

Possiamo gradualmente cambiare e migliorare il carattere della nostra esperienza cosciente, comprendendo il rapporto tra coscienza e stati mentali, e coltivando gli stati mentali salutari.