IL LABIRINTO DEL SENSO

Di Alessio De Santa

(NOTA DEL CURATORE DEL SITO www.centronirvana.it)

(Si precisa che, con l’autorizzazione dell’autore, vengono pubblicate solo ALCUNE PARTI del testo in questione (anche se interamente integrali). Quelle cioè, ritenute particolarmente interessanti nel contesto dell’argomento metodologico dello Zen)

 

  

(Per chi desiderasse la lettura dell’intero saggio si prega rivolgersi all’Autore - Alessio De Santa <alessio.desanta@gmail.com>

IL LABIRINTO DEL SENSO (Analisi sociosemiotica di 101 storie zen)

Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione -

UNIVERSITA’ VITA-SALUTE SAN RAFFAELE FACOLTA’ DI PSICOLOGIA

Relatore: Antonio Santangelo - Elaborato finale di: Alessio De Santa

matr…….001891 - Anno Accademico 2008/2009

 

PREFAZIONE:

Questo elaborato contiene l'analisi sociosemiotica delle storie contenute nel libro “101 storie zen”, di Senzaki e Reps (1957). Ho condotto quest'analisi prendendo spunto dal lavoro di Propp sulla fiaba russa, e dalla nota rielaborazione che di questo diede Greimas, fornendo strumenti per l'analisi dei rapporti tra personaggi e oggetti di valore nelle storie.

In buona parte l'analisi è stata condotta proprio utilizzando questi strumenti che si sono rivelati essere molto efficaci, nonostante la differenza di tempo e di spazio che separa autore di quei testi e noi come lettori. Proprio per tenere conto di questa lontananza ho fatto largo uso del lavoro di Lévi-

Strauss sui miti, e della rielaborazione che di questo ha dato Ferraro ne “Il linguaggio del mito” 2001).

Inoltre ho usato strumenti di semiotica interpretativa, soprattutto nell'analizzare testi, che sembravano molto vicini alle nostre barzellette. Mano a mano che estraevo le meccaniche di senso dalle storie, ho continuamente rimesso in discussione il senso che ne veniva estratto, aggiornandolo mano a mano che altre storie venivano analizzate, seguendo quella circolarità che Lévi-Strauss prospettava per l'analisi testuale del mito. Ho dunque cercato di spingermi ancora oltre, confrontando i risultati raggiunti con l'analisi di forum di discussione su Internet delle storie zen e di focus group realizzati ad hoc.

In conclusione, ho trovato utile servirmi di alcune teorie psicologiche per studiare l'analisi delle tecniche persuasive contenute nei testi, nello specifico quelle della “pragmatica della comunicazione” di Watzlawick. Ho trovato infine fondamentale analizzare il rapporto dei testi con il problema del

desiderio, uno dei temi più centrali nella disciplina zen.

Noi siamo grati a chi riesce ad allestire mondi, sono assicurazioni contro il caos, sono organizzazioni

salvifiche del reale. (Baricco A. 2001, p. 42)

Per parlare del mondo reale, per realizzare quell'impresa assurda che consiste nel comprenderlo, è necessario [...] applicare la narrazione al mondo, selezionarne pochi caratteri distintivi, tracciarvi una direzione, introdurvi il senso. (Volli U. 2002, p.315)


 

INTRODUZIONE

Lo zen, come anche altre discipline orientali, è sempre stato guardato dall'occidente con una sorta di diffidenza e, allo stesso tempo, di ammirazione. È come se fossimo certi che qualcosa ci sia da impa-rare, ma molto meno su dove questo si trovi. In più di un'occasione, proprio questa confusione sul punto focale delle discipline orientali ha fatto scambiare il mezzo per il fine, la tecnica per l'arte. Le stesse storie, le stesse parole dei monaci, le conferenze tenute per spiegare la loro filosofia, avevano il risultato – in parte atteso – di lasciare sconcertati coloro che si avvicinavano per la prima volta alla

cultura orientale.

L'ambivalenza strana dei concetti, il continuo ritrattare le posizioni, la sfinente ridefinizione dello stesso oggetto come disciplina, filosofia, arte e altro ancora, ha creato una diffusa sensazione di misticismo, per la quale ad oggi lo stesso zen prova una certa insofferenza. Non è scopo di questa tesi riaprire la questione dello zen in termini di spiritualità. – la beat generation ha versato fiumi d'inchiostro su questo argomento (fomentandone peraltro un'interpretazione marcatamente distorta) - ma piuttosto analizzare in chiave semiotica le storie che lo zen usa per diffondersi e per spiegarsi, cercando di esplicitare significati che spesso risultano oscuri a molti.

L'analisi è volta soprattutto a comprendere quale sia la fonte di questa confusione e confrontarla con gli scopi della disciplina, per capire se i testi di cui essa si serve le siano davvero funzionali. Tutta la ricerca parte infatti dalla convinzione profonda che le storie prese in esame, anche quelle che appaiono più buffe, o senza senso, devono per forza essere state create in una cultura in cui avevano un senso forte, e la comicità di cui esse erano vettori doveva essere stata studiata come funzionale a qualche scopo.

Il principio di fondo è lo stesso con cui Lévi-Strauss si è posto di fronte al mito sudamericano, ritenendo che classificarlo come semplicemente “strano” o “primitivo” volesse obbligatoriamente dire giudicarlo all'interno di basi culturali che noi diamo per scontate. L'argomento presenta anche inaspettati appigli verso gli studi di uno studente di scienze della comunicazione: oltre agli strumenti della semiotica, dei quali verrà fatto largo uso, non ho potuto ignorare collegamenti ad altre materie. Così è stato per tutto l'impianto di comunicazione integrata, dal concetto di brand fino alle tecniche di persuasione più spinte. Allo stesso modo, parlando di persuasione, ho fatto ricorso al la psicologia per giustificare la pressione sociale, alle teorie sulla personalità, alla psicoanalisi, fino alle tecniche di linguaggio come quelle studiate dalla scuola di Palo Alto.

Ovviamente, non mi è stato possibile approfondire i rapporti dello zen con tutte queste discipline e ho deciso quindi di farvi solo alcuni cenni, nel caso qualcuno fosse intraprendente abbastanza da continuare il lavoro. Ho mantenuto il focus di questa analisi, quindi, sui testi, cercando però di non

dimenticare che questi sono la diretta espressione dello zen, che si descrive a tutti gli effetti come una cultura dentro una cultura.


1. L'analisi

Una parte dell'analisi si è focalizzata, ovviamente, sui contenuti e sulle opposizioni valoriali che dalle storie zen possono essere estratte, cercando di capire quali interpretazioni ci offre il testo, quali vie percorre il senso. Alcuni concetti hanno bisogno di spiegazione per essere da noi compresi: ci mancano infatti le basi di cultura orientale. Altri invece sembrano alla nostra portata. La seconda componente della mia ricerca è volta invece a capire cosa, dell'architettura del testo orientale, arrivi fino a noi. È un lavoro di confronto tra le nostre categorie interpretative (occidentali, attuali) e quelle di chi ha scritto il testo (orientali, passate), finalizzato a individuare le nostre aspettative di lettori, e, allo stesso tempo, a comprendere se queste vengano più o meno disattese dal testo.

È qui che la battaglia tra le storie zen e il lettore si fa ardua: entrambi, infatti, mettono in gioco i loro stratagemmi e collaborano per produrre del senso. Il problema che ci si pone, allora, è proprio se le dinamiche che avvengono tra lettore e testo siano compatibili o meno, ovvero se le strutture offerte da un testo zen siano tuttora valide ai nostri occhi, e, nel caso non lo fossero, cercare di capire perché.

Un’altra questione, poi, è cercare di capire se gli strumenti che la semiotica usa per analizzare i testi narrativi funzionino anche con storie prodotte in contesti culturali lontani dai nostri. Il problema si pone quindi nei termini della validità degli strumenti in gioco: valutare che gli strumenti di semiotica utilizzati sulle storie zen non producono risultati vuol dire necessariamente ammettere che questi sono non sono universali, come invece credevano e credono tutt’oggi alcuni studiosi, ma piuttosto da una mente occidentale e per produzioni testuali occidentali.

Un'altra componente ancora della ricerca, minore anche se particolarmente interessante, è a parer mio quella dell'attualità dei contenuti, ovvero un breve confronto tra il messaggio delle storie e l'uso che se ne può fare oggi. Come il lettore vedrà, lo zen è tuttora, se bene inteso, simile alla psicoterapia, con una funzione chiara e definita che è l'abolire ogni forma di ansia e paura. Credo che niente si dimostri ad oggi più attuale di questo.

In chiusura ho due considerazioni da fare: la prima è che l'analisi risentirà probabilmente delle mie scarse conoscenze riguardo ad argomenti come la filosofia, non tanto perché lo zen sia una filosofia in sé (come vedremo, infatti, non è così), quanto piuttosto perché mi sono mancati strumenti concettuali per definire gli argomenti di cui si tratta, obbligando la mia tesi a restare ad un livello più strettamente testuale. Ho sentito questo limite soprattutto quando, e questo è il mio secondo punto, ho compreso come lo zen cerchi di dimostrarci, col mezzo delle storie, che la nostra percezione, il nostro modo stesso di guardare al mondo lo distorce. Dunque ho tenuto l'analisi più focalizzata sul meccanismo di divulgazione che lo zen applica, proponendo come soluzione se stesso a problemi somministrati tramite le storie.

Questo avviene secondo un meccanismo ben noto a chi abbia studiato comunicazione pubblicitaria, e tornano alla mente in proposito le parole di Marco Lombardi, in apertura del suo “Nuovo manuale di tecniche pubblicitarie”:“è interessante notare che, nel comunicare efficacemente, è come se il primo atto lo facesse il ricevente e non l'emittente.” (Lombardi, M. 1998, p.103)


 

1. LO ZEN

1.1 COS'È LO ZEN

[La superbia che può derivare dalla conoscenza dello zen] è il motivo per cui nei monasteri zen vengono assegnati vari compiti: ai novizi toccano compiti leggeri e, man mano che diventano anziani, compiti sempre più pesanti. Per esempio l'abate [...] è spesso quello che pulisce i gabinetti.” (Watts, A. su «Dharma» n. 19, 2005)

Lo Zen non è una setta ma un'esperienza.” (Senzaki, R. e Reps, P. 1973)

Se questa sera vi permettessi d'andarvene via con l'impressione d'aver capito qualcosa dello Zen, allora non avreste capito niente del tutto. Perché lo Zen è un modo di vivere, un modo d'essere, che non è possibile ridurre a un qualsivoglia concetto e perciò qualunque concetto, idea e parola che vi rivolgerò sarà finalizzato a mostrare, piuttosto, i limiti delle parole e del pensiero.” (Watts A., ivi)

Lo Zen, nella sua essenza, non è una dottrina. Non c'è nulla nello Zen da credere. Non è nemmeno una filosofia nel senso in cui intendiamo comunemente questa parola, ovvero un sistema di idee, una rete intellettuale con la quale catturare il pesce che è la realtà”. (Watts, A.,ivi)

Non puoi ottenerlo pensandoci, non puoi afferrarlo senza pensarci.” (antica poesia cinese)

Nella sua essenza, lo Zen è l'arte di vedere nella propria natura.” (Suzuki, D.T. 1975, p.21)

 

Quelli riportati sono diversi tentativi di descrivere cosa sia lo Zen. È molto interessante notare che non c'è una definizione che abbia caratteri di chiarezza o di esaustività. Sembra proprio che questo della definizione dell'oggetto sia un nodo fondamentale della questione Zen. Pare inoltre che questo sia un problema che anche le storie stesse trattano diffusamente, peraltro con il solo risultato – forse voluto, a questo punto – di produrre nel lettore l'idea di mistica confusione che chiunque può aver provato leggendo per la prima volta un testo del genere. Cosa sia l'illuminazione, fulcro fondamentale della disciplina zen, è ancora qualcosa di poco chiaro. L'atto dell'illuminazione è a volte legato ad un

ragionamento, a volte alla soluzione di un koan, a volte addirittura alla minaccia della morte, altre ancora allo spavento provocato dal maestro che, stufo delle chiacchiere, sbatte una mano sul tavolo.

Cosa sia lo zen viene dunque spiegato per assenza e per differenza: lo zen non è una disciplina filosofica, in quanto non è un pensiero né è frutto di un pensiero; lo zen non è una religione, in quanto il venerare è proprio una forma dell'avere legami, di cui lo zen è negazione. Non è neanche, come si vedrà in seguito, una regola di vita, in quanto è dell'eccezione e del buon senso quello di cui lo zen si alimenta.

La parola “zen”, in sé, significa meditazione, ma come si può leggere in “La via dello zen”:

“per quanto il nome zen significhi dhyana o meditazione, altre scuole di buddhismo esaltano la medita-zione in misura uguale, se non maggiore, che lo zen: e talora sembra che la pratica di meditazione formale non fosse affatto necessaria allo zen.” (Watts, A. 1957, p.70).

Dhyana è il termine sanscrito da cui deriva la parola giapponese zen, e con questa parola si intende uno stato di meditazione distinto dalla meditazione buddhista per il fatto che la meditazione zen non ha scopo. L'unico carattere peculiare dello zen sembra proprio essere questa mancanza di scopo finale, mancanza di attaccamento dalle cose. Questo comporta una serie di complicazioni ed implica-zioni, tra cui il fatto che il tentare di raggiungere l'illuminazione è per lo zen senza senso, in quanto l'illuminazione è la liberazione dall'attaccamento alle cose della mente, mentre il tentare è l'essere alla ricerca di qualcosa, due concetti che, come si può vedere, sono la negazione l'uno dell'altro.

Si giunge dunque a poter spiegare l'unica definizione in positivo che abbiamo trovato dello zen: lo zen è un'esperienza (Senzaki, R. 1957, et Watts, A. ivi). Non è la ricerca di qualcosa o il trovare qualcosa ma piuttosto un'attuazione istantanea. Proprio poiché la ricerca non può fare a meno di riempire la mente di oggetti che non sono qui e ora, la liberazione e l'illuminazione devono essere raggiunte in un'unica volta.

Lo zen è però anche un'esperienza letteraria. Se da una parte infatti il buddhismo parte dall'idea che la verità non possa essere detta, in quanto anche la verità, come l'illuminazione, è un'esperienza, e in quanto esperienza non sia oggettivabile (chiunque può arrivare ad una stessa considerazione da parti diverse), dall'altra parte le tracce che dello zen sono arrivate alla cultura occidentale sono per l'appunto tracce scritte. Come i testi si rapportino ad una serie di problematiche, tra cui, la principale, l'assenza dell'oggetto di cui si parla, è dunque parte dell'analisi del seguente capitolo.

Riguardo allo zen come branca del buddhismo è forse il caso qui di dare delle brevi delucidazioni, utili più che altro per inquadrare lo spirito entro cui i testi in analisi sono prodotti.

1.1.1 Storia breve dello zen

Lo zen prende le sue origini dal buddhismo indiano che va sotto il nome di Mahayana o Grande Veicolo, e dall'entrata di questo nella cultura cinese. Possiamo far risalire questo fatto al V° secolo, momento in cui, dopo vari contatti avvenuti attraverso la via della seta, viene finalmente tradotto in cinese il primo canone buddhista per opera di Bodhidarma, ritenuto tuttora uno dei fondatori dello zen. Lo zen nasce dallo scontro della cultura cinese, in cui spopolava il Taoismo, con la cultura indiana. Il risultato prodotto da questa frizione è quindi che il buddhismo viene ripulito di tutti i riti magici, che mal si adattavano alla pratica mentalità cinese. Lo stesso vale per i riti sacri, cui viene tolto ogni valore magico: la meditazione acquisisce carattere puramente mentale e di liberazione dalle paure e dalle ossessioni.

Nel sesto secolo, il buddhismo (e con lui lo zen) venne introdotto in Giappone, dove diventerà presto la religione principale. Questo fino al 1868, momento in cui viene sostituito dallo Shintoismo (impregnato comunque di cultura buddhista). La scuola zen sopravvive comunque alla restaurazione Meiji e rimane una delle scuole principali in Giappone, dove nasceranno diverse tecniche di combattimento, basate appunto su questo tipo di meditazione.

1.1.2 Terminologia

Colgo qui l'occasione per definire alcuni termini che verranno usati in seguito.

Koan: è una specie di indovinello la cui soluzione è la convinzione profonda che non ci sia una soluzione. I koan non vanno dunque risolti ma dissolti. Spesso venivano utilizzati nelle scuole, nei periodi di grande espansione dello zen, con lo scopo di saggiare la preparazione degli studenti ed ammetterli a livelli più alti della preparazione. Vi sono diverse raccolte di koan, tra cui la più famosa è certamente “La porta senza porta”, attribuito a Mumonkan. Un esempio di un koan particolarmente famoso è: qual è il suono di una mano che batte da sola?

Mondo, o anche wen-ta: letteralmente domanda-risposta (Watts, A. 1957, p.100), è un tipo di storia zen che comprende un dialogo tra il maestro e il discepolo. Spesso si conclude con l'illuminazione di quest'ultimo per opera di ciò che il maestro fa o dice. È curioso vedere come in “La via dello zen” (Watts, A. ivi, p.101) l'autore specifichi la natura non simbolica di questo genere di testi:

“qualunque cosa infatti il maestro zen dica o faccia è una diretta e spontanea espressione della quiddità, della sua natura di buddha. Quanto egli dà non è un simbolo ma la cosa vera e propria” (Watts, A. cit. p 101)

Un'altra nota: nell'esposizione della tesi si troverà la parola “Buddha” scritta in minuscolo in quanto non si riferisce al Buddha storico, ma piuttosto al titolo che da lui discende. Non essendo questo un nome proprio ma un aggettivo, traducibile come “l'illuminato” o “il risvegliato”, la corretta trascrizione è in minuscolo.

N.B.: La parte 2 – METODOLOGIA DELL'ANALISI – è tralasciata…

Si passa dunque alla parte 3/2 – ANALISI delle STORIE ZEN.


 

3.2 ANALISI DELLE STORIE ZEN

Come si vedrà, alcune delle storie compaiono in più di un gruppo, in quanto da un lato questi non sono mutuamente esclusivi, dall'altro i racconti possono presentare contemporaneamente caratte-ristiche di due o più gruppi. Nel classificarle ho comunque tenuto una linea di condotta, per cui se il testo propendeva decisamente per una modalità di esposizione, dedicando però uno spazio ridotto a un altro genere, ho attribuito la storia al gruppo che principalmente richiamava. Sono classificate in più di un gruppo solo le storie di cui non è chiaro lo scopo.

 

GRUPPO 1

Storie vere e proprie

Nonostante la dichiarazione di intenti del libro, non tutte le 101 storie riportate hanno caratteristiche di narrazione, almeno secondo la definizione che ne viene data dalla semiotica (si veda, per esempio, Marsciani, A. e Zinna, F. 1991, p. 55). Solo una parte esigua (circa la metà) ha una vera e propria narrazione al proprio interno, con personaggi che perseguono programmi narrativi e investono di valore determinati oggetti. Come vedremo queste sono le storie la cui analisi è più lineare, in quanto il valore proiettato sugli oggetti è esplicito. Questo gruppo comprende le storie: 1, 6, 8, 17, 19, 23, 28, 30, 37, 46, 47, 49, 50, 51, 52, 53, 60, 64, 67, 68, 79, 81, 83, 91, 92, 100

Storie di espedienti

È questo un gruppo piuttosto esiguo di storie particolarmente canonizzate, che ripropongono uno schema che sembra ripetersi in maniera molto simile: c'è un problema a cui un illuminato deve dare una soluzione e questa soluzione sembra essere propria della sua illuminazione. Sebbene il mecca-nismo di queste storie sia simile a quello delle precedenti, preferiamo tenerlo separato, in quanto l'analisi ha prodotto risultati interessanti. Questo sottogruppo comprende le storie: 2, 3, 4, 5, 8,14, 15, 19, 25, 32, 33, 35, 39, 40, 44, 45, 98.

Previsione di morte

Nell'analisi è risultato interessante isolare due storie che contengono entrambe l'atto della predizione della propria morte. Sebbene queste storie siano sempre comprese nel primo gruppo – quello delle storie vere e proprie – è bene analizzare questo punto a parte. Questo sottogruppo comprende le storie: 7, 10, 15 e altre che trattano l'argomento in modo trasversale, 56, 25.

GRUPPO 2

Descrizioni

Diversi racconti all'interno della raccolta si presentano come pure descrizioni di oggetti della cultura zen. Ne è un esempio la storia n.88, intitolata “Come si scrive una poesia cinese”, dove non c'è vera e propria narrazione, ma solo il presentare la poesia e spiegarne il funzionamento. Sembra che lo scopo di questi testi sia rendere in qualche modo desiderabile l'oggetto di cui parlano.

Questo gruppo comprende le storie: 8, 11, 12, 13, 16, 21, 22, 27, 29, 31, 32, 34, 36, 38, 41, 50, 54, 56, 59, 61, 63, 67, 69, 73, 75, 77, 78, 81, 84, 86, 87, 88, 93, 95, 96, 98, 99, 101

Koan

Come spiegato in precedenza, il koan è una specie di indovinello che non ha risposta, fatto per ingannare la mente. Diverse storie contengono un koan, ma come vedremo dall'analisi, mentre alcune parlano di un koan (il koan è parte della trama), altre sono propriamente dei koan, ovvero si pongono come indovinelli la cui soluzione è la dissoluzione degli stessi. Definiamo questo come sottogruppo dei due gruppi citati prima (storie vere e proprie e descrizioni), in quanto in base a come viene usato il koan all'interno della storia essa può far parte di una oppure dell'altra categoria. Questo sottogruppo comprende le storie: 17, 18, 21, 25, 42, 97

GRUPPO 3

Umoristiche

Questo gruppo raccoglie storie che sono di puro stampo comico/umoristico, cioè il cui fine è di far soprattutto sorridere. Analizzeremo in seguito come queste storie abbiano “qualcosa di zen”, soprattutto grazie a strumenti di semiotica interpretativa.

Questo gruppo comprende le storie: 24, 26, 42, 70, 71, 76, 89, 90

3.3 ANALISI DEL GRUPPO 1 - Iniziamo l'analisi del primo gruppo. Ho estratto alcune storie particolarmente rappresentative: 49, 60, 92. Ne riporto qui esclusivamente il riassunto, in quanto basta il susseguirsi dei fatti per portare avanti l'analisi.

49. Una monaca aveva costruito una statua in oro del Buddha. Girovagò per anni in cerca dell'illuminazione. Si fermò in un tempio dove c'erano diverse statue del Buddha. Bruciò dell'incenso, ma non volendo che il suo incenso arrivasse agli altri Buddha fabbricò una piccola canna fumaria che arrivava dritta al naso del suo Buddha. Il fumo rese nero il naso del suo Buddha.

60. Un uomo viene còlto in flagrante con la moglie di un altro. Scappa con la donna dopo averle ucciso il marito, i due diventano dei ladri. L'uomo lascia la donna in quanto troppo avida, e diventa un mendicante. Avendo sentito di una strada impervia, che aveva causato la morte di molte persone, decide di scavare una galleria. Ci impiega trent'anni. Due anni prima di finire il lavoro viene trovato dal figlio dell'uomo che ha ucciso, che cerca vendetta. L'uomo riesce a convincere il ragazzo ad aspettare che abbia finito di scavare la galleria, poi lo può uccidere e lui non farà resistenza. Una volta ultimata la galleria l'uomo si offre al ragazzo. Il ragazzo non lo uccide ma diventa suo discepolo.

92. Un monaco parla ai suoi discepoli di una donna la quale ha una sala da tè ed è una grande conoscitrice dello zen. Così i discepoli si recano dalla donna. A quelli che chiedono del tè la donna lo versa tranquillamente. A quelli che chiedono di discutere dello zen la donna dà un colpo in testa con un attizzatoio.

3.3.1 Analisi della storia n. 49 - Cominciamo con l'analisi della storia 49, in quanto si differenzia da molte altre non presentando la tipica coppia del maestro e del discepolo. La donna viene rappresentata da sola, in compagnia del suo Buddha d'oro. È esplicitato da subito quello che formalmente ella si pone come oggetto di valore, ovvero l'illuminazione. Per perseguire la disciplina zen questa donna sembra disposta a lasciare tutto e girovagare da un tempio all'altro per diversi anni. Questo, del resto, è in linea con diverse altre storie, che il lettore avrà probabilmente già avuto modo di incontrare.

A differenza di altre storie, però, qui non c'è un destinante, come può essere un maestro, a segnare la strada verso l'illuminazione. Piuttosto è la protagonista la destinante di se stessa: è lei ad investire di valore l'oggetto “illuminazione”. Ci rendiamo presto conto, però, che c'è un modo sbagliato di valorizzare l'illuminazione, ed è quello che mette in atto la donna: ella ricopre d'oro il suo Buddha (rendendolo implicitamente diverso dagli altri, e questo tornerà importante in seguito), e fa diventare la statua sua compagna di viaggio. La donna, dunque, si lega ad un preconcetto che ha nei confronti dello zen: crede di sapere cosa sia lo zen, scambiandolo per una adorazione del Buddha in una forma fisica, e mette tutta la sua energia in questo, ricevendo però frustrazione.

C'è inoltre da affrontare un importante discorso sul valore dell'egoismo, che qui vediamo essere incarnato dalla donna, con la sua volontà di non far arrivare il proprio incenso agli altri Buddha. Come si vede, in questa storia la categoria dell'/individuo/ è opposta alla categoria della /collettività/, con una forte inclinazione verso la seconda, poiché la donna egoista (quindi volta all'individuo) viene punita dall'economia della storia. Mettendo in relazione questa storia con altre (ad esempio con la 15 e la 47) ci accorgiamo che l'opposizione qui riscontrata non solo è rara, ma è anche apertamente opposta a quella che altre storie riportano. Posto che discuteremo del rapporto dello zen con i valori in un paragrafo apposito, ci basti per ora ragionare sul fatto che i valori da questa disciplina proposti passano spesso per un “buon senso”, tramite il quale il monaco riesce a fronteggiare le situazioni, senza ricorrere ad un sistema di regole esplicitato e condiviso. Per questo motivo, possiamo spesso trovare storie con opposizioni di significato contrastanti nello stesso corpus. Anticipiamo già che c'è di

fondo una regola generale per quello che abbiamo definito buon senso, regola che ho riassunto in un'opposizione semantica che è quella della /apertura/ opposta alla /chiusura/. Sembra infatti che il minimo comune denominatore tra le storie che presentano significati opposti sia proprio il fatto che l'eccesso in una o nell'altra categoria può tornare utile in una determinata situazione, ma che questo non può venire preso come regola generale, in quanto l'unica regola che sottostà a tutte le altre è l'apertura verso i fatti e le cose del mondo. Da qui si può vedere come lo zen abbia una visione profondamente pragmatica rispetto ai suoi valori, ai quali ci si avvicina cercando sempre una via di mezzo tra gli estremi.

Ci viene dunque detto che il Buddha della protagonista viene portato attraverso le sue peregrinazioni. Anche questo è molto importante nell'ottica buddhista, in quanto il legarsi alle cose terrene diventa presto un allontanarsi dallo scopo dello zen, e questo, sebbene sembri un'ipotesi un po' labile al momento - e quindi ci ripromettiamo di avvalorarla in seguito - è chiaro nell'opposizione del /trattenere/ (qui, il portare) in contrasto con il /lasciare/, rivolto sia ai propri preconcetti, sia alle proprie aspettative, sia ai propri legami con le cose terrene.

La donna non si libera del suo concetto di zen, seppure risulti sbagliato e frustrante, ma si mette tristemente al servizio di una statua. Dunque, nella logica della storia, ella verrà punita, con la conclusione apertamente disforica che possiamo leggere nell'ultima frase del racconto: “così il naso del Buddha d'oro diventò nero, rendendolo particolarmente brutto.” Percepiamo inoltre, anche se non ci viene detto, che la donna sarà pesantemente frustrata da questo fatto, e questo perché il Buddha d'oro è diventato il suo oggetto di valore, sostituendo l'illuminazione, che lei dunque pensa come conseguenza di una buona venerazione. Sembra così che il diventare nero del naso del Buddha sia in qualche modo il completarsi del modello canonico della narrazione: la manipolazione della donna su se stessa nell'attribuire valore all'illuminazione porta ad una competenza in qualche modo deviata, che le fa mancare la performanza (non c'è di fatto un'illuminazione), e dunque la sanzione del Buddha è la ricompensa che si merita, il fatto che il suo Buddha sia più brutto degli altri.

La cosa interessante di questa storia è che essa raccoglie una serie di opposizioni valoriali delle quali vediamo solo un lato, che ci viene apertamente descritto come negativo nella conclusione. È bene qui scriverle e ragionarci un po', perché questo ci permetterà poi di completare queste opposizioni mettendole in relazione con quelle dedotte dall'analisi di altre storie.

Come detto, da una parte vediamo la donna /portare/ una statua del Buddha, cosa che in seguito viene presentata in maniera disforica. Intuiamo che il /lasciare/ sia una buona alternativa, ma l'argomento non è trattato nella storia presente. Ragioniamo dunque sulla statua d'oro, pensandola come simbolo formale della disciplina zen. Abbiamo anche la categoria della /superficie/ (la forma) rispetto alla /profondità/ (la sostanza, il valore profondo) dei fatti, o, secondo un altro modo di esprimere lo stesso concetto, la /materialità/ opposta alla /spiritualità/.

Vediamo qui come l'illuminazione, che potrebbe essere concepita come qualcosa di intangibile da una mente occidentale, venga di fatto posta dal lato della sostanza, all'opposto della statua che è forma. La statua d'oro può anche essere presa sia come simbolo del legame alle cose terrene, sia come attaccamento ai propri pregiudizi, visti entrambi in termini disforici, di cui però non troviamo una diretta alternativa. Di come questa strategia testuale si leghi male al significato della storia parleremo più approfonditamente nelle conclusioni.

Possiamo concludere questa breve analisi con una nota. Si tratta di una frase molto diffusa nella dottrina zen: “Se incontri un Buddha per strada uccidilo”. La storia che abbiamo analizzato sembra una sua parafrasi, per certi versi. Da come possiamo leggere in “La via dello zen”, quello che si intende con questa frase è in realtà duplice. Nella sua accezione più facile, essa significa che il Buddha, in quanto tale non deve essere preso come una figura di riferimento, e questo sempre per il fatto che essendo lo zen un'esperienza – quindi essendo diverso per ognuno – seguire un Buddha vuol dire non raggiungere mai la propria illuminazione. Dall'altra parte il Buddha, in questa accezione,

simboleggia anche uno standard esterno, ovvero sta per la buddhità: lo zen stesso rifugge un metro di giudizio e bisogna farne a meno, se non si vuole cadere nell'errore di pensare che l'illuminazione arriverà per gradi, ovvero che sarà un processo compiuto in piccoli passi.

3.3.2 Analisi della storia n. 60

Introduciamo dunque l'analisi del secondo racconto preso in esame, il numero 60. Ci viene presentato un uomo con dubbie qualità morali: egli non si fa scrupoli a rubare la donna di un altro. Una volta scoperto, lo uccide. Quindi si lascia andare a diventare un ladro e poi ancora un mendicante. La sua posizione peggiora al degradarsi della sua morale: da uomo “al seguito di un alto funzionario”, si ritrova presto a vivere della pubblica benevolenza. Infine arriva la conversione, quando decide di darsi da fare: lavorare per la pubblica utilità riscatterà la sua anima.

Cosa abbia a che fare questo racconto con la raccolta di storie zen lo capiremo alla fine. Tutto d'un tratto, ci accorgiamo di un fatto che è successo sotto i nostri occhi: l'uomo da assassino è diventato un maestro zen. È talmente chiara la conversione, che persino il ragazzo accecato dall'ira per l'uccisione di suo padre non può che rimanerne affascinato.

La differenza con la storia precedente è lampante: l'uomo qui non cercava in nessun modo l'illuminazione, né aveva chiesto consiglio a qualche maestro zen. Quello che voleva fare era riscattare la sua anima; in qualche maniera, liberarsi del peso di ciò che aveva fatto attraverso un lavoro durissimo. Di nuovo abbiamo la categoria semantica del /portare/ (avere il senso di colpa) opposta al /liberarsi/ (espiare). Anche il ragazzo viene messo di fronte a una questione che è zen: la sua rabbia (movimento dell'animo) viene messa contro la costanza dell'uomo (pace dell'animo), che con una determinazione impressionante scava ogni notte attraverso la montagna. Dunque può tornare utile trascrivere la nostra storia con l'espediente del quadrato semiotico di Greimas, in questo modo:

pace --------------------- rabbia

(uomo – altruismo) (ragazzo - vendetta)

|                                         |

non rabbia -------------------- non pace

(ragazzo – perdono) (uomo prima del lavoro)

Come sostiene Greimas (si veda Marciani,F. e Zinna,A. 1991, p.49) è possibile utilizzare il quadrato semiotico anche come strumento dinamico, assecondando l'andamento della storia. Proviamo a seguire il racconto nel suo svolgersi: dapprima c'è un uomo che (lato in basso a destra) non si dà pace, è in preda alle passioni e rovina tutto quello che possiede per inseguirle. L'uomo trova dunque la pace (lato alto sinistra) nel duro lavoro della costruzione della galleria, cosa che gli richiede costanza d'animo. Un ragazzo accecato dalla rabbia per l'uccisione di suo padre vuole vendetta (lato alto destra) ma restando a contatto con l'uomo impara la costanza dell'animo (perdono) e si libera anch'egli delle passioni.

Possiamo collegare questo racconto al precedente in un'altra maniera: l'uomo è occupato dalle passioni, cerca fuori da sé la soddisfazione senza trovarla, porta il peso delle stesse. Egli si libera di questo peso nel dare la sua vita per gli altri, e la stessa cosa funziona per il ragazzo che lo accompagna: dapprima porta il peso della rabbia e della volontà di vendetta, poi di colpo (aiutando l'uomo negli scavi, quindi sempre dimenticando se stesso in favore degli altri), se ne libera.

Di nuovo l'opposizione è tra il /portare/ e il /lasciare/. Avere la mente libera è lasciare tutti i pensieri e le tentazioni. Un fatto, questo, che scopriamo essere profondamente collegato allo zen.

Troviamo qui di nuovo anche le opposizioni tra /individuo/ e /collettività/, espresse visivamente nel quadrato semiotico sotto:

singolo ------------------- società

                                                                Y                                 Y

non società ------------------ non singolo

L'uomo, all'inizio della storia, vive per se stesso, uccidendo chi si mette tra sé e le passioni che persegue, passando dal lato del singolo al lato, in basso a sinistra, della non società. Questo sia in termini di non socialità (l'egoismo), sia nei termini della conduzione di un'esistenza da fuorilegge.

Dunque, attraverso il mezzo del lavoro, egli può esprimere il suo cambiamento valoriale: ha abbandonato il suo egoismo (lato in basso a destra, del non singolo) ed è pronto per entrare nella società (si noti, tra l’altro che quello è esattamente il momento in cui il ragazzo lo riconosce come maestro). Posso dunque introdurre un altro punto focale: spesso le storie zen trattano del rapporto con l'oggetto di valore; e spesso del cambiamento di questo (o meglio dello spostamento di valore da un oggetto ad un altro). Possiamo qui vederlo in entrambi i personaggi, ma forse è più evidente nel ragazzo: arriva dall'uomo avendo come oggetto di valore la vendetta. Accecato dalla rabbia, egli sta male e in qualche maniera crede che troverà la pace solo quando avrà ucciso colui che ha dato inizio a questo dolore. Stando a contatto con l'uomo, però, probabilmente il ragazzo capisce un precetto fondamentale dello zen:

la mente libera dalla tirannia delle passioni è l'unico scampo dal dolore. Dunque libera la sua mente e si trova pronto per imparare.

Si noti, infine, che, come nella storia precedente, la figura del destinante è sempre sovrapposta alla figura del destinatario, ovvero in entrambi i casi il contratto è interno al personaggio. Nel primo caso esso non si realizza, mentre nel secondo, come abbiamo visto, viene realizzato.

3.3.3 Analisi della storia n. 92

Per l'analisi del terzo brano ci troviamo di fronte alla figura di un maestro zen che funge da destinante per i suoi allievi. Egli lo fa secondo il modo zen, non essendo cioè impositivo, ma persuasivo. Dunque, non imponendo ai ragazzi di andare dalla proprietaria della casa da tè, ma piuttosto rendendo loro l'offerta allettante. Il maestro non modalizza dunque secondo un dover fare, ma piuttosto secondo un voler fare. I due gruppi di studenti possono qui essere considerati come due attanti corali: il primo gruppo chiede di bere il tè, e la richiesta viene esaudita. Il secondo gruppo invece, chiedendo di parlare dello zen, per tutta risposta si prende una fortissima botta in testa.

Solitamente, il lettore rimane sconcertato di fronte a questa storia perché, ad un primo sguardo, essa può apparire senza nessun senso, e soprattutto sembrare mancante in qualche sua parte fondamentale. Per cercare di comprenderla nel dettaglio, ritorniamo alle basi: abbiamo detto che lo zen è un'esperienza e che parlarne è valutato come una totale perdita di tempo. Inoltre, è bene spiegare qui che in Giappone a tutt'oggi l'arte di versare il tè è giudicata, insieme all'arte di disporre i fiori e al tiro con l'arco, un atto zen in cui si scopre la magia nelle più semplici e ordinarie cose della vita quotidiana. (Watts, A., cit.)

Dunque, quello che questa storia sta cercando di fare è significare lo zen, mettendolo in pratica: vediamo alcuni studenti che, chiedendo del tè, hanno esperienza dello zen. Viceversa altri studenti, chiedendo di parlare dello zen, vengono puniti, perché dimostrano di non aver capito un fondamento di quello che stanno studiando. Di nuovo la storia analizza i rapporti dei personaggi con gli oggetti di valore, sottolineando il rapporto tra la superficie delle cose e la loro sostanza: i ragazzi che vogliono parlare di zen cadono nell'errore di scambiare la parola per il significato, opposizione che le storie

zen cercano di riportare a galla.

Possiamo quindi paragonare in qualche maniera le storie 49 e 92 in quest’ottica: entrambe ci mostrano due modi sbagliati dello zen, due modi che mancano il significato delle cose per fermarsi al loro significante (il Buddha per l'illuminazione e il parlare di zen al posto dell'atto dello zen). Ci avviciniamo dunque a capire le modalità in cui le storie si trovino ad avere a che fare con un argomento sfuggente come quello dello zen. Talmente sfuggente che il solo parlarne crea un allontanamento dal fatto puro, dalla pura esperienza, come se nel guardare una statua od un disegno di un cavallo noi pensassimo di poter imparare a cavalcare. Le storie zen spesso, dunque, utilizzano la superficie sensibile del testo per mettere in discussione la nostra interpretazione.

3.3.4 Considerazioni preliminari

Lo scopo di questa analisi è capire prima di tutto se ci sia un meccanismo comune di funzionamento delle storie, e in seguito cercare di comprendere se esso abbia qualche particolare collegamento con il loro significato. Detto in termini semiotici: se la sintassi narrativa superficiale del testo rispecchi e quindi aiuti la formazione del significato. Il meccanismo comune sembra trovarsi nel modo in cui si presentano e vengono usati i personaggi. Benché non ci venga mai descritto il loro stato d'animo, seguendo le vicende e il percorso delle loro azioni, ci accorgiamo che ogni personaggio ha sotteso

un programma narrativo che lo fa agire, da cui possiamo dedurre i suoi valori. Dunque il finale premia o castiga il personaggio a seconda che la sua condotta rispecchi o meno i comportamenti prescritti dallo zen zen (1).

 

Nota 1: Come detto in precedenza, va sottolineato, comunque, che sebbene quella appena descritta sia la normale struttura di ogni narrazione (per lo meno, di buona parte delle narrazioni), non necessariamente tutte le storie zen la rispettano, come si vedrà meglio con il procedere dell'analisi del secondo gruppo.

 

Ora, cerchiamo di capire come questo possa conciliarsi con alcune delle opposizioni valoriali che finora abbiamo estratto dalle storie. Abbiamo sottolineato nell'analisi della terza storia - e ci capiterà di evidenziarlo ancora in seguito - come i maestri, in veste di destinanti, difficilmente modalizzino in un dover fare i loro precetti. La disciplina zen, - lo si vedrà anche nell'analisi delle storie di espediente - cerca di essere persuasiva piuttosto che impositiva, in quanto questo incarna il valore dell'/assecondare la natura del mondo/, opposto spesso al /cercare di cambiarla/. Comprendiamo, quindi, che l'assecondare la natura del mondo non vuol dire banalmente accettare tutto quello che dal mondo ci arriva, ma piuttosto cercare di usare gli “spigoli” che questo offre, come appigli.

Quello che la superficie del testo si propone di fare qui è esattamente ciò che un monaco farebbe con noi se fossimo suoi discepoli. Ci presenta delle condotte di vita che hanno come risultato una frustrazione o una punizione, rendendoci dunque appetibile la “via zen”.

Il lato persuasivo dei testi zen inizia a fare capolino e ci risulta quindi facile fare un paragone con qualcosa di molto attuale: la pubblicità, ovvero un testo brevissimo che ci presenta una situazione di difficoltà, la cui soluzione è data dal prodotto che viene venduto. In questo caso, dall'adozione dello zen. Certo, il fatto che alcune di queste storie abbiano una morale comincerà a suonare strano soprattutto in seguito, quando vedremo che il discernimento, l'atto di distinguere le cose, è in sé presentato come operazione negativa che la nostra mente fa naturalmente, rendendoci il mondo da una parte più semplice (dividendolo in bene e male, lo semplifica), dall'altra parte allontanandoci dalla verità ultima, ovvero dal fatto che non c'è nessuna verità.

Così lo zen cade in un paradosso davvero interessante: la verità, per come viene prospettata dallo zen, non è spiegabile, né dunque è spiegabile lo zen stesso. Purtroppo la superficie testuale, per le sue stesse caratteristiche, mal si adatta a un non-oggetto e dunque cercherà degli espedienti per cercare di spiegarlo, a volte per differenza, altre per omissione, altre ancora con delle similitudini, e infine utilizzando la superficie testuale per mettere in crisi il nostro sistema di decodifica.

Il caso del racconto per differenza è quello della prima storia analizzata, dove si vede la negazione di un lato di un'opposizione semantica, mentre l'altro non viene mostrato. È come se la storia ci dicesse di guardare cosa non è zen e ci facesse un esempio.

Ovviamente, per ottenere certi effetti, essa si appoggia in parte alla nostra conoscenza pregressa sullo zen, una specie di enciclopedia che contiene immagini di Buddha felici e monaci che hanno eliminato la sottomissione alle passioni. In questo modo il personaggio della donna che porta la statua ci appare subito brillare per differenza.

Il caso dell'omissione è invece quello della seconda storia analizzata, dove vediamo un uomo rovinare la propria vita e quindi convertirsi. Sappiamo che in lui c'è stato un cambio di valori, che ci appare lampante dal cambiamento del suo programma narrativo: nella prima parte della storia, egli cerca di perseguire le passioni, nella seconda si dà al duro lavoro e cerca di riscattarsi.

Ma cosa sappiamo davvero dell'illuminazione? Non ci viene detto quando è avvenuta né come, né quale sia la causa. Neppure lo stesso protagonista sembra essersene accorto. Sembra che la storia mantenga volutamente le distanze dal tentare di spiegare il fatto, rimanendo distante dall'interiorità dei personaggi.

Per il caso delle similitudini rimando al capitolo intitolato “Lo zen e i simboli”, dove si tratterà appunto il rapporto controverso che lo zen ha con queste forme di significazione particolari, e al paragrafo di analisi delle storie descrittive.

Il quarto caso (superficie testuale) si presenta più problematico, e quindi più interessante. Cerchiamo anche induttivamente di seguire il percorso che la terza storia ci chiede di fare: un professore ci presenta un'occasione di conoscere qualcuno che ha una profonda dimestichezza con la disciplina zen, che noi stiamo tentando di imparare. Dunque ci rechiamo nella sala da tè e anche a noi verrebbe naturale fare quello che buona parte dei discepoli fa: chiedere dello zen. Il testo ci presenta quindi una situazione piuttosto paradossale che, se non abbiamo una conoscenza basilare della materia, ci induce a dedurne una regola sbagliata: gli studenti che vogliono lo zen vanno in una sala da tè e chiedono il tè, non lo zen.

Questo instaurerebbe in noi occidentali una specie di paura dell'errore, che vedrebbe premiato in realtà il discepolo che non chiede, in quanto a colui che non chiede viene offerto del tè e non una vergata in testa. Possiamo valutare questo genere di cattiva interpretazione come la base di alcuni pregiudizi verso la cultura orientale.

Non la prendiamo quindi per buona, ma ragioniamo ad un livello più profondo. Lo zen, secondo la logica della storia, è il tè. Come abbiamo spiegato in precedenza, in una certa accezione questa cosa è vera. Dobbiamo però andare nel dettaglio, per non sbagliare: l'atto del versare e bere il tè nella cultura orientale è l'attuazione dello zen. E poiché lo zen è attuazione, il bere il tè è lo zen.

Sembra un gioco di parole ma questo è un punto focale molto importante per non caderenell'errore di pensare che l'atto del bere il tè sia in questa storia un paragone, ovvero che sia un po' come lo zen sotto certi aspetti. Non è così: esso è propriamente zen per la distensione e la libertà da pensieri di cui è attuazione.

Peggio ancora sarebbe pensare che sia un simbolo, ovvero che stia in realtà a significare lo zen. Come ho spiegato, non è così. La purezza di questo racconto sta proprio nel fatto che esso riesce a far funzionare la superficie del testo per portarci, se ascoltato bene, ad intendere una sottigliezza. Qui la superficie testuale viene usata per ingannare la nostra induzione sulla storia: essa vuole proprio portarci a fare il percorso che fanno gli studenti che prendono il colpo di attizzatoio in testa. E lo fa in un modo molto intelligente, basato sull'idea - che introdurremo nelle prossime analisi - dell'espediente zen.

Per ora ci basti sapere che il funzionamento è molto simile alle arti marziali, in cui un combattente utilizza la forza dell'altro per disporne a suo favore. Nella stessa maniera il testo qui prende la nostra furia interpretativa e la fa ricadere contro di noi. Da una storia zen, infatti, ci si aspetta una cosa piuttosto basilare: che parli dello zen. Non ci dobbiamo però stancare mai di ripetere che non si può spiegare lo zen. L'atto del discutere dello zen, d’altra parte, era chiamato dai monaci “puzzare di zen”, proprio per la sua inutilità che dichiarava, in chi lo praticava, di non aver capito granché della disciplina. Dunque il nostro stesso approccio alla storia è sbagliato, ed è quello che questa storiella sottolinea. Prima di tutto, essa ci mostra come la nostra stessa aspettativa sia sbagliata, in quanto l'aspettativa in sé è sbagliata.

In semiotica si chiama topicalizzazione di un testo la risposta che viene data alla domanda: di cosa parla questo testo? Verrebbe dunque spontaneo sostenere che “101 storie zen”, parli dello zen. Questo però, come detto, è un misto di impossibile e inutile. Dunque la storia punisce i discepoli, e noi assieme. I discepoli per la loro aspettativa di sapere lo zen, e noi per lo stesso motivo.

Il significante del testo qui si fonde fortemente con il suo significato, producendo un effetto simile a quello studiato da Jakobson per il linguaggio poetico, in cui il modo di raccontare si fonde con il significato e lo produce. Il discorso è molto simile a quello prodotto dall'analisi di Ferraro (2007, p.92) del film Apocalypse Now, in cui, sottolinea l’autore, il regista si trova nel paradosso di voler descrivere gli errori e la limitatezza della visione americana del mondo attraverso la visione americana stessa, risolvendo questo paradosso con una serie di artifici di camera e di ripresa, e dando così la sensazione di straniamento e ansia che quel film produce. Così facendo, Coppola prende la struttura discorsiva superficiale e la fa diventare componente fondamentale del significato del film. Ferraro in quel caso parla di una riproduzione mimetica, nel senso che il piano del significante, da mero trasportatore del significato, viene permeato dal significato e si trova a produrlo. Alla stessa maniera ha funzionato questa storia.

3.3.5 Valori zen e superficie del testo

Siamo arrivati a dire che lo zen mette in crisi il nostro sistema di decodifica, e siamo giunti a scoprire che lo fa con l'utilizzo di tecniche vicine alla poesia, a quelle usate da Francis Ford Coppola, e alle arti marziali. Ma perché lo fa? La risposta non è semplice, ma forse si può cercare di collegare alcuni concetti sparsi e vedere se ci danno qualche indizio. Bisogna prima di tutto cercare di capire che ogni cultura ha radicata una certa grammatica dell'esistente, ovvero una simbolizzazione delle cose, la quale è categorizzazione delle stesse. Essa le ordina e le raggruppa, opponendole spesso per differenze. Questa simbolizzazione è un atto che il singolo pratica quotidianamente, traendo il suo modo di pensare da strutture per l’organizzazione dell’esperienza che egli condivide collettivamente con i membri della propria società.

Questo possiamo dedurlo ricordando l'esempio Saussuriano della lettera “T” scritta su un foglio che, seppure cambi l'inchiostro o la calligrafia, viene sempre riconosciuta come lo stesso carattere, proprio in virtù della condivisione simbolica che facciamo dell'esperienza a livello sociale. La semiosi che noi condividiamo è in maniera indiscussa positiva, in quanto ci permette di comprenderci tra noi e di comunicare sui fatti del mondo. Sull'altro versante però, ci rende schiavi di un certo modo di vedere le cose, poiché agisce a un livello di cui noi non ci rendiamo neanche conto, essendoci immersi dentro.

Questa caratteristica di filtrare i fatti del mondo attraverso i segni è propria della razza umana e comincia nel periodo detto dell'ontogenesi, nei primi mesi di vita. Il bambino, in questo periodo, si trova a sperimentare l'ambiente circostante e cerca di ordinarlo secondo sequenze che possono essere chiamate proto-narrative, che sono utili per renderlo controllabile e meno spaventoso. La narrazione dunque può essere pensata come il collegamento di episodi altrimenti separati.

Il buddhismo ha molto riflettuto su come questo genere di attribuzione di collegamenti, che noi abbiamo scoperto essere narrativi, vada contro la nostra felicità, in quanto fondamentalmente ci induce in due tipi di errore di valutazione della realtà. Il primo è che, essendo così abituati all'unione stretta che sta tra i fatti del mondo e i segni che usiamo per renderli intelligibili, ci troviamo spesso a scambiare gli uni per gli altri. Un esempio diffuso è quello del lampo: noi diciamo che un lampo ha illuminato il cielo, ma ragionando sui fatti il lampo non compie un'azione di illuminare il cielo, ma piuttosto il lampo è esso stesso la luce.

Come possiamo capire, la nostra lingua ha una struttura che ci obbliga necessariamente a pensare che un lampo compia l'azione di illuminare il cielo, osservando quella che è una struttura narrativa con un personaggio - il lampo, appunto - che compie un'azione: illuminare. La descrizione che facciamo a noi stessi è che ci sia davvero un oggetto chiamato lampo e che questo abbia una qualche connotazione, positiva o negativa, in base alla valutazione delle sue azioni.

Questo medesimo concetto è espresso in maniera magistrale da Suzuki (1975, p.34): “La vita quale la viviamo è una, anche se la facciamo a pezzi applicandovi senza scrupoli il bisturi dell'intelletto.”

Il secondo errore, forse più grave, è che l'interpretazione dei fatti che noi usiamo è naturalmente soggettiva, ed in quanto tale è legata fortemente alla nostra personale condizione. Questo non ci lascia valutare il mondo nelle sue sfumature e nella sua infinita complessità, ma ci obbliga a vedere tutto in termini di utilità immediata. Noi siamo tentati continuamente di dividere il mondo tra fatti positivi e negativi, e questa continua opera di discernimento ci mette nella posizione di rincorrere un miglioramento della nostra posizione attuale, cercando di perseguire quelli positivi e di evitare quelli

negativi, cosa che, secondo il buddhismo, è un puro miraggio.

Il buddhismo cerca infatti di lavorare proprio su queste aspettative di miglioramento, che ci pongono nella situazione costante di non essere nel momento attuale, nel qui e ora, ma piuttosto nell'aspettativa di qualcosa. Il tentativo di afferrare la vita, ottenendo qualcosa di meglio di ciò che c'è, è detto karma o azione condizionata. L'ansia che è propria degli esseri umani è detta invece samsara (tradotto spesso come “il cerchio di vita-e-morte”).

Il karma è un attaccamento alla vita nel costante tentativo di migliorare la propria posizione, che ha il solo risultato di opprimere la mente con il samsara(2). Questo concetto è di difficile traduzione. Dalla lettura di Watts (cit.) e Suzuki (cit.) possiamo spiegarlo con un esempio, che ricorda la sensazione di quando, da piccoli, corriamo per un prato scosceso fino a un punto in cui la velocità che acquistiamo è talmente alta che abbiamo la sensazione di non essere più noi a correre, ma che questa sia l'unica cosa che possiamo fare. Alla stessa maniera, il karma è la necessità di controllo che ci obbliga, con la speranza di una felicità futura, a cercare di controllare sempre più componenti del mondo, portandoci così nel cerchio di vita-e-morte, e nella frustrazione.

 

Nota 2: È curioso sottolineare come i concetti di karma e samsara siano stati deteriorati nel corso degli anni rendendoli due simboli della cultura orientale agli occhi dell'occidente: il samsara in origine era il concetto del vuoto che la vita attuale ha nel momento in cui tentiamo di attaccarci ad essa: il vuoto ripetersi di nascita e morte. Samsara viene anche in alcuni casi tradotto come auto-frustrazione. Poiché veniva espresso secondo il concetto del “circolo vita-e-morte” viene interpretato dal alcune branche del buddhismo come la reincarnazione dell'anima. Altrettanto succede per il karma: per il buddhismo il karma è la tendenza ad “interferire nel mondo in modo tale da essere costretto a continuare la [propria] interferenza”. Il karma è dunque il principio attivo del samsara. Tutt'altro concetto da quello che ci è giunto, più vicino ad una legge divina che ci riporta il male che abbiamo fatto. (Watts, A.1957)

 

Colmato qualche vuoto di conoscenze sulla disciplina, cerchiamo di capire meglio, dunque, per quale motivo le storie zen siano in agguato per attaccare il nostro sistema di decodifica: abbiamo detto che noi naturalmente cerchiamo di creare collegamenti (narrativi) tra i fatti del mondo, e che questo ci porta dapprima alla creazione di aspettative sui fatti stessi, e di lì alla frustrazione. L'atto stesso della lettura, come ogni atto che coinvolga la significazione, è legato a questo meccanismo, che il buddhismo cerca di riportare alla coscienza. Ovviamente si pone un problema, lo stesso che deve essersi posto, al momento giusto, Francis Ford Coppola, ovvero: come è possibile rompere una convenzione attraverso un'opera di intelletto, se lo stesso fruire dell'opera passa attraverso la convenzione stessa? La risposta è esemplificata nella storia zen numero 92, in cui come spiegato precedentemente, la sintassi discorsiva superficiale del testo inganna la nostra percezione mettendola a nudo.

Avanzo dunque l'ipotesi che questa sia una caratteristica dei testi che non sono prodotto della cultura in cui vengono creati, ma piuttosto che si elevano a cercare di essere un discorso sopra la cultura. Verrà discusso in seguito però, il rapporto tra questa e lo zen. Mi piace concludere qui con le parole di Suzuki, che a mio parere riassumono molto bene la questione: “lo zen aborre tutto ciò che può inserirsi fra noi e i dati immediati dell'esperienza.” (ivi, p.27)

3.3.6 Lo zen e i simboli

Lo zen è ipocrita? C'è un punto in quest'analisi in cui è venuto spontaneo chiederselo. Già il trattare letterariamente un argomento di cui non si può parlare sembra uno strano esercizio mentale. Se poi, trattandolo, ci si trovasse a usare espedienti che sono contrari ai valori della disciplina, cosa dovremmo pensare? Dovremmo arrabbiarci o giustificarlo? Come spiegato nel paragrafo precedente, uno degli aspetti della nostra percezione che lo zen attacca è proprio questa suddivisione tra i fatti del mondo e i segni che stanno per loro. L'uso di questi simboli è negativo in quanto, abbiamo detto, esso porta alla frustrazione. Dunque ci si aspetterebbe che lo zen non utilizzasse questo genere di espediente nella creazione di storie. O meglio, che lo usasse solo quando proprio non può farne a meno.

Come abbiamo visto ci sono occasioni in cui l'espediente del simbolo viene usato, ad esempio, nella storia del Buddha con il naso nero (3.3.1). Qui vediamo che, da una parte, essa punisce la donna che vede il Buddha dorato non per quello che è (una inutile statua), ma piuttosto come simbolo di qualcosa d'altro (l'illuminazione). La storia sembra mettere in gioco meccaniche che la dottrina rifiuta, quando usa la statua come simbolo della disciplina o dei pregiudizi.

Il paradosso è giustificabile perché, se da una parte lo zen non può essere detto, è ovvio che una disciplina così potente avrebbe rischiato di essere cancellata presto dal semplice fatto che nessuno ne sarebbe venuto a conoscenza. Dunque, nel momento in cui ha cercato di propagarsi, diventando testuale, essa si è trovata a dover scendere a compromessi. In alcune occasioni riuscendoci, in altre meno.

Questo ragionamento però ci aiuta a capire una serie di storie che altrimenti non riusciremmo a spiegarci, storie di monaci che, interpellati, rispondono parlando di quello che hanno mangiato a colazione; oppure di altri che, quando viene chiesto loro dello zen, suonano una sola nota di flauto; oppure, ancora, quella più curiosa che racconta di come il Buddha storico non pronunciò mai una parola di insegnamento. Dunque è vero: lo zen non si può dire, ma non per questo non bisogna almeno provarci.

3.3.7 La morale della storia

È possibile che un testo prodotto all'interno di una disciplina, nel momento della sua messa in discorso e proprio per questa, agisca contro alcuni principi della disciplina stessa? Che questo sia successo nel caso dello zen l'abbiamo visto nel paragrafo precedente, nel rapporto con i simboli. Ma c'è un'occasione ancora più eclatante: la disciplina zen sembra scontrarsi con la sua narrativizzazione nel momento della morale della storia, cioè quando esprime il suo giudizio sull'operato dei personaggi. Greimas, con la sua teoria semiotica delle passioni, introduce l'idea che la componente patemica(3) di una storia sia fondamentale per la creazione del significato della stessa.

 

Nota 3: Con componente patemica Greimas intende la sensazione che la storia lascia nel lettore, le emozioni

che gli suscita. Vedasi in proposito Marrsciani, F. e Zinna, A. 1991, p. 106)

 

Fondamentalmente egli la divide in due diverse parti: la sensazione che la storia ci lascia (se è triste, se ci comunica speranza, eccetera) e la componente “timica”, grazie alla quale il testo esprime il suo essere pro o contro la condotta di un personaggio, un determinato valore o un ideale. Come probabilmente anche un lettore inesperto può intuire, il fatto che la storia instauri in noi un determinato stato d'animo rispetto a un personaggio ed al suo operato non dipende esclusivamente dalla nostra valutazione del suo modo di agire. La storia basa infatti buona parte del suo potere persuasivo proprio su questa sua caratteristica: per il modo che ha di descrivere un personaggio, essa può farci apparire i nudi fatti che racconta come positivi o negativi. Dunque, notiamo un'incongruenza non da poco: le storie zen esprimono pareri sul mondo. Il problema è che farlo all'interno di una disciplina che è contraria al discernimento – e quindi alla suddivisione tra bene e male – può sembrare ipocrita.

Anche lo stesso esprimere un'opposizione – vera e riscontrata in diverse storie – tra /nuda esperienza del mondo/ (non discernimento) e /discernimento/, e poi connotare positivamente il /non discernimento/ è esso stesso prova di discernimento. Da una parte lo zen dice che fare differenze tra fatti del mondo è sbagliato, ma nel fare questo esprime un concetto: lo zen è giusto. Ma se esprimersi in termini di giusto e sbagliato non è zen, il corpus di fiabe ci sembra qui cadere in fallo. Credo sia questa incongruenza a dare la sensazione strana e contrastante che si ha quando ci si avvicina per la prima volta alle fiabe zen.

Quest'opera di narrativizzazione della disciplina, cioè il fatto che, da una disciplina fatta di riti e di persone, ad un certo punto si decida di creare delle storie che tramandino dei valori, ha creato una serie di problemi in due direzioni. Una è quella letteraria in cui, come ho già fatto notare più volte, la necessità delle storie di parlare di qualcosa e di esprimere valori si scontra con la mancanza dell'oggetto e con l'idea di non discernimento. Dall'altra parte si viene a creare un problema ancora più grosso, in chi dello zen non sa nulla: l'idea che lo zen sia davvero qualcosa.

Si verifica così quella che potremmo chiamare una “reificazione”: il fatto stesso di voler parlare di una cosa della quale non c'è un referente nella lingua, denota necessariamente una mancanza nel linguaggio, la quale siamo naturalmente portati a colmare. Nel farlo però, proprio perché dell'esistente selezioniamo alcuni tratti che rendiamo pertinenti secondo il criterio del linguaggio, facciamo di quell'oggetto “un qualcosa”, esso diventa reale (in quanto percepibile).

Così facendo, ci dice lo zen, ci troviamo nel paradosso di allontanarci dalla conoscenza del nostro oggetto. Per dirla con Ferraro (2007, cit., p.69): “La parola, insomma, [...] allontana dalla conoscenza concreta di ciò che costituisce l'esperienza del mondo” Spero che dagli ultimi tre paragrafi il lettore cominci a familiarizzare con l'idea che possa esserci veramente poco di zen, in alcune storie zen.


 

 

3.4 SOTTOGRUPPO 1 - STORIE DI ESPEDIENTE

39. un discepolo di Soyen a causa dell'afa si stende a terra e si mette a dormire. Si sveglia proprio nell'istante in cui entra il maestro. Il maestro lo scavalca con riguardo, scusandosi. Da quel giorno il ragazzino non dorme più il pomeriggio.

40. un maestro si appisola spesso dopo pranzo. Quando i suoi discepoli gli chiedono perché lo facesse il maestro risponde che va a trovare i vecchi saggi per avere consiglio. Un giorno il maestro sorprende diversi discepoli che, presi dall'afa, si sono addormentati. Il maestro li rimprovera. Loro rispondono che sono stati a trovare i vecchi saggi. Il maestro chiede loro di cosa hanno parlato. I discepoli rispondono di aver chiesto di lui, ma che i vecchi saggi dicono di non averlo mai visto.

I testi qui presentati fanno parte del sottogruppo delle storie di espediente. In questo caso parlo di sottogruppo in quanto questo tipo di racconti presentano, da un lato, le caratteristiche del gruppo principale (ovvero hanno personaggi che svolgono azioni da cui si deducono rapporti di desiderio rispetto agli oggetti di valore), dall'altro ricalcano tutti una certa modalità di narrazione che mi pareva il caso di analizzare più nel dettaglio.

Guardando alle due storie si nota che esse sono in qualche maniera speculari: in entrambe c'è un soggetto che cade addormentato, cioè i discepoli (un singolo nella prima, un gruppo nella seconda). Quello che noi abbiamo chiamato “espediente zen” si può notare nella prima storia alle spese del discepolo, e nella seconda alle spese del maestro.

Nella n.39 il maestro non riprende il ragazzino, ma usa il suo senso di colpa e la riverenza che egli nutre nei suoi confronti per ottenere il risultato che non dorma più nelle ore pomeridiane. Nella n.40, invece, l'espediente è utilizzato dagli studenti. Ricorrendo allo schema della struttura modale del racconto possiamo confrontare le due strutture narrative, rendendoci meglio conto della somiglianza. In entrambe le storie si tratta l'argomento del rapporto tra la mente e il corpo. Ciò che è connotato positivamente è il controllo della prima sul secondo (e su se stessa), che per la disciplina buddhista è da perseguire in ogni momento.

Nella prima storia il maestro (nella funzione di destinante), comunica come oggetto di valore il controllo della mente sul corpo (manipolazione), dunque il ragazzino cerca di mettersi nella condizione di portare a termine il compito. Ma la sua mancata resistenza al sonno è una mancata performanza. Qui subentra il lato interessante della vicenda: la sanzione negativa non è data dall'insegnante. Piuttosto, tramite la sua figura, essa ricade sull'allievo. È lui stesso a provare vergogna, anche se il maestro stesso non lo riprende. La seconda storia si svolge nella stessa maniera. Qui però abbiamo due programmi narrativi: quello del maestro (il cui destinante è lui stesso) e quello degli allievi, in cui di nuovo il destinante è il maestro. Da parte di entrambi c'è una mancata performanza, tutti di fatto hanno dormito qualche pomeriggio. Ma il maestro si trova in questo frangente in una posizione ambigua: egli è sia destinante che destinatario dello stesso oggetto di valore (sempre il controllo della mente sul corpo), quindi da una parte ha il compito di controllore dell'operato del destinatario, dall'altra ha lo stesso dovere.

Quando i ragazzini gli rinfacciano di essersi addormentato, altro non fanno che sottolineare la sua posizione imbarazzante, di controllore e di trasgressore allo stesso tempo. La sua posizione è triplicemente grave: non ha vigilato (su se stesso), non ha seguito le (sue) regole e infine, nonostante tutto, ha ripreso i ragazzini per il suo stesso errore.

Da quanto abbiamo visto fino qui l'espediente zen è dunque basato sul richiamare un individuo alla propria responsabilità, facendo leva sulla coscienza che egli ha, innata, di di quest’ultima. Il punto focale è che ciò non avviene mai attraverso un'imposizione (un dover fare), ma piuttosto per mezzo di un'opera di persuasione (instaurare un voler fare). Questo è possibile anche perché, a differenza delle storie in cui il destinante deve guadagnarsi le condizioni per imporre il valore al destinatario, nel mondo zen i destinatari sono spesso degli allievi che si trovano già all'interno del mondo della filosofia buddhista. Essi stanno già tentando di ottenere risultati (sono già in un voler fare) e, soprattutto, hanno già coscienza di quale sia la condotta giusta da seguire.


 

3.5 SOTTOGRUPPO 2 - PREVISIONE DI MORTE

7. un maestro zen scrive sessanta cartoline e ordina ad un suo discepolo di spedirle. Subito dopo muore. Sulle cartoline c'è la previsione della sua morte.

10. un maestro zen molto vecchio racconta una storia di un altro maestro zen, il quale riuscì a prevedere la propria morte. I discepoli gli chiedono se lui possa farlo, lui risponde di sì. Raccoglie i discepoli, e ne sceglie uno per dettargli una poesia. Una volta conclusa la dettatura della poesia, l'allievo avvisa il maestro che manca un verso. Il maestro gridando l'ultimo verso, muore.

In questo paragrafo analizzo le caratteristiche delle storie che contengono una previsione di morte, tentando di capire qual è il rapporto dello zen col problema della fine della vita. In entrambi i casi vediamo come l'atto di scrivere e l'atto di morire vadano di pari passo, come succede spesso in altre storie che trattano questo argomento. Sembra che, consci della loro fine, i maestri vogliano lasciare un'ultima testimonianza. Nessuno di loro ha paura, ma anzi essi affrontano questo ultimo momento con una freddezza formidabile.

Per capire in che modo sia vista la morte nella disciplina zen ci conviene rifarci alla storia seguente:

25. un maestro viene descritto come buon insegnante. Essendo venuto da lui un giovane allievo gli dà un koan da risolvere. Il giovane allievo prova a risolverlo senza riuscirci per tre anni. Snervato va dal maestro che gli consiglia di aspettare tre giorni, e gli dice che farebbe meglio ad uccidersi nel caso non riesca a trovare la soluzione. L'allievo venne illuminato il secondo giorno.

Per aiutarci nel ragionamento poniamo subito su un quadrato semiotico le opposizioni semantiche che questa storia sottende:

   vita----------------------------morte

|                                       |

non morte ---------------------- non vita

                             (libertà dalla paura della morte)         (vita in preda alla paura)

 

L'opposizione vita/morte è probabilmente una delle più logore nella narrativa di tutti i tempi, quindi non ci stupisce il fatto di trovarla qui. Ci stupisce piuttosto analizzare l'asse dei subcontrari, in quanto il consiglio che il maestro dà all'allievo ci lascia l'amaro in bocca: il maestro suggerisce che se non riuscirà a risolvere il koan è meglio che si uccida.

Dunque si prospettano due vie (che, si noti, non si escludono a vicenda): o il maestro conosce l'allievo e pensa bene di usare la paura della morte per spronarlo a raggiungere una soluzione in fretta, oppure il maestro ritiene che una vita senza la soluzione del koan non sia degna di essere vissuta. Entrambe le interpretazioni sono legittime, ed accettate dalla storia. Prenderò in considerazione la seconda perché, in quanto più estrema, produce risultati interessanti (inoltre Suzuki, D.T. 1975 sembra avvalorare la serietà che questa conferirebbe alla soluzione del koan).

Dunque il maestro consiglia al ragazzo di passare da questa non vita (in basso a destra, nel quadrato) alla vita vera (lato alto sinistra) con il mezzo del koan. Ma se il ragazzo non riesce nel suo intento, gli consiglia caldamente di concludere questo suo purgatorio (non vita, in basso a destra) passando al suo stadio superiore, alla morte (alto destra). Il lato in basso a sinistra ci sembra in questo caso molto vicino al lato della vita in quanto per lo zen sembra esserci vita solo quando si ha la mente libera della paura della morte.

Notiamo anche, in chiusura a questa analisi, che il maestro usa la paura della morte instillandola nell'allievo. Con l'intensificarsi della paura (poiché l'allievo si avvicina al doversi suicidare), questa viene riconosciuta più velocemente, e quindi sconfitta con l'illuminazione. Di nuovo quello che abbiamo chiamato “espediente zen”, per cui la natura timorosa dell'allievo viene usata contro la paura stessa.

Cominciamo a capire cosa deve essere per un maestro il momento della morte: è un momento sacro della disciplina, in cui egli si trova ad affrontare la prova principale dello zen. In questa occasione, non deve dimostrare solo di non provare paura, ma anche di mantenere la coscienza e di essere volitivo fino all'ultimo. L'atto della morte, dunque, come tutto ciò che la vita propone, deve essere voluto. D'altronde, una vita dedita allo zen mette in pratica in ogni istante il volere esattamente ciò che si sperimenta, il che è molto diverso dal subirlo semplicemente: è il decidere, tra tutto quello che potrebbe succedere, esattamente quello che sta succedendo, compreso l'atto della morte.

Resta il problema dello scrivere, perché non possiamo valutare come una casualità il fatto che in diverse storie zen il monaco decida di lasciare una testimonianza scritta al momento della morte. Da occidentali, ci parrebbe naturale collegarlo a qualcosa di vicino ad un testamento, se non materiale, per lo meno intellettuale. Questo, per l'adepto, risulta concettualmente incomprensibile poiché, non potendo lo zen essere spiegato, nessuno si aspetta che il maestro lasci le ultime sue parole per i discepoli.

Analizziamo i due casi riportati: nel primo il maestro lascia scritto, nelle lettere che spedisce, le parole:

Sto per andarmene da questo mondo.

Questo è il mio ultimo annuncio.

Se dovessimo rifarci a qualcosa che conosciamo, ci vengono in mente due tipi di testo. Il primo è la lettera di un suicida, in quanto l'atto della morte è previsto e sembra frutto di un'opera voluta. Il secondo è invece una lettera di stampo commerciale, in cui si metta qualcuno al corrente di un fatto. In entrambi i casi, la lettera sembra comunque pervasa di un distacco piuttosto freddo, facendoci intuire che la questione è presentata dal monaco quasi come una formalità. Questo avvalora la tesi portata precedentemente, cioè che il monaco abbia davvero sconfitto la paura della morte.

Vediamo invece la poesia che il monaco détta nella seconda storia in analisi, prima di morire. Ricordiamo che l'ultimo verso viene gridato nel momento preciso della morte:

Io venni dallo splendore

e torno allo splendore

cos'è questo?

Kaa!

Il fatto che qui si parli di “andare” e “venire” rende le cose piuttosto complicate, in quanto l'idea che ci siamo fatti è che lo zen usi un espediente molto interessante per annullare la paura della morte, espediente che non è diverso da ciò che abbiamo espresso più sopra, con l'esempio del lampo. Se infatti riusciamo per un attimo ad entrare nella mentalità zen, e liberare la mente dal discernimento che questa mette in atto, ci accorgiamo che anche distinguere noi stessi dal resto del mondo è un esercizio mentale che facciamo automaticamente, ma che non è necessariamente una verità data.

Noi siamo compenetrati dalla natura del mondo. Mettendoci nell'ottica oggettivante del buddhismo zen, ci accorgiamo di come abbia senso la frase seguente: “la tua fine che è senza fine è come un fiocco di neve che si dissolve nell’aria pura” (storia zen n. 95).

Che la nostra fine sia senza fine vuol dire esattamente questo: non c'è nulla che finisca in quanto siamo materia dell'universo, solo assemblata in modi diversi. Dunque la morte altro non è che un cambiamento vicino ad una microscopica crisi dell'universo, in cui le sue parti vengono riassestate. Ma come giustificare allora i primi due versi della poesia? Sembrano, in un'ottica occidentale, una specie di visione del paradiso, un posto splendido da cui si parte e a cui si torna quando si muore, e questo è apertamente in contrasto con quanto detto finora.

Resta un po' meno strana ai nostri occhi questa poesia, se confrontiamo l'ultimo verso con i primi due. La parola “Kaa!” non è stata tradotta. Abbiamo cercato da diverse fonti un indizio che ci aiuti ad interpretarla, ma senza risultati. Watts (2005, cit.) ci dimostra come parole senza senso (o ambigue) venissero usate dai monaci proprio per mettere in crisi il nostro sistema di significazione:

“Effettivamente, alcune delle parole che i buddhisti adoprano per designare la fondamentale energia dell'universo non significano proprio nulla. Per esempio, la parola sanscrita Tathata, che viene generalmente tradotta con quiddità o qualcosa del genere, deriva dalla parola tat che in sanscrito significa «quello», ragion per cui in sanscrito si dice tat tvam asi, ovvero «tu sei quello». Ma il suo vero significato è, in effetti, più simile a «da-da-da» che ad altro. “ (Watts, A. 2005)

Non avendo trovato alternative mi rifaccio a questa proposta, convinto anche dal fatto che se della parola “Kaa!” una traduzione fosse stata possibile, sicuramente sarebbe stata usata per il libro sulle storie zen. La questione torna a farsi linguistica. La poesia dunque ci porta, anche se in maniera implicita e un po' nascosta, una specie di valore. Ci dice che l'andare/venire è come il “Kaa!”. Non è chiaro ancora cosa voglia dire.

Vediamo che la poesia (e con lei la storia intera) ci porta piano piano ad attribuire un sacco di aspettativa di significato verso l'attesa parola “Kaa!”. Dunque noi abbiamo aspettativa che questa parola risolva la questione posta dai primi due versi, ovvero che cosa sia l'andare e il venire, di cui la poesia ci chiama direttamente, con la domanda del terzo verso, a dare spiegazione.

Cerchiamo allora di capire cosa sia "Kaa!", prima di tutto: essa è sicuramente un'onomatopea propria, o per lo meno così la storia vuol farci credere, dicendoci che la parola viene pronunciata “col ruggito di un leone vittorioso”. Ma supponiamo che anche per un cinese contemporaneo alla storia la parola "Kaa!" richiami solo il ruggito di un leone, ma che non fosse al tempo così che il ruggito veniva scritto (sempre attenendoci al principio che altrimenti sarebbe stato tradotto).

"Kaa!" è dunque una parola senza senso, e con questo intendiamo che è un significante però privo di significato, non ha un referente nelle cose del mondo. Possiamo dunque cercare di supporre che di nuovo questo sia un espediente zen, utilizzato allo scopo di farci vedere come l'andare/venire siano una specie di convenzione linguistica che non ha nessuna attinenza con le cose del mondo (esattamente come la stessa parola "Kaa!"), se non una lontana eco di quello che il mondo è, come potrebbe essere intesa l'onomatopea. L'onomatopea infatti non è un ruggito ma è come un ruggito, sta per il ruggito in quanto a qualcosa, nel frangente al suono. In questo modo possiamo pensare che la poesia ci voglia nuovamente ingannare usando proprio questo “andare e venire” dei primi due versi per farci credere che nell'atto della morte il maestro abbia lasciato tutti i precetti zen e ammetta un'idea di paradiso, ma in realtà i versi si rivelano una specie di indovinello che il maestro lascia per sconcertare i discepoli – e noi con loro.

Riflettevamo dunque sul valore della scrittura nell'atto della morte. In ambedue le storie a mio parere la scrittura serve anche per segnalare un atto mentale di pieno controllo e di rilassatezza. In effetti le storie spesso raccontano di monaci che scrivono poesie o che si ritirano in meditazione, poco prima di morire. Non è necessario che queste storie rispondano a verità. Propongo di analizzare come fatto narrativo questa scelta, di mostrare il maestro nell'atto di morire, e cerchiamo di riflettere sul fatto che se quella cosa (lo scrivere poesie, ad esempio) è stata raccontata, probabilmente è perché “faceva senso” e perché esprimeva valori vicini allo zen.

Dunque, se pensiamo che l'atto della morte è solitamente carico di una serie di valutazioni negative, il monaco riesce, grazie a quest'opera di oggettivazione, a renderlo per se stesso un semplice momento di passaggio. E non solo: l'opera massima che un monaco zen riesce a praticare è la decisione della propria morte. C'è una sottigliezza da portare alla luce: è sbagliato dire che un monaco riesca a prevedere la propria morte, in quanto non è esattamente questo. Quello che succede è che il maestro sente la propria morte avvicinarsi, e quindi dispone egli stesso di quando questa debba avvenire. Anche la morte è un atto di controllo supremo della mente sul corpo, valore zen riscontrato più volte.


 

3.6 GRUPPO 2 - STORIE DESCRITTIVE

Le storie qui raccolte non considerate come tali in termini semiotici, nel senso che non sono basate su un fondamento forte di narratività. Abbiamo però visto che attribuire vincoli narrativi ai fatti del mondo è una caratteristica tipica – ed imprescindibile – della nostra percezione, e che questa è messa in atto sempre e nonostante tutto. Dunque cerchiamo di capire meglio cosa intendiamo quando diciamo che una storia non è narrativa. Una semplice descrizione di fatti può essere analizzata come narrazione?

Ovviamente ci risulta molto difficile dirlo, in quanto le teorie greimasiane si appoggiano su concetti come gli attanti, che, per quanto astratti possano essere, devono in qualche maniera esprimere un piano narrativo, e con esso dei valori. Giustamente però, lo stesso Greimas dimostra come anche testi che si rifanno a fatti realmente accaduti sottendano una struttura ideologica (vedasi in proposito Ferraro, G. 2007, p.6). Prendiamo l'esempio di un giornale: la descrizione di un incidente d'auto è comunque imbrigliata da una serie di strutture ideologiche che il giornalista non può fare a meno di avere. Dunque, nel momento in cui assiste al fatto e raccoglie informazioni, egli sarà guidato dalle sue stesse strutture. Immaginiamo quanto preponderante sia questo fatto per un articolo di politica.

Nello spiegare ciò, Greimas suppone che il Percorso Generativo del Senso agisca anche nelle produzioni testuali non narrative, ma inversamente rispetto a quanto non avvenga per le storie. I fatti vengono riportati in maniera che esprimano opposizioni di valore. Sembra dunque possibile analizzare anche questo tipo di testi secondo una prospettiva strutturalista, e dunque ci accingiamo a farlo. Prima un avvertimento: nessun testo è puramente narrativo o puramente descrittivo, e le due componenti si compenetrano e si rafforzano a vicenda. Ovviamente utilizzerò gli stessi strumenti fin qui usati, a meno che non si dimostrino inadeguati.

Inoltre, il rapporto di cui abbiamo appena parlato tra le produzioni testuali descrittive ed il Percorso Generativo del Senso è in realtà qui accentuato poiché, se è valido nei casi in cui si tratta di strutture ideologiche applicate a fatti, lo è ancora di più nel caso dello zen. Ci viene in soccorso lo stesso Watts ne “La via dello zen” (Watts, A. 1957, p.97), il quale segnala come le vite dei Buddha in realtà fossero pervase di un certo misticismo, tanto da avere scarso valore come biografia. Allo stesso modo la materia di cui le storie zen trattano ci appare talmente lontana e “romanzata” da passare dallo statuto del vero a quello del verosimile.

Come un lettore accorto intuirà, in questo genere di racconti un riassunto non basta a descriverne ed isolarne la struttura, in quanto la base del senso è data proprio dalle parole e dallo scambio che avviene a livello intellettuale. Pertanto riporto in questo paragrafo le storie nella loro interezza, per poi analizzarne il linguaggio in dettaglio.

3.6.1 Analisi della storia n. 88

88. Ad un famoso poeta giapponese fu domandato come si componga una poesia cinese. «La consueta poesia cinese è di quattro versi» spiegò lui. «Nel primo verso c’è la premessa; nel secondo c’è la continuazione di quella premessa; il terzo verso si allontana dall’argomento e ne comincia uno nuovo; e il quarto verso collega i primi tre. Un canto popolare giapponese esemplifica quanto ho detto:

A Kyoto vivono le due figlie di un mercante di seta.

La più grande ha vent’anni, la più giovane diciotto.

Un soldato può anche uccidere con la sua spada,

Ma queste ragazze uccidono gli uomini coi loro occhi.»

Per cominciare l'analisi di questa storia dobbiamo in primis farne una valutazione sul contenuto. Produce maggiori risultati ragionare in absentia, ovvero chiederci perché sia sembrato importante descrivere il funzionamento della poesia zen. Noi possiamo supporre due vie:

! La prima è che rispecchiasse un lato importante della disciplina.

! La seconda è che il funzionamento della stessa “fosse zen” sotto qualche aspetto.

Siamo portati ad avvalorare la tesi di Greimas: il contenuto viene selezionato in base a strutture ideologiche soggiacenti, e la forma stessa viene distribuita secondo queste. La poesia, ci viene detto nella storia n.88, è composta di due versi che fanno da premessa, un terzo che sembra evadere dalla stessa e che a prima vista potrebbe non avere alcun collegamento con il resto della poesia. L'ultimo li collega tutti. Se analizziamo la composizione della poesia cinese sotto l'aspetto valoriale, ci accorgia-mo di come essa voglia creare un senso di straniamento, nel passaggio dal secondo al terzo verso. Questa sensazione viene data dalla rottura della continuità coi primi due versi.

Ancora una volta ci troviamo di fronte alla nostra interpretazione messa a nudo. Con i primi due versi la poesia ci vuole fare intendere una certa topicalizzazione del discorso. Con il cambio repentino di questa, ci accorgiamo di non avere più appigli dentro al testo per riportare il tutto alla coerenza. Il terzo verso ristabilisce la pace collegando due concetti semanticamente lontani, come succede nel testo in analisi: le figlie del mercante di seta uccidono con gli occhi, il soldato con la spada.

Cerchiamo di analizzare quello che la poesia mette in atto. Dapprima usa il linguaggio per suddivi-dere l'esperienza, poi la ricompone collegando nuovamente le parti attraverso la parola. L'autore suggerisce che c'è un “modo zen” di usare la lingua: la poesia è la redenzione del linguaggio.

Anche la patemizzazione riscontrata nella storia è importante: la sensazione che abbiamo tra il secondo e il terzo verso è di perdita della coerenza del testo. Dunque è dal dividere che scaturisce questa sensazione di ansia. L'arte sembra quindi un altro di quegli atti zen che le storie ci hanno presentato, come l'atto di bere il tè per la storia analizzata in precedenza.

3.6.2 Analisi della storia n. 75

Altra storia che è il caso di analizzare in questa sede è la n.75, in quanto, sebbene si presenti come un mondo, un dialogo tra un maestro ed un discepolo, in realtà il tutto si svolge ad un puro piano intellettuale e non di azione.

75. Uno studente di Zen andò da Bankei e gli espose un suo problema: «Maestro, io ho certe collere irrefrenabili. Come posso guarirne?». «Hai qualcosa di molto strano davvero» disse Bankei. «Fammi dunque vedere di che si tratta». «Be’, così su due piedi non posso fartelo vedere» rispose l’altro.«Quando potrai farmelo vedere?» domandò Bankei. «Salta fuori quando meno me lo aspetto» rispose lo studente. «Allora,» concluse Bankei «non dev’essere la tua vera natura. Se lo fosse, potresti mostrarmelo in qualunque momento. Quando sei nato non l’avevi, e non te l’hanno dato i tuoi genitori. Pensaci un po’ sopra».

Questa storia presenta una particolarità. Uno dei valori principali della dottrina zen, /la vera natura dell'uomo/, è presentata in opposizione alle ire da cui viene rapito il discepolo. Come si può dedurre dalle parole del maestro, egli intende come “vera natura” solo quella parte di sé che è sotto il nostro controllo, della quale possiamo decidere in qualunque momento, e quindi ciò che non si presenta come attivato dalle circostanze o dal contesto, ma è piuttosto stabile nel tempo.

Questo si scontra apertamente con la psicologia moderna, la quale, in quanto figlia del pragmatismo americano, tende ad evitare di creare costrutti quali ad esempio “il vero io”. Come fa notare Siri (2001, p.91), questo modo di procedere produrrebbe l'idea che le dinamiche acquisite in gruppo siano una finzione che l'io mette in atto.

Mi lascia perplesso anche il fatto che il maestro dica all'allievo di “pensarci un po' sopra”. Ci si trova infatti nel paradosso buddhista per cui il soggetto conoscente e l'oggetto conosciuto sono, di fatto, la stessa cosa: la mente. E per quanto la mente si sforzi di concentrarsi, riuscirà solo a trovare il suo stesso sforzo di concentrazione. Possiamo però riscontrare anche in questa storia una delle opposizioni più significative dello zen, quella tra la /stabilità/ o /costanza/, e dall'altro lato la /circostanza/, di pari passo con il /non controllo/, e cercare di ragionare sulla frase finale, dove il maestro dipinge una divisione tra ciò che abbiamo dalla nascita, e ciò che invece viene dalle circo-stanze, dall'ambiente che ci circonda. Sembra dunque che in questo la storia sia in linea con i valori fino ad ora riscontrati.

Il modo di esposizione presenta però delle particolarità. Non c'è collaborazione tra la superficie del testo ed il suo significato, né sembra che la storia si faccia scrupoli ad esporre alcune basi teoriche della disciplina, anche se fino ad ora ci è sembrato che la speculazione filosofica non bastasse alla realizzazione dello zen. Si noti però che il testo viene ad avere una mancanza proprio nella parte che potremmo chiamare “tecnica”.

Non viene spiegato come ragionare sui fatti, il maestro sembra più che altro dare una semplice imboccata all'allievo. Se da una parte questo avviene perché non ci sono percorsi uguali verso la realizzazione dello zen, dall'altra questo modo di fare piuttosto distaccato sembra essere utilizzato dai maestri per produrre un alone di mistero nei confronti sia della disciplina che del loro ruolo.

Come si può vedere nell'analisi dei due racconti proposti, i personaggi qui vengono utilizzati in maniera diversa rispetto al primo gruppo di storie. Il senso nasce per deduzioni sulle parole o sulle descrizioni fatte, piuttosto che dalla messa in atto di programmi narrativi. Sembra che le storie con questa modalità di racconto decidano di dare una descrizione più cerebrale della disciplina, spiegandone aspetti filosofici e teorici.

La forma di queste non sembra corrispondere allo zen, in quanto lascia intendere implicitamente che ci sia un modo speculativo tramite cui raggiungere l'illuminazione. La differenza tra un testo teorico e uno la cui superficie tende invece ad interagire con il nostro sistema di decodifica può essere vista nel primo racconto analizzato, il n.88, in cui è netta la divisione tra la parte introduttiva – teorica – e la poesia citata, che lavora su di noi e sulla nostra percezione.

In ultima analisi si noti come questo testo applichi una tecnica ben nota in psicologia come la prescrizione del sintomo, cioè si cerchi di rompere un automatismo insito nel comportamento del paziente chiedendogli di metterlo in atto il più possibile. Essendo questo comportamento spontaneo, il tentativo di metterlo in pratica lo inibisce.


 

3.7 SOTTOGRUPPO 1 – KOAN

3.7.1 Premessa sul koan

Le storie contenenti koan sono molto importanti nel corpus di storie zen in quanto è tramite la loro somministrazione che il maestro porta l'allievo a liberarsi dei condizionamenti della propria mente. Dunque i koan ci appaiono una importante strumento, guarda caso testuale, per instradare la mente sulla via dello zen. Non posso qui condurre un'analisi approfondita sui koan in quanto questi costituiscono un corpus diverso da quello delle storie zen. Ci basti sapere che ce ne sono diverse raccolte, le tre principali sono la già citata “Porta senza porta” di Mumonkan, “La raccolta della roccia

blu” e “Il libro della serenità”. Quello che qui intendo fare è in primis un'analisi sul funzionamento di un koan, per capire come funzionino i suoi percorsi di senso, e usarlo come strumento di confronto. Dunque la mia analisi sarà volta a capire come il koan e la soluzione dello stesso sono contenuti nelle storie zen, a quale scopo viene introdotto, e secondo quali meccanismi queste funzionano.

Mi accingo a dare una brevissima spiegazione della storia del koan, per completezza espositiva. Il koan come forma testuale è di molto antecedente alla diffusione dello zen, ed era parecchio utilizzato in Cina. In origine la parola koan poteva essere tradotta con “editto” o “avviso pubblico”, in quanto esso non aveva valenza religiosa ma utilità pubblica.

Lo zen Rinzai lo introdusse nella propria pratica quotidiana e lo tenne in massima considerazione come strumento principe per il raggiungimento dell'illuminazione. In seguito, con la diffusione delle scuole zen e con la conseguente svalutazione della disciplina a scuola di comportamento, il koan diventa un metodo per testare la preparazione dell'allievo, e la difficoltà di soluzione finisce per diventare un livello di bravura quasi gerarchico nella disciplina zen. Se ho tradotto fin qui la parola koan con “indovinello” lo devo solo alla natura testuale molto simile, poiché non c'è nulla di spiritoso nei koan, anzi: un koan poteva accompagnare un discepolo anche per tutta la vita, da qui si può capire quanto importante fosse lo stesso per il praticante zen. Nella risoluzione di questi l'allievo era affiancato dal maestro con il quale discuteva le varie soluzioni che mano a mano potevano venirgli in mente.

È facile capire che la soluzione non sarà necessariamente testuale solo perché la domanda è in questa forma. Il maestro infatti conosce molto bene l'allievo, le sue espressioni, il suo modo di comportarsi, fino alla prossemica. Da tutto questo il maestro può trarre la conclusione che l'allievo abbia risolto il koan, essendo la soluzione di questo in realtà una dissoluzione dell'oggetto di ricerca, che porta ad un importante cambiamento di atteggiamento verso le cose del mondo.

Potremmo cominciare con l'analisi partendo da una frase di Watts, che mostra come la relazione tra maestro e allievo sia “[…]qualcosa di molto simile ad una contesa di judo: l’esperto non attacca, ma aspetta l’attacco, lascia che l’allievo ponga il problema. Poi, quando l’attacco arriva, non vi si oppone;

rotola con esso e lo porta alla sua logica conclusione, che è la caduta della falsa premessa sociale della domanda dell’allievo.” (Watts, A. 1978, in Vittorini, A. 2002)

Ne traiamo due importanti considerazioni: la prima è che la domanda stessa, in quanto testuale, è il segnale che l'allievo non ha capito un precetto fondamentale, e il tentativo stesso di interpretare è intrinsecamente sbagliato, ed è ciò che allontana dalla soluzione. Non è un caso che nella frase di Watts venga espresso con “attaccare” ciò che l'allievo mette in atto, quando quello che dovrebbe praticare è invece il /non attaccamento/.

La seconda importante constatazione è l'aggettivo “sociale” attribuito a “falsa premessa”. Questo mi porta a riflettere proprio sul fatto, già espresso in precedenza, di come la significazione sia un atto sociale e socialmente condiviso, e su come lo zen lo consideri sbagliato.

3.7.2 Un esempio: il “Mu!” di Joshu

Il koan che abbiamo scelto di analizzare è noto come il “Mu!” di Joshu, conenuto in “la porta senza porta” di Mumonkan, riportiamo di seguito il testo: ‘Un giorno un monaco chiese a Joshu: “Un cane partecipa della natura del Buddha?”. Il maestro proruppe: “ Mu! “.

Letteralmente l'espressione “Mu” significa negazione, sia “no” che “non”, ma la stessa parola viene usata per significare “l'assenza”. Inoltre ci si trova di fronte ad una onomatopea, e naturalmente siamo portati a credere che ci sia un'isotopia voluta tra il concetto di cane, ed il verso simile all'abbaiare che il maestro produce nella risposta. Per alimentare il lavoro di interpretazione, bisogna sapere che nel contesto del buddhismo Mahayana in cui questo koan è stato prodotto, la risposta avrebbe dovuto essere positiva, poiché la natura di Buddha è aperta, secondo questa frangia del buddhismo, a tutti gli esseri che hanno vita, compresi gli animali.

Dunque analizziamo lo straniamento che questo koan produce nell'atto della risposta: un ascoltatore che abbia le basi di buddhismo Mahayana si aspetta una risposta affermativa, ma gli viene data una risposta negativa. Questa risposta, parlando di un cane, assomiglia all'abbaiare dello stesso, e viene data da un essere che ha la natura di Buddha, il quale si pone linguisticamente al livello del cane producendo un'onomatopea che lo richiama, di fatto recitando il contrario di quello che verbalmente dice, ovvero unendo la sua immagine di Buddha a quella del cane di cui lui stesso nega la possibilità

di partecipare alla natura di Buddha. Nello stesso istante e con lo stesso monosillabo, il maestro sta affermando anche altre due verità: da una parte “l'assenza” intesa come assenza di risposta alla domanda posta, ovvero l'impossibilità di parlare delle verità buddhiste con il linguaggio comune, dall'altra l'assenza come principio zen, ovvero il fatto che tutte le cose sono legate dall'assenza della loro fisicità, perché devono passare attraverso la nostra percezione per essere da noi concepite.

Chiedersi a questo punto cosa il maestro intendesse davvero è un errore, in quanto ciò che il maestro intende fare è proprio porci in uno stato di indecisione sui presupposti che la nostra percezione ci obbliga ad avere per attuarsi. Di nuovo il meccanismo sembra quello della poesia cinese e di altre storie analizzate in precedenza, per cui la nostra interpretazione viene rivolta contro di noi.

Vittorini (2002) introduce l'idea che questo genere di produzioni testuali funzioni sulle basi di un doppio legame, per come questo è concepito da P. Watzlawick (1967, p. 178)(4).

 

Nota 4: Per approfondire questo argomento consigliamo la lettura di “Pragmatica della comunicazione umana”, al capitolo sui paradossi pragmatici.

 

Vediamo dunque le caratteristiche della situazione di doppio legame:

! Una relazione di forte dipendenza: assolutamente presente, come abbiamo visto, tra l'allievo e il maestro. L'allievo è tenuto in una situazione di sottomissione psicologica sin dal momento in cui il maestro lo accoglie sotto la sua ala. Vediamo qui come la sorta di misticismo rispetto alla figura del maestro che sembra traspirare dalle storie zen abbia una precisa funzione.

! Entro lo schema di questa relazione viene data una ingiunzione che deve essere obbedita, ma deve essere disobbedita per essere obbedita: quest'ingiunzione è proprio la risoluzione del koan, che per essere risolto deve allo stesso tempo essere disobbedito.

! La persona che è in questa situazione non può meta-comunicare(5) a causa della sua posizione subordinata: quello che Watzlawick propone come soluzione alla comunicazione patologica, ovvero la meta-comunicazione, è qui totalmente negato, in quanto la filosofia e la speculazione non sono permesse agli allievi poiché pensieri non produttivi in termini di qui-e-ora. Dunque quella che si prospetta all'allievo è una situazione chiusa, in cui la sua interpretazione è bloccata e senza speranza. Di fronte ad un maestro che frustra tutti i suoi tentativi di fuga e quelli di ricerca di significato, fino a che non giunga l'illuminazione che è il desistere di questa battaglia, persa in partenza.

 

Nota 5: Per meta-comunicazione Watzlawick intende il parlare di come si parla, delle dinamiche del discorso (1967, p. 185)

 

Possiamo dunque valutare, a tutti gli effetti, la comunicazione zen come comunicazione basata su paradossi pragmatici, ovvero su problemi le cui premesse sono basate su doppie ingiunzioni, le quali devono essere disattese per essere rispettate. Inoltre si valuti che, sempre seguendo le orme dettate da Watzlawick, in base a quale delle diverse interpretazioni decidiamo di dare al monosillabo “Mu!” ci troviamo a ragionare su piani diversi della comunicazione umana: se crediamo che la risposta sia semplicemente negativa, stiamo riferendoci al piano che Watzlawick (1967, p. 51) chiama numerico, ovvero il piano del linguaggio quantitativo, fatto dalle parole. Se invece intendiamo il “Mu!” come l'abbaiare del cane siamo nell'ambito analogico, in cui il collegamento tra referente e significato è dato per analogia (in questo caso di suono, tra il cane e il verso che il maestro emette). In terza istanza c'è il dubbio che la comunicazione venga negata o meglio “squalificata”, sia nel caso che il maestro intenda dire la “nullità”, sia nel caso, peggiore, che il maestro stia abbaiando, svalutando la

domanda in sé. È innegabile, qualunque piano prendiamo per buono, che il maestro abbia scelto di provocare questa confusione semantica e lasciarci il dubbio che qualunque risposta sia sbagliata.

L'opera di persuasione attuata dal koan nasce prima di tutto dal soggetto, il quale è nevrotico e tenta di controllare la vita sotto ogni suo aspetto. Questo porta inevitabilmente all'ansia, che cerca di risolvere recandosi da un maestro zen, il quale gli fornisce una situazione creata appositamente per non avere sfogo: non può uscire dal legame, non può risolvere il koan, e deve rincorrere il fantasma dell'illuminazione, quando questa è proprio il cessare la ricerca. Vediamo con quali espedienti testuali

l'ansia sia instillata nel discepolo, in che maniera dunque si crei questo doppio legame:

! La già citata dipendenza dal maestro, creata dalla commistione di misticismo e severità dello stesso, che pone il discepolo in una situazione di subordinazione.

! L'utilizzo della situazione, dalle circostanze prese come test della buddhità, ovvero l'ansia che ogni istante della vita di un monaco sia sotto analisi.

! L'amplificazione dell'ansia di morte, già presente nel discepolo, tramite l'idea che il maestro possa disporre della vita e della morte dell'allievo. Questa viene ricordata anche grazie all'infliggere di pene corporali (bastonate, colpi di attizzatoio).

! L'utilizzo di messaggi contrastanti sulla disciplina stessa, che rende ansiosa la ricerca di qualcosa che sembra sempre più lontano.

! La reificazione dell'oggetto di ricerca, che crea nel discepolo l'idea che ci sia davvero qualcosa da rincorrere, e dunque lo mette nella condizione di cercare, amplificando l'ansia stessa che l'ha portato ad avvicinarsi alla disciplina.

Come Vittorini (2002) fa abilmente notare quello che fin qui è emerso sembra avere attinenze con la concezione di verità di Occam secondo cui questa non può essere detta all'interno di un linguaggio, ma solo meta-comunicando sullo stesso. L'esempio che Watzlawick porta è quello della parola “Chicago” (Watzlawick, P. 1967, p.186), il cui utilizzo cambia nelle due frasi: Chicago è una città popolosa e “Chicago” è trisillaba.

Si noterà che nella seconda frase sono state messe le virgolette alla parola “Chicago” in quanto le virgolette segnalano che non si sta usando in quel contesto la parola “Chicago” come referente della città, ma come parola in sé. Dunque le virgolette sono un modo che esula dalla comunicazione per segnalare che si sta parlando sul (e del) linguaggio, non dentro alla scatola chiusa dello stesso. È forse superfluo far notare di nuovo che i testi prodotti dentro la cultura zen cerchino di evidenziare una verità che sta al di fuori del modo normale di ragionare, e dunque si avvicinano molto ad un meta-linguaggio.

3.7.3 Analisi della storia n. 18

I koan sono dunque una parte portante dello zen, e ne abbiamo visto il funzionamento. C'è una storia attribuita al Buddha storico, che sembra parlare proprio della risoluzione del koan (o del momento del non attaccamento):

18. Un uomo che camminava per un campo si imbatté in una tigre. Si mise a correre, tallonato dalla tigre. Giunto a un precipizio, si afferrò alla radice di una vite selvatica e si lasciò penzolare oltre l’orlo. La tigre lo fiutava dall’alto. Tremando, l’uomo guardò giù, dove, in fondo all’abisso, un’altra tigre lo aspettava per divorarlo. Soltanto la vite lo reggeva. Due topini, uno bianco e uno nero, cominciarono a rosicchiare pian piano la vite. L’uomo scorse accanto a sé una bellissima fragola. Afferrandosi alla vite con una mano sola, con l’altra spiccò la fragola. Com’era dolce!

La storia appena citata non contiene in sé un koan, ma mi pareva giusto metterla in questa categoria in quanto esemplifica un buon metodo di risoluzione degli stessi, dunque agisce bene o male secondo lo stesso principio.

Come si può vedere, l'affanno dell'uomo è paragonabile a quello dell'allievo che cerca in tutte le maniere una soluzione per migliorare la sua condizione. Il vero cambiamento di atteggiamento avviene quando il suo oggetto di valore cambia: dal salvare la sua vita sembra che si trasformi nel goderla appieno, istante per istante: mentre prima l'uomo è angosciato dall'idea di essere mangiato, ora è libero da pensieri. In termini semiotici è un cambiamento di oggetto di valore, e sembra che proprio di questo tratti lo zen. Si noti che qui vengono usati i due topolini, bianco e nero, con lo scopo chiaro di mostrare il discernimento che l'uomo mette in atto, sono dunque utilizzati come simbolo.

3.7.4 Analisi della storia n. 21

Analizziamo un'altra storia per mettere le due a confronto:

21. Il maestro del tempio Kennin era Mokurai, Tuono Silenzioso. Aveva un piccolo protetto, un certo Toyo, un ragazzo appena dodicenne. Toyo vedeva che i discepoli piu' grandi andavano ogni mattina e ogni sera nella stanza del maestro per essere istruiti nel Sanzen o per avere privatamente qualche consiglio, e che il maestro dava loro dei koan per fermare le divagazioni della mente. Anche Toyo voleva fare il Sanzen. "Aspetta un poco" disse Mokurai. "Sei troppo giovane". Ma il piccolo insisteva, e l'insegnante finì con l'acconsentire. Quella sera, all'ora giusta, il piccolo Toyo si presento' alla porta della stanza Sanzen di Mokurai. Batté il gong per annunciarsi, fece tre rispettosi inchini prima di entrare, poi andò a sedersi in riguardoso silenzio davanti al maestro. "Tu puoi sentire il suono di due mani quando battono l'una contro l'altra, disse Mokurai. "Ora mostrami il suono di una sola mano". Toyo fece un inchino e se andò nella sua stanza per riflettere su questo problema. Dalla sua finestra poteva sentire la musica delle geishe. "Ah, ho capito!" proruppe. La sera dopo, quando il suo insegnante gli disse di illustrargli il suono di una solo mano, Toyo cominciò a suonare la musica delle geishe. "No, no" disse Mokurai. "Questo non serve. Questo non è il suono di una solo mano, non hai capito niente". Temendo che quella musica potesse disturbarlo, Toyo si trasferì in un luogo tranquillo. Riprese a meditare. "Quale può essere il suono di una sola mano?". Per caso sentì gocciolare dell'acqua. "Stavolta ci sono" si figurò Toyo. Quando tornò davanti al suo insegnante, Toyo imitò il gocciolare dell'acqua. "Che cos'è?" disse Mokurai. "Questo è il suono dell'acqua che gocciola, non il suono di una sola mano. Prova ancora". Intanto Toyo meditava per sentire il suono di una sola mano. Sentì il respiro del vento. Ma quel suono venne respinto. Sentì il grido di un gufo. Anche questo venne rifiutato. Nemmeno le locuste erano il suono di una sola mano. Più di dieci volte Toyo andò da Mokurai con suoni diversi. Erano tutti sbagliati. Per quasi un anno si domandò quale potesse essere il suono di una sola mano. Finalmente il piccolo Toyo entrò nella vera meditazione e superò tutti i suoni. "Non potevo mettere insieme nient'altro", spiegò più tardi "così ho raggiunto il suono senza suono". Toyo aveva realizzato il suono di una sola mano.

Chiaro come le due storie abbiano funzionamento profondamente diverso: la prima si propone di dimostrare come il cambiamento di oggetto di valore porti un cambiamento pesante nella patemizzazione della storia e del personaggio, trasmettendoci il buonumore che egli emana nel momento in cui comincia a godersi la vita, appeso ad un ramo che sta per spezzarsi, sopra ad un precipizio dove lo aspetta un tigre affamata.

Dall'altra parte vediamo in che modo venga somministrato un koan e come si svolga l'elaborazione di questo, viceversa non sappiamo nulla dell'atto della soluzione, piuttosto questa rimane chiusa ad un pubblico di non addetti. Cosa sia la “vera” meditazione, come viene descritta, non ci è chiaro, né è chiaro come la si raggiunga. Dunque ci sono storie che sono dei koan, nel senso che il loro funzionamento è lo stesso anche se non è simile la struttura superficiale del testo, e storie che invece usano il koan come oggetto della narrazione, ad esempio come oggetto di valore per muovere la stessa.


 

3.8 GRUPPO 3, UMORISTICHE

3.8.1 Premessa teorica sulla semiotica interpretativa

Premessa a questo paragrafo di analisi è certamente che non c'è una regola generale per analizzare l'umorismo, non c'è una struttura né un modo canonizzato di crearlo, in quanto in buona parte questo è rottura delle regole e delle aspettative. Proprio perché ci troviamo a discutere delle aspettative, in questa analisi ciò che ha prodotto risultati maggiori è stato l'utilizzo di strumenti di semiotica interpretativa, quella che analizza sì le strategie testuali messe in atto, ma sposta la sua attenzione al confronto con le conoscenze pregresse e le modalità di interpretazione del lettore.

Se in diverse occasioni potrebbe sembrare che la storia non abbia attinenza con lo zen, bisogna ragionare sugli infiniti legami che si riscontrano tra l'uso di artifici comici/ironici e i valori che la disciplina zen si propone di diffondere.

Propongo in apertura una teoria riportata dal Maria Pia Pozzato (2007, p.147) per l'analisi di alcune barzellette umoristiche ebraiche. Essa descrive come le teorie che spiegano l'umorismo, abbiano fondamentalmente due suddivisioni: quelle di superiorità sono basate sull'idea che l'umorismo scaturisca dal fatto di sentirsi superiori a personaggi di carattere animalesco. Mentre quelle di incongruenza invece sostengono che una situazione faccia scaturire la risata se presenta uno scontro tra piani logici che sono considerati incompatibili. Una delle principali teorie di umorismo di incongruenza è quella della bisociazione (Koestler, A. 1964), che fondamentalmente consta di questo: due matrici che naturalmente sono per noi incompatibili vengono fatte collimare rispetto ad un punto comune ad una delle due.

Si veda l'immagine seguente (Pozzato, M.P. 2007, p.150):

 

 

Koestler sottolinea come la bisociazione sia in realtà un punto comune a molte altre attività umane, fondamentalmente tutte legate dall'aspetto creativo: l'umorismo, la ricerca scientifica, l'invenzione poetica/artistica. Dunque Koestler pone come seconda caratteristica, necessaria allo scaturire dell'umorismo, la presenza di un'adeguata tensione emotiva chiamata “la goccia di adrenalina”, che consiste spesso in una qualche forma di aggressività sublimata. Ciò fa ricondurre la teoria anche a quelle della superiorità.

Sottolinea quindi che ci sono due tipi di complicità nell'umorismo, quella data dalla condivisione di un background informativo, e quella di ordine affettivo-ideologico, dunque un “ridere con” e un “ridere di”. È innegabile, scorrendo velocemente le storie, che ci sia uno spirito sottile che le attraversa quasi tutte, e che le renderebbe tutte potenzialmente appartenenti a questo gruppo. Dunque in questa sezione dell'analisi ho cercato di raccogliere solo le storie che avessero come componente preponderante l'umorismo.

3.8.2 Analisi della storia n. 89

89. Gli insegnanti di zen abituano i loro giovani allievi ad esprimersi. Due templi zen avevano ciascuno un bambino che era il prediletto tra tutti. Ogni mattina uno di questi bambini, andando a comprare le verdure, incontrava l'altro per strada."Dove vai?" domandò il primo."Vado dove vanno i miei piedi" rispose l'altro. Questa risposta lasciò confuso il primo bambino, che andò a chiedere aiuto al suo maestro."Quando domattina incontrerai quel bambino", gli disse l'insegnante "fagli la stessa domanda. Lui ti darà la stessa risposta, e allora tu domandagli: "Fa conto di non avere i piedi: dove vai, in quel caso? Questo lo sistemerà". La mattina dopo i bambini si incontrarono di nuovo."Dove

vai?" domandò il primo bambino."Vado dove soffia il vento" rispose l'altro. Anche stavolta il piccolo rimase sconcertato, e andò a raccontare al maestro la propria sconfitta."E tu domandagli dove va se non c'è vento" gli consigliò il maestro. Il giorno dopo i due ragazzi si incontrarono per la terza volta. "Dove vai?" domandò il primo bambino. "Vado al mercato a comprare le verdure" rispose l'altro.

È evidente in questa storia il ricorso alla “regola del tre”, forma tipica delle barzellette. Questa “regola” nasce dalla necessità della barzelletta di concentrare la tensione in un climax, raggiunto l'apice del quale, i due piani della bisociazione si incontreranno producendo l'effetto della risata. Analizziamo i tre moduli di cui questa barzelletta è composta. Alla domanda “dove vai?” del primo ragazzino (d'ora in poi A), abbiamo tre risposte diverse di B:

! “vado dove vanno i miei piedi”

! “vado dove mi porta il vento”

! “vado al mercato”

Cerchiamo di stabilire quale sia la continuità che riusciamo ad intuire ci sia tra le prime due risposte, e quale sia la discontinuità con la terza: le prime due risposte sono in pieno stile zen, hanno una caratteristica impenetrabile di misticismo, di accettazione dell'esistente e di quella che in termini zen si chiama “non finalità”, l'andare per l'andare. Anche leggendole separate dal testo, ci viene implicitamente data una cadenza, la quale crea automaticamente una aspettativa. Si noti che questo è lo stesso meccanismo che ho sottolineato esserci nella poesia cinese, tra i primi due versi ed il terzo. Per facilitarne l'analisi ho così schematizzato le risposte di B:

R1- Dove vanno i miei piedi -     R2 - Dove mi porta il vento -              R3 - Al mercato

        Non finalità                                       Non finalità                                     Finalità

   Modalità dell'andare                     Modalità dell'andare                     Direzione dell'andare

         Valori Zen                                       Valori Zen                                    Valori non zen

Effetto prodotto: sconcerto           Effetto prodotto: sconcerto         Effetto prodotto: sconcerto

Dunque dove avviene la bisociazione? Possiamo intenderla come lo scontro che avviene tra i due piani dello spirituale opposto al piano della quotidianità, secondo le categorie della /non finalità/ opposta alla /finalità/. Sembra dunque che il sorriso che ne scaturisce abbia un qualche collegamento con lo zen stesso ed i suoi valori. Ma di cosa si ride davvero? Come detto, per Koestler c'è una componente fondamentale dell'umorismo, ovvero l'aggressività, che lo distingue dalle altre forme di creatività proprie della bisociazione.

Qui l'aggressività sembra essere non dei ragazzini ma piuttosto del maestro, la intuiamo quando dice, “questo lo sistemerà”, pensando “concorrente”. Il maestro sembra essersi descritto la situazione in un modo del tutto personale, in cui c'è uno scontro tra scuole che vede come combattenti – a suo parere consapevoli – i due discepoli. B, in questo scenario, sta sfidando il ragazzino della sua scuola ad una gara di conoscenza dello zen a cui il maestro stesso, proprio per il fatto di lasciarsi trascinare in uno stupido gioco tra bambini, sta inconsapevolmente perdendo. Si noti infatti che è proprio il maestro a risultare a noi /non zen/, mentre B, proprio perché non vede competizione e si lascia essere, ci appare /zen/.

Si noti che le tre risposte sono legate tutte dalla stessa reazione di A: l'essere sconcertato. Ma se questo è giustificato per le prime due domande, poiché la risposta non è inerente (la domanda vuole sapere un dove, ma la risposta offre una modalità dell'andare), la storia ci porta a farci sembrare normale lo sconcerto prodotto dalla terza risposta che viene data da B: “vado al mercato”. Questo succede perché, proprio grazie alla regola dei tre, la storia ci porta a credere in un mondo possibile in cui i bambini sono zen, vanno davvero portati dal vento, e vivono davvero in piena accettazione dell'esistente. Siamo talmente dentro a questo mondo che rimaniamo a bocca asciutta quando, la terza volta, ci viene semplicemente data risposta alla domanda. Ancora di più se la risposta è qualcosa, in un contesto così spirituale, di incredibilmente terreno: andare al mercato. Dunque di cosa ridiamo? In primis del maestro, delle sue aspettative frustrate e disilluse, e del suo tentativo di essere superiore risultando però inferiore ai nostri occhi.

In secondo luogo però ridiamo proprio delle aspettative, di quelle del maestro ma anche delle nostre, trovandoci – a nostra volta – sorpresi dall'ultima risposta che niente ha di sorprendente se non lo scarto con le nostre aspettative. Dunque la risata qui scaturisce da una complicità ideologica che pone sullo stesso piano noi e colui che ha scritto questa storia, facendoci provare empatia nel momento in cui ridiamo dell'inferiorità del maestro. Ma è per forza un riso amaro quello che ci si prospetta. Nel momento in cui leggiamo la sua storia ci accorgiamo di fare lo stesso suo errore: interpretiamo alcuni segni, e ci creiamo delle aspettative su di essi.

È un concetto molto simile a quello che per Pirandello era il “sentimento del contrario”, per il quale scatta in noi qualcosa che ci fa intravedere le ragioni della vittima. Questo fatto ci chiama in causa automaticamente, e ci obbliga a “prenderci le nostre responsabilità”, da freddi osservatori di quello che succede ci fa entrare nel meccanismo del testo.

3.8.2 Analisi della storia n. 71

Alcuni dei tratti fin qui evidenziati si possono trovare anche nella storia seguente:

71. Gli allievi della scuola di Tendai solevano studiare meditazione anche prima che lo Zen entrasse in Giappone. Quattro di loro, che erano amici intimi, si ripromisero di osservare sette giorni di silenzio. Il primo giorno rimasero zitti tutti e quattro. La loro meditazione era cominciata sotto buoni auspici; ma quando scese la notte e le lampade a olio cominciarono a farsi fioche, uno degli allievi non riuscì a tenersi e ordinò a un servo: «Regola quella lampada!». Il secondo allievo si stupì nel sentire parlare il primo. «Non dovremmo dire neanche una parola!» osservò. «Siete due stupidi. Perché avete parlato?» disse il terzo. «Io sono l'unico che non ha parlato» concluse il quarto.

Un'analisi strutturalista ci aiuta ad analizzare questa storia che sembra presentarsi anch'essa con uno schema ben preciso, composto di cinque parti: nella prima parte si presenta l'oggetto di valore che i monaci, in qualità di destinanti di loro stessi, decidono di adottare: sette giorni di silenzio meditativo. Si noti che la confusione sull'oggetto di valore è sempre la stessa già riscontrata, ovvero quella tra /l'oggetto come mezzo per lo zen/ (in questo caso la meditazione, in casi precedenti la statua del Buddha, ad esempio), opposto a /l'oggetto per l'oggetto in sé/. Abbiamo definito questo scambio di prospettiva come reificazione, cioè il fatto di scambiare il mezzo per il fine. Vediamo dunque fallire la performanza dei diversi allievi i quali mettono, al posto dell'oggetto di valore meditativo, diversi oggetti estremamente terreni, li vediamo di seguito:

A1: Lampada (illuminazione)

A2: Rispetto della regola di non parlare

A3: Superiorità verso gli altri

A4: Vittoria al gioco di intelligenza

Si noti come il sorriso scaturisca facendo leva sempre sulla sensazione di superiorità che sentiamo nei confronti dei quattro, ma secondo logiche diverse: nei confronti del primo per la stupidità dell'oggetto che viene sostituito alla meditazione (la lampada), e per un giudizio latente sulla sua esagerata pigrizia. Nei casi che si presentano successivamente troviamo qualcosa di più sottile.

Tutti e tre gli oggetti di valore che sostituiscono la meditazione sono collegati alla stessa: il primo è la regola (primo livello di reificazione), mentre nei casi di A3 e A4 sono loro stessi, la loro volontà di sentirsi superiori agli altri. Qui si toccano i due piani di una bisociazione molto sottile: da un lato abbiamo la meditazione intesa in senso buddhista come la “sparizione dell'Io”, ottenuta attraverso la profonda concentrazione, mentre dall'altro lato abbiamo la supremazia dell'Io che vuole essere riconosciuto, e sbandierare la propria vittoria. I due piani si intersecano proprio nel punto in cui l'oggetto di valore non è del tutto chiaro, ovvero nel dubbio che la posta in gioco sia il raggiungimento di un profondo stato meditativo, piuttosto che i sette giorni di silenzio intesi come un gioco o una gara di intelligenza (secondo livello di reificazione). La barzelletta (lo è, a tutti gli effetti) sembra giocare proprio su questa confusione semantica.

In questo caso la complicità è sempre tra chi scrive e chi legge, ma questa barzelletta si percepisce come meno sottile della precedente. A differenza di quella infatti, non ci coinvolge, né tenta di modificare il nostro sguardo sul mondo. Dunque è vero, i valori portati sono zen, e quando si ride lo si fa per il distanziamento dei personaggi dai valori che si erano proposti, però il funzionamento della barzelletta questa volta non ci prende nell'ingranaggio, e rimane asettica.

La Pozzato (2007, p.163) propone che le barzellette attraversino due fasi fondamentali, quella di senso, che comprenderebbe il corpo della barzelletta, e quella di nonsenso, che comprenderebbe la punchline, la conclusione umoristica. A mio parere le barzellette seguono invece tre parti fondamentali: una prima parte, quella dove vengono date le premesse, in cui la storia si appoggia ad un mondo possibile che, per quanto di solito basato su stereotipi, e talmente vicino al nostro che ci appare verosimile. Questa è la fase di senso. In seguito ci pare che si passi per un controsenso, ovvero un'azione protratta dai personaggi, che ci metta nella condizione di non capire cosa succede e ci lasci dunque in una zona di incertezza psicologica, in cui sentiamo una tensione che Kant ci fa notare essere fisica, tutt'altro che mentale (si legga in proposito Giordanetti, C. 2001, p.238).

Infine si passa alla terza componente, quella del nonsenso, in cui la tensione viene dissoluta nella chiarezza che nessun senso va ricercato, poiché la situazione si presenta nella forma paradossale tipica della bisociazione. Vediamolo nella prima storia comica analizzata, quella dei due giovani allievi che si incontrano, in cui i tre stadi sono facilmente distinguibili:

 

allievi si incontrano,

uno chiede all'altro dove va: ---------------------------------à      senso

Risposte 1 e 2               ---------------------------------------à    controsenso

Risposta 3                     ---------------------------------------à       nonsenso

 

Sembra la posizione esposta da Kant nella Critica del giudizio, in cui sostiene che l'umorismo nasca dallo scontro tra il “qualcosa” dello scenario e il “nulla” della conclusione, “dall'improvvisa mutazione nel nulla dell'aspettativa forzata” (Holt, J. 2008, p.73).

3.8.3 Zen e ironia

Un'analisi interpretativista approfondita non può ignorare l'ironia costante che sottostà alle storie zen, non solo a quelle esplicitamente umoristiche ma piuttosto all'intero corpus delle storie. Qui ho deciso di analizzare le due storie appena presentate, anche se mi sembra che le conclusioni tratte siano di più ampio respiro. In primis si parla di ironia ma, come vedremo, definire il campo di ricerca è cosa ardua. Così introduce il paragrafo dedicato a questa figura retorica Bice Mortara Garavelli (Garavelli, B. M. 1988, p.167): “l'ironia non è definibile secondo modelli perché è basata sulla incompletezza

dell'informazione” - intendendo con ciò, che l'ironia spesso si rifà a parti di significato che sono esterne al sistema di significazione dove nasce. Un esempio utile per chiarire questa affermazione potrebbe essere quello dell'antifrasi, una speciale forma di ironia aggressiva basata sull'affermazione dell'aperto contrario di quello che si vuole dire: se affacciandomi alla finestra vedo piovere a dirotto e dico ”che bella giornata!”, questa è un'antifrasi la cui ironia non è testuale ma intertestuale, poiché concorrono all'interpretazione del senso sia la valutazione di un altro ascoltatore a proposito della giornata (innegabilmente pessima), sia la valutazione di altri fattori quali potrebbero essere il mio tono di voce e la mia postura.

In sintesi l'ironia è basata soprattutto sul fatto che l'autore del testo sia sicuro di trovare nel ricevente una collaborazione ed un'intesa per cui, conoscendo il mondo valoriale del parlante, ne tenga conto nella sua interpretazione. Per quanto detto sino ad ora il lettore può intuire quanto difficile sia un'analisi prettamente testuale dell'ironia, soprattutto quando questa si rifà ad un contesto culturale lontano dal nostro nello spazio e nel tempo.

In entrambe le storie comiche presentate accade questo: ci viene presentato un mondo valoriale cui ci viene chiesto di partecipare. I personaggi in questo caso sono apertamente contrari al mondo letterario a cui siamo abituati, si noti bene: il maestro, vero artefice della prima storia, è un perso-naggio che esprime una serie di valori contrastanti a tutti quelli espressi dai maestri zen finora incontrati: non ha stabilità dell'animo, non è in piena accettazione dell'esistente, non cerca di ottenere i suoi fini con la non interferenza, non ha una morale solida e soprattutto è in preda al discernimento.

Allo stesso modo, l'abbiamo analizzato in precedenza, anche i discepoli hanno valori fortemente contrastanti alla realizzazione della meditazione. Sembra perciò che la vena ironica qui stia nel prendere l'unica solida certezza che fino ad ora ci era stata data, ovvero la posizione e il ruolo del maestro e dell'allievo, e metterla in discussione.

A ben vedere ho estratto due delle caratteristiche fondamentali dell'ironia (Garavelli, B. M. 1988, p.166) la rottura della consuetudine e lo sgonfiamento dell'enfasi, tratti entrambi presenti in parecchie storie zen che non abbiano, come le due in analisi, una esplicita finalità comica. Esattamente come ha funzionato per il film Apocalypse Now, qui le storie sembrano usare l'ironia come modalità di racconto in modo da provocare in chi legge un distacco che è programmatico, poiché è strettamente legato ai valori dello zen: la consuetudine che questa usa, e contro cui si scaglia, è sempre quell' aspettativa che noi mettiamo in atto quando cerchiamo di controllare i fatti del mondo tramite il lavoro della nostra mente. Così l'ironia non è altro che il riportare bruscamente il lettore alla realtà dei fatti, dimostrandogli l'inadeguatezza del costrutto mentale che le storie stesse hanno invitato a creare.

Alla stessa maniera essa cerca di distruggere l'enfasi, che potrei definire come la volontà di dare risalto ad un fatto tramite il linguaggio, cosa che è assolutamente opposta al concetto di non discerni-mento dello zen.

Si noti dunque che quella contenuta nelle storie zen è un'ironia sì intertestuale, cioè dalla storia che ne è vettore di solito attacca costrutti e strutture che si sono sedimentate nell'intero corpus, ma anche intratestuale, poiché è solo restando chiusa nel corpus delle storie zen che essa è potuta sopravvi-vere fino ai giorni nostri. Se infatti questa si fosse nutrita della cultura del tempo, avrebbe piano pano perso la sua potenza mano a mano che i fatti a cui era legata fossero scomparsi dalle enciclopedie dei lettori che nei secoli si apprestavano a leggere le storie zen.

Questo è sentore di qualcosa di davvero importante: le storie zen sono scritte per sopravvivere, sono una macchina progettata per passare il vaglio del tempo e del luogo. Hanno la caratteristica che ha la grande letteratura, di parlare attraverso i secoli.


La parte 3.9 (MAPPA DEL SENSO) è tralasciata…

Si passa alla parte 3.10 IMPORTANTI NOTE SUL LAVORO DI ANALISI

 

3.10 IMPORTANTI NOTE SUL LAVORO DI ANALISI

In conclusione all'analisi c'è un importante considerazione da fare. La divisione in gruppi e sotto-gruppi, è nata da un'analisi preliminare condotta su tutte le 101 storie zen, con strumenti strutturalisti. Questi infatti hanno prodotto i maggiori risultati, e si sono dimostrati funzionali nella maggior parte dei casi. Inoltre l'analisi strutturalista si presenta più “formalizzata” e dunque permette di creare un piano di base per un confronto tra le storie.

Non si è sempre potuto procedere secondo questo tipo di analisi, in quanto alcune storie non presen-tavano narratività, o questa non era la caratteristica fondante della generazione di senso. Questo è successo soprattutto nel gruppo terzo, quello delle storie umoristiche dove il mio lavoro si è affidato soprattutto a strumenti di analisi dell'interpretazione, di collaborazione del testo con le enciclopedie e le aspettative del lettore. L'impiego di strumenti profondamente diversi mi ha portato ad avvalorare la tesi che i testi avessero al loro interno importanti differenze, che sono riuscito a sistematizzare grazie ad uno schema proposto da Ferraro (2007, p.6).

I tre gruppi sin qui analizzati si possono apertamente far risalire alla suddivisione che Ferraro dà delle tre componenti dell'identità del sistema narrativo, chiamate “invenzione simbolica, esposizione di eventi, forma”. L'autore presenta queste tre componenti come le tre funzioni fondamentali di ogni atto comunicativo, tre lati di un triangolo, che riporto qui di seguito (Ferraro, G. ivi, p.6).

 

 

 

 

 

Lo stesso Ferraro esplicita chiaramente che i racconti non devono necessariamente rifarsi ad una sola di queste caratteristiche, ma anzi specifica come il meticciato sia la forma più diffusa. Sostiene, però, che sottolineare se un testo abbia una quantità maggiore di una o dell'altra caratteristica ci aiuta a comprenderlo meglio. Vediamo le funzioni per come l'autore le presenta:

Invenzione simbolica: sono testi che privilegiano l'invenzione di una storia di fantasia e che espri-mono valori secondo una modalità che noi definiamo simbolica. Seguono la prospettiva del “percorso generativo del senso” proposto da Greimas, dunque sono facilmente distinguibili dagli altri gruppi in quanto è molto evidente dedurne gli attanti e soprattutto capire quali oggetti vengono investiti di valore.

Esposizione di eventi: testi che privilegiano il lato “di cronaca” e sembrano non avere una funzione simbolica, ma essere solo una mera descrizione di fatti. Un esempio potrebbe essere un articolo di giornale. Greimas a proposito di questo genere di testi sottolinea come ci sia, comunque, un rapporto con l'ideologia di fondo dell'autore, in quanto i fatti vengono scelti e presentati secondo una selezione soggettiva. È come se il percorso generativo venisse seguito al contrario, partendo dal livello figurativo e spostandosi a quello delle strutture semantiche più profonde.

Per specificare meglio, le forme narrative canoniche: “corrispondono ai modi della nostra soggettiva percezione dell'esperienza di vita” (Ferraro, G. ivi, p.6) Se dunque noi percepiamo la realtà secondo sistemi simbolici che sono creati dall'esperienza della realtà stessa, possiamo capire come le due modalità di uso del percorso generativo siano possibili.

Forma: questi testi sembrano presentarsi con il solo scopo di mostrare una buona costruzione formale, avvincendo il lettore con una trama ben costruita. Ferraro sottolinea che se un testo viene percepito come “ben costruito”, significa che la sua forma risponde ai modi della nostra percezione.

Vediamo come queste categorie possono rapportarsi a quelle emerse dal lavoro di analisi: la prima categoria, che ho chiamato “storie vere e proprie”, comprende – direi anzi, è – la categoria di “invenzione simbolica”, in quanto le storie esprimono il loro significato proprio attraverso l'investi-mento di valore di oggetti, tramite un meccanismo simbolico. Sebbene non nascano in un mondo possibile diverso dal nostro, e siano quindi verosimili, possiamo con buona approssimazione pensare che i contenuti siano in buona parte o inventati o, nel caso prendano spunti da fatti accaduti, riela-borati pesantemente. Come premesso, questo gruppo ha raccolto la maggioranza delle storie zen.

Il secondo gruppo, che ho chiamato di “storie descrittive”, può essere tranquillamente sovrapposto al gruppo “Esposizione di eventi”, in quanto le modalità della narrazione vengono messe da parte per lasciare spazio a divagazioni su oggetti, oppure su ragionamenti che stanno un livello sopra alle storie. La commistione tra il primo ed il secondo gruppo è fortissima ed avviene in due modi: un testo del primo gruppo viene affiancato da una descrizione che lo introduce, spiegandone nei dettagli alcune parti, in modo da attualizzarlo per esterni alla cultura zen. Oppure, altro caso piuttosto frequente, un racconto del primo gruppo viene “mescolato” con una descrizione, che si presenta in forma di ragionamenti sul succedersi dei fatti. Questo genere di operazione è meno frequente poiché produce l'effetto di lontananza e distacco dai fatti, cosa che lo zen non approva.

Il terzo gruppo, da me battezzato “storie umoristiche” sembra essere contenuto in quello delle “storie di forma”. Per come concepite da Ferraro, queste basano il loro senso ed il loro appeal soprattutto sulla buona forma della loro struttura. Proprio in questa maniera funziona l'umorismo, in cui le strutture ideologiche sembrano messe da parte per lasciare spazio all'effetto comico, dato dalla cadenza della storia stessa. Non ci stupisce dunque che non ci sia molta commistione tra il secondo gruppo e il terzo, poiché le due modalità sono antitetiche per effetto (estremo distacco e pura emozione).


 

4. CONTROLLO (Le parti 4.1 e 4.2 sono tralasciate)

si passa alla parte 4.3 Controllo dei risultati

 

4.3 Controllo dei risultati

4.3.1 Storie del gruppo 1

Ho condotto l'analisi cominciando con la discussione della storia numero 92, poiché questa è una delle più complicate da decodificare per la mentalità occidentale. Come ne testimonia l'appartenenza al primo gruppo, la parte preponderante del lavoro di decodifica è volta alla narrazione. Ricordiamo in breve la trama:

93. Un monaco parla ai suoi discepoli di una donna la quale ha una sala da tè ed è una grande conoscitrice dello zen. Così i discepoli si recano dalla donna. A quelli che chiedono del tè la donna lo versa tranquillamente. A quelli che chiedono di discutere dello zen la donna dà un colpo in testa con un attizzatoio.

La prima reazione dopo la somministrazione della storia è di sgomento. Gli intervistati tendono a focalizzarsi sulla forma, che risulta a loro incompleta. Alcuni sostengono che questo avvenga a causa della mancanza di dettagli (“la storia sembra poco arredata”(6), altri invece sostengono che la storia manchi di una morale. È chiaro e dato per scontato il confronto con la fiaba, che aumenta le aspetta-tive di una morale definitiva a conclusione della storia. Interpellati sul motivo di questa mancanza, gli intervistati reagiscono in quattro modi:

 

Nota 6: Ove non specificato diversamente, le citazioni virgolettate sono da attribuire agli intervistati.

 

a) Si appellano al caso, sostenendo che non c'è legame tra il colpo in testa e le premesse della storia. Uno di loro sostiene che “la storia parla della casualità della vita, di come gli eventi non possono essere previsti”. Poi è lui stesso a dire “non capisco quale sia però lo scopo di scriverci sopra una storia”.

b) Sostengono una simbolizzazione diversa del colpo di attizzatoio, ovvero sostengono che “il colpo di attizzatoio può avere una valenza magica, oppure può averla il dolore”, citando alcuni riti di iniziazione in cui “il dolore fisico è positivo”.

c) Giungono vicini alla conclusione che lo zen sia propriamente il fatto di bere il tè, valutando che “il colpo di attizzatoio è una punizione, il discepolo non aveva capito che non doveva chiedere lo zen, doveva solo bere il tè”. Lo zen, dopo alcune domande di approfondimento, viene dunque visto soprattutto come il silenzio e la tranquillità.

d) Ragionano ancora sulla storia, e concludono che una morale c'è: quando il maestro dice ai discepoli che la signora alla casa da tè è una profonda conoscitrice dello zen “sta facendo un test per vedere se i discepoli gli credono”, insomma il colpo di attizzatoio sarebbe “una punizione per non aver creduto ciecamente nel maestro”.

4.3.2 Interpretazione della narratività

La prima interpretazione è fallace, e porta a credere che la storia sia composta di parti slegate. Il lettore percepisce regolarmente l'atto di manipolazione del maestro ma non si spiega come la sanzione (il colpo in testa) sia collegata alla performanza (mancata od effettiva). Dunque mette in dubbio la narratività che sottende la storia. Si noti che questo è ciò che la storia vorrebbe, ma il lettore ci arriva fuori della storia, e quindi banalizzandolo: la storia sull'attizzatoio parla della casualità della vita, quindi un qualunque altro stralcio di vita l'avrebbe potuta sostituire.

La seconda interpretazione, mancando di nuovo nel collegamento tra sanzione e performanza, mette in dubbio invece il concetto di sanzione: appartenendo ad un'altra cultura, lo stesso colpo con l'attiz-zatoio può essere connotato diversamente, come un atto di crescita. Pur sbagliando, questa interpre-tazione illumina un lato della storia di cui non mi ero reso conto: il dolore fisico è utilizzato per ripor-tare al qui-ed-ora il discepolo.

Nella terza linea di interpretazione ci si avvicina molto al significato che io ho dato della storia. Una volta espressa, il focus group viene a convergere, tutti sono d'accordo che l'economia di questa spiegazione sia migliore delle altre. Viene però sottolineato il lato “schivo” dei ragazzi che bevono il tè, ovvero sembra premiata la loro moderazione.

L'ultima interpretazione ha lo stesso potere di catalizzare il consenso nel focus group, sempre, io credo per la sua economicità. I partecipanti non si spiegano però per quale motivo non venga espli-citata un'informazione importante, ovvero che la donna è d'accordo con il maestro. Le interpretazioni aberranti (possiamo definirle così in quanto non economiche) sono state in buona parte deviate da due fattori:

a) La mancanza di enciclopedie condivise, soprattutto su argomenti che il testo zen si aspetta dal suo lettore modello (ad esempio il fatto che il bere il tè sia un fondamento pratico dello zen)

b) La difficoltà di percepire la narratività come un ostacolo all'interpretazione. Su questo argomento una ragazza appassionata di teatro ha citato le composizioni del teatro Kabuki, supponendo che fosse proprio la ricerca della narrazione a distrarre dall'interpretazione (ma propendendo poi per il primo tipo di interpretazione, secondo cui si parla della casualità).

4.3.3 Storie del gruppo 2

Storia in analisi è qui la numero 31, riportata di seguito:

31. Camminando per il mercato, Banzan colse un dialogo tra un macellaio e un suo cliente. «Dammi il miglior pezzo di carne che hai» disse il cliente. «Nella mia bottega tutto è il migliore» ribatté il macellaio. «Qui non trovi un pezzo di carne che non sia il migliore». A queste parole, Banzan fu illuminato.

Secondo l'interpretazione degli intervistati la storia sarebbe piuttosto banale, e tenterebbe di descri-vere due aspetti della vita di tutti i giorni. L'illuminazione di Banzan viene interpretata come la com-prensione della stupidità della domanda del cliente: questa sarebbe stupida non tanto per il suo con-tenuto, ma per il fatto che verrebbe posta allo stesso venditore. Trapela una certa diffidenza di fondo per cui il cliente "è semplicemente stupido", mentre il macellaio è certamente in malafede.

Alla mia obiezione che se il macellaio fosse davvero in malafede darebbe al cliente un pezzo di carne non troppo buono (in quanto la domanda lo esporrebbe per quello che è, ovvero un uomo incapace di valutare la carne) sembra che il lavoro interpretativo si sia fermato, senza lasciare sbocchi.

Alla richiesta di riscrivere la storia migliorandola, gli intervistati propongono che Banzan se ne vada dal mercato dopo aver sentito il discorso, poiché ha capito che il macellaio non è una persona di cui fidarsi.

4.3.4 "Tutto è il migliore" e le difficoltà dell'interpretazione

Sebbene il testo abbia al suo interno personaggi ed azioni, si noti che il fulcro del suo senso non è basato su questi, ma piuttosto sulle parole usate, nel caso specifico le parole "tutto è il migliore". Con questa premessa intendo spiegare perché il testo sia stato posizionato nel secondo gruppo, e dimostrare come la classificazione da me introdotta abbia un fondamento importante nella meccanica delle storie.

Nel corso del focus group ho confermato la mia ipotesi, notando come il lavoro interpretativo più forte fosse rivolto proprio a quelle parole. "Tutto è il migliore" è necessariamente venuto ad avere una connotazione negativa, per cui il macellaio è sicuramente un truffatore: tutto non può essere il migliore, il macellaio dice questo perché vuole ottenere qualcosa dal cliente. L'illuminazione, secondo questa linea di pensiero, viene descritta come l'arrivare a "capire un fatto del mondo", una verità semplice che spesso non si vuole ammettere.

Il significato profondo della storia non è stato raggiunto a mio parere per un motivo fondamentale, ovvero la mancanza di conoscenze enciclopediche sullo zen. Per lo zen infatti tutto è davvero il migliore, secondo quell'ottica di /non discernimento/ di cui abbiamo accennato all'interno della mappa del senso. Il vero significato di questa storia è esattamente quello più lineare per i personaggi: il macellaio intendeva dire esattamente che non cè niente da perdere a comprare la sua carne, ed esattamente alla stessa conclusione arriva Banzan. Questa spiegazione, oltre che essere avvalorata dai testi, è anche la più economica.

4.3.4 Storie del gruppo 3

La storia in analisi è la seguente, peraltro già analizzata nel capitolo quarto:

72. Gli allievi della scuola di Tendai solevano studiare meditazione anche prima che lo Zen entrasse in Giappone. Quattro di loro, che erano amici intimi, si ripromisero di osservare sette giorni di silenzio. Il primo giorno rimasero zitti tutti e quattro. La loro meditazione era cominciata sotto buoni auspici; ma quando scese la notte e le lampade a olio cominciarono a farsi fioche, uno degli allievi non riuscì a tenersi e ordinò a un servo: «Regola quella lampada!». Il secondo allievo si stupì nel sentire parlare il primo. «Non dovremmo dire neanche una parola!» osservò. «Siete due stupidi. Perché avete parlato?» disse il terzo. «Io sono l'unico che non ha parlato» concluse il quarto.

Si noti che, al momento della lettura, alla storia è stato riconosciuto un ruolo comico, sebbene lo si sia perso poi durante una lettura più razionale – e cerebrale – della stessa. Questo è già di per "né un segno che sia stata percepita come umoristica, e quindi una conferma della mia analisi.

Nelle domande seguenti ho cercato di muovere la discussione su quale fosse la fonte del ridere: in entrambi i gruppi c'è stata una netta concordanza sull'idea che si rida della stupidità dei personaggi. È interessante sottolineare la frase seguente, pronunciata durante il primo focus group: "lo scopo è così forte che perdono lo scopo", parlando soprattutto dell'ultimo ragazzo che per "vincere" perde l'opportunità di concludere i giorni di silenzio. Viene anche sottolineata l'idea che la storia "punisca" la stupidità dei ragazzi con la nostra risata, e in generale la stupidità data dal non riflettere sulle regole.

Da lì un'altra persona prova a supporre che tutti i personaggi siano portati a sbagliare dall'istinto. È quindi l'istintualità che viene punita. Solo una persona si focalizza sul fatto che non capisce l'utilità dello stare forzatamente in silenzio, ai fini di una meditazione ben riuscita.

4.3.5 Interpretazione più "facile" dell'umorismo

L'interpretazione di questo gruppo sembra essere più sciolta e condurre a buon fine. Se pensiamo, come sostenuto nell' analisi, che il senso stia nel lato comico della vicenda rappresentata, vediamo che gli intervistati lo colgono. E questo sebbene non capiscano alcune basi fondamentali della storia, come ad esempio la necessità stessa della situazione in cui i personaggi si mettono, il silenzio.


 

5. CONCLUSIONI

5.1 considerazioni generali

“La verità dello zen è che la verità dello zen non può essere detta”. Questo assunto, che è contenuto nell'introduzione al libro di Senzaki e Reps (1973), è stato il fulcro del presente lavoro. Come è possibile esprimere una verità non testuale con un testo? Ed inoltre, è possibile indagare una tale problema con strumenti testuali? Questa è la direzione in cui mi sono mosso per il presente lavoro di ricerca.

Come si sarà intuito anche dalla ricchezza del cap. 3, il mio sforzo in questo lavoro di tesi si è con-centrato sul lavoro di analisi. Ciò che il lettore ha potuto vedere è solo la punta dell'iceberg, in quanto, dell'analisi preliminare che ha coinvolto tutte e 101 le storie, ha visto solamente la sud-divisione nei tre gruppi (in base alla loro modalità di veicolazione del senso). La bontà di questa scelta è stata confermata, come spiego al paragrafo 3.10, dal perfetto coincidere dei miei gruppi con quelli proposti da Ferraro, delle tre componenti dell'identità del sistema narrativo.

Il capitolo di analisi che si presenta al lettore è stata dunque la “semplice” riformulazione per iscritto delle considerazioni che ho potuto trarre dall'incrociarsi dell'analisi semiotica dei testi, con l'aggiunta di alcune nozioni raccolte da altri testi (per la maggior parte Suzuki, D.T. 1975 e Watts, A. 1957) sulla cultura zen.

Da questo lavoro è scaturita un'altra importante scoperta, spiegata nel paragrafo 3.9, dal titolo emblematico “La mappa del senso” (da noi tralasciata. N.d.C.). Qui ho portato avanti un'opera di raccolta delle opposizioni di senso che ho rinvenuto nell'analisi delle 101 storie, facendo in modo che i significati non del tutto chiari venissero spiegati da altri che apparivano più forti(7).

 

Nota 7: Magari perché spiegati meglio in altre storie, magari perché più diffusi, seppure con delle varianti.

 

Questo in virtù del fatto che, essendo le storie parte di un corpus, alcune di esse erano lasciate volutamente incomplete, ed il senso demandato al confronto con altri elementi. Tramite questa operazione sono riuscito a creare una mappa, grazie alla quale è possibile, con i dovuti accorgimenti, spiegare tutti (o quasi) i significati delle storie contenute nel libro.

Il mio lavoro di analisi si è sviluppato ulteriormente. Il lavoro precedente ha infatti prodotto materiale discordante con le premesse della mia tesi: due elementi, la struttura delle storie ed il loro senso, i quali nelle mie premesse erano collegati, dopo l'analisi mi parevano tendere a due direzioni contra-stanti. Sembra infatti che mentre lo zen professa il /non discernimento/, la struttura linguistica che  usa per diffondere il messaggio si basi proprio sul suo opposto. Così è anche per il desiderio, che lo zen tende a considerare negativamente: lo zen non può fare a meno di usarlo nelle storie poiché la narrazione si basa proprio su questo. Le considerazioni che ho qui tratto sono fondamentali ed ho preferito non raccoglierle in un capitolo unico, ma piuttosto discuterle “a caldo”, mano a mano che rinvenivo elementi sufficienti per mostrare un'altra incongruenza.

Tutto questo importante lavoro di ristrutturazione del senso è stato da me svolto tenendo presente lo scopo presentato nell'introduzione del presente elaborato: dipanare la matassa dello zen, chiarire quale fosse il contesto in cui avesse senso produrre questo tipo di messaggi, per noi così contra-stanti. Liberare la disciplina dal misticismo, e soprattutto di questo capire l'utilità. Credo di essere riuscito nell'intento, spiegando anche la frase usata in apertura, “il significato dello zen non si può dire”. Questa è valida perché il significato dello zen è l'abolire il lavoro che la mente fa, di rendere “narrativi” o “collegati” i fatti del mondo, dunque lo stesso testualizzare il suo senso è perderlo in sé.

Il concetto appena esposto ed il discorso sul desiderio (contenuto nel paragrafo 3.9.4) mi sono sembrati talmente fondamentali da meritare un serio approfondimento, sebbene io sia conscio di quanta letteratura sia stata prodotta in merito, e di quanto infinitesimo risulterà il mio sforzo.

Ho aperto anche alcuni collegamenti con la psicologia (vedasi in proposito il paragrafo 3.7.2), i quali meriterebbero un'analisi più dettagliata, che demando a chi volesse continuare questo tipo di ricerca. Altri spunti interessanti potrebbero essere capire come funzioni l'atto dell'illuminazione, o il rapporto controverso tra l'allievo ed il maestro, o ancora analizzare in modo approfondito le somiglianze (sono davvero tantissime) tra la cultura zen e la psicanalisi (lavoro peraltro già cominciato da Vittorini, A. 2002). A proposito di quest'ultimo punto: l'attualità degli argomenti di cui tratta lo zen è un altro elemento che ha colpito la mia attenzione. Il fulcro di tutto sembra essere proprio l'annullamento dell'ansia tramite l'eliminazione del desiderio, meglio, delle aspettative da questo generate.

La Parte 5.2 è tralasciata…

Si passa alla Parte 5.3 Considerazioni Finali


 

5.3 Considerazioni finali

Del lavoro presentato qui, la componente di analisi è quella in cui ritengo di aver prodotto i maggiori risultati. Gli strumenti della semiotica si sono rivelati preziosissimi, e tali sono stati i dati che dai testi ho estratto. Viceversa, ho necessariamente dovuto trascurare il lato “sociale” dei testi, non perché fosse meno importante, ma piuttosto perché il lavoro di analisi si è rivelato più lungo e prolifico di quanto pianificato.

Dunque la componente di sociosemiotica presentata nel capitolo metodologico è servita soprattutto come cornice entro cui condurre la ricerca. Mi sembra comunque che il lavoro si presenti organico, quindi non mi pento della scelta, sebbene sia stata in parte forzata dalle circostanze.

In conclusione, il lavoro svolto è stato fondamentale per comprendere alcune parti della disciplina semiotica, per applicarne gli strumenti in maniera operativa, e per inquadrarne il lavoro pragmatico in una cornice concettuale forte. Ho maturato la ferma convinzione che le meccaniche di produzione, interpretazione e diffusione del senso da me studiate in questo lavoro, si riveleranno preziosissime in futuro, in qualunque campo della comunicazione mi trovi a lavorare.


 

Nel testo originale vi è una ricca bibliografia, che qui riteniamo di tralasciare, non essendo essa principalmente dedicata a testi Zen…

 

 


 

 

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