CONSIDERAZIONI SU L’"ARTE" DI VIVERE (1)
SECONDO IL VEDANTA
Tratto dal Bollettino ‘Vidyà’ - Maggio 2010
 

  

Riflessione sulla condizione individuale

Normalmente nella vita noi non abbiamo scopi particolari, viviamo secondo programmi prestabiliti: da giovani andiamo a scuola, poi troviamo un lavoro, forse ci sposiamo e facciamo in modo di avere figli. Viviamo imprigionati dall'orario di lavoro cercando di guadagnare di più per comprarci una casa, una macchina e altre cose. Andiamo in vacanza, rimuginiamo sulla pensione. I nostri veri problemi si riducono a dove andare in vacanza e che auto comprare. Passiamo la vita seguendo ostinatamennte questi condizionamenti che crediamo giuste aspirazioni. Sentiamo il bisogno di sicurezza e la basiamo sulla nostra individualità e sulla credenza nella nostra continuità fisica; il nostro desiderio più grande è di seguitare a vivere per sempre; crediamo che questa esistenza sia l'unica, e siamo perciò spinti ad agire secondo il nostro interesse personale.

Poi un giorno, forse per caso, sfioriamo l'aura di un Maestro e cominciamo a riflettere sulla banalità del nostro modo di vivere; pensiamo che la vita potrebbe avere un significato più profondo di quello che finora le abbiamo attribuito. Per approfondire ci avviciniamo ad un cammino che ci permetta di uscire dalla condizione umana, superando i desideri e gli attaccamenti dovuti al senso dell'Io(3), fino a sentirci parte di una Totalità(4). Purtroppo non è così facile come crediamo, partiamo pieni di buone intenzioni, ma appena ci toccano quest'io, noi reagiamo perché crediamo che ci venga minacciato. Dopo una certa riflessione ci accorgiamo che la vita è un divenire, un continuo cambiamento di forme; se tutto è in continuo cambiamento e niente può essere definito, allora cos’è che possiamo considerare fuori dal divenire, e che quindi è Reale?(5). L'unica cosa su cui possiamo fare affidamento è il momento presente; noi viviamo sempre in esso, ed è l'unico tempo in cui possiamo agire. Infatti ogni volta che ci osserviamo, ieri, oggi, domani, siamo sempre nel momento presente; per il nostro vero essere esiste solo il momento presente. La Dottrina ci insegna che la nostra essenza è pura coscienza non duale, ed è la stessa essenza di tutto ciò che esiste; tutti i fenomeni, pensieri, immagini, emozioni, sorgono in essa; ed anche la stessa mente sorge e dimora in essa, così anche la nascita e la morte, ma essa non nasce e non muore. Potremmo allora dire che, se siamo pura coscienza, non abbiamo bisogno di cercarla perché lo siamo già. Ma non è così, viviamo nel mondo della dualità, perciò siamo costretti a seguire gli insegnamenti secondo i metodi della dualità. Nel samsàra esiste il bene e il male, il positivo e il negativo, ecc., e la nostra esistenza si svolge entro questi limiti. Solo se viviamo consapevoli della nostra vera natura, fuori dalla dualità, non abbiamo bisogno di cercare nulla, perché già si è.


 

Mondo dell'esperienza e conoscenza diretta, e mondo della Realtà

Conoscere la Realtà non significa accumulare conoscenze, ma sperimentare il nostro vero essere, sapere ciò che realmente siamo. Il mondo costruito dai concetti è diverso dalla Realtà. Il mondo dei concetti, del soggetto e dell'oggetto, dell'essere e del non-essere, del tempo e dello spazio, della nascita e della morte, esiste solo per noi che viviamo nel divenire. Il Realizzato non è colpito dalle vicissitudini della vita perché egli vive nel mondo della Realtà, nel quale non ci sono soggetto e oggetto, essere e non-essere, tempo e spazio, nascita e morte.

Se i concetti non rappresentano la Realtà, per conoscerla non possiamo utilizzare la mente(6); allora in che modo possiamo sperimentarla? Secondo il Vedànta la Realtà si può sperimentare soltanto per conoscenza diretta, fuori dalla dualità di soggetto-oggetto, ed esso indica la sàdhana quale mezzo che ci può portare alla Conoscenza in cui soggetto, conoscenza e oggetto non sono più distinti, divengono uno. Questo tipo di conoscenza, o per meglio dire ‘realizzazione’, non può essere concepito dalla mente e nemmeno descritto a parole. La realizzazione può essere solamente vissuta e sperimentata; la Dottrina serve solo come guida per portarci all'esperienza di essa.

La sàdhana ha lo scopo di mettere in pratica, cioè portare in attuazione, la potenzialità del nostro vero essere, cioè della nostra vera natura e ci porta alla comprensione che la nostra vera natura è velata dall'ignoranza metafisica (avidyà). È questa che fa sorgere la mente razionale che, a sua volta, genera la dualità; cioè ci porta a dividere l'unità di ogni esperienza in poli concettuali, e poi a riferirci a queste proiezioni come se fossero enti separati con esistenza propria. La nostra proiezione della dualità divide l'esperienza in due poli, io e l’altro; quando ci identifichiamo con un solo aspetto della dualità, nascono le preferenze, cioè l'attrazione e la repulsione che diventano le basi di ogni nostra azione fisica e mentale. Se siamo interessati a seguire la Via, si tratta di cambiare il modo di porci in contatto con il mondo, cioè riuscire a comprendere che ogni evento che sperimentiamo non è altro che una modificazione della mente, e di conseguenza riconoscere la natura illusoria della nostra vita nel mondo del divenire.

In altre parole dovremo cercare di vivere ogni esperienza come un evento creato dalla mente, un'apparenza, e che quindi è non reale. È come quando ci accorgiamo che il serpente che ci spaventa è solo una corda, allora l'energia proiettiva scompare perché abbiamo riconosciuto un'apparenza, una ‘non-realtà’. Oppure, è come scambiare un miraggio per qualcosa di reale; come il ritenere reale la luna riflessa nelle diverse pozzanghere, ma la luna è una sola e i suoi riflessi sono solo apparenza. Purtroppo, noi nella vita proiettiamo in continuazione entità che crediamo separate, dotate di esistenza propria. Se riusciamo a comprendere che tutto quello che crediamo reale, compreso il nostro senso dell'io, è solo una nostra proiezione, allora vediamo il mondo, sia interno che esterno, come un'apparenza, un sogno… e noi, liberi, siamo nel mondo ma non del mondo. Ma senza una vera comprensione reagiamo alle proiezioni illusorie con attrazione o repulsione e creiamo il karma.

Per non farci condizionare dalle proiezioni della mente, il Vedànta propone di avvalerci del potere dell'attenzione(7); qualunque cosa si faccia, è necessario essere sempre consapevoli di quello che pensiamo e di quello che facciamo nel momento in cui lo facciamo, senza essere distratti o troppo concentrati; questo non significa che non si debbano avere pensieri, ma significa che non si dovrebbe reagire ai pensieri che si manifestano nella mente, e significa anche vivere nel momento presente, fuori dalla durata del tempo.


 

Costante vigilanza e continua applicazione

La sàdhana, come si vede, non è fatta di acquisizioni - ma di distacco, per portarci a considerare le esperienze come appartenenti al mondo della dualità, cioè al mondo delle apparenze; in pratica, ci invita a utilizzare il mondo del divenire per comprendere che esso è solo apparenza, ed a vivere in esso come in un sogno, utilizzandolo per ottenere la realizzazione. Il Maestro Shankara così scrive: «La maturità iniziatica può rilevarsi nell'attitudine al riconoscimento di qualsiasi situazione [giudicata o creduta] esterna, come un semplice prodotto mentale e, quindi, come una mera modificazione di coscienza»(8).

Ciò significa applicare nella vita di ogni giorno una costante e ininterrotta attenzione in modo da avere la capacità di cominciare a comprendere che le esperienze nella vita di veglia, da un punto di vista assoluto, sono simili ad un sogno; di conseguenza, le vicissitudini del mondo avranno sempre meno presa su di noi. Questo, non come una comprensione concettuale, ma come esperienza. Perciò la vera Arte del vivere consiste nel cercare di vedere in ogni esperienza la sua apparenza, cioè la sua non realtà, pur seguitando ad agire come se il mondo fosse reale; infatti, si tratta di vivere nel sogno sapendo di sognare. Ciò equivale a passare da una visione profana ad una visione sacra della vita. Se, a volte, abbiamo una qualche reazione verso un evento, piacevole o spiacevole, abituiamoci a non interpretarlo emotivamente per non reagire automaticamente, ma ad avere la capacità di osservarlo con distacco senza reagire ai pensieri che si manifestano nella mente, cercando di comprendere che ‘esso’ è solo un fenomeno, un evento passeggero, e perciò una ‘non-realtà’. Mano a mano che noi si avanzerà nella pratica, sempre più facilmente riconosceremo la “non realtà” dei fenomeni e ciò attenuerà l'importanza delle esperienze e diminuirà anche l'attrazione e la repulsione basate sulla dualità.

È inoltre fondamentale, riconoscere che ogni evento non è altro che ‘modificazione’ di coscienza, quindi un prodotto mentale, cioè un non reale assoluto. Infatti, è un riflesso della pura coscienza che genera la sostanza mentale (citta), che a sua volta genera la mente. Ogni pensiero, quale prodotto della mente, risulta perciò una rappresentazione formale dell’incarnato riflesso di coscienza e, quindi, la modifica non è altro che una modificazione superficiale del movimento dei guna (caratteristiche, attributi costitutivi e qualificativi).


 

Conclusione

Raphael, da un punto di vista che può sembrare diverso, paragona spesso la coscienza ad uno schermo su cui vengono proiettate le immagini del “film della vita”, sia dalla mente individuale del jiva che dal mentale universale di lshvara, avvertendoci che le immagini non sono entità distinte, ma piuttosto un gioco di luci ed ombre, quindi sono semplici apparenze che si formano sullo schermo.

Se, guardando lo schermo, vediamo le immagini che si agitano sullo sfondo, viviamo emozionalmente gli eventi che consideriamo reali, e siamo completamente invischiati nel divenire, con tutti i desideri e gli attaccamenti del senso dell'io, in pratica con tutta la sofferenza che comporta il mondo della dualità. Se invece, guardando, vediamo lo schermo bianco che circonda le immagini senza essere attratti dalle figure… ma da ciò che esse non sono, cioè dal puro e semplice schermo, allora siamo usciti dal divenire, e dimoriamo nell'Essere Supremo.

I due sommi Maestri Gaudapada e Shankara, insieme alle ‘Upanishad’’, dicono agli aspiranti asparsin «che non potranno modificare se stessi, se prima non cercano di modificare la propria visione della Realtà»(9).


 

 

NOTE:

1. Arte: azione basata su regole e conoscenze tecniche particolari, ma soprattutto sulla creatività personale, cioè sulla capacità di agire seguendo i princìpi universali.

2. Vedi: Periodico Vidya, marzo 1991- SarvaVedàntasiddhàntasarasangraha, commento al sutra 795.

3. Il senso dell'io è ciò che nasconde il nostro vero essere. Le innumeerevoli vite ci hanno portato a identificare il nostro vero essere con l'io.

4. Totalità dell'esistenza, cioè un tutto unico e indivisibile.

5. Secondo il Vedanta, la Realtà deve essere unica, non duale e senza relazione ad altro e deve essere la stessa per tutti, sempre e dappertutto.

6. La mente crea incessantemente concetti, ossia nozioni generali e astrattte. I nostri pensieri diventano azioni abitudinarie, cioè condizionamenti.

7. L'attenzione è la continua, ininterrotta e naturale applicazione, senza sforzo, della mente su un oggetto. Cfr. Vivekacudamani, commento al sutra 70. Edizioni Ashram Vidya, Roma.

8. SarvaVedàntasiddhàntasarasangraha, commento al sutra 795. Op.Citata

9. Dalla nota conclusiva di Raphael alla Mandùkya Upanishad. Edizioni Ashram-Vidya.