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L'ATTUALITÀ DELLA FILOSOFIA
DI SHANKARA*
di Sri R. Rangan
* Estratto da Tattvàloka. - Dal Bollettino Vidyà di Luglio-Agosto 200
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Presentazione
«I problemi sono causati dall'avidya (non-conoscenza) che si trova all'interno; perciò anche la loro soluzione è interiore».

L'umanità è afflitta da numerosi problemi, molti dei quali non possono essere risolti dalla scienza, in quanto essi si collocano in un dominio che va oltre la scienza e appartengono alla mente nella sua interezza. Per affrontarli c'è bisogno di un approccio diverso e il Vedànta fornisce il "metodo" per eccellenza per la loro soluzione.

Shankara Bhagavadpada, il più prestigioso tra gli esponenti del Vedànta, attribuisce la maggior parte dei problemi umani all'avidyà, conoscenza erronea, ancora più perniciosa dell'ignoranza. Una volta che è rimossa l'avidyà, la quale costituisce l'ostacolo principale, le difficoltà cessano e la mèta della emanncipazione è a portata di mano: ciò è il nocciolo del suo insegnamento.

Sri R. Rangan è un giovane accademico vedico educato alla maniera tradizionale; egli analizza l'approccio vedantico in una serie di articoli, sotto il titolo L'attualità della ‘Flosofia di Shankara’, che risultano chiari e convincenti, scritti con un linguaggio comprensibile, arricchiti da citazioni tratte dal Ràmayana e dal Mahàbhàrata. Sri Rangan ha condotto una sadhana prolungata, dedicandosi allo studio del VyakaraI'Ja (Scienza della scrittura, grammatica), del Sahitya (retorica e poetica) e del Bhakti Sastra (testi che trattano dell'adorazione e venerazione della Divinità); ha scritto vari libri su Veda, Epica (RàmàyaI'Ja) e Yoga. Attualmente è consulente dell'Università Vivekananda Yoga di Bangalore.

 

1. Il problema primordiale

«Poiché la natura del Brahman [la Realtà Ultima] è esente da ogni qualificazione, anche la Shruti ci illustra il Brahman proprio attraverso la negazione di qualsiasi aspetto distinto»(1).

La scienza da sola non può risolvere tutti i problemi del genere umano poiché molti di essi dipendono dalla mente, con cui la scienza non ha dimestichezza, e inoltre sono più numerosi e complessi dei problemi esterni. Se qualcuno è malato fisicamente, ma mentalmente felice, il suo stato mentale può minimizzare l'impatto della malattia; ma se si è infelici mentalmente non c'è conforto fisico che ci possa rendere lieti.

Gli occidentali, comprendendo che la scienza non poteva risolvere tutti i problemi del genere umano, si sono rivolti alla psicologia, che si occupa della mente. Gli psicologi cercano di risolvere i problemi analizzando la mente e indagando sui pensieri, che creano disagi di vario tipo.

Tali condizioni mentali sono state definite "complessi" dalla psicologia moderna; complessi vari, come quello di superiorità o inferiorità, che dimorano nella parte inconscia della psiche creando disarmonie; essi vengono studiati come fenomeni a sé stanti e si procede per tentativi in modo da risolverli.

Tuttavia tale metodo non è sufficiente a decifrare tutti i problemi per due ordini di ragioni:

- i complessi non sono né perfettamente quantificabili né numerabili poiché la mente ne ha tanti che risulta impossibile contarli, analizzarli e risolverli tutti;

- un complesso non può esser risolto con la sua semplice scoperta, definizione e analisi.

D'altra parte, il Vedànta risolve simili problemi in modo migliore; è nella sua natura procedere per sintesi accomunando cose apparentemente diverse ed è questo il motivo per cui una domanda del tipo "Qual è quella cosa tramite la cui conoscenza tutto ciò che esiste è conosciuto?" è fondamentale nel Vedànta. Tale filosofia lascia ad altri il compito di indagare tutti quei particolari che creano le differenze e si occcupa soprattutto di sintesi. Il Vedànta si interessa dell'essenza, risponde solo alle domande fondamentali, volge il proprio sguardo soprattutto alle fonti, ai semi primari di vita, religione, cultura e spiritualità, cerca l'unificazione, rintraccia il filo comune che collega le cose. Pertanto è fondamentalmente più una scienza di sintesi che di analisi.

A differenza della psicologia, il Vedànta non vuole definire ogni singola condizione mentale cercando di enuclearla dall'intero unitario: i complessi non sono affrontati singolarmente. Esso si occupa innanzi tutto del problema primario, radice-e-causa di tutte le altre disarmonie, in quanto ritiene che tale problema tenda a ripresentarsi ciclicamente sotto forma di blocchi, ossessioni, nodi e, appunto, "complessi". Se si riesce a trovare la soluzione per il problema primario, c'è la possibilità di risolvere tutti gli altri problemi; questo è ciò che il Vedànta vuole trasmetterci.

Qual è dunque il vero nocciolo della questione? Il Vedànta non dice, inefficacemente, che la radice-causa di tutti i problemi e le sofferenze del mondo è il desiderio. Il desiderio è la natura stessa di ogni essere vivente, là dove c'è un organismo, c'è desiderio; dal verme fino ai più grandi del mondo, ognuno è mosso da desideri di vario tipo e complessità. Anche dalle Upanishad apprendiamo che il Divino ha avuto il "desiderio" di diventare molti e quindi il mondo è stato creato: «Che Io divenga i molti manifestandomi con il venire all'essere!»(2).

Se il desiderio è la radice-causa di ogni sofferenza, allora il primo essere a divenire vittima delle sofferenze dovrebbe essere proprio il Divino, che ha o ha avuto il desiderio di divenire i molti. Ma il Divino, secondo le Upanishad, è del tutto beato e non soggetto ad alcun tipo di sofferenza; quindi il semplice desiderio non può essere la radice-causa delle sofferenze. Shankara, uno dei più grandi filosofi del Vedànta, va ancora più in profondità in quanto afferma che è l'avidyà la radice-causa di tutte le sofferenze o problemi, è l'avidyà il problema primordiale origine di tutti i problemi del mondo.

Secondo Shankara basta risolvere la sola avidyà, e tutto il resto sarà risolto.

 

2. La nescienza-avidyà

«Avidyà è scambiare qualcosa per ciò che non è» (Adhyàsa Bhàshya)(3).

Ma che cosa realmente intende Shankara per avidyà? Anche se il significato letterale del termine “avidyà” è ignoranza, per Shankara l'avidyà rappresenta la conoscenza erronea, o comprensione sbagliata, il che è anche più problematico e pericoloso dell'ignoranza stessa.

In un racconto popolare si narra di un maestro che, avendo posto una domanda, riceve una risposta erronea da parte di uno studente e silenzio da parte di un altro. Il maestro è più severo con colui che ha sbagliato poiché con la sua risposta non corretta può confondere i suoi compagni di classe. Lo studente che aveva sbagliato si giustificò dicendo che dire qualcosa era meglio che tacere, al che il maestro rispose che era meglio tacere piuttosto che dire stupidaggini.

È evidente per tutti che molti problemi sorgono a causa di una conoscenza erronea o comprensione sbagliata. Con la comprensione sbagliata si prende una cosa per un'altra o si confonde "questo" con "quello". Gaudapada e Shankara hanno dato alcuni esempi di comprensione erronea. Infatti, si può scambiare: - la corda per un serpente; - il pilastro per un fantasma; - le forme assunte dalle nuvole per la città degli esseri celesti; - qualunque oggetto luccicante per argento o oro; - un miraggio per una pozza d’acqua, ecc.. L'equivocare si può manifestare in vari modi, si può ad esempio confondere: - una persona per un' altra; - un concetto per un altro; - una qualità di un uomo per la qualità di un altro; - un'ideologia per un'altra, ecc.

Scambiare qualcuno per un altro può creare diversi problemi e vari sono gli esempi nei nostri poemi epici. Dal Ramayana leggiamo che Sità (la sposa di Ràma), attratta dal colore dorato di un cervo - che altri non era se non Màrica, un dèmone sotto mentite spoglie - erroneamente lo ritiene un essere benevolo e meraviglioso, a causa di tale errore essa poté essere rapita da Ràvana. Lo stesso Ràvana ritenne erroneamente suo fratello Vibhisana un nemico mentre scambiò alcuni lestofanti per amici fidati.

Anche nel Mahàbhàrata ci sono vari esempi: Il re cieco Dhrtaràstra aveva sempre considerato come virtuoso Duryodhana e l'errore si spinse fino al punto di considerare malvagi i Pàndava; anche sua moglie Gàndhàri ritenne che i Pàndava e Krishna fossero malvagi. Tali errate valutazioni portarono alla terribile guerra tra i Kaurava (di cui Duryodhana era il capo) e i Pàndava con alla testa Arjuna(4).

Una più attenta osservazione ci può far comprendere che la maggior parte di questi giudizi errati si fondano sul senso dell'io: nonostante le precauzioni del cognato Laksmana, il desiderio di Sità per il cervo dorato, ha come movente l'avidità dell'io.

Il grande santo-filosofo Vedànta Desika mostra nel proprio lavoro Samkalpa Suryodaya come il jiva-tattva (ciò che ha natura di jiva, in questo caso Sità), separata dal para-tattva (la Realtà Suprema, Ràma), viene attratta dall'avidyà nella forma del cervo dorato. Gli errori di Ràvana e di Gàndhàri, a proposito rispettivamente di Vibhisana e di Krishna, sono tutti dovuti al senso dell'io che si manifesta come avidità in Gàndhàri e amore cieco in Ràvana.

La conoscenza erronea o comprensione sbagliata (avidyà) non si basa sulla realtà che va ben oltre le potenti forze dell'attrazione (ràga) e della repulsione (dvèsa); essa è puramente egocentrica. Ad esempio, è l'io che non permette a Ràvana di comprendere Ràma o Vibhisana ed è sempre l'io che non ha mai permesso a Duryodhana di capire che i Pàndava erano più forti di lui. Tutto ciò che non si basa sulla realtà, che trascende le preferenze e le avversioni (ràga e dvèsa) tipiche del senso dell'io e tutto ciò che su di questo si basa non può essere una virtù ma un vizio, un errore; quindi chi commette un simile errore dovrà prima o poi pentirsene.

 

3. La conoscenza-vidyà

«La sovrapposizione-adhyàsa senza inizio e senza fine che appare sotto forma di nozione erronea è a tutti evidente. Le Scritture vedànta [Upanishad] si adoperano per rimuoverla e stabilire la giusta conoscenza dell'àtman» (Adhyàsa Bhàshya)(5).

È interessante notare come Shankara non raccomandi mai un'azione esterna quale soluzione diretta per problemi che siano dovuti solo all'avidyà, che è del tutto interna. Pertanto, la soluzione di tali problemi non può che venire dall'interno. Ma qual è la soluzione?

Se qualcuno ha paura di un serpente vero che si trova a casa propria, il rimedio può provenire solo da una persona coraggiosa che si munisce di un bastone ed allontana il serpente, esercitando uno sforzo notevole; e qui viene senz'altro richiesta un'azione. Ma se qualcuno trema perché ha scam-biato una corda per un serpente, l'unica soluzione è un'effettiva comprensione della corda; questa giusta comprensione è detta ‘vidyà’, ed è l'unico rimedio diretto per risolvere il problema di ciò che chiamiamo ‘avidyà’.

Ma dovrebbe esserci un notevole sforzo di volontà per liberarsi della nozione pre-concetta su cui si basa la comprensione erronea e, anche dopo aver acquisito la giusta comprensione, la corda può continuare ad apparire come un serpente allorché la si vedrà nell'oscurità. Anche se si può poi capire, si continuerà a essere confusi poiché nella mente continuano a esistere delle nozioni preconcette; la giusta conoscenza da sola non è abbastanza, dovrebbe essere completa, così da distruggere tutte le nozioni preconcette riguardo alla corda. Shankara definisce samyagjnàna questa giusta comprensione completa, mentre la giusta conoscenza ordinaria viene detta jnàna.

In genere non è semplice rinunciare alle nostre convinzioni, anche perché per poterlo fare bisogna superare il senso dell'io. La maggior parte delle nostre idee preconcette si basa su forti preferenze o avversioni che riguardano questioni connesse al senso dell'io o dell’individualità separata, come ad esempio: casta, credo, sesso, religione, parenti, razza e lingua.

Vibhisana e Vidura avevano dei compiti davvero difficili, in quanto non è poi cosi semplice vedere delle colpe nel proprio fratello a cui si è molto affezionati. Vibhisana lascia Ravana e Vidura lascia Dhrtarastra non perché li odiano, ma perché hanno la capacità di vedere gli aspetti perversi nei loro fratelli. L'avidyà determina confusione anche tra sofferenza e pura gioia; alcune persone scambiano la sofferenza per gioia. Un oggetto può dare un piacere nell’immediato, ma causare nel tempo una sofferenza prolungata; ad esempio anche l'assuefazione alle droghe può causare un iniziale stato di piacere ma, se ne osserviamo la natura, scopriamo che la maggior parte delle cose che dànno un piacere iniziale ci portano poi verso la sofferenza, mentre le cose inizialmente penose, possono offrire in seguito una gioia prolungata. Se Duryodhana avesse considerato come amici i Pandava ne avrebbe beneficiato in vario modo, ma un fato crudele glieli fece scambiare per nemici con le inevitabili drammatiche conseguenze.

 

4. La conoscenza perfetta

«Il dharma delle grandi anime è sottile e non facilmente comprensibile. L'unica anima esistente nel cuore di tutti gli esseri sa ciò che è giusto e ciò che è sbagliato» (Ràmàyana, 4.18).

La “vidyà”, o corretta comprensione, chiarisce ed elimina la confusione. Con la confusione provocata dall'avidyà si è infelici, ma con la sua rimozione e con una comprensione appropriata si arriva a conoscere rettamente le cose e si ritorrna a essere felici. La vidyà non solo include una conoscenza ampia e giusta ma anche completa in quanto una conoscenza parziale non risolverebbe il problema.

 

Di ciò si hanno molti esempi nella nostra produzione epica. Quando Vali stava per essere ucciso, incominciò a maledire Rama, ma all'improvviso subi una trasformazione e incominciò a elogiarlo. E come accadde tale miracolo? I poeti Kanban e Tulsi ce lo hanno spiegato: secondo questi due grandi poeti, Sri Rama dotò Vali di una saggezza spirituale o giusta comprensione della vita e dell'àtman, avvolgendolo con uno sguardo benevolo. Quando Vali comprese le verità più profonde trasmesse da quella grande anima, verità che vanno oltre ciò che è mondano e triviale, non vide più alcuna pècca in lui e fu felice di essere ucciso da Rama; questo è il potere della giusta conoscenza.

Dopo la morte di Ravana, Rama rivolse a Sita parole molto dure malgrado la rivedesse dopo un lungo periodo. Tutti ne furono sconcertati, e la stessa Sita decise di gettarsi nel fuoco. Nessuno riusciva a capire il motivo di ciò che stava succedendo. Valmiki, autore del Ràmàyana, narra tutto ciò in modo magistrale. Quando Sita, rivolgendosi a Laksmana, gli chiese di accendere un fuoco, questi lanciò a Rama uno sguardo adirato. Ma non appena vide il volto radioso di Rama riuscì a comprendere le intenzioni di quest'ulltimo e accese immediatamente il fuoco. Tutto ciò è davvero interessante: che cosa riuscì a calmare Laksmana?

Tutti i presenti ignoravano la verità più profonda, solo Laksmana era riuscito a capire le motivazioni di Rama e quindi accese il fuoco. A prima vista potrebbe apparire che Sita, ferita dalle dure parole di Rama, avesse deciso di suicidarsi, ma se andiamo più in profondità ci apparirà chiaro che Sita voleva dimostrare la sua castità; infatti, prima di entrare nel fuoco disse: «Se non ho disonorato Rama con pensiero, parole o azioni, possa questo fuoco proteggermi». Cosi, anche l'intenzione di Rama divenne chiara.

Rama - a causa del suo silenzio e delle dure parole rivolte a Sita mentre essa si appresta ad entrare nel fuoco - sembra invero crudele, ma in realtà questo suo comportamento apparentemente spietato mette in evidenza il suo cuore colmo di compassione divina; Rama desidera non solo mostrare la gloria di Sita al mondo ma anche fugare il timore della stessa Sita. Leggendo il testo originale appare chiaro che Sita aveva un timore: «Che cosa mai penserà la gente di me, rapita dal malvagio Ravana e costretta a vivere da sola nella sua grotta? Potrò mai essere accettata di nuovo?». Con tale timore essa si era presentata a Rama.

Proprio con l'intenzione di fugare quel timore, Rama si comporta in un modo che per gli astanti appare del tutto spietato. Laksmana, che inizialmente si era molto adirato per il comportamento del fratello, vedendone in seguito l'aspetto sereno ne comprese l'intenzione e non ebbe più alcun tipo di preeoccupazione, cosa che non si verificò negli altri. Anche nel Mahàbhàrata, Krishna a differenza degli altri che si mostrano tesi e turbati, appare spesso calmo nel mezzo di ogni sorta di difficoltà in quanto ha una visione completa del problema. Krishna sembra disumano quando istruisce Arjuna indicandogli che è suo dovere combattere i propri cugini, i Kaurava. Krishna non è certo propenso alla guerra, e ha cercato in tutti i modi di evitarla chiedendo a Duryodhana di offrire parte del regno ai Pàndava. Il rifiuto di Arjuna, che cerca di evitare la battaglia, è solo fuga e non giustizia; Krishna rappresenta la giustizia e perciò chiede ad Arjuna di combattere. La giusta conoscenza o corretta comprensione di Krishna sta a dimostrare che l'ingiustizia alla fine sarebbe stata distrutta.

I saggi sono coloro che hanno una comprensione dei fatti completa e profonda; la qualificazione fondamentale del sagggio è offrire la giusta comprensione o vidyà.


 

NOTE:

1) Brahmasutra, con il Commento di Shankara, 3.2.17. Traduzione dal sanscrito e note a cura del Gruppo Kevala. Edizioni Asram Vidyà, Roma.

2) Taittiriya Upanishad, 2.6.1. Traduzione dal sanscrito e note a cura del Gruppo Kevala. Edizioni Asram Vidyà.

3) Cfr. Brahmasutra con il Commento di Shankara, Introduzione di Shankara a 1.1.1., p. 8. Op. cit.

4) Cfr. Bhagavadgità. Traduzione dal sanscrito, prefazione. e commento di Raphael. Edizioni Asram Vidyà.

5) Op. cit., Ibidem.