Il buddhismo è una setta?

 

L'Induismo, deve essere considerato in gran parte come un ethos. In altre parole, potrebbe essere considerato una sorta di dispositivo morale/religioso di una certa comunità partico-lare, dimostrato dal suo consueto comportamento. Visto in un altro modo, attraverso la lente della religione, l'Induismo pur essendo ancora un ethos, potrebbe pure essere considerato una sorta di chiesa universale. Nello schema di Max Weber ed Ernst Troeltsch, una "chiesa" (usando per ora il termine cristiano) è completamente contigua con la società, inclusiva ed universalistica, oltre ad essere gerarchicamente organizzata. Così sembrerebbe che l'Induismo ben si adatti a questi parametri. Ma, cosa più importante, le chiese nello stesso schema di Weber e Troeltsch, come fenomeno, hanno ora generato le "sette", di solito in risposta all'insoddisfazione per la routine ecclesiastica e burocratica. Ogni tratto della setta, secondo Weber e Troeltsch, significa realmente il tentativo di purificare la chiesa originale. La setta si isola dalla società. Uno vi si unisce volontariamente. È esclusiva e distintiva. Non vi è una gerarchia come sistema di casta e l’appartenenza è quasi sempre basata su una significativa e speciale esperienza religiosa. Esempi di sette Indù sarebbero il Giainismo, il buddhismo, il Vaishnava, ecc. 

In difesa della succitata teoria, bisogna tenere a mente che il Buddha, prima del suo risveglio, era un membro del sistema di casta Indù e, perciò, era un membro di diritto dello schema gerarchico della chiesa Indù. Specificamente, egli era un membro della casta guerriera (Sanscr. kshatriya). Infatti, c'erano tre caste, vale a dire la classe Bramana che interpretava i Veda, la classe dei guerrieri, e la classe dei mercanti. C'era, inoltre, una fuori-casta

All’inizio, il comportamento del Buddha non era evidentemente fuori dello schema principale del pensiero religioso Indù. Ma poi, come altre caste di guerrieri del suo tempo, egli divenne scettico riguardo all'efficacia dei rituali Vedici, per adempiere alla loro promessa e vide, inoltre, che molti della classe Bramana erano, in gran parte, corrotti. Questo atteggiamento sfociò nelle Upanishad (la parte rivelata dei Veda) in cui gli insegnanti-guerrieri menzionavano nelle Upanishad certe idee e sfidando apertamente la chiesa Indù rappresentata dalla classe dei Bramana. 

Da questo clima di tensione spirituale annotato nelle Upanishad, il Buddha dette forma a quella che potrebbe essere chiamata una "setta", in risposta a ciò che egli percepì come l'inefficacia della chiesa Indù a soddisfare le necessità spirituali della sua gente. In un certo modo, i suoi sforzi e gli sforzi degli altri maestri-guerrieri portarono ad una riforma del sistema Vedico. Tuttavia, tali sforzi non furono tentativi di distruggere il vecchio Induismo, ma intesero piuttosto ripulirlo dalla sua inefficacia. Su questo punto, c’è da notare che nello schema di Weber e Troeltsch, la "setta" non considera mai che chiunque deve essere salvato. Solo pochi si salvano, coloro che sono diventati puri. Nel caso del buddhismo, gli Arhats solamente sono pienamente salvati. Come menzionato prima, il settario è tale in virtù di un certo tipo di esperienza religiosa che lo mette fuori dalla congregazione ecclesiastica maggiore.    

Mentre la chiesa universale è salvificamente inclusiva; la setta capisce che molti sono, in una parola, condannati. In alcuni ‘Pali Sutta’, infatti, il Buddha condanna il destino dell’umanità verso le rinascite inferiori -in molti casi, gli inferni. Più tardi questa attitudine sarà corretta con il sorgere del buddhismo della Pura Terra. 

Concludendo, per ora si può argomentare, ed io penso giustamente, che il buddhismo è una setta all'interno della più grande chiesa Indù, o lo stesso ’ethos’ Induista. Come le altre sette indiane, il buddhismo sorse a causa del fallimento dell'Induismo nel soddisfare pienamente le necessità religiose di alcuni popoli dell’India. Queste "nétte criticavano i sacrifici animali, il Dio, i rituali di riparazione e la generale credenza che tutti gli esseri sono automaticamente salvati se essi seguono le consuetudini come fortemente stabilite nel pan-Induismo ---------JJJ

Tratto da “THE ZENNIST” – Rivista interattiva, pubblicata sul WEB da ZENMAR

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Il Pensiero Divinatorio 

E’ o non-è permesso il pensiero nello Zen? E noi, dobbiamo o no capire che lo Zen proviene da uno speciale tipo di osmosi psichica, nel qual caso il pensare non è davvero necessario? Dobbiamo o no, prendere alla lettera le parole del maestro Zen Niu-t'ou Fa-jang che disse "Pensare porta alla non-chiarezza?".  Unendo insieme queste domande, la risposta può sembrare negativa. In effetti, nello Zen pensare è permesso - ma piuttosto, vi è un tipo speciale di pensiero che io chiamo ‘pensiero divinatorio’

Cerchiamo di ampliare l'idea di ciò che io intendo dire con il termine, "pensiero divinatorio". Mentre sembra facile capire la nozione generale del 'pensare', o al-meno di alcune forme di pensiero come 'deliberazione', 'calcolo', 'riflessione', ecc., la nozione di pensiero divinatorio non si trova in queste categorie. Piuttosto è un pensiero che si trova su un percorso di scoperta che si muove da un stato di igno-ranza, o meglio ancora, dalla condizione primordiale di una perdita ad un stato di scoperta in cui il risveglio avviene come conseguenza. Noi dovremmo considerare come pertinente esempio, qualcuno che cerca qualcosa di prezioso e di valore che aveva perso, essendo proprio incapace di ricordare dove precisamente lo aveva messo in precedenza. Analizzando questo tipo di pensare, la sua traiettoria non è diretta al pensare all'oggetto che si desidera, come un mero pensiero, ma lo si cerca, invece come una concreta realtà. Per dare un altro esempio, quando io cerco il mio cacciavite mal riposto, non è possibile pensare ad esso mentalmente ed astrattamente. So che già sembra com’è. Ma io, piuttosto, voglio trovare il vero, concreto cacciavite - quello di cui ho bisogno adesso per avvitare il cardine della porta. 

Il critico principio mobile del pensiero divinatorio, necessario per farlo funzionare, richiede che noi realmente si abbia un bisogno ardente di trovare la verità in cui il compito di trovarla diventa una questione di vita o di morte. Come è facile vedere, questo principio mobile è più di una inattiva curiosità che si interroga, ma non ad una profondità sufficiente ad impegnare l’avvio del pensiero divinatorio. Scavando ancora un po' nel tragitto dell’indagine, la curiosità sta pensando in quale maggior interesse si sta raggruppando novità ed informazioni.

In nessun caso essa sorge sopra la nostra soddisfazione generale con noi stessi come esseri che già trovano conforto nel mondo di tutti i giorni e ciò che esso offre. In un altro aspetto, la curiosità non provocherà un sollievo nel nostro essere, mentre il pensiero divinatorio alla fine porterà ad un profondo cambiamento. 

Nel caso dello Zen, avere la capacità del pensiero divinatorio, porta con sé una forte insoddisfazione verso il mondo di tutti i giorni e le sue categorie, almeno riguardo alla fattività in cui ogni cosa è identificata con un fatto percettibile (cioè, io sono di una certa altezza, peso, nazionalità, ecc.). Il pensiero divinatorio non si contenta della mia fattività. Non presta nessuna attenzione al fatto che io sia un professore o un conducente di autocarro. Perché non ci sono fatti nel risveglio mistico verso cui spinge il pensiero divinatorio. Fatti, che sono costitutivi del mio carattere sono solo descrizioni – mere etichette che non vanno mai al cuore di ciò che io realmente sono. 

Solamente il pensiero divinatorio può rispondere alla domanda ‘chi sono io?’. E, ancor più importante, solamente il pensiero divinatorio può percorrere il Sentiero del buddhismo, in cui si è rinunciato, per così dire, alla fattività. Proprio al cuore del pensiero divinatorio, in cui diventa di vitale interesse per me, si risveglia quasi un'ossessione per la scoperta, come se io fossi un esploratore che sta cercando una città perduta, la quale era stata in precedenza sognata. Per contrasto, questo non è ciò di cui i seguaci di qualche Guru moderno o Roshi Zen dei giorni nostri fanno esperienza, poiché essi dipendono pesantemente dalle istruzioni del loro maestro. Infatti, esso è completamente l'opposto di questo tipo di atteggiamento. Per illustrare questo, sarebbe assai risibile immaginare l’attesa dei Cavalieri di Re Artù che, mentre siedono intorno alla Tavola Rotonda, aspettano che appaia il Graal. Ma questo è precisamente ciò che accade quando i seguaci sostituiscono il 

pensiero divinatorio con la venerazione esagerata del Guru. In un certo senso, è pigrizia spirituale. In un altro senso, è un rifiuto del Sentiero dell’auto-scoperta.- J  

Tratto da “THE ZENNIST” – Rivista interattiva, pubblicata sul WEB da ZENMAR

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LA VACUITA’ DEL RELATIVO

Nagarjuna (II°sec.d.C.) è considerato uno dei più importanti pensatori del buddhismo. Egli è accreditato di aver messo giù i principi del sistema Mâdhyamaka, che in seguito si sviluppò nei suoi seguaci. Gli interpreti Occi-dentali hanno sicuramente trovato virtualmente intrattabile la filosofia Mâdhyamaka di Nagarjuna. E’ superfluo dire che le sue idee hanno generato molte controversie, ancor più di quelle del Buddha. Dai pensatori Brahmanici ai moderni studiosi Europei, il Mâdhyamika è stato ed è rappresentato più o meno come pendente in direzione del nichilismo, in cui i più elevati valori sono svalutati, per usare un’adeguata espressione di Nietzsche.

In particolare, essi ritengono che l'Assoluto, come supremo valore, è del tutto svalutato nel Mâdhyamaka. Per esempio, entrambi asseriscono che la filosofia  Mâdhyamika di Nagarjuna chiarisce che non esiste nessuna cosa non-illusoria dietro i fenomeni illusori. Inoltre, essi osservano che Nagarjuna non ripudia mai, in modo inequivocabile, l'attribuzione di nichilismo, né contrastando questa pretesa, e né facendo posto ad un valore trascendente. Tuttavia, il consenso fra pensatori e studiosi Cinesi e Giapponesi è decisamente contrario a questo indirizzo. La loro lettura del Mâdhyamaka è più o meno come segue. La Vacuità (shûnyatâ) si riferisce strettamente alla relatività dei fenomeni e successivi concetti basati su di una intellettualizzazione della percezione sensoriale. 

Con un elaborato trattamento dialettico, i Mâdhyamika dimostrarono che le nostre esperienze sensoriali ed il mondo delle idee che noi deduciamo da queste nostre esperienze sensoriali sono in finale insoddisfacenti. Così, diventa chiaro che la realtà ultima, o assoluta, non può appartenere ad individui sensori o cose limitate. In effetti, le cose condizionate sono vuote di assolutezza. Da un punto di vista percezionale, perfino la nostra vera esperienza esistenziale come esseri umani è similmente vuota poiché è sempre relativa. Riguardo alla stessa realtà assoluta, è impossibile comprenderla per mezzo di concetti temporali e valori umani, così come determinarla in una maniera sensoriale. Non solo è impossibile, ma è anche contraddittorio, perché fare dell'assoluto qualcosa di determinato - e umano - è come renderlo relativo (e quindi, vuoto). 

Mentre in superficie è facile considerare il Mâdhyamaka come completamente nichilistico o trattarlo come una forma di fenomenalismo con aperture nichilistiche, come fece il recente studioso Indiano, S.N. Dasgupta, bisognerebbe leggere il Mâdhyamaka dal punto di vista degli insegnamenti del Buddha, per dargli un qualche senso. Perché il Buddha tratta la vacuità in una qualificata maniera - non come un fatto ultimo. L'occhio, per esempio e la risultante visione che sorge dall'organo dell’occhio, si dice che siano vuoti, ma vuoti, cioè, di me-stesso. In effetti, io non sono l'occhio o qualunque dei miei organi sensoriali, incluso questo corpo che io credo essere il mio. Queste cose sono parte dell’esistenza limitata, o meglio ancora, esse rendono l’esistenza condizionata e dipendente. Queste cose alla fine dimostreranno di essere relative e perciò, vuote o vacue. Ma allo stesso tempo, io, me-stesso, trascendo la vacuità di tutte le cose limitate. A tal proposito, io soffro solo identificandomi con le cose che sono vuote. Per la stessa ragione, io non potrò soffrire se non mi attaccherò alla vacuità, anzi, realizzando la pace del Nirvana, che è eternamente oltre il palo delle vuote cause e condizioni. Così, si dovrebbe capire la base della filosofia Mâkhyamaka di Nagarjuna.-  ---- JJJ

Tratto da “THE ZENNIST” – Rivista interattiva, pubblicata sul WEB da ZENMAR 

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