DHARMA, NATURA e SENSI

di Alan Watts

 ( tratto da ‘Nature, Man and Woman’)

Prima Parte – Scienza e natura

  Un re dell'antica India, mal tollerando che la terra fos­se così dura per i piedi umani, propose di ricoprire di mor­bide pelli tutto il territorio del suo regno. Ma uno dei suoi saggi gli fece notare che avrebbe raggiunto lo stesso risul­tato molto più semplicemente prendendo una sola pelle e tagliandone piccoli pezzi per poi applicarli alle piante dei piedi. Ecco come nacquero i primi sandali. Per un indù la morale di questa storia non consiste nell'evidente elogio dell'inventiva e della tecnica. Si tratta piuttosto di una pa­rabola su due diversi atteggiamenti nei confronti del mon­do, che corrispondono approssimativamente alla cultura tradizio-nale e a quella "progressista". In questo caso parti­colare, poi, la soluzione tecno-logicamente più avanzata rappresenta anche la cultura tradizionale, per la quale l'uomo deve cercare di adattarsi alla natura e non adattare la natura a sé. Ecco perché la scienza e la tecnologia, così come le conosciamo, non sono nate in Asia.

Generalmente gli occidentali interpretano l'indifferen­za asiatica per il controllo tecnologico sulla natura o come indolenza tropicale o come mancanza di una coscienza so­ciale. È facile credere che le religioni intente a elaborare soluzioni interiori e non esteriori alla sofferenza incorag­gino l'insensibilità nei confronti della fame, l'ingiustizia e le malattie. È facile dire che in questo atteggiamento si ce­la un metodo aristocratico per sfruttare i poveri. Ma, forse, non è altrettanto facile accorgersi che i poveri vengono egualmente sfruttati anche quando li si persuade a deside­rare un numero sempre maggiore di oggetti, e quando li si induce a con-xfondere la felicità con l'accumulo progressivo e illimitato. Il potere di mutare la natura o di fare miraco­li può far dimenticare la verità che la sofferenza è relativa, e il fatto che la natura aborrisca il vuoto è in primo luogo una verità generatrice di problemi.

Il proposito occidentale di cambiare il volto della natu­ra attraverso la scienza e la tecnologia trova le sue origini nella cosmologia politica del cristianesimo. Gli apologeti cristiani hanno senz'altro ragione quando fanno rilevare che la scienza si è sviluppata prevalentemente nel contesto della tradizione ebraico-cristiana, nonostante i conflitti poi sorti tra le due. Ma il conflitto tra cristianesimo e scienza può sorgere per la semplice ragione che entrambi parlano lo stesso linguaggio e si occupano dello stesso universo - ­l'universo dei fatti. La pretesa del cristianesimo di essere unico è legata alla sua insistenza sulla veridicità di alcuni fatti storici. Per altre tradizioni spirituali i fatti storici han­no minore importanza, ma per il cristia-nesimo è fonda­mentale il fatto che Gesù Cristo sia a tutti gli effetti fisica­mente risorto dai morti e che, dal punto di vista biologico, sia nato da una vergine, e che Dio stesso sia dotato della medesima realtà oggettiva e indiscutibile che di solito vie­ne associata ai "nudi" fatti. Il cristiano meno disposto a in­sistere su questo aspetto insisterà meno sull'unicità della sua religione. Comunque, la tendenza più attuale della teo­logia - sia essa cattolica che protestante - è di tornare ad en­fa-tizzare la storicità della narrazione biblica.

Anche tra i teologi più liberali, quelli che nutrono qualche dubbio sui miracoli, que-sta tendenza assume un aspetto curioso, per cui si sostiene che lo stile narrativo del cristianesimo, per quanto astorico da alcuni punti di vista, rivela in ogni caso che la storia è il dispiegamento dei fini di Dio. Il cristianesimo è unico anche perché i fatti storici su cui si fonda sono miracolosi, e ciò suggerisce una menta­lità per cui hanno un'importanza enorme il mondo fisico e le sue trasformazioni, dal momento che "se Cristo non è ri­sorto, è vana la vostra fede"(1). Anche altre tradizioni reli­giose contengono un gran numero di elementi miracolosi i quali, tuttavia, vengono trattati come segnali incidentali, che confermano l'auto-rità divina di chi li compie, senza però essere mai al centro della questione. Nel cristianesi­mo, invece, nulla è più importante della sottomissione del­la natura ai comandi di Cristo, una sottomissione che cul­mina nella sua vittoria sul più crudele e indubitabile di tutti gli eventi naturali - la morte stessa.

Ecco che la cultura occidentale di oggi, per quanto post cristiana e secolare possa sembrare, si concentra ancora unicamente sui miracoli, ovvero sulla trasforma-zione di quel mondo che viene percepito come oggettivo ed esterno all'Io. Con-temporaneamente, un imperialismo culturale senza pari ha preso il posto del pro-selitismo religioso, e il progresso storico diretto alla realizzazione del Regno di Dio è stato individuato nell'espansione del potere tecnolo­gico, ovvero in una crescente "spiritualizzazione" del mondo fisico ottenuta attraverso l'abolizione delle sue limita­zioni oggettive. Tutto ciò ha le sue radici nella cosmologia politica del­la tradizione ebraico-cristiana che si è a lungo identificata con la cosmologia della scienza occidentale - un'identifica­zione che per molti versi continua tuttora. Un universo po­litico, come abbiamo visto, è un universo in cui cose, fatti ed eventi distinti tra loro vengono governati mediante la forza della legge. Per quanto la concezione di "legge di na­tura" possa essersi nel frattempo profondamente modi-ficata, non c'è dubbio che l'idea stessa di una legge naturale sorse in origine proprio dalla supposizione che il mondo obbedisse ai comandamenti di un sovrano concepito se­condo l'immagine di un re terreno.

Eppure l'origine dell'idea di legge naturale non viene esaurientemente spiegata limitandosi a ipotizzare una pri­mitiva analogia tra il mondo e l'ordinamento monarchico. È necessario anche definire uno stile di pensiero fuori del quale un'analogia simile non avrebbe probabilmente mai potuto generarsi. Per quel che se ne può arguire, si tratta di un modo di pensare che scaturisce da una con-fusione ca­suale che può facilmente verificarsi nello sviluppo del lin­guaggio in particolare e del pensiero astratto in generale. Si ritiene comunemente che la mente possa pensare a una sola cosa alla volta, e il linguaggio, in quanto è lo stru­mento principale del pensiero, conferma questa impres­sione, dato che consiste in una sequenza lineare di segni grafici o sonori che si succedono uno alla volta. Accettan­do quest'opinione così diffusa si può probabilmente soste­nere che il pensiero conscio consiste in un'attenzione foca­lizzata, in una concentrazione della nostra coscienza, piut­tosto difficile da ottenere quando il campo di attenzione è troppo vasto. Quindi, attenzione richiede selezione. Il campo della coscienza deve venir distinto in unità relativa­mente semplici, strutturate in modo che possano venir colte in un solo colpo d'occhio. Ciò può essere fatto sia scom-ponendo l'intero campo della percezione in elementi della semplicità richiesta, sia evidenziando e vagliando al­cuni dettagli dell'intero e riducendolo così a una forma singola e comprensibile. E, in effetti, noi vediamo e sentia­mo una quantità infini-tamente più grande di cose di quan­te non ne cogliamo con l'attenzione o con il pensiero e, sebbene siamo pur sempre in grado di rispondere e di far fronte con straordinaria intelligenza alla maggior parte delle cose che non notiamo, ci sen-tiamo molto più a no­stro agio in una situazione che possiamo ricondurre all'in­terno di un'analisi consapevole.

Ora, le unità semplificate di attenzione che in questo modo abbiamo selezionato dal campo totale della coscien­za sono ciò che comunemente chiamiamo cose, eventi, fat­ti. Di solito non pensiamo in questi termini perché inge­nuamente riteniamo che le cose siano la prima realtà che percepiamo, quando ancora non abbiamo focalizzato la nostra attenzione conscia. È evidente, però, che l'occhio come tale non vede le cose, ma percepisce l'intero campo della sua visuale, con tutti i suoi infiniti dettagli. Le cose appaiono nella mente solo quando, attraverso l'attenzione consapevole, il campo della visuale è stato scomposto in unità più facilmente pensabili. Inoltre tendiamo a conside­rare quest'atto come una scoperta del mondo esterno. Stu­diando il campo visivo o quello tattile, l'intelligenza arriva alla conclusione che ci sono effettivamente degli oggetti nel mondo esterno - una conclusione che sembra verifica­ta dal fatto che su di essi si può agire. In questo modo, considerando il mondo sensibile con l'aiuto di questi "ap­pigli", di questi "barlumi" della mente, siamo in grado di predirne il comportamento, e riusciamo a trovare il modo di trattare con esso.

Eppure, la conclusione di questo ragionamento non è così immediata. Sì, siamo capaci di predire gli eventi e di controllare il mondo esterno scomponendo le distanze in metri e centimetri, i pesi in chili e in grammi e i movimen­ti in minuti e secondi. Ma crediamo davvero che dodici centimetri di legno siano dodici pezzetti distinti di legno? Certo che no. Sappiamo che "scomporre" il legno in centi­metri o in grammi è un'azione astratta, non concreta. Tut­tavia non è così semplice com-prendere che anche l'atto di scomporre il campo della coscienza in cose e avvenimenti è un'azione astratta, e che le cose sono l'unità di misura del pensiero, proprio come i grammi sono l'unità di misu­ra del peso. Ma quando comprendiamo che ogni singola cosa potrebbe, attraverso l'analisi, essere scomposta in un nume-ro illimitato di elementi oppure, a sua volta, entrare a far parte come elemento di una cosa più grande, ecco che tutto dovrebbe cominciare a diventare più chiaro.

La difficoltà reale nel comprendere questa realtà sta nel fatto che, laddove i centimetri sono trattini su una riga che non compaiono sull'asse di legno che stiamo misuran­do, la distinzione delle cose sembra seguire divisioni e confini effettivamente dati in natura. Ad esempio, quella cosa chiamata "corpo umano" è separata dalle altre cose del suo ambiente da una superficie chiaramente distingui­bile e chiamata "pelle". In realtà la pelle divide il corpo dal resto del mondo nel pensiero ma non in natura. In natura, la pelle è molto più un collante che un divisorio, dato che è il ponte attraverso il quale gli organi interni entrano in contatto con l'aria, il calore e la luce.

Proprio perché l'attenzione ottenuta mediante la con­centrazione è esclusiva, selettiva e distintiva, ad essa risulta molto più semplice notare le differenze che le unità. L'at­tenzione visiva individua le cose come figure su uno sfon­do contra-stante, e il nostro pensiero enfatizza questa diffe­renza tra la figura e lo sfondo. Il contorno della figura, che è poi il contorno dello sfondo, divide l'una dall'altro. Ep­pure non riusciamo a notare con eguale immediatezza l'u­nione o l'inseparabilità della figura e del suo sfondo, del solido e dello spazio intorno. Ciò diventa evidente quando ci chiediamo che cosa sarebbe della figura o del solido sen­za lo sfondo o lo spazio circostante. Viceversa, potremmo chiederci che cosa sarebbe dello spazio se non fosse occu­pato da nessun solido. La risposta è sicuramente che non ci sarebbe più alcuno spazio, dato che lo spazio è una "funzione di con-torno" e in quel caso non ci sarebbe nulla da circondare. È importante notare che questa mutua in­separabilità di figura e sfondo non è soltanto logica e gramma-ticale, ma appartiene anche alla realtà sensoriale(2).

La figura e lo sfondo, quindi, costituiscono una relazio­ne - una relazione inscin-dibile di unità nella diversità. Ma quando gli esseri umani si affidano esclusiva-mente all'at­tenzione che deriva dalla concentrazione, con un tipo di pensiero che è analitico, distintivo e selettivo, cessano di notare la mutualità delle "cose" contrastanti e l'"identità" delle differenze. Non diversamente, quando ci interro-ghia­mo su ciò che intendiamo veramente con un fatto o una cosa, comprendiamo che, poiché i fatti sono divisioni o se­lezioni di esperienza, non possono mai essere meno di due! Un fatto o una cosa singola non può esistere di per sé, dato che sarebbe infinita - priva di limiti, priva di ogni ri­ferimento. Ora questa dualità e questa essenziale moltepli­cità di fatti dovrebbe costituire la prova più evidente della loro interdipendenza e inseparabilità.

Da ciò deriva che le realtà fondamentali della natura non sono, come il pensiero le va costruendo, entità separa­te. Il mondo non è una collezione di oggetti assem-blati in­sieme in modo tale da "stabilire" una relazione tra di loro. Le realtà fonda-mentali sono le relazioni o i "campi di for­za" di cui i fatti sono i termini o i limiti - un po' come il caldo e il freddo sono i termini superiori e inferiori, i limi­ti del campo della temperatura, e il cranio e i piedi sono i limiti superiore e inferiore del corpo. Lo scalpo e le piante dei piedi sono evidentemente superfici del corpo e sebbene una persona possa venir privata dello scalpo, non si dà mai un scalpo in sé e per sé, che sia venuto all'essere per conto suo. Ma, a parte l'uso di analogie piuttosto insoddi­sfacenti, le parole e i pensieri non riescono ad abbracciare questo mondo. Porre le "relazioni" piuttosto che le "cose" come costituenti base della natura sembra dar rilievo a en­tità eccessivamente tenui e astratte - a meno che non si giunga a intuire che sono proprio le relazioni ciò che effet­tivamente percepiamo e sentiamo. Non conosciamo nulla di più concreto.

Ma l'eventualità che sorga in noi questa intuizione di­venta ancor più remota se procediamo dall'atto primario dell'astrazione, l'attenzione selettiva, a quello secon-dario, ovvero quello di attribuire significato ai pensieri attraverso le parole. Dato che le parole, oltre che nomi, sono stru­menti classificatori, confermeranno l'impressione che il mondo non sia altro che una molteplicità disgregata. Quando diciamo che cosa è qualcosa, lo identifichiamo con una classe. Non c'è altro modo di dire che cosa è questo o quello, se non classificandolo. Il che significa sem-plicemen­te distinguerlo da tutto il resto, accentuame le caratteristi­che diversi-ficanti considerandole più importanti delle al­tre. In questo modo si comincia a percepire l'identità come una questione di separazione. La mia identità consiste, ad esempio, in primo luogo nel mio ruolo e nella mia classe di appartenenza, e in secondo luogo nelle modalità particola­ri in cui differisco dagli altri membri della mia classe. Se, dunque, mi identifico facendo ricorso alle mie differenze, i miei confini, le mie divisioni da tutto il resto, faccio espe­rienza del mio essere attraverso un senso di separazione e, di conseguenza, non riesco a notare l'unità concreta che sottende a questi elementi di differenziazione, selezionati e astratti come sono, né a identificarmi con essa. Gli ele­menti di differenza, quindi, vengono percepiti come forme di separazione e di dissociazione e non come rapporti. In questa situazione, sento il mondo come qualcosa con cui formare una relazione piuttosto che come qualcosa con cui ho già una relazione.

Una cosmologia politica presuppone, quindi, questa modalità dissociata di espe-rienza del mondo. Dio non è, come nella cosmologia indù, l'identità che sottende alle differenze, ma una delle differenze - per quanto predomi­nante. L’uomo si relaziona a Dio come a un'altra persona distinta, come un suddito a un re o come un figlio al padre. Sin dal principio e dal nulla, l'individuo è creato separato e deve raggiungere (o deve essere condotto) alla conformità con il divino volere. Inoltre, poiché il mondo consiste di cose, e poiché le cose vengono definite attraverso le loro classi, e poiché le classi vengono ordinate e identificate attraverso le parole, risulta che ciò che effettivamente sottende al mondo è il logos, ovvero il pensiero-e-parola. "E Dio disse 'Sia fatta la luce'." Attraverso la parola di Dio i cieli furono creati, e tutto ciò che è dentro di loro fu fatto mediante il soffio del suo alito. Quando non si ammette che sia il pensiero a or­dinare il mondo, si suppone almeno che il pensiero scopra un ordine che è già in atto - un ordine, per altro, che sia comunque esprimibile nei termini di parola e pensiero.

Ecco qui la genesi di due delle più importanti premesse storiche della scienza occidentale. La prima è che c'è una legge della natura, un ordine di cose e di eventi che aspet­ta di essere scoperto da noi. Quest'ordine può essere for­mulato attraverso il pensiero, ovvero in parole e mediante una notazione di qualche genere. La seconda premessa è che la legge della natura è universale, un'idea che deriva dal monoteismo, dall'idea di un solo Dio che governi l'uni­verso intero.

La scienza, inoltre, è il risultato ultimo di tutto il meto­do che abbiamo fin qui discusso. È una coscienza della na­tura basata su un modo selettivo, analitico e astratto di concentrare la propria attenzione. Comprende il mondo riducendolo a elementi intelligibili minutissimi. Lo com­prende attraverso un "calcolo universale", ovvero tradu­cendo la mancanza di forma della natura in strutture co­stituite da unità formate, semplici e maneggevoli, così co­me un geometra misura l'area di un terreno dalla forma ir­regolare scomponendone la superficie il più minuziosa­mente possibile in quella di figure astratte come triangoli, quadrati, cerchi. Con questo metodo tutte le stranezze e le irregolarità vengono progressivamente eliminate fino a scoprire che Dio stesso è un supremo geometra. Diciamo: "È stupefacente che le strutture naturali si uniformino con tanta precisione alle leggi della geometria!" - dimentican­do che questa uniformazione è ottenuta trascurando del tutto le irregolarità. Ma per fare ciò abbiamo dovuto ricor­rere all'analisi, alla suddivisione del mondo in parti sem­pre più microscopiche, sempre più prossime alla suprema semplicità del punto matematico.

Un altro modo per illustrare questo sistema di "regola­rizzazione" del mondo è il metodo della matrice. Sovrap­poniamo un foglio trasparente di carta millimetrata a

un'immagine naturale complessa. L'immagine "informe" può ora venir descritta con una certa precisione attraverso lo schema altamente formale dei quadretti. Visto attraver­so questo schermo, anche l'itinerario di un oggètto che si muova a caso potrà venire schematizzato: quanti quadret­ti a sinistra, quanti a destra, quanti in alto, quanti in bas­so. Ridotti a questi termini possiamo, con una media stati­stica, predire la direzione approssimativa della prossima mossa - e dunque supporre che quell'oggetto stia obbe­dendo a leggi statistiche. Naturalmente, l'oggetto in que­stione non fa nulla del genere. Le leggi statistiche vengono rispettate solo dal nostro modello normalizzato del comportamento dell'oggetto.

Nel XX° secolo, gli scienziati sono diventati sempre più consapevoli che le leggi della natura non sono state sco­perte ma inventate, e l'intera concezione secondo cui la natura obbedirebbe o seguirebbe uno schema o un ordine innato è stata soppiantata dall'idea che questi schemi non sono determinativi ma descrittivi. Si tratta di una rivolu­zione fondamentale nella filosofia della scienza che non si è diffusa tra il grande pubblico ma ha già influenzato, an­che se solo limitatamente, alcune scienze particolari. Pri­ma lo scienziato scopriva le leggi di Dio, confidando che i meccanismi del mondo potessero venir riformulati in ter­mini verbali, di ragione, e ridotti a una legge di riferimen­to. Quando poi si accorse che l'"ipotesi Dio" non introdu­ceva alcuna differenza nella precisione delle sue previsio­ni, lo scienziato cominciò a escluderlo e a considerare il mondo una macchina, qualcosa che segue delle leggi sen­za un legislatore. Infine anche l'ipotesi di leggi preesi-stenti e determinative si è rivelata superflua. Le leggi sono diven­tate semplice-mente strumenti umani, come un coltello mediante il quale la natura può venir smembrata in por­zioni più digeribili.

Ci sono segnali, tuttavia, che questa non sia che una fa­se di un cambiamento ancor più radicale nel punto di vista della scienza. Potremmo chiederci, infatti, perché mai il metodo scientifico dovrebbe confinarsi nella modalità ana­litica e astraente per studiare la natura. Fino a non molto tempo fa, la preoccupazione principale di pressoché tutte le discipline scientifiche era la classificazione - un'identifi­cazione minuziosa, rigorosa ed esaustiva delle specie cui ricondurre uccelli e pesci, elementi chimici e bacilli, orga­ni e malattie, cristalli e stelle. Naturalmente questo tipo di approccio ha incoraggiato una visione della natura atomi­stica e disgregata, i cui svantaggi hanno cominciato a comparire quando, in base a essa, la scienza è diventata tecnologia e gli uomini hanno cominciato a estendere il lo­ro controllo del mondo. È stato allora che gli uomini han­no cominciato a capire che non si poteva controllare effi­cacemente la natura con la stessa metodologia con cui era stata studiata, ovvero con l'atomizzazione. La natura è nel suo complesso relazionale, e interferire in un punto di essa innesca una catena di conseguenze interminabili e impreve­dibili. Lo studio analitico di queste interrelazioni produce un'accumulazione sempre crescente di informazioni estre­mamente complesse, tanto vasta e ramificata da risultare in­gombrante e inutilizzabile per una serie di scopi pratici, spe­cialmente quando è necessario prendere decisioni rapide.

Di conseguenza, il progresso della tecnologia comincia a sortire effetti contrari a quelli preventivati. Invece di semplificare i compiti umani, li rende più complicati. Nes­suno osa più muoversi senza prima aver consultato un esperto. L'esperto, dal canto suo, non può sperare di pa­droneggiare più di un settore limitato nella mole in co­stante espansione delle informazioni. Ma, anche se il sape­re scientifico formale si è settorializzato, il mondo no, non si è settorializzato affatto, per cui la padronanza di una singola area di conoscenze è spesso tanto frustrante quan­to un armadio pieno solo di scarpe sinistre. E il problema non è soltanto di avere a che fare con questioni "scientifi­che" come ad esempio l'endocrinologia, la chimica del ter­reno, o la pioggia radioattiva. In una società i cui mezzi di produzione sono altamente tecnologici, le questioni più ordinarie di politica, economia e legge si complicano a tal punto che l'individuo se ne sente paralizzato. La crescita della burocrazia e il totalitarismo, in effetti, dipendono molto meno da oscure, sinistre influenze, che non dai sem­plici meccanismi di controllo in un sistema di interrelazio­ni complicato fino all'impossibile.

Eppure, se le cose stessero solo così, l'intera conoscen­za scientifica avrebbe già raggiunto il punto di autostran­golamento. Se ciò è avvenuto solo in parte, si deve al fatto che gli scienziati hanno iniziato a comprendere le interre­lazioni con altri mezzi, diversi dall'analisi e dal pensiero progressivo. In pratica lo scienziato si affida sempre più all'intuizione - a un processo intellettivo le cui fasi sono in gran parte inconsce, e che non sembra affatto funzionare secondo lo schema peno-samente lineare del pensiero che affronta una cosa per volta, ma che, anzi, riesce ad afferra­re simultaneamente interi campi di dettagli interrelati. Del resto, l'idea che la condizione di interrelazionalità della natura sia caratterizzata da un'enorme complessità e da un grandissimo numero di dettagli è il risultato di una "tra-duzione" della natura nella modalità lineare del pen­siero. Ma, nonostante il suo rigore e i suoi iniziali successi, si tratta di una modalità dell'intelligenza estrema-mente goffa. Come si rivela operazione estremamente difficile be­re dell'acqua utilizzando una forchetta invece di un bic­chiere, così la complessità della natura non è un dato insi­to in essa, ma una conseguenza dello strumento che utiliz­ziamo per trattarla. Non c'è nulla di complicato nel cam­minare, nel respirare, nella circo-lazione del sangue. Gli or­ganismi viventi hanno sviluppato queste funzioni senza starci a pensare affatto. La circolazione del sangue diventa complessa soltanto quando la si definisce in termini fisio­logici, ovvero, quando viene compresa in un modello con­cettuale costruito con quel tipo di unità semplici che è ri­chiesto dall'attenzione conscia. Il mondo naturale sembra allora una meraviglia di com-plessità, che soltanto un'intel­ligenza estremamente complicata ha potuto creare e go­vernare. Ma questo avviene soltanto perché ce lo siamo rappresentati secondo la goffa "notazione" del pensiero. Non diversamente, le moltiplicazioni e le divi-sioni sono operazioni di una complessità disarmante quando le si af­fronti con i numerali egizi o romani, ma diventano relati­vamente semplici con i numeri arabi, e con un abaco sono ancora più semplici. Comprendere la natura con gli strumenti del pensiero è come cercare di individuare i contorni di un'immensa grotta con l'aiuto di una piccola torcia dotata di una luce intensa ma estremamente sottile. Bisogna ricordarsi l'iti­nerario della luce e le zone su cui è passata, e da questi da­ti l'aspetto complessivo della grotta può essere ricostruito solo a fatica.

In pratica, dunque, lo scienziato deve necessariamente usare la sua intuizione per afferrare la natura nel suo inte­ro, sebbene poi non se ne fidi. Deve continuamente fer­marsi a controllare la sua intuizione con il sottile raggio di luce del pensiero analitico, poiché l'intuizione può facil­mente errare, proprio come l'"intelligenza organica" che regola il corpo senza ricorrere al pensiero non è sempre immune da "errori" - quali le deformità congenite o il can­cro - e richiede un controllo sugli istinti che, in alcune cir­costanze, portano direttamente alla distruzione. Allo stes­so modo è sicuramente molto naturale e "sano" volere la riproduzione della specie, ma non ci si può fidare total­mente dell'istinto riproduttivo se si vuole anche tenere sot­to controllo l'ambiente e limitarlo quando le risorse di ci­bo sono insufficienti. Ecco perché l'unico modo di correg­gere gli errori dell'intuizione o dell'intelligenza inconscia sembra essere il faticoso lavoro di analisi e di sperimenta­zione. Ma ciò implica un'interferenza con l'ordine natura­le che si consuma sin dall'origine, e la saggezza di questa interferenza non è valutabile finché la sua opera non sia fin troppo progredita!

Di conseguenza, lo scienziato dovrebbe chiedersi se gli "errori" della natura sono veramente errori. Non potrebbe essere, ad esempio, che una specie si distrugga nell'inte­resse dell'ordine naturale nel suo complesso - nel senso che, se non lo facesse, la vita diventerebbe intollerabile per tutti, compresa quella specie stessa? Forse che gli "errori" delle malattie congenite, delle epidemie o delle pestilenze, non sono necessari per mantenere un equilibrio vitale? Non è che la correzione di questi errori creerà in futuro problemi ben più gravi di quelli che risolve? E, a sua volta, la solu­zione di quei problemi non creerà difficoltà ancora più inimmaginabili? Non è forse un bene che l'intelligenza in­conscia cada così frequentemente in errore, poiché altri­menti la specie avrebbe troppo successo e, di nuovo, com­prometterebbe l'equilibrio generale?

D'altro canto, ci si potrà chiedere se la nascita dell'ana­lisi consapevole non sia in sé un atto dell'intelligenza in­conscia. Forse che l'interferenza consapevole con la natu­ra non è anch'essa del tutto naturale, nel senso che conti­nua a operare nell'interesse dell'ordine naturale nel suo complesso, anche se quest'ordine potrebbe prevedere l'eli­minazione dell'uomo? O forse non è che, spingendo l'ana­lisi cosciente fino ai suoi limiti estremi, potremmo scopri­re strumenti nuovi per permettere all'intelligenza incon­scia di diventare molto più efficace?

Il problema di tutte queste domande è che difficilmen­te riusciremo a trovarne le risposte prima che sia troppo tardi per servircene. E, inoltre, quale sarà la prova che stiamo facendo la cosa giusta? In altre parole, che cosa è il "bene" dell'ordine naturale nel suo complesso? La risposta usuale al problema di cosa sia il bene per ciascuna o per tutte le specie è, semplicemente, la sopravvivenza. La scienza si occupa principalmente di previsioni perché dà per scontato che il bene principale dell'umanità sia perpe­tuarsi nel futuro. È questo, parimenti, il test per valutare praticamente tutte le azioni pratiche: favorisce la sopravvi­venza? Accettando questa premessa, ovvero che il buono della vita consiste nella sua continuazione a tempo inde­terminato, e assumendo che questo perpetuarsi debba es­sere piace-vole in se stesso, la prova che abbiamo agito sag­giamente fino a ora è che siamo ancora qui, e sembra pro­babile che ci rimarremo - almeno per quel che riusciamo a prevedere.

Ma su questo assunto la razza umana è sopravvissuta, e molto probabilmente avrebbe continuato a farlo, per più di un milione di anni prima dell'avvento della tecnologia moderna. Su queste premesse, dobbiamo dunque ritenere che abbia agito saggiamente fino ad allora. Possiamo infe­rire che quella vita non fosse particolarmente piacevole, ma è difficile capire che cosa veramente si intenda con questo termine. La razza provava sicuramente piacere nel continuare a vivere, e per quello l'ha fatto. D'altro canto, dopo meno di due secoli di tecnologia indu-striale le pro­spettive di sopravvivenza umana sono seriamente messe in que-stione. Non è improbabile che finiremo per mangiarci tra di noi o per farci scop-piare il pianeta addosso.

Eppure, sicuramente, l'idea della sopravvivenza è com­pletamente assurda. Studiando la psicologia umana e ani­male, sembra in effetti che “nell’auto-conser-vazione consi­sta la prima legge della natura", sebbene sia possibile che ciò rappresenti un antropomorfismo, una proiezione nella natura di un atteggia-mento peculiarmente umano. Se la sopravvivenza è la prova della saggezza, il significato della vita è banalmente temporale: andiamo avanti solo per con­tinuare ad andare avanti. Nei confronti dell'esperienza sembriamo mantenere un atteggia-mento di perpetua insa­ziabilità, dato che, anche quando siamo soddisfatti e compiaciuti di essere vivi e della nostra vita, continuiamo a chiederne ancora. Il grido "Ancora!" è il segnale più eleva­to di approvazione. Evidentemente, ciò avviene perché nessun istante della vita è veramente compiuto. Perfino nella soddisfazione, resta un vuoto vorace che nulla, eccet­to l'infinità del tempo, potrà mai riempire, dato che "tutte le gioie vogliono l'eternità".

Ma la fame di tempo è la diretta conseguenza dell'es­serci specializzati in un'at-tenzione limitata, circoscritta, di aver sviluppato una modalità coscienziale che percepisce il mondo serialmente, un pensiero dopo l'altro, una cosa alla volta. Ogni esperienza è, per questa ragione, parziale, fratturata, incompleta, e nessuna quantità di questi frammenti riuscirà mai a completare un'esperienza intera, a giungere a un compimento. Al massimo si potrà aspirare alla nausea della sazietà. L'impressione che tutta la natura, come noi, aneli incessantemente alla sopravvi­venza è, quindi, solo il risultato inevitabile del modo in cui noi vogliamo studiarla. La risposta è predeterminata dal tipo di domanda. La natura ci appare come una sequenza di mo­menti insoddisfacenti, che aspira sempre a qualcosa di più, soltanto perché siamo noi a percepirla in questi termi­ni. Noi la comprendiamo tagliandola a fette, assumiamo che, in sé, non è altro che un cumulo di fram-menti, e con­cludiamo che si tratta di un sistema di infinita incompiu­tezza, che può cercare di compiersi soltanto attraverso un'eterna addizione.

Il pensiero e la scienza, quindi, continuano a sollevare questioni cui, nei termini che sono loro propri, non po­tranno mai dare risposta, e che, in gran parte, sono pro­blemi soltanto per il pensiero che li ha posti. Similmente, la trisezione di un angolo è un problema insolubile solo utilizzando riga e compasso, e Achille non potrà mai supe­rare la tartaruga finché la loro corsa verrà spezzettata, at­traverso un infinito dimezzamento della distanza tra di lo­ro. Ma, come non è Achille, bensì il metodo di misurazio­ne a non riuscire a raggiungere la tartaruga, così non è l'uomo, ma il suo modo di pensare a non riuscire a trovare soddisfacimento nell'esperienza. Ovviamente, ciò non si­gnifica affatto che la scienza e il pensiero analitico siano strumenti inutili e distruttivi, ma piuttosto che le persone che li utilizzano devono essere più grandi di loro. Per esse­re un vero scienziato è necessario essere più di uno scien­ziato, e un filosofo dev'essere più di un pensa-tore. La mi­surazione analitica della natura non ci dice nulla se resta l'unico modo in cui riusciamo a vedere la natura.

Insomma lo scienziato, in quanto tale, non vede affatto la natura, o piuttosto la vede soltanto grazie a uno stru­mento di misurazione, come se gli alberi diven-tassero visi­bili al falegname soltanto dopo averli tagliati e ridotti ad assi o averli marchiati con il regolo. Ma la cosa ancora più importante è che l'uomo, come ‘Io’, non vede affatto la na­tura. L'uomo come ‘Io’ è l'uomo che identifica se stesso, la sua mente, la sua totale consapevolezza, con quella moda­lità ristretta ed esclusiva dell'attenzione che noi chiamiamo coscienza(3). Così il mutamento radicale che potrebbe rivo­luzionare la scienza moderna consisterebbe nel riconosci­mento del "sé" come una forma secondaria di percezione, preceduta da un'altra forma, più fondamentale. Questo implica molto più del riconoscimento dell'esistenza di al­tre forme di conoscenza oltre a quella scientifica - ad esempio quella religiosa - ognuna delle quali è valida al­l'interno della sua sfera. Non si tratta, infatti, di mettere in un compartimento lo scienziato in quanto uomo di fede, e in un altro lo scienziato in quanto tale. Abbiamo visto co­me le intuizioni scientifiche più impor-tanti vengano esat­tamente da quest'uso, seppur riluttante, della modalità "non-pensante" della conoscenza.

Di conseguenza si è sempre più consapevoli che, per la ricerca più creativa, gli uomini di scienza devono venir in­coraggiati a lasciare vagare liberamente le loro menti, in modo asistematico, e senza essere sottoposti a pressione per ottenere risultati. Chi visitasse una fondazione ispirata come l'Institute for Advanced Studies di Princeton vedreb­be alcuni dei più grandi matematici del mondo che se ne stanno semplicemente seduti alle loro scrivanie, con la te­sta fra le mani, oppure contemplano, con aria assente, fuo­ri della finestra, in apparenza finanziati generosamente per non fare nient'altro che "cincischiare". Eppure, come R.G.H. Siu ha mostrato nel suo Tao of Science, è proprio in ciò che consiste il principio taoista del "non utilizzare la conoscenza per raggiungere la conoscenza", la scoperta occidentale del potere creativo del wu-nien, o "non-pensie­ro" e del kuan, o contemplazione senza attenzione concen­trata. In quanto esperto direttore di ricerche, Siu ha dimo­strato in modo convincente che questa modalità della co­scienza è essenziale quando dalla ricerca ci si aspetta di ri­cavare nuovi concetti, qualcosa di più, insomma, della semplice verifica di quelli vecchi (4). Oggi come oggi non ci si fida completamente di questa modalità, che viene rigoro­samente verificata dall'analisi, ma è estremamente proba­bile che l'inaffidabilità della intuizione scientifica sia dovu­ta a "mancanza di pratica" e al fatto che l'attenzione selet­tiva distrae costantemente la mente sia nell'ambito scienti­fico sia in quello quotidiano.

Ora, il recupero delle consapevolezze estensiva e inclu­siva è questione comple-tamente diversa dall'acquisizione di una virtù morale, che dovrebbe imporsi nella società at­traverso la persuasione e la propaganda, e coltivata con la disciplina e la pratica. Per quel che ci consta, questo gene­re di idealismi è famigerato per i propri fallimenti. Inoltre, gli idealismi morali e spirituali, con tutti i loro sforzi e la loro disciplina rivolta al futuro, sono forme proprio di quell'atteggiamento del pensiero che ci ha dato tanti pro­blemi. Infatti, in queste morali, il bene e il male, l'ideale e il reale vengono percepiti separatamente, e non ci si accor­ge che la "bontà" non può essere altro che l'ideale di un uo­mo "cattivo", che il coraggio è l'obiettivo dei codardi e che la pace può essere ambita soltanto da chi al momento è disturbato. Per dirla con Lao-tzu:

Quando la grande Via è decaduta, ci sono umanità e giustizia. Quando l'intel-ligenza e la conoscenza si mostrano, c'è una grande cultura artificiale.

Quando i sei parenti non vivono in armonia, ci sono figli filiali.Quando lo Stato e la dinastia sprofondano nel disordine, ci sono ministri fedeli. (XVIII).

Così come non si può "ottenere una borsa di seta dal­l'orecchio di una scrofa", nessuno sforzo potrà mai tra­sformare il disordine in pace. E, come dice un altro taoi­sta: "Quando l'uomo sbagliato usa i mezzi giusti, i mezzi giusti operano nel modo sbagliato".

Il pensiero, con il suo modo seriale di guardare alle co­se una alla volta, guarda sempre al futuro per risolvere problemi che possono essere affrontati soltanto nel pre­sente - anche se non nel presente frammentario dell'atten­zione fissa e concentrata. La soluzione è da trovare, come disse Krishnamurti, nel problema, e in nessun altro luogo. In altre parole, le emozioni "cattive" che disturbano l'uo­mo, i desideri impellenti, sono da vedere per quel che sono - o, meglio, il momento in cui sorgono è da vedere per quel che è, senza restringere la propria attenzione su un solo aspetto di esso. E proprio qui, invece di tendere spasmodi­camente verso un futuro in cui ognuno spera di essere di­verso, la mente si apre e ammette l'esperienza integrale in cui e attraverso cui viene data una risposta al problema di che cosa sia il "bene" della vita, come nelle parole del frammento ‘La natura’ di Goethe:

In ogni istante essa parte per un lungo, lungo viaggio, e in ogni istante giunge al suo termine... Tutto è eternamente pre­sente in lei, dato che non conosce né passato né futuro. Per lei il presente è eternità.

 

 

NOTE:

(1) Cor. 15, 17. [N.d.T.]

2). L’idea semplicistica che in principio vi fosse soltanto spazio vuoto e poi siano giunte le cose a riempirlo sottende il classico problema di come il mondo sia scaturito dal nulla. Ora il problema deve essere riformulato in "Da... che cosa siano scaturiti 'qualcosa' e 'nulla'?"-

3). Trigant Burrow (1953), per definire la modalità intensiva e quella estensiva della consapevolezza, ha opportunamente coniato i termini "diten­zione" e "cotenzione". Tutta la sua discussione sul rapporto tra le psico­nevrosi e il pensiero "ditentivo" è estremamente stimolante.

4) Il libro di Siu (1957), potrebbe venir letto come espansione dei temi discussi in questo capitolo. Purtroppo non ho potuto consultarlo se non quando avevo praticamente finito di scrivere il libro. L’opera di Siu forni­sce un'applicazione molto ampia del pensiero cinese ai problemi della scienza, anche se per il lettore occidentale è lasciato forse un po' troppo nel vago il carattere dell'atteggiamento mentale necessario a questo fine.

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Parte Seconda- L'arte del sentire

 

I termini che si è tentati di usare per definire una men­te silenziosa e aperta sono per lo più negativi: senza pen­sieri, senza ragione, non-pensante, vuota, vaga. Forse, in ciò si dimostra la difficoltà innata che abbiamo a scioglie­re il cronico crampo della coscienza attraverso cui affer­riamo i fatti della vita e trattiamo con il mondo. Com'era prevedibile, l'idea di una consapevolezza che non sia ta­gliente e selettiva ci rende particolarmente inquieti. Siamo assolutamente certi che, privi dell'attenzione selettiva, tor­neremmo indietro alla sensibilità, che supponiamo confu­sa, degli infanti e degli animali, e diverremmo incapaci di distinguere il basso dall'alto, tanto da finire senz'altro sot­to una macchina la prima volta che ci azzardassimo ad at­traversare la strada.

Una coscienza ristretta e seriale, un flusso di impres­sioni conservate nei magazzini della memoria: ecco gli strumenti attraverso i quali manteniamo il senso dell'Io. È questo che ci permette di sentire che dietro il pensiero c'è un pensatore e dietro la conoscenza un conoscitore, ovvero un individuo che si pone a fianco del panora-ma sempre cangiante dell'esperienza facendo del suo meglio per con­trollarla. Se l’Io dovesse scomparire o, piuttosto, se venisse considerato semplicemente come un'utile finzione, verreb­be a cadere anche la dualità di soggetto e oggetto, di espe­rienza e colui che sperimenta. Ci sarebbe soltanto un flusso di "esperire", conti­nuo, semovente, senza il senso né di un sog­getto attivo che controlla l'espe-rienza, né di un soggetto passivo che la subisce. Il pensatore potrebbe venir percepi­to semplicemente come la serie continua dei suoi pensieri, e il sen­ziente non sarebbe nient'altro che le sensazioni. Come dis­se Hume nel suo Treatise of Human Nature:

Per parte mia, quando mi addentro più intimamente in ciò che chiamo me stesso, m'imbatto sempre in qualche percezio­ne particolare di caldo o di freddo, di luce o d'ombra, d'amo­re o d'odio, di dolore o di piacere. Non riesco mai ad afferra­re me stesso senza una percezione, né posso mai osservare qualcosa che non sia una percezione. [...] il resto del genere umano non è altro che un fascio o collezione di percezioni differenti, susseguenti le une alle altre con rapidità inconce­pibile, e si trovano in perpetuo flusso e movimento. (1)

Ebbene, questo è esattamente quel che temiamo - per­dere l'identità e l'integrità umane in un travolgente flusso di atomi. Hume, opponendosi alla nozione di "sé" come di una sostanza mentale o metafisica, non aveva, natural­mente, altra alter-nativa che concepire "un fascio o una collezione" di percezioni intrinsecamente distinte, dato che stava traducendo la sua esperienza nei termini disgre­gati del pensiero lineare. Hume continuò a ritenere che tutte le nostre impressioni sono "differenti, distinguibili e separabili l'una dall'altra, e possono venir considerate se­paratamente e separatamente esistere, senza aver bisogno di null'altro per esistere". Aveva colto la finzione di un ‘Io’ come ­sostanza separata, ma non riuscì a cogliere la finzione del­la separatezza delle cose o delle percezioni che l’Io, nella sua modalità conoscitiva, astrae dalla natura. Come abbia­mo visto, cose fra di loro separate possono venir ordinate soltanto meccanicamente o politicamente, sicché, priva di un Io reale che ne integri e ne coordini le impressioni, l'esperienza umana pare abbandonata al meccanicismo o al caos.

Se il mondo della natura non è nelle cose viste dall'Io, né in cose o in sensazioni raccolte meccanicamente insie­me, ma in un campo di relazioni "organiche", non vi è ra­gione di temere che l'ordine politico o il meccanicismo non abbiano alter-native. Anzi, il flusso dell'esperienza umana che non verrà riordinato né da un Io trascendenta­le né da un Dio trascendentale, si ordinerà da sé. Sembre­rebbe che ci troviamo di fronte a quel che di solito si defi­nisce come ordine meccanico o automatico, dato che la macchina è ciò che "funziona da sé". Abbiamo visto, tutta­via, che c'è una profonda differenza tra organismo e mec­canismo. Un organismo può venir rappresentato secondo un modello geometrico soltanto per approssimazione, co­ma una forma "informe" può venir scomposta in modelli geometrici, e come i movimenti delle stelle possono venir trasferiti nelle figure di un calendario. Ma come i corpi ce­lesti sono ben diversi dalle relazioni numeriche e dalle ef­femeridi, e infinitamente più numerosi di esse, così gli or­ganismi e le forme naturali non devono mai venir confusi con le loro rappresentazioni meccaniche.

Di nuovo, dato che l'ordine del pensiero è lineare - una serie di piccoli elementi in successione - esso può solo av­vicinarsi, ma non mai comprendere, un sistema di relazio­ni in cui tutto accade simultaneamente. Sarebbe come se la nostra coscienza limitata e ristretta dovesse assumersi l'incarico di ordinare tutte le operazioni del corpo, perché, altrimenti, le ghiandole, i nervi e le arterie non potrebbero adempiere alle loro funzioni. Come il linguaggio, sia scrit­to sia parlato, dimostra eloquentemente, l'ordine del pen­siero non può che essere lineare. Ma la natura non è linea­re. La natura è, come minimo, un volume e, al massimo, un campo dalle infinite dimensioni. Quindi abbiamo biso­gno di un'altra concezione dell'ordine naturale, una conce­zione non logica, diversa da quella del logos, della parola, basata su una consapevolezza atomizzata.

Come Needham ha mostrato, la filosofia cinese forni­sce questa modalità nella concezione neoconfuciana (e buddhista) del li, un termine per tradurre il quale non tro­vo equivalente migliore di "principio". Li è il principio uni­versale di ordine, ma in questo caso il principio o i princi­pi non possono venir definiti in termini di legge (tse). La radice del significato del termine li sta nelle macchie della giada, nelle venature del legno, nelle fibre muscolari. Nel suo significato originario, tse rimanda alla scrittura delle leggi imperiali sui calderoni sacrificali (2). Ora, le macchie della giada sono "informi", cioè sono schermi privi di sim­metria, fluidi e intricati, che rispondono molto bene al senso cinese della bellezza. Ecco perché, quando diciamo che il Tao è "informe"(3), non dobbiamo immaginare una vacuità uniforme, quanto un disegno senza tratti o caratte­ri distinguibili - in altri termini esattamente quello che il pittore cinese ammira nelle nuvole o nelle nubi, e quello che a volte trasmette nella trama dell'inchiostro nero ap­plicato con energici colpi di un pennello piuttosto secco. Nelle parole del Huai Nan Tzu:

Il Tao del cielo opera per vie misteriose e segrete; non ha una forma fissa; non segue regole (tse) definite; è così grande che non si può mai giungerne al termi-ne, è così profondo che non si può mai toccarne il fondo (4).

Allo stesso tempo, l'ordine del Tao non è tanto imper­scrutabile che l'uomo non vi veda altro che confusione. Quando l'artista manipola i suoi materiali, la perfezione consiste nel comprendere come seguire la loro natura, co­me seguire le venature del legno nell'intagliarlo, come sfruttare la tessitura sonora naturale dei vari strumenti musicali. La natura del materiale è precisamente li. Egli la scopre, tuttavia, non attraverso un'analisi logica, ma attra­verso il kuan(5), del quale abbiamo già parlato, definendolo "contemplazione silenziosa", ovvero come un guardare la natura senza pensarci, nel senso di un'attenzione concen­trata. Parlando dell'esagramma kuan nel suo Libro dei mu­tamenti, Wang Pi scrive:

Il significato generale del tao di "kuan" è che non si dovrebbe governare a mezzo di punizioni e pressione legalizzata, bensì si dovrebbe con lungimiranza esercitare il proprio ascendente (con l'esempio) così da cambiare ogni cosa. Nessuno è in grado di vedere il potere spirituale. Non si vede il cielo impartire or­dini alle quattro stagioni, eppure esse non deviano mai dal lo­ro corso. Così noi pure non vediamo il saggio dare ordini al popolo, eppure esso gli obbedisce e spontaneamente lo serve(6).

Il punto è che le cose non vengono inserite in un ordine contemplandole da un punto di vista limitato dall'Io, dato che il loro li, o disegno, non può essere osservato nel suo complesso mentre se ne osserva o se ne pensa un solo fram-mento, né quando le si guarda come oggetti separati l'uno dall'altro. Nel carattere cinese con cui si scrive kuan è inscritto il radicale che significa "vedere" a fianco di un uccello, probabilmente un airone, e nonostante Needham pensi che, in origine, il termine abbia probabilmente avu­to a che fare con l'osservazione degli uccelli in volo per fi­ni divinatori, io penso piuttosto che l'idea di base derivi dal modo in cui l'airone se ne sta, completamente immo­bile, sul bordo dello stagno, a guardare l'acqua. Non sem­bra affatto in cerca di pesci, eppure, nel momento in cui il pesce si muove, l'uccello si tuffa e lo cattura. Kuan è, dunque, semplicemente il modo di osservare in silenzio, apertamente, e senza cercare un particolare risultato. Si­gnifica un modo di osservare in cui non c'è dualità tra chi osserva e chi è osservato, ma c'è semplicemente il vedere. Insomma, mentre osserva, l'airone è lo stagno stesso.

Da un certo punto di vista, è quel che intendiamo con il termine sentimento, come quando uno impara a ballare non tanto seguendo un diagramma dei passi, ma guardan­do gli altri e "se lo sente dentro". Allo stesso modo, il bow­ler (chi serve) nel cricket o il pitcher (il lanciatore) nel ba­seball sviluppano la loro abilità molto più "a pelle" che non studiando precise indicazioni tecniche. Non diversa­mente è con la "sensibilità" che il musicista riconosce i di­versi stili dei compositori, che il sommelier riconosce i viti­gni, il pittore determina le proporzioni nella sua composi­zione, il contadino prevede il tempo, e il vasaio plasma e modella la creta; fino a un certo punto queste arti dispon­gono di regole comunicabili, ma c'è sempre qualcosa di in­definibile che distingue la vera maestria. Come dice il car­radore nel Chuang-tzu:

Lasciate che vi illustri il mio lavoro. Quando si fabbrica una ruota, se si lavora troppo lentamente non si riesce a farla so­lida; se si lavora troppo in fretta, i raggi non si incastrano a dovere. Si deve procedere né troppo lentamente né troppo in fretta. Ci dev'essere coordinazione di mente e mano. A parole non si può spiegare, ma in ciò è contenuta un'arte misteriosa. Non posso insegnarla a mio figlio, né lui può apprenderla da me. Di conseguenza, io, anche se ho già settant'anni, continuo a fabbricare ruote (7).

Studiate analiticamente, queste abilità a prima vista sembrano essere il risultato di un "pensiero inconscio", co­me se il cervello agisse come un complicatissimo calcola­tore elettronico che fornisce il suo risultato alla coscienza. In altre parole, sono la conseguenza di un processo di pensiero che differisce soltanto "quantita-tivamente" dal pen­siero conscio: è più veloce e più complesso. Ma limitando­ci a quest'analisi non apprendiamo, riguardo a ciò che fa il cervello, molto più di quanto ci dice il modo in cui è stato studiato fino a ora e il modello cui è stato paragonato. Il cervello può essere rappresentato in termini di misurazio­ni quanti-tative, ma ciò non significa che operi in quei ter­mini. Al contrario, non lavora secondo alcun termine, ed è per questo che può reagire con intelligenza e rapidità a re­lazioni che possono venir definite solo approssimativamente, lentamente e macchinosamente.

Ma se ci chiediamo come funziona, dunque, la sensibi­lità, riconoscendo che una risposta verbale non è una ri­sposta, dovremo dire che essa opera come si sente, dall'in­terno, nello stesso modo in cui ci sentiamo di muovere le gambe. Troppo facilmente dimentichiamo che questa è una conoscenza molto più intima della nostra natura di quella che ci può derivare da qualunque descrizione obiet­tiva, che per necessità è superficiale, dato che è una cono­scenza "di superfici". Così, per lo scienziato è relativamente di scarsa utilità sapere, sotto forma di verbalizzazione, come funziona il cervello, dato che in pratica lo sa "far funzionare", ottenendone i migliori risultati quando ricorre alla sensibilità o all'intuizione, quando la sua ricerca èuna specie di moscacieca in cui si procede a tentoni senza un'idea precisa da raggiungere. Naturalmente, lo scienzia­to deve avere contezza dei termini che gli permetteranno di riconoscere il risultato quando lo incontrerà. Ma si trat­ta semplicemente di strumenti che gli permetteranno di comunicare il risultato a se stesso e agli altri e non contri­buiscono al suo raggiungimento più di quanto facciano il dizionario e le regole della prosodia al componimento di una poesia. Il kuan inteso come sensibilità senza ricerca, o aperta consapevolezza, è quindi essenziale allo scienziato, nonostante tutto il suo rigore analitico, come al poeta.

L’atteggiamento è meravigliosamente descritto da Lin Ching-hsi nel suo Lascito poetico del vecchio signore della montagna Chi:

I dotti del tempo antico dicevano che la mente è originaria­mente vuota e che solo per questo può rispondere (8) alle cose naturali senza pregiudizi (lett. tracce:chi, (9) lasciate indietro a influenzare una visione successiva). Solo la mente vuota può rispondere alle cose della Natura. Sebbene ogni cosa risuoni con la mente, la mente dovrebbe essere come se non avesse mai avuto risonanza, e le cose non dovrebbero rimanervi. Ma una volta che la mente abbia ricevuto (impressioni di) cose naturali, queste tendono a rimanere e non a scomparire, la­sciando perciò delle tracce nella mente. [...] Dovrebbe essere simile alla bocca di un fiume con i cigni che vi volano sopra: il fiume non ha desiderio di trattenere il cigno, eppure il pas­saggio del cigno è segnato dalla sua stessa ombra, senza omissione alcuna. Prendiamo un altro esempio. Ogni cosa, sia bella sia brutta, si riflette perfettamente in uno specchio: questi non rifiuta mai di mostrare qualcosa, né trattiene nul­la dopo (10).

Kuan non è una mente banalmente vuota più di quanto li, lo schema del Tao, significhi un vuoto privo di tratti ca­ratteristici. È una mente, uno "sperimentatore" al lavoro, senza il senso del soggetto ricercante e osservante, dato che la sen­sazione dell'Io è la sensazione di un tipo di sforzo di co­scienza, di confusione di nervi e muscoli. Ma come l'osser­vare e lo scrutare in sé non chiariscono la visione oculare, e come lo sforzo di sentire non rende più sensibili le orec­chie, così lo sforzo mentale non garantisce la comprensio­ne. Ciò nonostante, la mente è costantemente impegnata a scrollarsi di dosso la noia o la depressione, a cercare di smettere di aver paura, a ricavare il più possibile da un piacere, a obbligarsi a essere amorosa, attenta, paziente o felice. Quando le si dirà che questo è sbagliato, la mente si sforzerà di non sforzarsi. L’impasse potrà essere superata solo quando si vedrà chiaramente che tutti questi sforzi sono futili quanto cercare di mettersi a volare saltando in aria, sforzarsi di dormire, o cercare di comandare un'ere­zione del membro maschile. Tutti hanno familiarità con la contraddizione insita nel cercare di ricordare un nome di­menticato, e nonostante ciò ci capiti di continuo, non arri­viamo mai a fidarci della memoria al punto da farci fornire le informazioni spontaneamente. Eppure questa è una del­le forme più comuni di ciò che il buddhismo Zen chiama satori - il sorgere spontaneo, improvviso e senza sforzo di una comprensione. La difficoltà è ovviamente che la mente si sforza per abitudine e, finché non riesce a perdere quel­l'abitudine, deve essere continua-mente sorvegliata.(11)

Mentre affermiamo che l'Io è una sensazione di costri­zione mentale, non dobbiamo trascurare il fatto che la parola "Io" a volte è usata semplicemente per denotare que­sto organismo, distinto dalla sua anima o da una delle sue funzioni psicologiche. In questo senso, ovviamente, "Io" non denota necessariamente una condizione di costrizio­ne o una superfluità psicologica. Invece, la percezione di un ”Io" come funzione parziale dell'intero organismo o, piuttosto, come entità interiore che possiede e abita l'orga­nismo è il risultato di un eccesso di attività nell'uso dei sensi e di alcuni muscoli. Questa è l'abitudine che ci porta a usare più energia del necessario per pensare, vedere, ascoltare o prendere delle decisioni. Parimenti, molte per­sone, persino quando giacciono supine sul pavimento con­ti-nuano a compiere sforzi muscolari del tutto inutili per mantenere quella posizione, quasi temessero che il loro organismo potesse perdere la sua forma e liquefarsi. Tutto ciò nasce dall'ansia collegata all'acquisizione del controllo del proprio corpo e della coordinazione dei movimenti, poiché sin da bambini, pressati dall'ambiente esterno, si cerca di accelerare le proprie potenzialità neuronali con la mera forza muscolare.

Per tutte queste ragioni siamo così convinti della neces­sità di una costrizione men-tale che ci sarà sempre difficile rinunciarvi finché non riusciremo a dare risposta ad alcu­ne obiezioni teoriche. La "costrizione mentale" deplorata dalla psicologia convenzionale è, ovviamente, una condi­zione assolutamente eccessiva, ma generalmente non si ammette che essa sia contraddittoria a qualsiasi livello la si subisca. Mi sembra che le due obiezioni principali che si possono fare al tentativo di liberarsi dalla costrizione mentale siano le seguenti: in primo luogo che un'assenza di controllo incoraggerebbe una visione del mondo carat­terizzata da una vaghezza mistica e panteistica che si rivelerebbe tanto demoralizzante quanto acritica. In secondo luogo si potrebbe opporre che, dato che il controllo mentale è essenziale per l'auto controllo personale, la sua as­senza ridurrebbe l'individuo a venir completamente tra­volto dalle sensazioni.

Da molto tempo, nei circoli teologici il "panteismo" è una posizione che è stata definitivamente condannata, e coloro che amano ritenere robuste e definitive le proprie opinioni re­ligiose e filosofiche sono egualmente inclini a considerare la parola "misticismo" in modo non meno sprezzante. La associano con la nebbia, (12) con una certa vaghezza, con la nebulosità delle definizioni e la confusione delle distinzioni. Di conse­guenza, da questo punto di vista nulla può essere più de­precabile del "panteismo mistico" o del "misticismo di natura panteistica", che è esattamente ciò che l'atteggia­mento kuan sembra produrre. E comunque, per quanto si possa insistere sul contrario, questi soloni continuano a sostenere che il misticismo buddhista e taoista riduce le distinzioni del mondo, così interessanti e significative, a un ammasso informe di unitarietà(13). Io sono Dio, tu sei Dio, tutto è Dio, e Dio è un mare sconfinato e indistinto di un semi-incosciente budino di tapioca. Il mistico è quindi un tipo debole di mente che trova una fonte di entusiasmo in un noioso "continuum estetico indifferenziato" (North­rop), poiché in un modo o nell'altro così riesce a fondere i conflitti e i demoni del mondo in una Divinità trascen­dentale.

Si tratta, evidentemente, di una rozza caricatura ed è necessario dire qualcosa in difesa della vaghezza filosofica. Una strana accozzaglia di gente di tutti i tipi si è data ap­puntamento per deriderla: positivisti logici e neotomisti cattolici, mate-rialisti dialettici e neointegralisti protestan­ti, comportamentisti e fondamentalisti. Nonostante le no­tevoli differenze di opinioni che pure esistono tra di loro, tutti traggono particolare soddisfazione dall'avere una filo­sofia della vita netta, severa e rigida. Si va da quel tipo di scienziato cui piace assaporare la "brutale" nozione di fatto, al teologo che fonda un sistema di "dogmi incontestabili". Dà sicuramente un notevole senso di sicurezza poter dire: "Il chiaro e autorevole insegnamento della Chiesa è...", op­pure pensare di aver inventato un metodo logico che può ridurre a brandelli le opinioni altrui, specialmente quelle metafisiche. Atteggiamen-ti di questo genere di solito van­no di pari passo con una personalità in qualche modo osti­le, che impiega le definizioni più taglienti come la lama di una spada. E questa è qualcosa più di una metafora, dato che, come abbiamo visto, le leggi e le ipotesi della scienza non sono tanto scoperte quanto strumenti, coltelli e mar­telli, per costringere la natura alla propria volontà. Sicché ci sono alcune perso-nalità che si accostano al mondo con un intero armamentario di arnesi pesanti e affilati, con i quali tagliano a fette l'universo riducendolo a sterili e pre­cise categorie che non interferiscono con la propria quiete mentale.

Ora, nella vita c'è posto per i coltelli affilati, ma c'è po­sto, ed è un posto ben più importante, per altri modi di mettersi in contatto con il mondo. L’uomo non è destinato a essere un istrice intellettuale, che affronta l'ambiente che lo circonda con una pelle ricoperta di spine. L’uomo va in­contro al mondo che lo circonda con una pelle morbida, bulbi oculari e timpani delicati; entra in comunione con esso attraverso un tocco caldo, morbido, definito in modo vago; un tocco carezzevole attraverso il quale il mondo non viene posto a distanza, come un nemico da tenere sot­to tiro, ma viene abbracciato e diventa una carne sola, come una amata consorte. Dopo tutto, la possibilità stessa di giungere a una conoscenza chiara e distinta dipende da or­gani sensibili che, per così dire, portano il mondo esterno nei nostri corpi, e ci forniscono contezza di questo mondo attraverso le forme dei nostri stati corporei.

Di qui l'importanza delle opinioni, strumenti della men­te piuttosto vaghi, nebulosi e più sfuggenti che netti e defi­niti. Strumenti che, tuttavia, forniscono la possibilità di comunicare, di stabilire un vero contatto e una relazione con la natura più inti-ma del mondo, più di quanto si possa fare in qualsiasi altro rapporto in cui ci si imponga a tutti i costi di mantenere la "distanza dell'obiettività". Come quei pittori cinesi e giapponesi hanno così ben compreso, ci sono pae­saggi che si lasciano contemplare meglio a occhi socchiusi, montagne più affascinanti se velate dalla foschia e ac­que più profonde quando si smarrisce l'orizzonte e la loro linea si fonde con quella del cielo.

Nella nebbia della sera, solo un'anatra si libra;

di un solo tono sono le ampie acque e il cielo.

Oppure, come scrive Po Chù-i in "Camminando di not­te nella pioggia fine", tradotto, penso, da Arthur Waley:

Nubi d'autunno, vaghe e oscure;

La sera, solitaria e fredda,

Sento l'umido nei miei indumenti,

Ma non vedo il segno né sento il suono della pioggia.

Ed ecco la versione di Lin Yutang di "Cercando l'eremi­ta invano", di Chia Tao:

Chiesi al ragazzo dietro ai pini.

Lui rispose: "Il maestro andò da solo

A cogliere erbe da qualche parte sul monte,

Celato dalle nubi, in luoghi sconosciuti".

Immagini del genere vengono collegate insieme da Sea­mi quando cerca di suggerire che cosa intendano i giappo­nesi con ‘yugen’, un ordine sottile di bellezza la cui origine è oscura e misteriosa: "Vedere il sole che tramonta dietro una collina coperta di fiori, vagare in un'immensa foresta senza pensare a tornare, sedere sulla spiaggia e seguire con lo sguardo una barca che va a nascondersi dietro isole lontane, riflettere sul viaggio delle anatre selvatiche viste, e perdute tra le nubi"(14). Ma c'è, sempre pronta a irrompere e a risolvere il mistero, una specie di insolente sanità menta­le, ansiosa di scoprire dove sono finite esatta-mente le ana­tre selvatiche, che specie di erba il maestro stava racco­gliendo, e che non desidera altro che osservare il "vero" aspetto di un paesaggio nella luce intensa del sole meridia­no. È proprio questo l'atteggiamento che ogni cultura tra­dizionale trova insopportabile nell'uomo occidentale, non solo perché dimostra mancanza di tatto e di raffinatezza, ma perché esso è cieco. Non sa cogliere la differenza tra super­ficie e profondità. Cerca il profondo incidendo la superfi­cie. Ma la profondità si conosce solo quando essa stessa si rivela, e sfugge sempre alla mente argomentativa. Nelle parole di Chuang-tzu:

Le cose vengono prodotte intorno a noi, ma nessuno ne cono­sce l'origine. Esse vengono fuori, ma nessuno vede da quale porta provengano. Gli uomini, tutti e ciascuno, valutano quella parte di conoscenza che è loro nota. Non sanno come giovarsi di ciò che è ignoto per ottenere la conoscenza. Tutto ciò non è forse mal indirizzato? (15).

Ci capita troppo facilmente di non riuscire a cogliere la differenza tra la paura e il rispetto per l'ignoto, e pensiamo che coloro i quali non si fanno avanti muniti di torce lumi­nose e di coltelli acuminati sono spaventati da un timore superstizioso e sacro. Il rispetto per l'ignoto è l'atteggiamento di coloro che, invece di violentare la natura, la corteggiano finché non è essa stessa a concedersi. Ma quel che essa dona, anche allora, non è la fredda chiarezza di una superficie, ma la calda intimi-tà di un corpo - un mi­stero che non è semplicemente negazione, vuota assenza di conoscenza, ma quella sostanza positiva che chiamia­mo "meraviglioso". Goethe disse:

Il massimo cui l'uomo può aspirare in queste questioni è la meraviglia. Se il fenomeno primigenio la provoca, sentiamo­ci pure soddisfatti; di più esso non può donarci. E bisogne­rebbe guardarsi dal cercare qualcosa oltre a ciò: lì è il limite. Ma la visione di un fenomeno primigenio generalmente non basta agli uomini. Essi pensano di dover andare ancora ol­tre, e in ciò sono come bambini che, dopo essersi contempla­ti nello specchio, gli girano intorno per vedere chi c'è dall'al­tra parte (16).

E, come disse Whitehead:

Quando si sappia tutto sul sole, sull'atmosfera, sulla rotazio­ne terrestre, si può tuttavia non cogliere la radiosa bellezza di un tramonto. Nulla sostituisce la percezione diretta [kuan] del compiersi concreto delle cose nella loro realtà (17).

Questo è, di sicuro, vero materialismo, o forse sarebbe me­glio dire vero sostanzia-lismo, dato che il concetto di "mate­ria" è collegato piuttosto alla misurazione e non definisce propriamente la realtà della natura quanto la natura in ter­mini di misurazione. E "sostanza", in questo senso, non vei­colerebbe la nozione grossolana di "elemento grezzo", ma quel che si intende con il termine cinese t'i, (18) ovvero l'inte­rezza, la Gestalt; il campo completo delle relazioni che sfug­ge a ogni descrizione lineare.

Il mondo naturale, quindi, rivela il suo contenuto, la pienezza delle sue meraviglie proprio quando il rispetto ci trattiene dall'investigarlo sminuzzandolo in tante astrazio­ni. Se devo attraversare ogni orizzonte per trovare quel che c'è al di là, non apprezzerò mai la vera profondità del cielo intravisto tra gli alberi sulla curva di una collina. Se devo fare una mappa dei canyon e contare gli alberi, non potrò mai entrare nel suono di una cascata nascosta. Se devo esplorare e investigare ogni strada, quel sentiero che si perde nella foresta, lassù, sul fianco della monta-gna, finirà per rivelarsi soltanto un itinerario per tornare nei sobbor­ghi della città. Per la mente che percorre ogni strada fino in fondo, nessuna strada porta da qualche parte. Astenersi dall'investigazione non significa ritardare la fredda delu­sione dei fatti concreti, ma capire che si può arrivare an­che fermandosi e non muovendosi, e che guardare sempre oltre significa rimanere ciechi a ciò che è qui.

Per conoscere la natura, il Tao, e la "sostanza" delle co­se, dobbiamo conoscere tutto come l'uo­mo "conosce", in senso biblico, la donna - nella calda vaghezza di un con­tatto immediato. Come nella Nube della non-conoscenza si dice di Dio: "Con l'amore, Egli può essere preso e tenuto, ma mai con il pensiero". Ciò implica anche che è altresì un errore pensarlo effettivamente vago, come la foschia, la lu­ce diffusa o il budino di tapioca. L'immagine della vaghez­za implica che per conoscere la natura, fuori come dentro di noi, dobbiamo abbandonare ogni idea, ogni pensiero e ogni opinione su quel che è, e semplicemente guardare. Se dobbiamo averne una qualche idea, deve essere la più vaga possibile, ed è per questo che, perfino per gli occidentali­sti, una concezione tanto informe quanto il Tao è comun­que preferibile all'idea di Dio con tutte le sue associazioni definite.

Il pericolo dell'atteggiamento "panteistico" e mistico nei confronti della natura è, ovviamente, che può diventa­re esclusivo e unilaterale, anche se non sembra esistano molti esempi di una simile evoluzione. In effetti non c'è al­cuna ragione perché essa debba verificarsi, e il vantaggio di questo "panteismo" sta precisa-mente nel fatto che ci fornisce uno sfondo privo di forma sul quale le forme dei problemi quotidiani si vedono più chiaramente. Quando la nostra idea dello sfondo, di Dio, è troppo definita, la con­dotta pratica diventa tortuosa come quando si cerca di scrivere su una pagina già stampata. Non si riescono a ve­der bene le questioni perché non si coglie il fatto che i pro­blemi del giusto e dell'ingiusto sono come le regole della grammatica: convenzioni della comunica-zione. Radican­do il giusto e l'ingiusto nell'Assoluto, nello sfondo, non so­lo si irrigidiscono eccessivamente le regole, ma le si inve­ste di eccessiva potenza e autorità. Come dice un prover­bio cinese: "Non prendere l'accetta per uccidere una mo­sca sulla testa del tuo amico". Radicando le regole dell'a­zione nell'assoluto, l'Occidente non è riuscito a sviluppare un livello eccezionale di moralità. Al contrario, non ha fat­to altro che fomentare le violente rivoluzioni ideologiche anti-autoritarie che sono caratteristiche della sua storia. La stessa reazione si verifica di fronte a ogni rigido dogma scientifico su ciò che è naturale e ciò che non lo è.

In pratica, un misticismo che eviti ogni rigida formula­zione sulla natura e su Dio si rivela di solito favorevole allo sviluppo della scienza (19). Infatti si tratta di un atteggiamen­to empirico che enfatizza l'esperienza concreta rispetto al­la costru-zione teorica o alla credenza, e il suo schema men­tale è contemplativo e ricettivo. Questo tipo di misticismo si oppone alla scienza, invece, nella misura in cui que-st'ul­tima confonde i modelli astratti con la natura vera, e quan­do, sotto forma di tecnologia, interferisce miopemente con la natura, magari sulla base di visioni pre-scientifiche di cui l'uomo non si è ancora liberato. Al contrario, fornisce una base per l'azione che non è la visione ingombrante, lineare e nomotetica della volontà di Dio o delle leggi di natura ba­sata sull'accumulo di esperimenti passati.

L'atteggiamento del kuan è particolarmente sensibile alle condizioni del momento immediato, in tutta la loro mutevolezza di interrelazioni mentre, come abbiamo vi­sto, uno dei problemi della conoscenza scientifica è che la sua complessità lineare la rende di difficile utilizzo quando si tratta di prendere decisioni rapide, e in parti­colare quando le "circostanze alterano i modelli". Così, discutendo i segreti di un dramma di successo, Seami scriveva:

Se si guarda in fondo all'essenza ultima di quest'arte, troverai che quel che viene chiamato "fiore" [del yugen], non ha un'e­sistenza separata. Se non fosse per lo spettatore che legge nel­la rappresentazione mille meraviglie, non vi sarebbe affatto "fiore". Dice il sutra: "Il bene e il male sono una cosa sola; la malvagità e l'onestà appartengono alla stessa specie". Davve­ro: su quale base distinguiamo il bene dal male? Possiamo soltanto prendere quel che si adatta alla necessità del mo­mento e chiamarlo "bene" (20).

Un atteggiamento del genere sarebbe davvero miope se si fondasse su una visio-ne lineare e atomistica del momen­to, una visione in cui la singola "cosa" non è colta nella sua relazione con il "tutto"(21). Ad esempio, coloro che odiamo con più veemenza sono spesso anche quelli che amiamo più intensamente, e se fossimo insensibili a questa interre­lazione confonderemmo una parte del sentimento con il tutto, giungendo magari a distruggere una persona che amiamo o a sposarne una che finiremo per odiare.

Ciò ci conduce, allora, ad affrontare la seconda obiezio­ne teorica alla possibilità di liberarsi della costrizione mentale dell'Io: ovvero che essa sia necessaria a impe-dirci di venir trascinati via dalle sensazioni e dalle emozioni che, per natura, sono indisciplinate. L'obiezione è, una vol­ta di più, basata su una visione dell'umana natura più po­litica che organica. La psiche umana è vista come un as­semblaggio di parti separate, funzioni o facoltà diverse, come se il Signore avesse creato l'uomo attaccando l'ani­ma di un angelo al corpo di un animale. L'uomo viene quindi concepito come un aggregato di facoltà, impulsi e appetiti che deve venir governato dall'Io-anima. È subito evidente che questa visione ha avuto una profonda in­fluenza sulla psicologia moderna che, pur consigliando al­l’Io di gover-nare su tutto il resto della persona con la gen­tilezza piuttosto che con la violenza, continua a trattarlo come il responsabile e il padrone.

Ma, se pensiamo al corso complessivo dell'esperienza umana, interiore ed esteriore che sia, e alle sue basi psico­logiche inconsce, come a un sistema rego-lato organica­mente, ci accorgiamo che il principio di controllo deve es­sere del tutto diverso.

Gioia e collera, dolore e felicità, cautela e rimpianto ci assal­gono a turno con timori sempre mutevoli. Arrivano come la musica dalle cavità degli alberi quando vengono suonati dal vento. O come i funghi dall'umidità. Notte e giorno incessan­temente si alternano dentro di noi e non riusciamo a dire da dove sgorghino...

Ma per queste emozioni io non dovrei essere. Ma per me, queste emozioni non hanno alcuna rilevanza. Ecco fin dove possiamo spingerci, ma non sappiamo che cosa le porti in gioco.

Può sembrare verosimile che esista un vero Padrone (tsai), ma non troviamo traccia della sua esistenza. Si potrebbe cre­dere che egli agisca, ma non ne vediamo la forma. Egli do­vrebbe (avere) sensibilità senza forma. Ma ora le cento parti del corpo umano, con i suoi nove orifizi e i sei visceri, sono tutte complete ai loro posti. Quale si dovrebbe preferire? Le ami tutte egualmente? O ne ami alcune più di altre? Sono esse tutte suddite? Sono queste suddite incapaci di controllarsi a vicenda, e abbisognano d'un altro come sovrano? O diven­gono sovrano e suddito a turno?(22).

Riprendendo lo stesso tema nel suo commento a Chuang-tzu, Kuo Hsiang dice:

Le mani e i piedi differiscono nei loro compiti. I cinque orga­ni interni differiscono nelle loro funzioni. Non si associano mai tra loro, eppure le cento parti del corpo vengono da loro tenute insieme in un'unità comune. È questo il modo in cui essi si associano: attraverso la non-associazione. Essi non collaborano mai [deliberatamente] eppure, sia internamente sia esternamente, si completano l'un l'altro. Ecco come essi cooperano: attraverso la non-cooperazione.(23)

In altre parole, tutte le parti dell' organismo si regolano spontaneamente (tsu-jan), e il loro ordine si confonde pro­prio quando il panorama mutevole delle sensazioni sem­bra confrontarsi con un lo controllore che cerca di tratte­nere il positivo (yang), rigettando il negativo (yin). Secondo la filosofia taoista, è proprio questo tentativo di regolare la psiche dall'esterno, e di svincolare il positivo dal negativo, che è alla base di ogni confusione sociale e morale. Quindi, quel che dev'essere controllato non è tan­to il flusso spontaneo delle umane passioni, quanto l'Io che le sfrutta - in altre parole, il controllore stesso. Questa considera-zione è stata particolarmente presente a cristiani estremamente sensibili come sant'Agostino e Martin Lute­ro, che compresero acutamente come il semplice auto-con­frollo non era assolutamente un rimedio per i mali dell'uo­mo, dato che è proprio nel "sé" che il male si è radicato. Tuttavia questi pensatori non abbando-narono mai la con­cezione politica del controllo, dato che la loro soluzione consisteva nel potenziamento e nella rigenerazione del sé attraverso la grazia di Dio - il grande Io universale. Non vi­dero che la difficoltà stava non già nella bontà o malvagità del controllore, quanto nel controllo razionale stesso, cui insistevano a voler ricorrere. Non compresero che il pro­blema di Dio era identico al problema dell'Io umano. Infatti anche l'universo di Dio ha generato il diavolo, che na­sce non tanto dalla sua indipendente malvagità quanto dall’"arroganza" divina che si assu-me la sovranità onnipo­tente e si identifica con la bontà assoluta. Il diavolo è l'om­bra che Dio stesso proietta inconsciamente. Naturalmente a Dio non è permesso ritenersi responsabile dell'origine del male, dato che la connessione tra i due giace nell'in­conscio. L'uomo dice: "Non volevo farti del male, ma il mio carattere ha avuto la meglio su di me. Cercherò di control­larmi in futuro". E Dio dice: "Non volevo che ci fosse alcun male, ma il mio angelo Lucifero lo ha fatto sorgere con la sua libera volontà. In futuro lo rinchiuderò al sicuro all'in­ferno".(24)

Il problema del male sorge immediatamente non appe­na si pone il problema del bene, ovvero non appena si pen­sa a cosa si potrebbe fare per "migliorare" l'attuale situa­zione, sotto qualsivoglia aspetto si concepisca l'idea. La fi­losofia taoista può essere facilmente fraintesa dicendo che è meglio lasciare che un organismo naturale si regoli da sé piuttosto che interferire dall'esterno, e che è meglio rico­noscere che il male e il bene sono relativi, piuttosto che se­pararli a forza l'uno dall'altro. E ancora Chuang-tzu affer­ma semplicemente:

Coloro che vorrebbero avere il giusto senza il suo correlativo, l'errore; e il buon governo senza il suo correlativo, il malgo­verno... essi non comprendono i grandi principi dell'universo, né le condizioni cui tutta la creazione è soggetta. Allo stesso modo uno potrebbe parlare dell'esistenza del cielo senza la terra, o del negativo senza il positivo - il che è manifestamen­te assurdo. Queste persone, se non cedono all'argomentazio­ne, devono essere o stolti o bricconi. (XVII). (25)

Eppure, se questo è vero, non dovrebbero esserci né stolti né bricconi se non come correlativi dei saggi e dei santi, e l'errore combattuto non dovrebbe semplicemente ricomparire in chi lo combatte? Se il positivo e il negativo, il bene e il male, sono davve­ro correlativi, non si può raccomandare nessuno schema d'azione, e neppure uno schema di inazione. Niente potrà rendere migliore nient'altro che non lo renda allo stesso tempo anche peggiore. Ma questo è esattamente l'insegnamento sull'Io umano così come lo vede la filosofia taoista.

Si vuole sempre controllare la situazione per migliorarla, ma né l'azione né l'ina-zione, se motivate al miglioramento, otterranno qualche risultato. Riconoscendo la trappola in cui si trova, la mente non ha altra alternativa che arrendersi e rinun-ciare a quel "tendere verso il bene" che costi­tuisce l’Io. Non si tratta di una resa astuta, accettata con il pensiero che ciò renderà migliori le cose, ma di una resa incondizionata - non perché è meglio non far nulla, ma perché nulla può essere fatto. Tutt'a un tratto discende sull’Io, del tutto spontaneamente, una quiete pro-fonda e asso­lutamente non costretta, una quiete che avvolge il mondo come la prima neve, o come un pomeriggio senza vento in alta montagna, dove il silenzio si lascia sentire nel ronzio indisturbato degli insetti nell'erba.

In questa quiete non vi è senso di passività, di sotto­missione alla necessità, dato che non vi è più alcuna differenza tra la mente e la sua esperienza. Tutti gli atti, i pro­pri e gli altrui, sembrano accadere liberamente, sgorgati da una singola fonte. La vita continua a muoversi, eppure rimane profondamente radicata nel presente, senza cercare un risultato, poiché il presente si è liberato dalla costri­zione che lo comprimeva in un'illusoria capocchia di spil­lo di consapevolezza per espandersi in un'eternità che tut­to abbraccia. I sentimenti positivi e negativi vanno e ven­gono senza inquietudine, poiché sembrano semplicemente osservati, sebbene non ci sia nessuno che li osserva. Passano liberamente come uccelli nel cielo, e non creano resi­stenze che debbano poi venir combattute con interventi sconsiderati o temerari. Ovviamente questo stato è, retrospettivamente, "mi­gliore" della prece-dente coazione mentale alla ricerca e al­l'osservazione. Ma si tratta di un bene d'ordine diverso.

Dato che giunge senza essere stato cercato, non si tratta del tipo di bene che è sempre in relazione con il male, né della fantasia di pace che si concepisce nel bel mezzo del conflitto. Inoltre, dato che nulla si fa per trattenerlo, non è collegato al ricordo della condizione precedente, che altri­menti ci spronerebbe a fortificare la situazione attuale e a proteggerci contro ogni mutamento. Da ora in avanti non c'è più nessuno che rimanga a costruire fortificazioni. I ri­cordi nascono e si disperdono come tutti gli altri senti­menti, forse riordinati meglio di prima, ma senza più cri­stallizzarsi intorno a un Io che li utilizza per costruire la sua illusione di un'identità continua.

Da questa prospettiva, si può notare che l'intelligenza non è una facoltà ordinativa separata della mente, ma una caratteristica del rapporto integrale organismo-ambiente, nel cui campo di forze riposa la realtà stessa dell'essere umano. Come disse Macneile Dixon nel suo Human Si­tuation: "Le cose tangibili e visibili non sono altro che i poli, i terminali di questi campi di energia che altrimenti non percepiamo. La materia, se pure esiste in un qualche senso, è una compagna addormentata nell’"azienda della natura". Tra soggetto e oggetto, organismo e ambiente, yang e yin, c'è il rapporto equilibrato o omeostatico chia­mato Tao, intelligente non perché dotato di un Io, ma per­ché dotato del li, ovvero di uno schema organico. Il flusso spontaneo delle sensazioni, nel suo sorgere e dimi-nuire, è parte essenziale di questo processo di equilibrio, e non de­ve essere visto come il gioco disordinato delle cieche pas­sioni. Ed ecco che si dice che Lieh-tzu raggiunse il Tao "lasciando che gli eventi del cuore si muovessero come prefe-rivano"(26). Come un buon marinaio si concede al mo­vimento della nave e non lo combatte con i muscoli del suo stomaco, l'uomo del Tao si concede al movimento de­gli umori.

È forse sorprendente che questa condizione consista in qualcosa di completa-mente diverso da ciò che, general­mente, si intende con l"'arrendersi ai propri sentimenti", che è sempre un sintomo di resistenza più che di abbando­no. E infatti, quando pensiamo ai nostri sentimenti tendia­mo a rappresentarli come condizioni date. Parole come ira, depressione, paura, dolore, angoscia e colpa, suggeri­scono condizioni date che tendono a persistere se non si fa nulla per modificarle o eliminarle. Come una volta la feb­bre veniva considerata una malattia e non un processo di guarigione naturale, oggi continuiamo a pensare ai senti­menti negativi come a disordini della mente che dovrem­mo curare. Ma quel che bisognerebbe curare è piuttosto l'intima resistenza a quei sentimenti che ci spinge a volerli precipitosamente dissol­vere. Resistere al sentimento significa non essere in grado di contenerlo abbastanza a lungo da fare in modo che si dissolva da solo. La collera, ad esem­pio, non è una condizione immobile, ma un movimento, e a meno che non venga compressa fino a diventare violen­za, come acqua bollente in una pentola sigillata, si autoregola spontaneamente. E questo perché la collera non è un de­monio autonomo e separato che di tanto in tanto evade dai recessi dell'inconscio. La collera è semplicemente una direzione, o una modalità dell'azio-ne psichica. Insomma, non c'è collera: c'è soltanto un agire collerico, o un sentirsi in collera. La collera è un sentimento in movimento verso un altro "stato", come dice Lao-tzu:

Perché una bufera non dura un mattino intero e uno scroscio non dura un giorno intero. Chi li produce? Il cielo e la terra. Se persino il cielo e la terra non possono persistere a lungo (nella loro esuberanza), a maggior ragione l'uomo! (XXIII)

Dare libero corso al sentimento significa quindi osser­varlo senza interferire, riconoscendo che, proprio perché il sentimento è movimento, non deve essere ricondotto a ter­mini che implicano non solo situazioni statiche ma addi­rittura giudizi di valore. Osservàti senza dar loro un nome, i sentimenti diventano sempli-cemente tensioni neuromu­scolari, e mutamenti, palpiti e pressioni, titillamenti e con­trazioni di grande sottigliezza e interesse. Ovviamente non si tratta, come nel tranello psicoterapeutico, di "accettare" i sentimenti negativi al fine di mutarli ovvero con l'inten­zione di effettuare un cambiamento di tutto il tono del senti-mento nella direzione del positivo e del "bene". "Ac­cettazioni" di questo tipo implicano che l’Io se ne stia di­stinto dal sentimento immediato e dall'esperienza, e ri­manga in attesa, per quanto paziente e sommessa, di un loro mutamento; finché rimane la sensazione che ci sia un oggetto che osserva, c'è lo sforzo, sia pure indiretto, di controllare i sentimenti dall'esterno, che è la resistenza che crea il vortice nel flusso. La resistenza scompare, e il processo di equilibrio giunge al suo pieno successo non per volontà da parte del soggetto, ma proprio quando si com-prende che la sensazione di essere soggetto, Io, fa essa stessa parte del flusso di esperienza, e non resta al di fuori di esso, in una posizione di controllo. Nelle parole di Chuang-tzu:

Solo chi è veramente intelligente comprende il principio del­l’identità di tutte le cose. Egli non vede le cose come le ap­prende in se stesso, soggettivamente, ma si trasferisce nella posizione della cosa osservata. E osservandola è in grado non solo di comprenderla ma di dominarla.(27)

Comunque, il punto potrebbe venir espresso più preci­samente dicendo che il soggetto non è trattato come un oggetto, ma come il polo o il termine insepara-bile di un'i­dentità soggetto-oggetto. La separatezza del conoscente e del conosciu-to diventa così, senza essere stata affatto an­nullata, il segno più chiaro della loro intima unità.

È questo, in effetti, il punto cruciale dell'intera filosofia unificatrice della natura che viene proposta dal taoismo e dal buddhismo, e che la distingue dal banale monismo panteistico. Eventi separati e unici, siano essi oggetti esterni o il sogget-to interno, vengono considerati come una cosa sola con la natura, in virtù della loro stessa sepa­ratezza, e niente affatto perché assorbiti in un'uniformità senza tratti distintivi. Di nuovo: è la mutua distinzione di figura e di sfondo, di soggetto e oggetto, e non il loro fon­dersi che ne rivela l'intima identità. Un discepolo disse al suo maestro Zen: "Ho sentito che c'è una cosa cui non si può dare nome, che non è nata e non morirà quando mo­rirà il corpo. Quando l'universo si distruggerà, essa tuttavia non ne sarà turbata. Che cos'è questa cosa?". E il maestro rispose: "Una focaccia di sesamo".

Quindi, oltre alla modalità del yugen, ovvero di quella misteriosa e pregnante vaghezza che aleggia nei dipinti dell'Estremo Oriente, c'è anche una connotazione im­mensamente sottolineata dell'evento singolo, unico – il singolo uccello, quel rametto di bambù, l'albero solitario, la roccia isolata. E, in effetti, l'improvviso risveglio a que­sta "intima identità", che nello Zen si chiama satori è, di solito, provocato da, o legato a, qualche fatto semplice: il rumore di una bacca che cade nella foresta o la contem­plazione di una pallottolina di carta per strada. C'è dun­que un doppio senso nella traduzione che Suzuki fa della seguente poesia:

Oh, questo raro evento,

Per il quale sarei lieto di dare diecimila pezzi d'oro!

Un cappello è sulla mia testa, un fardello attorno ai miei fianchi;

E sul mio bastone io porto la fresca brezza e la luna piena!

Il caso "raro" è allo stesso tempo l'esperienza satori e l'evento unico cui essa è collegata - l'uno implica il tutto, il momento implica l'eternità. Ma definire l'impli-cazione è, allo stesso tempo, dire troppo, specialmente se si intende dire che la percezione del particolare dovrebbe portarci a pensare all'universale. Al contrario, l'universalità del­l'evento unico e l'eternità del momento singolo possono venir colti soltanto quando la mente ha rinunciato ai suoi sforzi e l'avvenimento presente, quale che esso sia, viene osservato senza il minimo tentativo di trarne qual­cosa. Ma si tratta di un tentativo talmente abituale che difficilmente si può evitare, cosicché quando qualcuno cerca di accettare il momento per quello che è, si rende consapevole soltanto del fatto che il suo tentativo è de­stinato al fallimento. Eccoci in una situazione che sem­bra un circolo vizioso irresolubile, a meno che non ci si renda conto che quel momento che si cercava di accetta­re è già passato, e ci si presenta ora sotto forma di sensa­zione di costrizione. Allora, se ci si accorge che si tratta di un atto volontario, non dobbiamo aver problemi ad accettarlo, poiché è un nostro atto immediato. Se invece si sente che è invo-lontario, non possiamo far altro che accettarlo perché comunque non vi sono alternative. In ogni caso la costrizione è accettata e dissolta. Ma questa è anche la via per scoprire l'intima identità di volonta­rietà e involontarietà, di soggettivo e oggettivo. Poiché quando l'oggetto, nel momento in cui viene accettato, si presenta come sensazione di costrizione del tentativo di accettarsi, è lui il soggetto: l’Io stesso. Nelle parole del maestro Zen P'u-yen, "Nulla ti è lasciato in questo mo­mento se non scoppiare in una gran risata. Hai comple­tato il cerchio, e in verità ora sai che 'quando una mucca mangia l'erba a Kuai-chou, un cavallo sente lo stomaco sazio a I-chou’ “(28).

Insomma, comprendere che la natura è ordinata or­ganicamente e non politica-mente, che è un campo di re­lazioni e non una collezione di oggetti, richiede una mo­dalità particolare della consapevolezza umana. L'abitua­le modalità egocentrica in cui l'uomo si identifica con il soggetto che affronta un mondo di oggetti alieni non corrisponde alla situazione fisica. Finché resta tale, il nostro senso interno è in disaccordo con la realtà. Ba­sandoci su questa sensazione, i nostri sforzi per control­lare noi stessi e il mondo circostante diventano circoli viziosi sempre più intricati e di complessità crescente. Sempre più l'individuo si sente frustrato e impotente, al centro di un ordine meccanico del mondo che si è tra­sformato in un'irresistibile "marcia del progresso" verso fini propri. Ogni terapia cui l'individuo si sottopone, sia essa religiosa o psicologica, non fa altro che complicare ulterior-mente il problema, finché si continua a conside­rare l’Io separato come la vera realtà, verso cui dirigere i propri rimedi. Del resto, come disse Trigant Burrow, la fonte del problema è sociale più che individuale, ovvero, l’Io è una convenzione sociale imposta alla coscienza umana attraverso il condizionamento. La radice del di­sordine mentale non è, quindi, in un cattivo funziona­mento di questo o di quell'Io, ma piuttosto nel fatto che il sentirsi un ‘Io’ è un errore di percezione. Cercare di pla­care questa sensazione significa soltanto continuare a permetterle di confondere la mente con una modalità di consapevolezza che, poiché si scontra con l'ordine delle cose, alimenta la vasta famiglia delle frustrazioni e ma­lattie psicologiche.

Un ordine organico naturale trova corrispondenza in una modalità della coscienza che è quella del sentimento e dell'esperienza totale. Là dove il sentimento si scinde in senziente e sentito, in conoscente e conosciuto, quel che c'è tra i due non è più rapporto ma mera giustapposizione. Identificata soltanto con uno dei suoi termini, la consape­volezza si sente come priva di un arto, di fronte a un mon-­

do alieno che controlla solo per scoprirlo sempre più incontrollabile, e che sfrutta solo per scoprirlo sempre meno gratificante.

 

NOTE:

1). D. Hume (1946), p. 252.

2) Per gli ideogrammi con cui queste parole vengono scritte, cfr. R.R. Matthews, Chinese-English Dictionary, 38p4 (li) e 6746 (tse). Per le forme originali cfr. B. Kalgren, Grammata Series, 978 e 906. Dato che la forma in caratteri latini delle parole cinesi non ha molto a che vedere con la rea­le forma di scrittura, da ora in poi identificheremo i termini cinesi con i numeri corrispondenti del Dictionary di Matthews (ad esempio, M 3864).

3) Yung, M 7560.

4) Huai Nan Tzu, 9. In J. Needham (1956), voI. 2, p. 561.

5) M 3575.

6) In J. Needham (1956). voI. 2, pp. 56}-562.        

7) H.A. Giles (1926). p. 171.

8) Ying, M 7477. Needham mette in evidenza il fatto che si tratta del termine tecnico per "risonanza", un'idea fondamentale per la filosofia ci­nese delle relazioni tra gli avvenimenti, e derivata dal Libro dei mutamenti. Cfr. M. Eckhart: "Se il mio occhio deve riconoscere i colori, deve di per sé essere libero dai colori".

9) M 502. Anche "effetto" e "ricerca". "

10) Chi Shan Chi, 4. In J. Needham (19sf), vo!. 2. p. 89.

11) La contrattura abituale della mente può venir temporaneamente rilassata mediante l'uso di alcune droghe, come l'alcol, la mescalina e l'a­cido lisergico (LSD). Laddove l'alcol offusca la chiarezza della coscienza, non così accade con la mescalina e l'acido lisergico. Di conseguenza que­ste due sostanze, e a volte anche l'ossido d'azoto e il biossido di carbonio, inducono stati di consapevolezza in cui l'individuo percepisce la sua identità relazionale con l'intero regno della natura. Anche se questi stati sembrano simili a quelli realizzati attraverso mezzi più "naturali", diffe­riscono da questi ultimi come nuotare con il salvagente differisce dal nuotare senza. Dalla sperimentazione personale, anche se limitata, con un gruppo di ricerca che lavorava con l'acido lisergico, sarei portato a ri­tenere che lo stato di coscienza indotto dall'acido si confonde con quello mistico a causa di una somiglianza linguistica nella descrizione dei due. L’esperienza è multidimensionale, come se tutto fosse interno, o implica­to, in tutto il resto, e richiede una descrizione paradossale dal punto di vi­sta della logica ordinaria. Ma, laddove la visione della natura che dà la droga è di infinita complessità, lo stato mistico è chiarificante, e dà una visione che è infinitamente semplice. La droga sembra dare all'intelligen­za una qualità caleidoscopica che "organizza" la percezione delle relazio­ni in accordo con la sua particolare struttura.

12) Gioco di parole tra mysticism e mist, "nebbia", "foschia". [N.d.T.]

13) Nel mio libro Supreme Identity ho proposto un punto di vista dei Vedanta che illustrava molto accuratamente la differenza con il pantei­smo e con tutte quelle forme di misticismo "acosmistico" che sembra idealizzare la completa scomparsa del mondo naturale dalla coscienza. Eppure, fui criticato da Reinhold Niebuhr che in The Nation mi accusò di aver sostenuto esattamente quelle posizioni cui mi opponevo - un esem­pio interessante del fatto che i polemisti cristiani sprecano molte delle lo­ro energie ad attaccare posizioni e punti di vista che esistono soltanto nelle loro menti.

14) A. Waley (1950), pp. 21-22.

15) HA Giles (1926), p. 345.

16) I.P. Eckermann (1930), 18 febbrato 1829.

17) A.N. Whitehead (1933), p. 248. 1

18) M 6246.

19) Su questo, cfr. J. Needham (1956)fvol. 2, pp. 89-98.

20) A. Waley (1950), p. 22.

21) Un esempio eccellente della sensibilità verso il momento si trova nell'applicazione dello zen al kendo, l'arte del maneggiare la spada. Nes­suna quantità di regole o di riflessi inculcati può preparare lo schermido­re all'infinita varietà degli attacchi, specialmente se gli vengono portati da più di un avversario contemporaneamente. Gli viene insegnato, quin­di, a non prepararsi specificamente ad affrontare un attacco, né ad aspet­tarselo da qualche direzione in particolare. Altrimenti, per affrontare un attacco insolito, dovrebbe ritirarsi dalla posizione precedente prima di assumere quella adatta. Invece egli deve essere capace di scattare immediata­mente da una posizione di rilassamento e di riposo verso la direzione ne­cessaria. Questa apertura rilassata di sensibilità nei confronti di ogni di­rezione è esattamente kuan o, per dirla con il termine zen più comune, mushin, che vuoI dire assenza di mente, assenza di costrizione della men­te che cerca di ottenere un particolare risultato.

22) Chuang-tzu, TI, cfr. HA Giles (1926), p. 14, Lin Yutang (1938), p. 235, e J. Needham (1956), voI. 2, p. 52.

23) Chuang-tzu Chu, ID, 25, in Fung Yu-lan (1953), voI. 2, p. 211.

24) Per una discussione più completa di questo tema cfr. C.G. Jung (1954) e A.w. Watts (1957), cap. 2.)

25) HA Giles (1926), pp. 207-208. 1

26) Lieh-tzu, 2. L. Giles (1925), p. 41, traduce il passaggio "la mia men­te (hsin) ha dato libero corso alle sue riflessioni (nien)", ma è una tradu­zione troppo intellettualistica, dato che hsin (M 2735) non è tanto la men­te pensante, quando la totalità del funzionamento della psiche, conscia e inconscia, e nien non è tanto il pensiero corticale, quanto ogni evento del­l'esperienza psichica.  

27) Chuang-tzu, 2. In HA Giles O!l26), p. 20. i

28) D.T. Suzuki (1934), p. 80.

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Parte Terza - Il mondo come estasi

 

Profondamente connesso con l’estraniamento dalla na­tura è l'imbarazzo che ci deriva dall’"avere" un corpo. Pro­babilmente, domandarsi se ci sentiamo a disagio nel corpo, sia che pensiamo di essere spiriti o viceversa, è come chie­dersi se è nato prima l'uovo o la gallina. Certo è che siamo abituati a pensare che i nostri corpi altro non sono che vei­coli in cui siamo costretti a vivere, veicoli allo stesso tem­po "troppo noi stessi" e "totalmente estranei". Dato che  solo imperfettamente ri­sponde alla volontà e resiste alla comprensione intellettuale, ci sembra che il corpo ci sia stato affibbiato come una specie di moglie indispensabile con cui è impossibile vivere. Lo amiamo con trasporto e trascorriamo gran parte del nostro tempo lavorando per sostenerlo. I suoi cinque sensi, delicati e vibranti, ci comu­nicano l'intera delizia e la magnificenza del mondo, al prezzo però di essere egualmente ricettivi anche alla sua angoscia e al suo orrore. Il corpo è sensibile perché è mor­bido, flessibile e aperto alle impressioni, ma vive in un uni­verso che è fatto in gran parte di roccia e di fuoco. Finché siamo giovani, lasciamo che la nostra coscienza si espanda con gioia attraverso tutti gli innumerevoli varchi delle ter­minazioni nervose del nostro corpo, ma più il tempo pas­sa, più cominciamo a ritrarci, e chiediamo al chirurgo di "metterlo a posto", quel corpo, quasi fosse una macchina che fa le bizze - tagliandone via i pezzi che si sono consu­mati e che ci fanno male, ottundendo i sensi che, sconside­ratamente, mantengono intatta la loro sensibilità mentre tutto il resto si deteriora. Quando assume una posizione modesta e graziosa, la forma nuda del corpo dell'uomo o della donna viene riconosciuta come la vetta della bellez­za, eppure questa stessa forma può, in un solo istante, con il solo cambiamento della posizione o con un movimento, trasformarsi in qualcosa di lascivo o grottesco, disgustoso o rozzo - e questo avviene tanto rapidamente che per la maggior parte del tempo nascondiamo il nostro corpo alla vista vestendoci, e sotto gli indumenti esso si sviluppa pal­lido, come una specie di patata, come una di quelle luma­che bianche che vivono sotto le rocce.

Il corpo è tanto lontano dalla mente che, anche quando è nella sua condizione migliore, non è tanto amato quanto sfruttato, e per il resto del tempo facciamo il possibile per inserirlo in una situazione confortevole che ci permetta di dimenti-carcelo, e dove le sue limitazioni non ingombrino il gioco delle emozioni e del pensiero. Ma per quanti modi cerchiamo di escogitare per trascendere questo veicolo fi­sico, la chiarezza della coscienza va di pari passo con la sensibilità dei nervi, e quindi con l'inevitabile esporsi al di­sgusto e al dolore. E questo è tanto vero che la durezza e il dolore delle cose diventa la misura della loro realtà. Ciò che non ci resiste assume le caratteristiche del sogno, di­venta impalpabile, ma nella sferzata del dolore sappiamo che siamo vivi e svegli, e quindi arriviamo a pensare al rea­le come a ciò che si scontra con tutta la nostra intera sen­sibilità naturale nel modo più violento. Non si è mai senti­to parlare della "morbida realtà", ma solo di quella dura, la "dura realtà". Eppure è proprio perché esistono realtà morbide come i bulbi oculari e i polpastrelli che la durez­za può manifestarsi.

Ma, se la realtà viene misurata attraverso il livello di re­sistenza e di dolore che l'ambiente oppone ai nostri nervi, il corpo diventa in primo luogo lo strumento della nostra sofferenza. Esso nega la nostra volontà; si disfa prima che abbiamo perduto la capacità di disgustarci; la sventura di possederlo ci espone a tutti i ventun gradi di angoscia mi­surabili, raggiungibili attraverso la crudeltà della tortura umana, la sventura casuale, la malattia. Coloro che sono abbastanza fortunati da scampare al peggio, sono comun­que tormentati dalle immagini di quel che avrebbe potuto accadere, e la pelle gli si accappona, lo stomaco gli si rivol­ta per la compassione e l'orrore di fronte al destino altrui.

Non c'è da meravigliarsi, dunque, se cerchiamo di af­francarci dal corpo, se voglia-mo convincerci che il vero "Io" non è questa massa gelatinosa di tessuti peren-nemen­te esposta al dolore e alla corruzione. Non c'è da meravi­gliarsi, quindi, se ci aspettiamo che la religione, la filosofia e le altre forme di sapere ci mostrino in primo luogo un modo per liberarci dalla sofferenza, dalla maledizione di essere un corpo morbido in un mondo fatto di dure realtà. A volte, quindi, può sembrare che la risposta consista nel contrapporre durezza a durezza, identificandoci con uno spirito dotato di principi ma non di sentimenti, e disprez­zando e mortificando il corpo, per poi ritrarci nella rassi­curante assenza di carne del pensiero astratto e della fan­tasia psichica. Per affrontare la durezza dei fatti, quindi, identifichiamo la nostra mente con simboli di fissità, di en­tità e di potere quali “l’Io”, la volontà e l'anima immortale, convincendoci che, nel nostro essere più recondito, appar­te-niamo a un mondo spirituale posto al di là sia della du­rezza dei fatti sia della debolezza della carne. Si tratta, per così dire, di una fuga della coscienza dal suo ambiente di dolore, per ritrarsi sempre più indietro, in un grumo tutto raccolto intorno al suo centro.

Eppure è proprio in questo ritrarsi, in questo indurirsi, che la coscienza non solo perde la sua vera forza, ma ag­grava la sua situazione. Anche il fuggire dalla sofferenza è di per sé una sofferenza, così come la coscienza limitata e rinchiusa dell'Io è in effetti uno spasmo di paura. Come un uomo con lo stomaco ferito desidera l'acqua che tuttavia gli sarebbe fatale, così il cronico ritrarsi della mente dalla sofferenza non fa che renderla più vulnerabile. Se si espande pienamente, la coscienza percepisce l'identità con il mondo, ma se si contrae in se stessa, resta sempre più indissolubilmente legata a un organismo singolo, minuto e mortale.

Ciò non significa che i nervi e i muscoli non agiscono bene quando si scostano rapidamente da una punta acu­minata o da altre occasioni di dolore: altrimenti, infatti, l'organismo cesserebbe ben presto di esistere. La ritirata di cui parlo è qualcosa di più profondo: si tratta di una ri­tirata dalla ritirata, della riluttanza a percepire il dolore, della difficoltà che si prova a contorcersi, a spasimare quando il dolore sorge. Per quanto sottile possa sembrare questa distinzione, è di importanza capitale, sebbene a prima vista possa sembrare che il dolore e la riluttanza a reagire al dolore siano la stessa cosa. Eppure non può che risultare evidente che, se il mio organismo non fosse in grado di percepire il dolore, non potrei schivare il perico­lo, e in questo modo la riluttanza a ritrarsi dalla possibilità di venir colpiti sarebbe di fatto un suicidio, laddove il sem­plice ritrarsi dalla fonte del dolore non lo è. È pur vero che vogliamo mangiare la nostra fetta di torta: vogliamo esse­re sensibili e vivi, ma non sensibili alla sofferenza. Ma ciò ci pone in una contraddizione del tipo particolarmente in­tollerabile del "doppio legame".

Il "doppio legame" è una situazione in cui tutte le alter­native offerte sono proibite. Un imputato in un processo viene messo in una situazione di doppio legame quando il pubblico ministero gli chiede: "Ha smesso di picchiare sua moglie? Risponda sì o no". Qualunque risposta egli dia convin­cerà la corte che picchiava la donna. Allo stesso modo, an­che quando nasce la sofferenza vogliamo sfuggire sia al­l'occasione obiettiva, sia alle reazioni soggettive. Ma, quando fuggire alla prima è impossibile, è impossibile evi­tare anche la seconda. Dobbiamo soffrire, ecco il fatto. Dobbiamo reagire sull'unica strada che ci resta percorribi­le - ovvero contor-cerci, tremare, piangere. Ora, il doppio legame si manifesta quando ci proibiamo questo tipo di reazioni, sia nei confronti della sofferenza presente, sia nell'imma-ginazione della sofferenza di là da venire. Ci ri­belliamo alla prospettiva delle nostre stesse reazioni frene­tiche al dolore perché le troviamo in aperta contrad-dizio­ne con l'immagine socialmente condizionata di noi stessi. Accettare tali reazioni sarebbe come ammettere, sia pure con titubanza, !'identificazione di coscienza e organismo, l'assenza di una volontà distaccata, potente e trascen-dente come sede della personalità.

Ecco quindi che il sadico e il torturatore traggono il lo­ro godimento più infernale non tanto dall'osservare le con­vulsioni del corpo delle vittime, ma dall’"infrangere" lo spirito che resiste loro. Eppure, se non vi fosse uno spirito a resistere, la loro crudeltà si trasformerebbe in qualcosa di simile a una spada che si accanisca sull' acqua, e si tro­verebbero di fronte una debolezza totale, che non offrireb­be loro né una sfida né un interesse. Ma è proprio questa debolezza che costituisce la forza, reale e insospettata, del­la mente. Per dirlo con le parole di Lao-tzu:

Quando nasce, l'uomo è tenero e debole; quando muore, è duro e rigido. I diecimila esseri, piante e alberi, durante la vita sono teneri e fragili; quando muoiono, sono secchi e appassiti. Perché ciò che è duro e rigido è servo della morte; ciò che è tenero e de­bole è servo della vita.

Dunque: se un'arma è troppo rigida viene distrutta; se un al­bero è troppo rigido si spezza. Ciò che è duro e rigido è posto in basso; ciò che è tenero e de­bole è posto in alto. (LXXVI)(1)

Ecco che l'aver permesso all'organismo di esprimere senza riserve la sua risposta naturale, orgiastica, al dolore porta con sé due conseguenze inattese. La prima è la capa­cità di resistere al dolore e alla previsione del dolore attra­verso l'immissione di una quantità estremamente maggio­re di "elasticità" all'interno dell'organismo. L'altra è che in questo modo si diminuisce l'impatto generale della soffe­renza, cosa che, a sua volta, riduce l'intensità delle reazio­ni. In altre parole, l'indurimento dello spirito di fronte alla sofferenza e il conseguente ritrarsi della coscienza dalle sue reazioni incontrollate sono errori di comportamento inculcati dalla società, che finiscono per rendere la situa­zione umana molto peggiore di quanto potrebbe essere. Inoltre, questa ripulsa della coscienza di fronte alle reazio­ni della sofferenza è alla radice di un meccanismo psicolo­gico analogo - ovvero il rifiuto di provare la maggior parte delle reazioni di piacere - ed entrambi questi rifiuti creano la sensazione di un Io separato all'interno del corpo.

Questa è certamente la ragione per cui tante tradizioni spirituali insistono sul fatto che la strada per liberarsi del­l'egocentrismo passa per la sofferenza. Eppure si frainten­de spesso questo processo con un indurimento nei con­fronti della soffe-renza ottenuto accrescendo le dosi di mortificazione al fine di irrobustire il corpo e l'anima. In­terpretata in questo modo, la disciplina spirituale della sofferenza diventa un itinerario di insensibilità e di morte, attraverso cui si giunge a un totale ritiro dalla vita che comporta il rifugiarsi in un mondo "spirituale", totalmen­te estraneo alla natura. È per correggere questo errore che il buddhismo Mahayana afferma che "il nirvana e il sam­sara non sono differenti", ovvero che lo stato di libertà non è lontano dallo stato di natura, e che il Bodhisattva libera­to ritorna indefinitamente nel "circolo della nascita e della morte" per la compassione che prova nei confronti di tutti gli esseri senzienti. Per la stessa ragione la dottrina buddhi­sta nega la realtà di un Io separato e dice:

Solo la sofferenza esiste, ma non chi soffre;

l'azione esiste, ma non chi la compie;

il nirvana esiste, ma non chi lo cerca;

il sentiero esiste, ma non chi lo percorre. (2)

Di nuovo, inaspettatamente, la dissoluzione (sankocha) della con­trazione egocen-trica  della coscienza non ridu­ce affatto la personalità a una flebile non-entità. Al contra­rio, l'organismo compie allora il suo massimo sforzo per realizzare il rapporto più pieno possibile con il suo am­biente - un rapporto che è quasi impercettibile quando la coscienza individuale cerca di conservarsi attraverso la se­parazione dal corpo e da tutto ciò di cui esso fa esperienza. "Ciò che salvereb-be la sua anima è ciò che la perderà," e dovrem­mo interpretare questo "salvare" nel senso di mettere in salvo, come qualcosa che racchiude e isola. Viceversa, do­vremmo comprendere che l'anima o la personalità vive esattamente nella misura in cui non si ritrae, nella misura in cui non si sottrae a tutte le implicazioni con-nesse con l'essere tutt'uno con il corpo, e con l'intero regno dell'espe­rienza naturale. Poiché, sebbene ciò sembri suggerire l'as­sorbimento dell'uomo nel flusso della natura, l'integrità della personalità si mantiene molto meglio confidando nella donazione di se stessi che con l'ansia sconvolgente dell'autoconservazione.

Abbiamo visto che il ritrarsi dell'anima dalla sofferenza e il suo sforzo di ottenere la gratificazione sono, fondamen­talmente, la stessa cosa. In ogni caso, anche la strada della dissoluzione non cambia, e implica in primo luogo il rico­noscimento che la coscienza, finché insiste a sentirsi ‘Io’, non può impedirsi di ritrarsi, di provare repulsione di fronte alla risposta orgiastica al dolore. Si deve quindi comprendere che questa stessa repulsione è parte inte­grante della risposta-orgia-stica e non, come siamo condot­ti a credere, uno strumento di fuga da essa. In altre parole, si tratta di riconoscere che tutte le nostre difese psicologi­che contro la sofferenza sono inutili. Più ci difendiamo, più soffriamo, e la difesa è in sé una sofferenza. Anche se non possiamo fare a meno di organizzare le nostre difese psicologiche, esse si dissolvono quando ci accorgiamo che la difesa è tutt'uno con ciò da cui ci si difende. Il movi­mento intero è una contrazione della sofferenza che non ci distoglie da essa. Perseverando nella sofferenza pensando di liberarsi da essa si finisce semplicemente per intensifi­carla. Ma perseverando in essa, perché essa è semplice­mente la risposta naturale a cui, se non a costo di ingan­nare noi stessi, dobbiamo dar voce, l'intera esperienza del­la sofferenza subisce una metamorfosi sorprendente.

Diventa ciò che nella filosofia indiana si chiama ananda e che generalmente si traduce con "beatitudine". Ananda è un attributo di Brahma, la realtà ultima oltre tutti i duali­smi, insieme a sat, verità, e chit, consapevolezza. Poiché di solito siamo portati a considerare la beatitudine una con­dizione mentale estremamente dualistica - il massimo del­la felicità o di piacere, contrapposti a un estremo eguale e contrario di desolazione o di dolore - potrebbe sembrare contraddittorio attri-buire una cosa tanto relativa come la beatitudine all'Assoluto fino a fame uno dei suoi attributi. E, infatti, se la beatitudine si realizza in contrapposizione alla desolazione più abietta, allo stesso modo in cui si co­nosce la luce perché la si contrappone alle tenebre, come èpossibile contemplare una beatitudine che sia non-duale ed eterna?

Si deve innanzi tutto comprendere che la filosofia india­na utilizza una terminologia convenzionale, simile al truc­co della prospettiva, attraverso il quale possiamo rappre­sentare su una superficie bidimensionale uno spazio tridi­mensionale. Ogni linea tracciata su una superficie piatta non potrà che essere più o meno orizzon-tale o verticale, estendendosi in altezza o in larghezza sull' area. Ma, nella conven-zione prospettica, linee oblique, convergenti in un punto, sono interpretate come rappresentazione della ter­za dimensione, quella della profondità. Come una super-fi­cie piatta ha soltanto due dimensioni, così il pensiero e il linguaggio solitamente dispongono solamente di una logi­ca rigidamente dualistica. E in quell'ambito non ha senso parlare di ciò che "né è né non è" allo stesso tempo, e quindi neppure di una beatitudine che trascenda sia il piacere sia il dolore. Ma, proprio come si può suggerire la terza di­mensione anche in un ambito bidimensionale, allo stesso modo si può suggerire un'esperienza oltre il dualismo, an­che in un linguaggio dualistico. Il termine stesso "non­-dualistico" (advaita) è, dal punto di vista formale, l'opposto di "duale" (dvaita), così come beatitudine è l'opposto di desola-zione. Ma la filosofia indiana usa advaita e ananda in un contesto in cui questi termini vengono riferiti a un'altra dimensione dell'esperienza, così come alle linee che sono più o meno alte o più o meno spesse viene dato il significato della profondità. Inoltre, quest'altra dimensio­ne dell'esperienza è interpretata come appartenente a un altro ordine di realtà, più elevato rispetto a quello del dua­lismo in cui vita e morte, piacere è dolore si trovano netta­mente distinti.

Quel che proviamo dipende in un modo eccezionale quanto insospettabile da quel che pensiamo, e i contrasti fondamentali del pensiero ci colpiscono di solito come contrasti fondamentali del mondo naturale. Quindi, dia­mo per scontato che proviamo una grande differenza tra piacere e dolore. Ma invece è evidente, nelle manifestazio­ni più mediate di queste sensazioni, che il piacere o il do­lore non consistono tanto nelle sensazioni in sé quanto nella loro interpretazione, e nel loro contesto. Non vi è al­cuna differenza fisiologica apprezzabile tra i brividi di pia­cere e quelli di paura, né tra la pelle d'oca che ci può pro­vocare una musica travol-gente e quella di un melodramma agghiacciante. Allo stesso modo, medesime intensità di gioia o di dolore producono la stessa sensazione di "cuore in gola" che si esprime nel pianto, e innamorarsi profon­damente significa entrare in uno stato in cui gioia e ango­scia sono talmente intrecciate da diventare pressoché indi­stin-guibili. Ma il contesto dei sentimenti muta la loro in­terpretazione, e li fa dipendere dalle circostanze in cui so­no sorti, mutando il segno degli uni a seconda se le altre sono a nostro favore o contro di noi. Allo stesso modo, lo stesso singolo suono cambia il suo significato a seconda della posizione in cui si trova, come ci dice Thomas Hood:

Il sagrestano andò a suonare la campana.

E loro andarono a suonarle al sagrestano.

È abbastanza facile cogliere l'identità sensoriale o fisio­logica di questi sentimenti in alcune delle forme più atte­nuate di piacere e dolore fisici, e anche in alcune forme in­tense di piacere e dolore morali. Ma è straordinariamente difficile accor-gersene quando esse diventano troppo acute. Ciò nonostante, in alcune circo-stanze particolari di sensi­bilità acutizzata, come nella devozione religiosa e nella passione sessuale, i tipi più diversi di piacere e di dolore perdono la loro distin-zione. Di solito, discipline ascetiche come l'autoflagellazione, l'indossare cilici o inginocchiarsi sui cocci di vetro vengono adottate per fare violenza al de­siderio di piacere. Eppure, è possibile che l'ascetismo sia la strada di una genuina intuizione spirituale, poiché, infi­ne, seppure non intenzionalmente, porta alla comprensio­ne che nell'ardore della devozione piacere e dolore sono la stessa, unica estasi.

L'esempio più immediato è la celebre effigie di santa Teresa d'Avila scolpita dal Bernini. La san­ta è rappresentata in estasi, colpita dal dardo del divino amore. Il suo viso può esprimere sia rapimento sia tortura, e il sorriso dell'angelo che scocca il dardo può essere sia compassionevole sia crudele. Possiamo anche pren-dere in considerazione, per quanto perversi e anormali si considerino di solito, i fenomeni del sadismo e del masochismo - meglio definiti con il ter­mine unico di algolaghnìa, ovvero "lussuria del dolore". Li­mitarsi a liquidare questi fenomeni come perversi o inna­turali è come dire che non si adattano a una concezione predefinita di ordine. Il fatto stesso, invece, che rientrino nelle possibilità umane dimostra che sono estensioni di sensazioni normali, e rivelano profondità della nostra na­tura che di solito vengono lasciate inesplorate. Per quanto sgradevoli essi possano essere, non dobbiamo tralasciare di studiarli per cercare di scoprire se gettano una qualche luce sul problema della sofferenza.

Il sadico è, in effetti, un masochista vicario, dato che infliggendo il dolore si identifica emotivamente con la sua vittima, e dà un'interpretazione sessuale alle reazioni di questa alla sofferenza. Il masochismo, o algolaghnìa, è l'as­sociazione delle contrazioni orgasmiche del dolore con l'e­stasi sessuale, e implica molto più di quel che a un osser­vatore esterno possono sembrare le due reazioni tipiche. Il masochista trova in un certo tipo di dolore uno stimolante positivo per l'orgasmo sessuale, e più cresce l'intensità del­la sensazione, più riesce a trovare piacere a livelli sempre più alti di dolore. La spiegazione freudiana classica per questo com-portamento è che il masochista associa a tal punto il piacere sessuale alla colpa da non potersi permet­tere quel piacere se non a costo di subire una punizione. Ho qualche dubbio in proposito e, come per molti ragio­namenti freudiani, mi sembra un modo inutilmente com­plicato di stiracchiare i fatti per farli entrare a tutti i costi nelle teorie. Anche perché il masochismo si può trovare in culture in cui la sessualità e il peccato non sono affatto al­leati nel modo in cui sono "sposati" nel-l'Occidente cristia­no(3). Sarebbe meglio e più ragionevole dire che il masochi­sta intensifica o stimola le sue reazioni sessuali introdu­cendo reazioni simili provocate dal dolore. A questo si do­vrebbe aggiungere che il desiderio del masochista di venir soggiogato o umiliato si unisce al fatto che tutte le estasi sessuali, femminili o maschili che siano, mostrano la ten­denza all'abbandono di sé, alla resa a una forza più inten­sa dell'Io.

Una prova ancora più evidente dell'identità piacere-dolore è venuta alla luce nel lavoro dell'ostetrico inglese Grantley Dick Reid che ha approfondito alcune note-voli tecniche sul parto naturale. I dolori del parto possono di solito raggiungere un'intensità davvero notevole, fino a toccare il livello più alto di dolore raggiun-gibile dall'orga­nismo. L'interesse della tecnica di Reid consiste nel fatto che fa concentrare la partoriente sulla percezione della contrazione uterina in sé, disto-gliendola dalle idee frutto del condizionamento sociale su come "dovrebbero esse-re" i dolori. Finché la partoriente considera ciò che prova un dolore, gli resiste, ma se riesce a considerarlo una sempli­ce tensione, le si può mostrare come riuscire ad affrontar­lo e a rilassarsi - una tecnica che si può apprendere attra­verso esercizi di preparazione al parto. Così, abbandonan­dosi senza riserve alle contrazioni spontanee dell'utero, la donna riesce ad attraversare l'esperienza del parto come un'estasi fisica estremamente intensa e non più come una tortura.

Potrebbe sembrare che tutti questi tipi di piacere-dolore siano indotti ipnotica-mente, nell'atmosfera della devozione religiosa, della passione sessuale o attra-verso l'autorevole suggestione del medico. Fino a un certo punto, ciò può an­che essere vero, anche se sarebbe meglio definire il feno­meno "controipnotismo", ovvero un'ipnosi che va contro la forza immensa della suggestione sociale che ci ha impo­sto sin da piccoli un'interpretazione precisa da dare alle nostre sensazioni e ai sentimenti. È certo che il bambino impara come dovrebbe interpretare le sensazioni di dolore dall'atteggiamento di simpatia, orrore, disgusto, mostrato dai suoi genitori. In questi atteggiamenti, il bambi­no coglie una resistenza simpatetica al dolore che impara a fare sua.

D'altra parte, l'ardore religioso, la passione sessuale o la rassicurazione di un medico creano un'atmosfera in cui l'organismo può abbandonarsi in pieno alle proprie rea­zioni spontanee. In quelle situazioni, l'organismo non è più scisso in un animale naturale e in un Io controllore. Tutto l'essere è una cosa sola con la sua spontaneità e si sente libero di lasciarsi andare al più completo abbando­no. Le stesse condizioni sono indotte attraverso pratiche religiose come la danza dei dervisci o il canto dei man­tram, i riti penitenziali o la glossolalìa dei predicatori pen­tecostali. Ma il carattere frenetico, esplosivo e persino pe­ricoloso di questo abbandonarsi alla spontaneità è in gran parte il risultato del fatto che di solito essa rimanga com­pressa. In una cultura in cui il sesso è calcolato, la religione decorosa, il ballo beneducato, la musica raffinata o sen­timentale, e gridare di dolore vergognoso, molte persone non hanno mai sperimentato la piena sponta-neità. Si sa poco o nulla delle sue conseguenze catartiche e purificatri­ci, per non parlare del fatto che la spontaneità può essere controllata creativamente e diventare anche una costante dell'esistenza. In questa situazione, il compito di coltivare la spontaneità è lasciato alle frange "ribelliste", ai festival negri, alla musica jazz, o ai concerti di rock'n'roll. Non riu­sciamo neppure a concepire come la descrizione del Saggio di Coo­maraswamy, come di uno che vive "una vita nel presente, aliena da ogni calcolo"(4), possa significare qualco­sa di diverso dal puro disordine.

Il punto è che, insomma, quando le reazioni naturali dell'organismo al dolore vengono lasciate libere di espri­mersi, il dolore va oltre il piacere e diventa estasi - cosa che corrisponde esattamente all'ananda. Cominciamo qui a scoprire un approccio al mistero della sofferenza umana adeguato all'immensa ineluttabilità del problema. Ciò non significa rinunciare ai nostri sforzi per ridurre il quantitati­vo di dolore nel mondo, ma solo accettare che, per quanto volenterosi, essi sono radicalmente insufficienti. La stessa insufficienza affligge tutte le solite razionaliz-zazioni reli­giose e filosofiche in cui la sofferenza viene interpretata come stru-mento temporaneo nel compimento del piano divino, o come giusta punizione per il peccato, oppure co­me illusione di una mente finita. Si percepisce istintiva­mente che alcune di queste risposte sono un affronto alla dignità della sofferenza e alla sua straboccante realtà per ogni singola forma di vita. Del resto, ovunque guar-diamo nella storia dell'universo, troviamo ben poche prove e an­cor minori assicu-razioni che il conforto sia generalmente qualcosa di più di una rarità. La vita è stata e sembra de­stinata a essere per la maggior parte del tempo convulsa e catastrofica, destinata in futuro a continuare a sbranarsi e a divorarsi da sola(5). Il problema della sofferenza conti­nuerà quindi ad avere una sorta di terribile sacralità finché la vita continuerà a dipendere in qualunque modo dal do­lore anche di una sola creatura.

Si dovrebbe rispettare l'ideale indiano di ahimsa “non-violenza” o "inoffensività" e comportarsi come il monaco buddhista che riduce al minimo la morte e il dolore che potrebbe causare alle altre creature. Ma, in effetti, quest'astinenza non è altro che un atteggiamento che corrisponde, quando ci si riflet­ta, a un ritrarsi dal pro-blema. Di nuovo: la risposta al pro­blema del dolore non è lontana dal problema, ma in esso. L’ineluttabilità del dolore non può venir affrontata con la mortificazio-ne della sensibilità, bensì con la sua intensifi­cazione, esplorando e sperimentando le modalità in cui l'organismo naturale stesso desidera reagire e che gli sono state fornite da una sapienza innata. Il medico che si acco­sta al letto del moribondo dovrebbe tenere lo stesso atteg­giamento del medico accanto al letto del bambino, ovvero creare un'atmosfera in cui la repulsione fisica e morale al­la morte e ai suoi dolori vengono compiutamente autoriz­zate e incoraggiate. Le sensazioni di un essere sofferente devono essere lasciate libere di muoversi secondo la dire­zione che dà loro la natura, soggette soltanto a un control­lo esterno che impedisca un'azione distruttiva.

Cominceremmo a vedere, allora, che la risposta alla sofferenza è la reazione del-l'organismo, la sua tendenza in­nata a trasformare un dolore inevitabile in estasi. È questa l'intuizione che sottende al mito cosmologico dell'indui­smo, in cui il mondo nella sua pienezza di delizie e di or­rori è considerato come un'estasi di Dio, un Dio che si in­carna perpetuamente, in un atto di autoabbandono, nelle miriadi di forze delle creature. Ecco perché Shiva, il divi­no prototipo di tutta la sofferenza e della distruzione, è Nataraja, il "Signore della Danza". E l'eterna, agonizzante dissolu-zione, nonché il rinnovamento della vita, sono la danza di Shiva, che è sempre estatica perché priva di con­flitti interni, dato che, in altre parole, è non-duale, in essa non esiste resistenza da parte di un controllore esterno al controllato, in essa non vi è altro principio di movimento oltre al suo sahaja, spontaneità.

Lasciata a se stessa, la spontaneità dell'organismo non incontra alcun ostacolo al suo movimento continuato che, come l'acqua corrente, trova perpetuamente da solo il cor­so di minore resistenza. Come disse Lao-tzu:

La "bontà" suprema è come l'acqua. La "bontà" dell'acqua con­siste nel fatto che essa reca profitto ai diecimila esseri senza lottare. Essa resta nel posto (il più basso) che ogni uomo dete­sta. Ecco perché è molto vicina al Tao. (VIII)(6).

Dato che non si blocca, il corso della sensazione acqui­sisce un senso di libertà, di "vuoto", rappresentato nella terminologia buddhista ch’an e taoista dal termine wu-hsin, ov­vero "assenza di Io" o "non-pensiero" - nessun essere senziente che sia in conflitto con la sensazione. Nel dolore e nella gioia, nella sofferenza e nel piacere, le reazioni naturali si susseguono l'una all'altra senza soluzione di continuità, "come una palla che scende lungo un torrente di montagna".

La sofferenza e la morte - tutto il lato oscuro e distrut­tivo della natura che è rappresentato da Shiva - costitui­scono quindi un problema per l’Io, ma non per l'organi­smo. L'organismo accetta tutto ciò attraverso l'estasi, men­tre invece l’Io è rigido e inflessibile e trova tutto ciò proble­matico in quanto attacca il suo orgoglio. Come ha mostra­to Trigant Burrow, l’Io è l'immagine sociale, il ruolo con cui la mente è costretta per vergogna a identificarsi, dato che ci viene insegnato a inter-pretare la parte che la società vuole che recitiamo -la parte di un centro d'azione affidabile e prevedibile, che resiste ai mutamenti spontanei. Ma nella sofferenza estrema e nella morte non si può più reci­tare alcuna parte, ed ecco quindi che queste circostanze vengono associate con tutta la vergogna e la paura con cui, da piccoli, ci hanno costretti a diventare un "Io" accettabi­le. La morte e l'angoscia sono quindi temute come una perdita di stato sociale, e di fronte a loro ci si sforza di mantenere gli schemi consueti di azione e di sensazione.

Eppure in alcune società tradizionali, l'individuo si prepa­ra alla morte abbando-nando il suo ruolo prima di morire, ovvero staccandosi dalla sua casta e dal suo ambiente sociale e diventando, con piena approvazione da parte della società, un "nessuno". In pratica, poi, anche questo moto di liberazione dagli schemi della società può venir frustra­to e trasformato in un nuovo status sociale, poiché anche essere "nessuno" diventa un ruolo formale - quello del "sant'uomo", o sanyasin, il monaco ecclesiastico convenzionale.

Tutto ciò deriva da un timore della spontaneità che è basato non soltanto sulla confusione tra ordine di tipo bio­logico con ordine politico, legale e basato sulla forza, ma nasce anche dall'incapacità di vedere che la spontaneità dei bambini è socialmente problematica perché ancora embrionale e non coordinata. Ed è allora che commettia­mo l'errore di far socializzare i bambini sviluppando non la loro spontaneità, ma un sistema di resistenze e di paure che, per così dire, scinde l'organismo in due centri, uno spontaneo e l'altro inibitorio. Ecco perché è raro incontra­re persone integrali, capaci di una spontaneità auto-con­trollata, cosa che infatti suona come una contraddizione in termini. È come se insegnassimo ai nostri figli a cammi­nare sollevando i piedi con le loro stesse mani, invece di muo-vere le gambe "dall'interno". Non capiamo che prima che la spontaneità possa giungere a controllarsi deve esse­re in grado di funzionare. Le gambe devono avere piena li­bertà di movimento prima di acquisire la disciplina neces­saria per camminare, correre o danzare. E muoversi disci­plinatamente significa controllare un movimento rilassa­to. Allo stesso modo, l'azione e la sensazione disciplinate non sono altro che azioni e sensazioni rilassate dirette ver­so un fine preordinato. Il pianista deve, di conseguenza, ac­quisire rilassatezza e libertà nelle braccia e nelle dita prima di poter eseguire passaggi musicali complessi, e la tecnica peggiore si acquisisce obbligando le dita a eseguire esercizi pianistici senza un preliminare rilassamento.(7)

Dopo tutto, la spontaneità è totale sincerità, in cui l'es­sere nella sua interezza è coinvolto nell'atto senza la mini­ma riserva e, di norma, l'adulto civilizzato può arrivare a questo estremo soltanto se spinto dalla disperazione più abietta, dalla sofferenza più intollerabile o dalla morte im­minente. Di qui il proverbio: "Negli estremi dell'uomo è l'opportunità di Dio". Un saggio indù dei nostri giorni af­fer-mava che la prima cosa che doveva insegnare agli occi­dentali che venivano da lui era come piangere, cosa che mostra anche che la nostra spontaneità è inibita non sol­tanto dal complesso dell'Io ma anche da una certa conce­zione anglosassone della virilità. Lungi dall'essere forme di forza, la rigidità e la durezza mascoline che esibiamo non sono altro che una sorta di paralisi emozionale. Le adot­tiamo non tanto perché teniamo sotto controllo i nostri sentimenti, ma piuttosto perché li temiamo, così come te­miamo tutto ciò che nella nostra natura è simbolicamente femminile e accondiscendente. Ma un uomo emotivamen­te paralizzato non può essere maschio, ovvero non può es­serlo in rapporto a una donna, poiché nella sua natura de­ve esserci qualcosa di femminile perché egli possa entrare in relazione con una donna.

Colui che si riconosce gallo ma si comporta come una gallina è il burrone del mondo. Egli è il burrone del mondo; la "Virtù" non ne scorre mai via. Egli ritorna allo stato di lattante [ovvero alla spontaneità]. (XXVIII)(8).

Essere simili ai bambini, ovvero la semplicità senza ar­tifici, è l'ideale dell'artista non meno che del saggio, dato che si tratta di portare a compimento l'opera d'arte o la vi­ta stessa senza la minima traccia di affettazione, di divi­sione tra due mentalità. Ma la strada per giungere al bam­bino passa attraverso la donna, attraverso la spontaneità flessibile, che sa attendersi semplicemente a ciò che si è, momento per momento, nell'incessante mutare del corso della natura. È proprio a questo "semplicemente ciò che si è" che si riferisce l'adagio indù Tat tvam asi, "Tu sei Questo", e "Questo" è il Brahman eterno e non-duale. Nella mi­sura in cui questa strada è libera dall'autocontrollo op­presso dall'ansia, è egualmente lontana dall'esibizionismo di chi si atteggia a libertino, e che ostenta di "essere se stesso" per progetto, per scandalizzare e attirare l'attenzio­ne, e i cui vizi sono ipocriti quanto le virtù dei farisei. Ri­cordo un party avant-garde in cui circolavano alcuni uomi­ni completamente nudi che in realtà erano più pesante­mente vestiti di chiun-que altro in quella stanza, dato che non riuscivano a capire che la nudità è una condizione ra­dicalmente inevitabile per l'essere umano, poiché i nostri abiti, la nostra pelle, la nostrà personalità, i nostri vizi e le nostre virtù sono trasparenti come lo spazio. Non possia­mo avanzare diritti su questi elementi, e non c'è nessuno che possa avanzare una simile richiesta, dato che il sé è trasparente come i suoi indumenti. Per quanto vuoto e nichilistico possa apparire, questo riconoscimento della nostra totale nudità e della traspa­renza del sé è una gioia indicibile, poiché quel che è dav­vero vuoto non è la realtà in sé, ma tutto ciò che sembre­rebbe bloccarne la luce.

Il vecchio P'ang non chiede nulla al mondo;

Tutto è vuoto per lui, e non ha neppure un seggio,

Perché il Vuoto assoluto regna nella sua casa;

Quanto è vuota, in verità, e senza tesori!

Quando il sole sorge, egli cammina attraverso il Vuoto,

Quando il sole tramonta, egli dorme nel Vuoto;

Seduto nel Vuoto canta i suoi canti vuoti;

Ed i suoi canti vuoti riverberano nel Vuoto.(9)

Dare un nome o simboleggiare il contenuto gioioso di questo vuoto è sempre dire troppo - per dirla con lo Zen, è come mettere le gambe al serpente. Nella filosofia buddhi­sta, il vuoto o Vacuità (sunyata) denota la realtà più solida e fonda­mentale, anche se viene chiamata "vuoto" perché non può mai divenire oggetto di cono-scenza. E ciò perché, essendo comune a tutti i termini relativi - figura e sfondo, solido e spazio, movimento e quiete - il vuoto non viene mai cono­sciuto nel contrasto con nient'altro e quindi non può mai venir percepito come oggetto. Potremmo chiamarlo realtà fondamentale, o sostanza del mondo soltanto per analo­gia, dato che, a rigor di termini, la realtà è conoscibile so­lo in contrasto con l'irrealtà e la sostanza o materia soltan­to in contrapposizione alla forma o allo spazio vuoto. Co­munque, si può comprendere attraverso la sapienza intui­tiva che i buddhisti chiamano prajna, dato che, come ab­biamo visto, tutti i termini relativi hanno un'identità inte­riore che, non essendo uno dei termini è, in senso stretto, "in-(de)terminabile", ovvero impossibile da descrivere o da immaginare. Prajna è una modalità della conoscenza diretta, ovvero conoscenza non mediata dalle parole, dai simboli o dalle immagini, e dalle classificazioni logiche con tutta la loro ineluttabile dualità di interno ed esterno.

Il "vuoto" dell'universo significa anche che i contorni, le forme e i limiti cui riferiamo i nostri termini sono in continua evoluzione, e in questo senso la realtà non può venir fissata o limitata. Viene detta "vuota" perché non può venir afferra-ta, poiché anche

le colline sono ombre,

e fluttuano da forma a forma,

e nulla è immobile.

 

Resistere a Shiva, al mutamento, alla sofferenza, alla dissoluzione e alla morte significa resistere alla trasparen­za, anche se la resistenza stessa non è altro che una mano fantasma che cerca di afferrare le nuvole. La sofferenza è l'estasi defi-nitiva, poiché ci forza ad abbandonare la nostra presa su noi stessi e scioglie "tutta questa carne troppo so­lida". L'eterno rinnovamento e la dissoluzione del mondo sono la rivelazione più evidente e dalla quale non si può sfuggire per il fatto che la "forma è vuoto e il vuoto stesso è forma", e che l'Io tormentato è un anello di difesa dal nulla. La fugacità da cui cerchiamo di liberarci è la vera li­berazione.

Non vi sono metodi né strumenti per comprendere tut­to ciò, dato che ogni stru-mento sarebbe artificioso, un ten­tativo, in ultima analisi, di diventare qualcosa, di essere più di questo momento di scioglimento, in cui crolla la fondamentale ten-sione della volontà. Credere in un Dio immutabile, in un'anima immortale, e anche in un ‘nirvana’ senza fine come a qualcosa da conquistarsi, è parte di que­sta artifi-ciosità, e non è diverso dalle sterili sicumere del­l'ateismo e del materialismo scien-tifico! Non c'è strada per giungere dove siamo, e chiunque la cerchi non si troverà dinanzi altro che una liscia parete di granito senza alcun passaggio, né appiglio. Lo yoga, le preghiere, le terapie e gli esercizi spirituali non sono fondamental-mente nient'al­tro che elaborate dilazioni del riconoscere che non c'è nul­la da afferrare e nessun modo per afferrarlo.

Ciò non vuol dire che Dio non esiste, o negare la possibi­lità che ci sia una qualche forma di continuità individuale dopo la morte. Vuol dire, piuttosto, che un Dio da afferrare o in cui credere non è Dio, e che la continuità cui aneliamo è meramente la continuità di una prigionia. La morte si pre­senta a noi come la possibilità di un sonno senza risveglio, o al massimo come la possibilità di svegliarci nei passi di qualcun altro - come ci è già accaduto alla nascita. Per quanto deprimente o spa-ventoso possa apparire di primo acchito, in realtà il pensiero di un sonno senza risveglio, in eterno, è stranamente fruttuoso, dato che contribuisce ad:

attirarci fuori dal pensiero, come fa l'eternità.

Una simile contemplazione della morte rende il nocciolo del sé privo di sostanza, e più ci addentriamo in lei, più ci rendiamo conto che un sonno senza risveglio non deve esse­re confuso con la fantasia di venir rinchiusi in un'oscurità eterna. La scomparsa della stessa oscurità riduce l'immagi­nazione all'impotenza e il pensiero al silenzio. A questo pun­to, noi di solito occupiamo il nostro cervello con altre que­stioni, ma il fascino della certezza della morte può a volte te­nerci in uno stato di stupore, finché non ci giunge una curio­sa illuminazione in cui ci rendiamo conto che quel che muo­re non è la coscienza, ma la memoria. La coscienza ritorna in ogni creatura appena nata, e non appena ritorna è "Io". E, in quanto essa è soltanto quest’ Io, si batte incessantemente in centinaia di milioni di esseri contro la dissoluzione che la libererebbe. Vedere ciò è sentire la solidarietà più profonda - una sorta di identità - con le altre creature e cominciare a comprendere il signifi-cato della compassione.

Nella gioia intensa che segue alla completa comprensio­ne della nostra momenta-neità e trasparenza, e al fatto che nulla può venir afferrato, non si fa più questio-ne di un fred­do distacco dal mondo. Un uomo che aveva compreso pie­namente mi scrisse: "Mi sto attaccando il più profondamen­te che posso a tutti gli uomini e alle cose possibili". Dopo il pralaya in cui tutti i mondi manifesti vengono dissolti, Brah­ma si precipita di nuovo nella miriade di forme di vita e di coscienza e, dopo aver realizzato il nirvana, il Bodhisattva ri­torna nel circolo interminabile della nascita e della morte.

Ancora oltre il limite estremo c'è un passaggio,

Da cui egli ritorna nei sei regni dell'esistenza [...]

Come una gemma sta, anche nel fango,

Come oro risplende, anche in un forno. (10)

Nell'attaccamento è il dolore, e nel dolore la liberazio­ne, sicché a questo punto l'attaccamento non offre più ostacoli, e chi si è liberato è finalmente libero di amare tut­to con tutta la forza e di soffrire con tutto il suo cuore. E questo avviene non perché egli abbia appreso a scindersi in due entità, una superiore e una inferiore, tanto da po­tersi osservare con interiore indifferenza, ma piuttosto perché ha trovato il punto di incontro tra il limite della saggezza e il limite della follia. Il Bodhisattva è il folle che è diventato saggio persistendo nella sua follia.

L'adorazione che gli innumerevoli fedeli hanno tributa­to, sia pur con le migliori intenzioni, ai Buddha, ai saggi, a coloro che sono liberati, ha naturalmente posto questi ulti­mi al culmine del successo spirituale, ma, allo stesso tem­po, ha ritardato il risveglio dei primi. E infatti il regno del­la liberazione è assolutamente incommen-surabile con le relatività di alto e basso, migliore e peggiore, vinto e perso, dato che tutte queste cose non sono che i vantaggi e gli svantaggi, trasparenti e vuoti, dell'Io. Anche se non ancora del tutto esatto, sarebbe tuttavia meno travisante pensare alla liberazione come all'abisso del fallimento spirituale - una condizione in cui non si possono neppure avanzare diritti sui vizi, per tacere delle virtù. Guardando all'interno della sua vuota momentaneità, il Bodhisattva conosce una disperazione che va oltre il suicido, una disperazione asso­luta, che è poi il signifi-cato etimologico di nirvana. È la to­tale delusione di ogni speranza di salvezza o di riposo di vittoria, e il suicidio stesso non rappresenta una fuga dato che “l’Io” si risveglia di nuovo in ogni essere che nasce. È il riconoscimento della sconfitta finale di ogni artificio del­l’Io che, in questa delusione, si dissolve, trovando solo vuo­to nella sua più frenetica resistenza al vuoto, soffrendo nella fuga dalla soffe-renza, e riuscendo soltanto ad affer­rarsi nei suoi tentativi di lasciarsi andare. Ma qui l'uomo scopre, nel suo stesso dissolversi, il medesimo vuoto da cui si irradia l'intera moltitudine dei soli, delle lune e delle stelle.

 

NOTE:

1) In Ch'u Ta-kao (1937), p. 89.

2) Visuddhimagga, 16.

3) Si può provare che il consapevole masochismo fu introdotto per la prima volta in Occidente dalla cultura araba - una cultura visibilmente li­bera da pastoie in materia sessuale. Cfr. H. Ellis (1942), parte II, p. 130, che cita A. Eulenburg, Sadismus und Masochismus.

4) A.K. Coomaraswamy (1957), p. 134.

5) È interessante riflettere sulle conseguenze del rifiuto dell'uomo civi­lizzato di farsi mangiare da altre forme di vita, sul fatto che non voglia più restituire il suo corpo alla fertilizzazione del suolo da cui, in effetti, proviene. È un sintomo significativo della sua alienazione dalla natura, e probabilmente una perdita difficilmente negabile quanto a risorse della terra.

6) Ch'ti Ta-kao (1937), p. 18.

7) Cfr. L. Bonpensiere (1953). È pur vero che Beethoven diteggiò alcu­ni passaggi delle sue sonate in modo da ottenere un effetto di difficoltà e di conflitto. Ma questa è l'eccezione che conferma la regola. In effetti il compositore voleva che quei passaggi esprimessero musicalmente l'idea del conflitto.        

8) Ch'u Ta-kao (1937), p. 38.

9) P'ang Chii-shish, maestro zen del IX° secolo. In D.T. Suzuki, Essays...(1950), vol. 2, p. 297.1

10) Tzu-te Hui. In D.T. Suzuki, Manual.. (1950), pp. 150-151. 1

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Parte Quarta -Il mondo come nonsenso

 

Che la nostra vita sia un istante di dissolvimento, in cui non c'è nulla e nessuno da afferrare, è il modo negativo di esprimere qualcosa che può essere anche espresso positi­vamente. Ma il modo positivo di esprimere questo concet­to non è affatto così efficace e potente, e può portare facil­mente a malintesi. La sensazione che ci sia qualcosa da af­ferrare riposa sull'apparente dualità di ‘Io’ ed esperienza. Ma la ragione per cui non c'è nulla da afferrare sta nel fat­to che questa dualità è solo apparente, cosicché il tentativo di "mordere" la realtà è paragonabile a quello di mordersi un dente con un altro dente. Una volta compreso questo fatto, si può comprendere altresì che il soggetto e l'oggetto, il sé e il mondo, sono un'unità o, più precisamente, una "non-dualità", dato che la parola "unità" potrebbe essere intesa come esclusione della diversità.

Scompare così il senso dell'abissale distanza tra l’Io e il mondo, e la propria vita, intima e soggettiva, non sembra più separata e lontana da tutto il resto, dall'espe-rienza complessiva del flusso della natura. Diventa semplice, evi­dente, che "tutto è Tao", un processo integrato, armonioso e universale dal quale è assolutamente impossibile devia­re. La sensazione è a dir poco meravigliosa, sebbene non ci sia una ragione logica per questo, salvo che essa non si debba ricercare, forse, nel sollievo connesso al sentirsi li­beri dall'esigenza cronica di doversi "confrontare" con la realtà. Da quel momento in poi, infatti, non ci si confronta più con la realtà. Semplicemente la si è.

Ma, di solito, non si percepisce la meraviglia delle cose a meno che esse non si rivelino. anche gravide di conseguenze, a meno che non conducano a mutamenti nella vi­ta pratica. Quando gli uomini giungono a provare questa sensazione, in modo spesso del tutto inaspettato, sono ten­tati immediatamente di attendersi da essa ogni genere di risultati, un atteggiamento che spesso fa sì che la sensazio­ne svanisca con la stessa rapidità con cui è comparsa. Gli uomini si aspettano che questa sensazione cambi loro il carattere, li renda migliori, più forti, più saggi, più felici. Poiché credono di aver afferrato qualcosa di inestimabile, se ne vanno in giro soddisfatti quasi avessero ereditato una fortuna.

A un maestro zen fu chiesto, un giorno: "Qual è la cosa più preziosa al mondo?". Ed egli rispose: "La testa di un gatto morto". "Perché?" "Perché nessuno può attribuirle un prezzo." La comprensione dell'unità del mondo è come la testa di quel gatto morto. È la cosa più inestimabile, più inconseguente di tutte. Non dà risultati, non ha implicazio­ni né senso logico. Non se ne può ricavare alcunché, poiché è impossibile assumere una posizione al di fuori di essa da cui sporgersi ed estrarre qualcosa. L’intera nozione di "ac­quisizione", "guadagno", sia che si tratti di ricchezza, di saggezza o di verità, si rivela un circolo vizioso, come cer­care di placare i morsi della fame divorando se stessi a par­tire dalle dita dei piedi. E del resto, è proprio quello che facciamo comunque, dato che in realtà non c'è diffe-renza alcuna tra le dita dei nostri piedi e un'anatra arrosto: la soddisfazione è in ogni caso momentanea. Come si dice nelle Upanishad, "Annam Brahman”, il cibo è Brahman. Io, il cibo, mangio il mangiatore del cibo!"(1) Tutti non faccia­mo altro che mangiare noi stessi, come il serpente Ourobo­ros, e l'unica vera delusione è dovuta al fatto che ci aspet­tiamo di ricavarne qualcosa. Ecco perché il Buddha disse al suo discepolo Subhuti: "Non ho guadagnato assoluta­mente nulla dal per-fetto e insuperato Risveglio". D'altro canto, però, se non vi è nessuna attesa, nessuna ricerca di risultati, e non si ottiene nulla oltre a questa "testa di gatto morto", ecco che, improvvisamente e gratuitamente, mira­colosamente e senza ragione alcuna, scopriamo esserci molto più di quanto ciascuno abbia mai cercato.

Non è questione di rinunciare e di reprimere il desiderio - quelle sono le trappole con cui gli astuti cercano di catturare Dio. Non si può rinunciare alla vita, per la stessa ragione per cui non si acquisisce nulla da essa. Come vien detto nel Cheng-tao Ke:                    Non puoi prenderne possesso,

ma non puoi perderlo.

Nel non poterlo prendere, lo prendi.

Quando tu taci, esso parla.

Quanto tu parli, esso tace. (XXXIV)

Del resto, anche ciò che spesso si dice, ovvero che cer­care il Tao è perderlo, dato che il cercare pone una distan­za tra chi cerca e l'oggetto cercato, non è del tutto vero, co­me balza all'occhio quando cerchiamo spasmodicamente di non cercare, non desiderare, non afferrare. Nei confron­ti del Tao, molto semplicemente, non c'è atteggiamento sbagliato, poiché non c'è un punto al di fuori di esso da cui prendere un atteggiamento. L'apparente separazione del sé soggettivo è anche questa un'espressione del Tao, chiara e netta come il contorno di una foglia.

Affermazioni del genere non potranno che irritare le menti più pratiche e ragio-nevoli - questa esaltazione nei confronti di qualcosa da cui non discende neces-sariamen­te nulla, quest'idea perfettamente insensata di un'armonia da cui è impossibile deviare... Ma il punto nodale di questa filosofia della "testa di gatto morto" sta proprio nella sua inconseguenza che, non diversamente dalla natura in sé, è una specie di sublime non-senso, un'espressione di estasi, un fine in sé, privo di scopi o di obiettivi.

Le menti infaticabili, quelle che non fanno altro che saggiare e afferrare, vengono totalmente spiazzate da que­sta assenza di significato, dato che per esse ha senso sol­tanto ciò che, come la parola, rimanda a qualcosa oltre sé. Di conseguenza, il mondo pare loro dotato di senso in quanto l'hanno ridotto a una collezione di significati, co­me un dizionario. Nel loro mondo, i fiori hanno profumo e colori al fine di attirare le api, e i camaleonti mutano il co­lore della pelle con l'intenzione di nascondersi. Oppure, se sulla natura non proiettano una mente, ma solo un mecca­nismo, le api sono attratte dai fiori perché questi ultimi hanno profumo e colore, e i camaleonti sopravvivono poi­ché sono dotati di una pelle cangiante. Non riescono a ve­der crescere il mondo dei fiori colorati, profumati e visita­ti dalle api senza l'intervento di un "perché" astratto e di­stintivo. Invece di schemi interrelati in cui tutte le parti crescono insieme e simultaneamente, essi non vedono al­tro che conglomerati di "palle da biliardo", mosse da una sequenza temporale di causa ed effetto. In un mondo del genere, le cose sono quel che sono soltanto in relazione a quel che è stato e a quel che sarà, mentre nel mondo privo di obiettivi del Tao, le cose sono quel che sono in relazione alla loro reciproca presenza.

Forse potremmo ora cominciare a capire perché gli uo­mini hanno una tendenza pressoché universale a cercare sollievo dai loro simili tra gli alberi e le piante, le monta­gne e le acque. Si può contraffare piuttosto facilmente e a buon mercato l'amore per la natura, ma c'è sempre qual­cosa di profondo e di essenziale nel tema universale della poesia, per quanto abusato sia. Per centinaia di anni, i grandi poeti dell'Est e dell'Ovest hanno espresso questo amore essenzialmente umano per il "comunicare con la natura" - una frase cui oggi i circoli intellettuali sembrano attribuire soltanto una valenza leggermente ridicola. Pre­sumibilmente ciò viene considerato come una delle "fughe dalla realtà" tanto condannate da coloro che restringono la realtà a quel che si legge sui giornali.

Ma forse la ragione per l'amore che proviamo verso la natura non umana è da ricercare nel fatto che la comunio­ne con essa ci permette di tornare a un livello naturale in cui ci riscopriamo sani, liberi dall'ipocrisia, e intatti dalle ansie riguardo al significato e allo scopo della nostra vita. Poiché ciò che chiamiamo "natura" è libero da un certo ti­po di falsità e di auto celebrazione. Gli uccelli e gli animali, in effetti, sono intenti a nutrirsi e a procreare con l'impegno più assoluto. Ma essi non lo giustificano, non fanno finta che ciò serva a un fine più alto, o che costi-tuisca un contributo significativo al progresso dell'umanità.

Non voglio sembrare scortese nei confronti del genere umano, anche perché ciò non significa che gli uccelli abbiano ragione e gli uomini torto. Il fatto è che il rapporto con il mondo meravigliosamente privo di scopo della natu­ra ci offre nuovi occhi per osservare noi stessi - occhi che non condannano l'importanza che ci attribuiamo, ma attraverso i quali essa assume un aspetto completamente di­ver-so. In questa luce, tutti gli obiettivi supremi e pomposi degli uomini vengono improvvisamente trasformati in me­raviglie naturali non troppo diverse dai becchi colossali dei tucani e dei buceri, dalle code favolose degli uccelli del paradiso, dai colli torreggianti delle giraffe e dai posteriori vivacemente colorati dei babbuini. Ed ecco che, vista da questa prospettiva ovvero non certo come qualcosa da condan-nare, ma neppure come qualcosa da prendere trop­po sul serio, l'importanza che l'uomo si attribuisce si dis­solve in una risata. La sua insistenza su scopi e obiettivi e l'attenzione straordinaria che attribuisce alle astrazioni sono, sebbene perfetta-mente naturali, sorpassate, come i corpi colossali dei dinosauri. Come strumenti di adatta­mento e di sopravvivenza, questi atteggiamenti mentali so­no fin troppo sfruttati, sorpassati, poiché continuano a ri­produrre una specie che è ormai troppo machiavellica e troppo pragmatica per il suo stesso bene e che, esattamen­te per questa ragione, avrebbe bisogno di una buona dose di "filosofia della testa di gatto morto". Perché questa è la filosofia che, come la natura, non ha fini né conseguenza oltre se stessa.

Eppure, attraverso questa mancanza di direzione, in modo semplice e sorpren-dente, questa filosofia arriva a una percezione immensamente più elevata del significa­to dell'universo. Forse, "significato" non è la parola giu­sta, dato che in quest'ottica il mondo non indica un sen­so oltre se stesso. Come la pura musica, ovvero quella che non fa da supporto a un testo né cerca di imitare i suoni naturali e che, potremmo dire, non rappresenta un sentimento, ma è sentimento. Come la poesia dell'in­cantamento, che rapisce non in grazia del significato delle sue parole, ma poiché le parole stesse sono il suo significato:

Al prepàrio i svatti marchi trottellavan per il diano,

ma tristanchi erano i barchi e i paupersi sibiliàno... (2)

La gente che si allontana, senza aver capito, da un qua­dro astratto, osserva tuttavia con piacere un paesaggio in cui l'artista abbia rappresentato nubi e rocce che, in se stesse, non rappresentano nulla, rendendo con ciò un in­conscio tributo alla meraviglia del nonsenso naturale.

Queste forme, infatti, non ci commuovono perché si approssimano alle forme intelligibili della geometria, o per la loro somiglianza ad altre cose: le nubi non sono men bel­le quando non ci ricordano montagne, volti e città celesti. Non amia-mo il rombo delle cascate e il mormorio dei tor­renti perché ci ricordano la parola umana. Le stelle sparse senz'ordine sulla volta celeste non ci affascinano perché abbiamo potuto tracciare tra di esse le linee delle costellazioni. E non è certo per la loro simmetria o perché ci ricordano dei dipinti che ci piacciono tanto le trame della schiuma, le venature della roccia e i rami neri degli alberi in inverno.

Vista in questa luce, la stupefacente complessità della natura è una danza senza altra meta che le figure che ven­gono via via prodotte, figure improvvisate e che non ri­spondono a una legge che le sovrasta, ma solo ai loro rapporti reciproci. Persino le città perdono la loro praticità calcolata, e diventano i gangli pulsanti di una rete di arterie diffusa su tutta la terra, che risucchia i suoi globuli al mattino per restituirli alla sera. Imprigionati nell'illusione del tempo e della teologia, la danza e il ritmo estatico del processo vengono come nascosti, e al loro posto si vede una finalità frenetica, che si fa faticosamente strada tra ri­tardi e ostacoli. Ma, quando la vacuità sostanziale di quel fine viene da ultimo riconosciuta, la mente può finalmente riposarsi e notare il ritmo e la danza, diventando improv­visamente consapevole che l'intento atemporale del processo si compie a ogni istante.

Ci sono occasioni in cui questa visione del mondo ci prende di sorpresa, quando la mente scivola inconsapevol­mente in un atteggiamento ricettivo. È come il raccon-to spesso ripetuto di qualcuno che scopre su una parete familiare una porta mai notata prima, una porta che condu­ce in un giardino incantato, oppure una fendi-tura nella roccia che dà adito a una grotta piena di gioielli. Eppure, quando si è di ritorno, la porta sulla parete, la fenditura nella roccia non sono più visibili. È stato proprio così che un pomeriggio il mio stesso giardino si è improvvisamente trasfi-gurato, per circa mezz'ora intorno al crepuscolo. Il cielo era diventato trasparente, il suo azzurro era quieto e limpido, ma intimamente più luminoso di quanto non fos­se anche in pieno meriggio. Le foglie degli alberi e dei ce­spugli avevano assun-to un tono di verde quasi incande­scente, e la loro massa non era più una macchia informe di colori, ma un arabesco di meravigliosa complessità e chiarezza. I rami si stagliavano contro il cielo come una fi­ligrana o un merletto, non nel senso di qualcosa di artifi­cioso, ma per distinzione e per ritmo. I fiori - ricordo in particolar modo la fucsia - erano improvvisamente diven­tati sculture leggerissime di avorio e corallo.

È come se le impressioni di una mente instancabile e in perpetua ricerca si con-fondessero a causa della velocità con cui si succedono senza interruzione, tanto che la rit­mica limpidezza delle forme diventa impercettibile, e i co­lori appaiono piatti e privi di luce interiore. Inoltre, un'al­tra caratteristica di molte di queste "aperture" della visio­ne è che in esse ogni particolare del mondo appare perfet­ta-mente ordinato, non certo irreggimentato come in una parata, ma rivela la sua interconnessione con ogni altra cosa, un rapporto costitutivo in cui nulla è più irrilevante, nulla è inessenziale. Questo, forse, più che ogni altra cosa, spiega il sentimento "insensato" che tutto sia "giusto" o in armonia con il Tao, proprio come in realtà è. E ciò si ap­plica allo stesso modo a impressioni che di solito ver-reb­bero considerate confuse e disarticolate e liquidate come i rifiuti in una pattu-miera, o un portacenere rovesciato sul tappeto o... la testa di un gatto morto.

Nel mondo occidentale è diventata una sorta di secon­da natura affermare che ogni azione creativa richiede l'in­centivo dell'inadeguatezza e dello scontento. Ci sembra evidente che se ci sentissimo compiuti e soddisfatti in ogni istante, se non guardassimo più al tempo come a un itine­rario da percorrere, non ci resterebbe altro che sederci al sole, posare sulle nostre teste degli ampi sombreri e tenere delle bottiglie di tequila a portata di mano. Anche se ciò fosse vero, non sarebbe poi quel gran disastro che tendia­mo a immaginare; perché non c'è dubbio che nel nostro essere continuamente indaffarati c'è industriosità, ma c'è allo stesso tempo anche nevrosi, e un certo quantitativo di normale indolenza donerebbe alla nostra cultura quella morbidezza piacevole che di solito, e singolarmente, le fa difetto. In ogni caso, sembriamo escludere l'eventualità che l'azione stimolata da un senso di inadeguatezza possa rivelarsi creativa soltanto in un senso limitato. Non pen­siamo che quell'azione esprimerà il vuoto da cui scaturisce fame piuttosto che un senso di pienezza e debolezza piuttosto che forza. Allo stesso modo, quando il nostro amore per gli al­tri si basa soltanto sul reciproco bisogno diventa soffocan­te - una sorta di vampirismo in cui siamo portati a dire, fin troppo espressivamente, "Ti amo tanto che ti mangerei". È a causa di questa bramosia che la devozione dei genitori diventa amore soffocante e il matrimonio un sacro cappio al collo.

I teologi moderni hanno utilizzato le parole greche eros e agape per distinguere tra un amore divorante e un amore generoso, e quest'ultimo lo hanno ascritto soltanto a Dio. La natura decaduta dell'uomo può solo avere fame, poiché il peccato è una discesa dall'Essere al Nulla. Privo della divi­na grazia, l'uomo può agire soltanto se mosso dall'incenti­vo naturale del bisogno, e questo postulato continua a vi­gere come principio di buon senso anche dopo che si è smesso di credere in un Dio che crea il mondo traendolo dalla sua divina pienezza. Affermiamo inoltre che l'intero regno della natura si muove soltanto in quanto viene so­spinto dall'appetito, dato che nel cristianesimo si dà per acquisito il fatto che la natura sia decaduta con Adamo, il suo capo. E la nozione che la natura agisca solo in base al­la necessità si accorda perfettamente con il meccanicismo che disgrega il teismo.

Ma se la Caduta fu la perdita del nostro senso di inte­grazione con la natura, questa supposta caratteristica di "famelicità" dell'azione naturale non è altro che una proie­zione sul mondo della nostra stessa condizione. Se dob­biamo abbando-nare la meccanica newtoniana nella sfera fisica, dobbiamo farlo altresì in campo psicologico e morale. Nella stessa misura in cui gli atomi non sono palle da biliar-do spinte al movimento dall'urto reciproco, le nostre azioni non sono entità forzate da motivazioni e impulsi di­versi. L'impressione è che le azioni sembrano forzate da al­tre cose, al punto che chi le compie, l'agente, giunge a identificarsi con una sola parte della situazione in cui si verifica l'azione, ad esempio con la volontà distinta dalla passione, o con la mente distinta dal corpo. Ma se l'agente si identifica con le sue passioni e con questo suo corpo, ec­co che non sembrerà più mosso da loro. Di più: se chi agi­sce riesce ad andare oltre, e vedere che non si esaurisce soltanto nel suo corpo, ma comprende la totalità della re­lazione tra quel corpo e l'am-biente, ecco che neppure l'am­biente parrà più forzarlo. L'effetto sembra controlla-to pas­sivamente dalla sua causa solo fintanto che lo si considera distinto da essa. Ma se la causa e l'effetto sono soltanto i termini di un unico atto, non c'è più né controllore, né controllato. Così, la sensazione che l'azione debba scaturi­re dalla necessità deriva dal fatto che si pensa al sé come a un centro di coscienza distinto dalla periferia.

La domanda "Perché si dovrebbe agire?" ha senso sol­tanto finché all'azione pare necessaria la motivazione. Ma se l'azione o il processo non è più sostanza inerte, bensì quel che costituisce il mondo, ecco che diventa assurdo cercare una ragione esterna all'azione. E non c'è davvero alternativa all'azione, sebbene questo non significhi che dobbiamo agire, dato che ciò implicherebbe la realtà di un "noi", sostanza inerte, attivata a fatica dall'esterno. Il punto è che, motivati o no, noi siamo azione. E nella necessità che sentiamo di motivare l'azione, esprimiamo il vuoto fa­melico dell'Io, l'inerzia dell'ente e non certo la vitalità del­l'atto. Quando, però, l'uomo non cerca qualcosa fuori di sé, egli è azione che esprime tutta la sua pienezza, sia che pianga di dolore o salti dalla gioia.

Nella filosofia indiana, karma significa sia azione moti­vata e finalizzata, sia causa ed effetto, e karma è anche quel tipo di azione che tiene legato a sé l'uomo. Puntando ai risultati non si arriva a nessun risultato, ma si perpetua il bisogno di risultati. Risolvendo problemi non si fa altro che creare altri problemi da risolvere. Karma è quindi azione dotata di significato poiché, come il segno, indica in qualcosa che le è esterno il suo senso, il motivo da cui è scaturita o il fine cui tende. È quindi un'azione che crea la necessità di una nuova azione. Opposta a karma vi è sahaja, ovvero l'azione spontanea e non consequenziale, caratteristica del jivan-mutka, ovvero di colui che si è libe­rato, il quale vive e si muove in uno con la natura - mor­morando come un ruscello, gesticolando come gli alberi al vento, vagando come le nubi, oppure semplicemente esi­stendo, come la sabbia e le rocce. La sua vita ha quella qualità che i giapponesi chiamano tura-tura - lo sventolare di un indumento steso, o il moto di un guscio vuoto in un torrente vorticoso. "Il vento soffia dove vuole, e tu ne senti la voce ma non puoi sapere donde viene né dove va." Né lo sa il vento stesso.

Ecco perché universalmente si paragona il saggio al folle, dato che entrambi, in modo sottile, non agiscono in modo sensato, né accettano la scala di valori pratica del mondo.

La sua porta rimane chiusa, e i sapienti non lo conoscono. La sua vita interiore rimane nascosta, ed egli si muove al di fuo­ri dei sentieri delle virtù riconosciute. Entra nel mercato por­tando con sé una zucca e se ne ritorna a casa facendosi stra­da con un bastone. Anche nel negozio dei liquori e al merca­to del pesce ognuno si trasforma in Buddha.

A petto e a piedi nudi egli entra nella polvere di questo mondo.

Macchiato di fango e cosparso di ceneri, sfoggia un ampio sorriso.

Non gli servono i poteri segreti degli dei,

poiché a un suo comando gli alberi morti si coprono di fiori. (3)

Come il nonsenso del folle è un affastellarsi di parole perse nella loro fascinazione sonora, il nonsenso della na­tura e del saggio è la percezione che la profonda mancan­za di senso del mondo contiene la stessa gioia nascosta che è insita nella sua caducità e nella sua vacuità. Se cer­chiamo il senso del mondo nel passato, la catena delle cau­se e degli effetti svanisce come la scia di una nave. Se lo cerchiamo nel futuro, si dissolve come un raggio di luce nel cielo notturno. Se lo cerchiamo nel presente, lo sco­priamo elusivo come uno spruzzo nell'aria, poiché non c'è niente da afferrare. Ma quando ci resta soltanto il cercare, e proviamo a capire di cosa si tratta, improvvisamente es­so si trasforma nelle montagne, nelle acque, nel cielo e nel­le stelle, che bastano a se stesse e non lasciano fuori di sé nient'altro da cercare né alcuno che lo ricerchi.

Da quanto si è detto finora potrebbe sembrare che la nostra filosofia della natura abbia raggiunto un punto di completa contraddizione. Poiché, se si giunge alla conclu­sione che non c'è vera divisione tra uomo e natura, ne deri­va che non c'è nulla di artificiale da cui distinguere il natu­rale. Come disse Goethe nel suo frammento La natura:

Il massimo dell'innaturale è tuttavia natura. Chi non la vede in ogni parte, in realtà non la vede in nessun luogo... Persino resistendo, opponendosi alle sue leggi si obbedisce loro; e si lavora con lei anche quando si desidera lavorarle contro.

Se questo è vero, sembrerebbe annullare quanto si è detto sul carattere mecca-nicistico e innaturale del Dio del monoteismo e sulla visione lineare e politica del mondo condivisa dal cristianesimo e, fino a qualche tempo fa, dal­la filosofia della scienza. Sembrerebbe altresì una scelta marginale preferire una modalità di cosci-enza ad un'altra, considerare più naturale la vigilanza aperta del kuan ri­spetto al-l'atteggiamento sforzato e concentrato dell'egocentrismo. Se pure gli artifici e le concezioni tanto piene di sé della civiltà urbana e industriale non sono più innatu-ra­li delle pretenziose penne della coda di un pavone, ciò equivale a dire che nella vita naturale tutto e ogni cosa "va". Come si è detto, non è possibile deviare dal Tao.

Eppure, in fondo c'è una notevole differenza tra questa posizione e quella, diciamo, del cristianesimo o della scien­za intesa in senso legalistico: cristianesimo e scienza, infat­ti, pongono una distinzione tra uomo e natura che questa filosofia non pone. Certo: porre questa distinzione non è più innaturale di quanto sia non porla. Entrambe le posi­zioni sono, in un certo qual modo, "lecite", se con ciò in­tendiamo dire che sono naturali. Un po' come il liberale che dice al totalitario: "Sono in totale disaccordo con quel che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo". Come in una democrazia ideale l'esercizio della libertà im­plica il diritto a votare per la restrizione della libertà, così la partecipazione dell'uomo alla natura implica il suo diritto e la sua libertà di sentirsi superiore a essa. Come nel processo democratico si può giungere liberamente a ri­nunciare alla libertà, così si può essere naturalmente innaturali. Laddove il totalitario potrebbe affermare che la li­bertà è stata abolita, il libertario potrebbe rilevare che ciò è vero solo fino al punto in cui egli lo afferma liberamente. Anche nella tirannide "un popolo ha il governo che si me­rita", poiché al popolo rimane pur sempre il potere, ovvero la libertà di governarsi da solo. Allo stesso modo è possibi­le per questa filosofia affermare con pienezza di senso che è perfettamente naturale credere che l'uomo sia distinto dalla natura e, allo stesso tempo, essere in disaccordo con questa convinzione.

Ma anche se un popolo liberamente vota per determi­nate restrizioni della propria libertà, non dovrebbe mai di­menticare che la libertà continua a essere la base e l'auto­rità della legge. Allo stesso modo, il punto nodale di questa filosofia è che, come un popolo non può mai abbandonare totalmente la sua libertà e responsa-bilità, un essere uma­no non può mai abbandonare totalmente la sua naturalità e, allo stesso modo, non dovrebbe dimenticarsene. In altre parole, la naturalezza è una spontaneità che si autodeter­mina (tzu-jan) e che manteniamo pur nella rigidi-tà più im­balsamata e nell'atteggiamento più affettato. Ma quel "noi" che mantiene la spontaneità non è quell'autorestri­zione che chiamiamo "Io": è l'uomo naturale, la relazione organismo-ambiente. Così, se la salute politica consiste nel compren-dere che la restrizione legale è una libera autoimposizione del po­polo, la salute filosofica consiste nel comprendere che il nostro vero sé è l'uomo naturale, il Tao spontaneo da cui non possiamo mai deviare.

In termini psicologici, questa comprensione significa porre una totale accettazione di se stessi come sfondo costante di ogni pensiero, sentimento e azione - per quanto ristretti essi siano, non diversamente da come è necessario porre la libertà originaria alla base di ogni restrizione politica. Questa accettazione di se stes­si è la condizione di quella sottesa integrità, sincerità e pa­ce dell'anima che, nel saggio, resiste a ogni disturbo ester­no. In breve, si tratta del consenso profondo che ci diamo a essere esattamente quel che siamo e a provare esatta­mente quel che proviamo in ogni istante, anche prima che quel che siamo venga mutato, seppur leggermente, da que­sta accettazione. È il riconoscimento che "tutto mi è leci­to" anche se "non tutto è opportuno", sebbene, probabil­mente, in un senso più ampio rispetto a quello inteso da san Paolo. Detto in maniera forse brutale è l'intuizione che, qualunque cosa siamo adesso, siamo quello che do­vremmo essere ideal-mente. Questo è il senso dell'afferma­zione buddhista "i tuoi pensieri ordinari sono il Tao". E "i pensieri ordinari" sono il presente, lo stato attuale della consapevo-lezza, quale che ne sia la sua natura. E l'illumi­nazione, l'accordo con il Tao, resta lontana finché viene considerata una "condizione" da raggiungere, e per la qua­le ci sono prove e verifiche da compiere. È piuttosto la li­bertà di essere il fallimento che si è.

Per quanto assurda possa sembrare questa libertà estrema e amorale, essa è alla base di tutta la compiutezza mentale e spirituale, a patto che, verrebbe da dire, non ab­bia risultati da raggiungere. Ma un'accettazione tanto pie­na include in sé anche la ricerca, insieme a tutto ciò che ci capita di fare o di provare. L'apparente passività estrema di questa accettazione è, tuttavia, creativa perché ci per­mette di mantenere la nostra integrità, essere buoni, catti­vi, indifferenti o semplicemente confusi con tutto il nostro cuore. Per agire o crescere creativamente dobbiamo ini­ziare dal punto in cui siamo, ma non possiamo iniziare af­fatto se non siamo "tutti qui", senza riserve o rimpianti. Privi di questa accettazione di noi stessi rimaniamo sem­pre in opposizione con il nostro punto di partenza, dubi­tiamo del terreno su cui poggiamo i piedi, divisi sempre da noi stessi al punto da non poter agire con sincerità. Se alla base del pensiero e dell'azione non c'è l'accettazione di se stessi, ogni tentativo di disciplina spirituale o morale è la sterile lotta di una mente scissa e insincera. È la libertà che è alla base dell'autolimitazione.

In Occidente abbiamo sempre ammesso, in teoria, che gli atti veramente morali devono essere espressione della libertà. Eppure non ci siamo mai concessi questa libertà, non abbiamo mai permesso a noi stessi di essere quel che siamo, qualun-que cosa si sia, di vedere che, fondamental­mente, tutte le vincite e le perdite, le cose giuste e quelle sbagliate della nostra vita sono naturali e "perfette" come le vette e le valli di una catena di monti. Identificando Dio, l'Assoluto, con una divinità che esclude il male, ci rendia­mo impossibile accettare noi stessi integral-mente: quel che non è in accordo con la volontà di Dio è in contrasto con lo stesso Essere, e quindi non può venire accettato in nessun caso. La nostra libertà, quindi, viene limitata da ri­compense o punizioni tanto catastrofiche che non è più af­fatto libertà, ma riproduce piuttosto un sistema totalitario in cui uno potrebbe votare contro il governo ma con il ri­schio permanente di venir deportato in un campo di con­centramento. Invece dell'autoaccettazione, alla base del nostro pensiero e del nostro agire abbiamo posto l'ango­scia metafisica, il terrore di essere radicalmente sbagliati e intimamente corrotti.

È per questa ragione che le ortodossie formali, cattoli­ca e protestante, hanno sempre avuto la caratteristica di essere dottrine rigorosamente essoteriche, e hanno identi­ficato l'Assoluto con i concetti relativi di bene e di male. I teologi sono abituati a dire che se le distinzioni tra bene e male non fossero valide eterna-mente, non sarebbero vera­mente valide e importanti. Ma questo sostanzial­mente equivale a dire che ciò che è finito e relativo non è importan­te - un punto di vista piuttosto strano per chi insiste, altre­sì, che esiste una creazione reale e finita, distinta da Dio, e oggetto del suo amore. Non essere in grado di distinguere tra l'assolutamente importante e il relativamente impor­tante senza pensare che quest'ultimo sia privo di impor­tanza, significa adottare una scala di valori piuttosto pri­mitiva.

D'altro canto, ci potrebbe sempre essere il rischio che un’autoaccettazione troppo radicale possa rendere una persona insensibile all'importanza dei valori morali - ma questo equivale semplicemente a dire che senza rischio non c'è libertà. Il timore che accettare se stessi quali si è, annulli il giudizio etico è un timore privo di fondamento, dato che si è sempre perfettamente in grado di distinguere tra sopra e sotto in ogni punto della superficie terrestre, pur comprendendo che, nel quadro più ampio del cosmo, non c'è affatto un sopra o un sotto. L'accettazione di sé, quindi, è l'equivalente spirituale e psicologico dello spazio, di una libertà che non annulla le distinzioni ma, anzi, le rende possibili.

La capacità della mente è grande, come il vuoto dello spazio... La natura meravigliosa della persona normale è fondamental­mente vuota né possiede un carattere definito. È questa la qua­lità veramente celeste del sé naturale di ciascuno... il vuoto dello spazio universale può contenere le miriadi di cose di ogni forma e dimensione: il sole, la luna, le stelle, le montagne e i fiumi, la grande terra con le sue sorgenti, i corsi d'acqua e le cascate, l'er­ba, gli alberi e la foresta più fitta, i santi e i peccatori, i modi del bene e quelli del male... Tutto ciò si trova nel vuoto, e la natura della persona comune è vuota proprio in questo modo.(4)

Ma la forza di guarigione e di liberazione insita nell'ac­cettazione di sé è talmente contraria alle aspettative del nostro trito senso comune che il suo potere sembra abnor­me persino allo psicoterapeuta che lo vede di conti­nuo in atto. Poiché è proprio questa accettazione che restituisce l'integrità e la responsabilità alla mente malata, liberando­la dall'obbligo radicale di essere quel che non è. Ciò nono­stante, questo emergere della legge dalla libertà, del cosmo dal vuoto e dell'energia dalla passività, è sempre a tal pun­to miracoloso, inaspettato e improbabile, che di solito non riesce a verificarsi salvo che attraverso qualche stratagem­ma, uno strata-gemma che ci rende possibile concedere a noi stessi questa libertà, e permette finalmente alla mano destra di non sapere quel che fa la sinistra. In questo mo­do, mediatamente, possiamo condurre noi stessi all'au­toaccettazione, attraverso, ad esempio, gli uffici di un Dio liberalizzato che sia infinitamente amoroso e miseri-cor­dioso, a tal punto che è poi lui ad accettarci totalmente, e non dobbiamo essere noi ad accettare noi stessi. Oppure potremmo accordarci il diritto di accettare noi stessi sol­tanto dopo averlo acquisito passando attraverso una fuci­na spirituale o un percorso a ostacoli interiore, e sulla scorta del riconoscimento e dell'autorizzazione concessici da qualche autorevole collettività di iniziati, in rappresen­tanza di qualche reverenda tradizione.(5) Questi sono i truc­chi per placare la paura della libertà che la società deve quasi inevitabilmente instillarci sin dall'infanzia. Quasi che, mancando del discrimine tra le gerarchie di valori e di verità, il bambino potesse arrivare a dire che due più due fa cinque, una volta che gli si comunicasse la verità mate­matica più alta che, in effetti, due più due non fa sempre e necessariamente quattro.

La crescita nella comprensione filosofica, o semplice­mente nella saggezza, è sempre questione di saper distin­guere tra diversi livelli di verità e di schemi di riferimento, e allo stesso tempo significa essere capaci di vedere la pro­pria vita nella sua intima relazione con questi livelli, per quanto differenti e sempre più universali siano. Soprattut­to, c'è un livello oltre i livelli, lo schema sconfinato della natura universale, in cui, per quanto sia impossibile de­scriverlo, si trova il fondamento autodeterminante e spon­taneo del nostro essere e della nostra libertà. Il grado di li­bertà e di autodeterminazione varia a seconda del livello a cui comprendiamo il nostro sé -la fonte da cui proviene il nostro agire. Se il senso che abbiamo di noi stessi è ristret­to, percepiamo la nostra vita come un limite. "E quindi," dice Ruysbroeck, "dobbiamo tutti fondare la nostra vita su un abisso senza fondo" - fino a scoprire che quel che sia­mo non è affatto quel che siamo obbligati a essere, ma quel che siamo liberi di essere. Poiché, quando siamo infi­ne presenti alla nostra natura, e vediamo che non c'è luogo alcuno cui opporsi, siamo finalmente capaci di muoverci rimanendo immoti.

 

NOTE:

1) Taittiriya Upanishad, In, 10,6.

2) Lewis Carroll, Attraverso lo specchio, traduzione di Adriana V. Pipemo. [N.d.T.]

3) Shih Niu T'ou, X. Commento all'ultimo dei Dieci dipinti sul pascolo dei buoi che illustrano le fasi della comprensione nel buddhismo zen.

4) Hui-neng (maestro ch’an del VIII secolo), in Tan-ching, II.

5) Durante l'apprendimento di queste discipline preliminari, il neofita potrebbe a volte acquisire notevoli capacità e facoltà, oppure un tratto di carattere o di modi che verrebbero conseguentemente interpretati come segnali dell'avvenuta liberazione. Si tratta, tuttavia, di una confusione tra libertà e successo in alcuni campi particolari. Per cui un iniziato che du­rante il suo addestramento preliminare abbia imparato a resistere al do­lore senza piegarsi, potrebbe non essere in grado di gestire una fattoria o costruire una casa meglio di un normale nevrotico. La sua reazione al do­lore potrebbe in effetti semplicemente provare che ha imparato il trucco dell'autoipnosi, oppure che è riuscito a perdere sensibilità.

 

Nastro 4:     F I N E
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