Modi per stabilire la Gerarchia e l’Autorità

nel buddhismo Ch'an/Zen in Occidente 

 

di Stuart Lachs (Estratto da INTERNET - www.darkzen.com/Articles-23/10/2000)

Resoconto del Meeting delle Accademie Americane sulla Religione.- (Boston,1999) (Estratto da INTERNET - www.darkzen.com/Articles-23/10/2000)

 

TRADOTTO in Italiano da ALBERTO MENGONI (Aliberth) solo per scopi spirituali

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Non c’è nulla di più negativo e velenoso, per il Dharma della Mente, ossia per il Ch’an/Zen, che presentare una Dottrina sotto l’aspetto dell’obbligatorietà ad ubbidire ciecamente all’ordine imposto gerarchicamente dall’alto. E’ questo il caso delle antiche Istituzioni Tradizionali dello Zen che, dai secolari monasteri dell’Estremo Oriente, da qualche decennio sono giunte fino a noi, qui in Occidente, per duplicare le regole ed i comportamenti rituali e ieratici di una tradizione che, seppur utile per l’esser riuscita con i suoi metodi a liberare tantissimi individui in passato, è ora sottoposta a qualche critica, a causa di un mancato ammodernamento democratico, obbligatorio ai giorni nostri, secondo il parere di diversi sociologhi Americani. Questo piccolo saggio è il frutto di un profondo studio fatto dall’Autore, rafforzato da precise affermazioni di alcuni tra i più valutati studiosi attuali del Buddhismo Ch’an/Zen, sulla ipotetica opportunità dei moderni Insegnanti e Praticanti di Ch’an/Zen, di svincolarsi dall’obbligo di una precostituita Autorità derivante dall’appartenenza coatta alle Istituzioni Gerarchiche delle Nuove Sette forzatamente discendenti dalle vecchie Scuole Buddhiste Cinesi, Giapponesi e Coreane dello Zen di molti secoli fa.

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Il buddhismo Ch'an/Zen è stato ampiamente accettato in Occidente negli ultimi cinquant’anni. A capo delle istituzioni Zen siede la persona del Maestro/Roshi. Tramite meccanismi di storie e rituali settari, un linguaggio speciale, koans, hua-tù e mondo, e più importante, tramite la trasmissione delle idee del Dharma e del lignaggio Zen, il presunto illuminato Maestro/Roshi Zen si è presentato in Occi-dente come una persona con qualità sovrumane. Questa presentazione, per lo più idealistica, è intesa a stabilire, mantenere, e aumentare l'autorità del Maestro Zen. È anche tesa a legittimare le istituzioni Zen e stabilire strutture gerarchiche all'in-terno delle stesse. È mia opinione che  questa presentazione idealistica sia stata ampiamente ed acriticamente accettata in Occidente, ma più importante è la crea-zione di una varietà di problemi nello Zen Occidentale. 

Comincio quest’articolo dando quattro esempi che mostreranno la presentazione estremamente idealistica dello Zen in America. Gli esempi verranno da insegnanti americani, coreani, giapponesi, e cinesi. Dimostrerò che questa presentazione del Ch'an/Zen è ampiamente accettata ed in più, mostrerò alcune delle conseguenze di questa accettazione. Sarà presentato il sociologo americano Peter L. Berger, insieme alla sua visione della reale costruzione sociale. La teoria di Berger sarà usata in tutta l’articolo come modello per l’identificazione delle istituzioni Zen. I più definitivi termini dello Zen; Maestro/Roshi, la trasmissione del Dharma, ed il lignaggio Zen, così come i koans e i rituali saranno esaminati molto da vicino. Tuttavia, idealisticamente questi termini sono presentati agli studenti Zen, nella realtà di come essi furono usati storicamente, ma ciò che essi significano in una sede istituzionale è alquanto diverso. Questa presentazione idealistica dei termini che definiscono lo Zen è usata per stabilire un'autorità quasi sempre immeritata per il Maestro e legittimare le strutture gerarchiche del Ch'an/Zen. Il risultato di questa presentazione dello Zen conduce spesso ad alienare un Maestro, nel senso dato da Berger. L’articolo finisce con alcuni suggerimenti per cambiare lo Zen dall'interno della più grande tradizione buddhista. 

 

Presentazione idealistica 

Richard Baker, nel libro sullo Zen forse più venduto in lingua inglese, “Mente Zen, Mente di Principiante” descrive il termine roshi nel modo seguente, 

Un roshi è una persona che ha attualizzato che la libertà perfetta è la potenzialità di tutti gli esseri umani. Egli esiste liberamente nella pienezza del suo intero essere. Il flusso della sua coscienza non è fissato sui modelli ripetitivi della nostra abituale coscienza egocentrica, ma piuttosto sorge spontaneamente e naturalmente dalle reali circostanze del presente. I risultati di ciò, in termini della qualità della sua vita sono una straordinaria esuberanza, vigore, rettitudine, semplicità, umiltà, sicurezza, gioiosità, una misteriosa perspicacia e un’insondabile compassione. Il suo intero essere testimonia ciò che significa vivere nella realtà del presente. Senza fare o dire nulla, solo l'impatto di incontrare una personalità così sviluppata, può essere sufficiente a cambiare tutto il modo di vivere degli altri. In fondo, non è la straordinarietà dell'insegnante a rendere perplessi, interessati e profondi i suoi discepoli, ma è il suo essere assolutamente ordinario.

Si dovrebbe notare che questo fu scritto come introduzione alle parole ed agli insegnamenti dell'insegnante di Mr.Baker, Suzuki-roshi. Questa introduzione fu voluta per descrivere una persona vera, e per estensione, com’è chiaramente affermato, tutte le persone col titolo di roshi. Non è un idealizzato riferimento ad un essere paradisiaco o a qualche distante o mitologica figura religiosa. 

Il Maestro Zen Seung Sahn, che è il Maestro Zen coreano più famoso dell'Ovest, nel suo libro “Cade Cenere sul Buddha”, uno dei più venduti, riferì i seguenti scambi epistolari che indicano la sua idea del Maestro Zen. In una lettera inviata al Maestro, qualcuno chiese, "Se un Maestro di Zen è capace di fare miracoli, perché non li fa?… Perché Sunim (il Maestro) non fa come Gesù che fece tornare la vista ad un cieco, o toccò un pazzo e lo fece tornare sano? Non potrebbe pure fare un miracolo appariscente come camminare sull'acqua, così che le persone possano credere nello Zen e cominciare a praticare...". Il Maestro (ovvero, Seung Sahn) rispose, "Molte persone vogliono miracoli, e se fossero testimoni di un mira-colo, esse si attaccherebbero ad esso. Ma i miracoli sono soltanto una tecnica, non sono la vera Via. Se un Maestro Zen usa spesso i miracoli, le persone divente-rebbero molto attaccate a questa sua tecnica, e non imparerebbero la vera Via...".

Soen Shaku, il famoso Maestro Rinzai che era l'insegnante di D.T. Suzuki, facendo commenti sul satori Zen, dichiara, ”Dire che il Buddha ebbe un’esperienza di satori suona come se noi stessimo parlando di un monaco Zen, ma io penso che è lecito dire che il raggiungimento del satori da parte di un monaco corrisponde allo spon-taneo risveglio del Buddha". Qui noi vediamo che il satori Zen è associato alla grande Illuminazione del Buddha storico, il vero apice della realizzazione buddhista. Poiché il Maestro/roshi rappresenta l'istituzione Zen, fare il paragone tra l’attuale istituzione Zen ed il Buddha storico non richiede un salto di immaginazione troppo grande nel voler mettere le basi per la convenzione del lignaggio. 

Anche il ben noto insegnante cinese di Ch'an, Maestro Sheng-Yen, disse di un Maestro Zen, "…si dovrebbe ricordare che la mente del Maestro è sempre pura... ed anche se il Maestro dovesse dire bugie, fare furti, e cercare donne..., egli deve essere considerato sempre un vero Maestro, quando condanna i discepoli per le loro trasgressioni”. 

Il lettore viene avvisato che, non importa cosa il Maestro Zen faccia, egli è oltre la comprensione sia del lettore che del discepolo, perché la mente del Maestro è sempre pura, uno stato misterioso oltre la comprensione della persona ordinaria. Lo studente è informato che l'autorità del Maestro deve essere totalmente presa in base alla fede dell'infallibilità e dell’onniscienza che sono implicite nel suo titolo. Lo studente è incapace di avere un giudizio relativo all’attività del Maestro. La stessa definizione dello Zen come una tradizione che è oltre le parole e le scritture porterebbe a credere che parole e pensieri non sono importanti. Eppure qui noi vediamo che, in termini di autorità istituzionale e gerarchia, proprio le parole e i titoli sono di primaria importanza. 

A parte l’implicita dichiarazione di Sheng-Yen, che il Maestro è oltre la moralità convenzionale, il succitato modo di descrivere le qualità di un Maestro non fa alcun esplicito riferimento etico o morale. Ciò non significa che tali dichiarazioni siano assenti nel Ch'an/Zen. La base della pratica Zen è spesso incapsulata nelle Sei Paramita, essendo la seconda (Shila) variamente tradotta come moralità o disciplina. Un’altra strada per cui la moralità entra nella pratica Zen è attraverso i dieci precetti, talvolta tradotti come i "Dieci Grandi Precetti". Robert Aitken-roshi sottolinea la sua comprensione dell’importanza dei precetti affermando, "Senza i precetti come linee-guida, il buddhismo Zen tende a divenire un hobby, fatto per soddisfare i bisogni dell'ego". Aitken-roshi non è il solo a creder questo, come è comunemente sostenuto nello Zen e nel buddhismo in generale, che i precetti sono il fondamento su cui è basata la pratica della meditazione. Sebbene vi sia una certa separazione fra come opera la pratica Zen e le conseguenze etiche e morali di quella pratica, tuttavia poiché il Maestro-Zen rappresenta la pienezza della pratica, quando si esamina autorità e gerarchia nel Ch'an/Zen, le due sono legate ermeticamente insieme.  

Nelle quattro citazioni dei moderni insegnanti succitati, si è dato un ritratto alquanto esaltato ed idealizzato di ciò che significa essere un Maestro o un Roshi. È interessante notare come due di questi insegnanti hanno manifestato le loro parole e come i loro discepoli hanno risposto. Sebbene in nessuna delle asserzioni alcuna menzione sia stata fatta riguardo a problemi etici o morali, sembra come se gli studenti abbiano delle aspettative morali, come poi vedremo più avanti. 

Circa due anni dopo aver scritto la descrizione di un roshi fatta sopra, Richard Baker fu fatto egli stesso roshi alla fine del 1971, poco prima che il suo insegnante Suzuki-roshi morisse. Dieci anni dopo, Baker-roshi fu coinvolto in un scandalo che rivelò ripetuti esempi di cattiva condotta sessuale da parte sua, come pure il suo vivere in modo elevato, pagando poco come salario di sussistenza ai molti membri che lavoravano nell’impresa del Centro. Questo affare fu estremamente separativo per il Centro Zen di San Francisco, e ne risultò che Baker-roshi dovette lasciare il Centro dopo lunghe e focose negoziazioni, sull’ammontare della sua indennità di liquidazione e i diritti di proprietà sulle collezioni d’arte e la biblioteca acquistati durante il suo essere roshi e abate del Centro. 

Alcuni anni più tardi, anche Seung Sahn fu coinvolto in scandali sessuali, avendo, per un periodo di anni, affari simultanei con alcune sue discepole che dirigevano i suoi Centri-satellite sparsi in tutto il paese. La spiegazione di Seung Sahn fu che le donne avevano bisogno del suo potere per mandare avanti i Centri. Questo affare divise molto i suoi seguaci e causò che molte persone se ne andarono via. 

Come ricerca per questo articolo, io feci un’indagine postale su centocinquanta Centri Zen e praticanti Zen individuali in tutto il paese. Il questionario consisteva di una lettera di apertura e di una seconda pagina con un elenco di otto termini. Lo scopo dell’indagine era di vedere come le persone dei vari Centri Zen capissero dei termini chiave per definire ciò che lo Zen significava in America. Così ricevetti trentotto risposte. Sei erano persone che seppi essere responsabili di grandi Centri o che avevano avuto la trasmissione di Dharma dai loro insegnanti. I risultati dell'indagine furono alquanto inconcludenti, benché produssero prezioso materiale aneddotico come le cronache fatte durante un ritiro guidato da una certa Carol e l’incontro con un Centro Zen nord americano. Il termine ‘trasmissione di Dharma’ fece sortir fuori il più stretto accordo fra i convenuti, la maggior parte dei quali affermò esplicitamente, o sembrò implicitamente ammettere, che il lignaggio Zen risalisse alla figura storica di Sakyamuni. Molti espressero una certa consapevo-lezza dei vari modi in cui i termini Maestro-Zen, Roshi, trasmissione di Dharma, e lignaggio-Zen fossero stati usati durante la lunga storia dello Zen. 

Le parole hanno potere. È attraverso le parole che noi capiamo il mondo esterno, dandoci il significato del mondo, e ad un certo grado, determinando ciò che noi davvero vediamo. Presentare lo Zen in un modo idealizzato ha delle conseguenze. Voglio raccontare due storie per sottolineare la forza dell'autorità attribuita a chi ha il ruolo di insegnare lo Zen, almeno in America. Una persona che rispose alla mia indagine, oltre a rispondere alle mie domande, mi raccontò la storia seguente. Nel Nord America, nel 1998, un ritiro fu tenuto sotto la direzione di un’insegnante di Zen che noi chiameremo Carol, con otto sedute a tempo pieno ed un numero di studenti che parteciparono ad orario ridotto.

Il ritiro iniziò normalmente, tuttavia il secondo giorno, Carol aggiunse il suo nome alla lista dei morti, ai quali era dedicato il canto nel ritiro. Negli incontri privati del terzo giorno, fu poi cancellato, come parte di studio dei koan. La sera Carol portò il gruppo al cinema, una cosa inaudita per l'attività durante un ritiro di sette-giorni. Nel quarto giorno Carol fu assente per la maggior parte del tempo; lei si fece servire pizza e champagne per il pasto serale, che normalmente consisteva di una cena alquanto vegetariana e analcolica. Nel quinto giorno lei annunciò che ognuno si sarebbe dovuto trasferire a Miami e avrebbe dovuto cominciare a studiare spagnolo. Lei fece anche seguire questo annuncio con una dissertazione semi-incoerente sui cerchi interni e cerchi esterni. Nel pomeriggio lei mostrò il video del film di Steven Spielberg "ET." Poi annunciò che il gruppo doveva andare al suo funerale per celebrare la morte dell 'ego’ di lei, che lei avrebbe lasciato la stanza ed il gruppo doveva programmare il suo funerale e poi dirle quando loro fossero pronti. Nel gruppo c’erano due donne che avevano studiato con Carol per più di quindici anni. Il mio corrispondente mi riferì che, dopo che Carol ebbe lasciata la stanza, lui chiese a queste donne se per caso Carol stesse avendo un qualche tipo di problema mentale e suggerì che forse quella specie di spettacolo avrebbe dovuto finire. Un altro studente sollevò un problema sul psicodramma. Due studenti anziani li rassicurarono che tutto andava bene. Il mio corrispondente lo richiamò dicendo, “Che diavolo, lo spettacolo deve continuare!”, e rimase nel ritiro nonostante il suo scetticismo sulle condizioni mentali di Carol. 

Il gruppo escogitò una cerimonia funebre, Carol arrivò ed il gruppo lo preparò. Carol allora dichiarò che siccome ora era morta, lei non sapeva quale fosse il suo nome, ma per il tempo restante doveva essere chiamata "Zen-Ma". Il tizio che mi raccontò la storia disse che a questo punto egli si chiese se non fosse vicino a Jonestown, ma invece del cianuro, il gruppo aveva ancora più champagne. Dopo cena, Carol cadde in una lunga divagazione circa il suo incontro con Swami Muktananda. Presto però si fermò, annunciando che lei stava sentendo energia negativa, e chiese, "C’è qualcuno qui nella stanza che ha energia negativa?". Il mio corrispondente confessò che lui ne aveva davvero, ma non voleva discuterne. Carol comandò, "Dillo!" a cui il tizio rispose di avere interesse nell'essere studente di qualcuno, ma non seguace di questa persona. Lei allora rispose incominciando un discorso sul Tibet e Milarepa, in cinque minuti lei si fermò, e guardando il tizio disse, "Allora, perché non cerchi l'inferno fuori da qui?". Che, a quel punto, è precisamente quello che lui fece. 

Circa due settimane dopo il ritiro, Carol decise che le due donne che erano sue discepole da lungo tempo e che avevano rassicurato al mio corrispondente la sua sanità mentale, erano streghe, pure ordinando loro di andare via. Carol poi dette via ciò che apparteneva loro e si trasferì in Florida. 

È interessante notare che nonostante il bizzarro comportamento di Carol e il suo parlare disgregato, nessuno lasciò il ritiro di sua propria iniziativa o sollevò mai direttamente un problema all'insegnante. I due discepoli anziani sostennero che non c’era nulla di sbagliato quando fu privatamente sollevato un problema sullo stato mentale dell'insegnante. Dopo due mesi, Carol ritornò dalla Florida e tutti quelli che erano stati al suo ritiro, tornarono per studiare con lei, escluso il tizio  che mi riferì questa storia. Ancora, ho voluto riferire questa storia, come esempio, anche se estremo, del tipo di assoluto rispetto ed obbedienza dati all'insegnante di Zen dagli studenti occidentali. Esso sottolinea anche il fatto che la presunta realiz-zazione dell’insegnante, ripetuta in uno o l’altro contesto di Zen, peserà molto più di quanto non riesca a trasformare ciò che appare di fronte agli occhi dei discepoli. Si dovrebbe anche notare che Carol non era un Maestro o un Roshi ufficialmente nominato, ma stava usando quel ruolo senza un vero titolo.

La seconda storia che vorrei riferire avvenne nel 1999. Fu tenuto un incontro in un Centro di Zen nel Nord-america, riguardante il problematico comportamento del Maestro di un relativo Centro Zen, più specificamente un caso di eccessivo bere, forse vero alcolismo, con storie di "cattiva condotta sessuale". Mi fu detto da un corsista che molti dei membri del gruppo sono stati completamente confusi dal fatto che uno che ha raggiunto apparentemente la piena illuminazione, un Mae-stro-Zen, potesse così spiacevolmente manifestare una condotta non illuminata. Il mio informatore si chiedeva dove questi studenti avevano potuto vedere la "piena illuminazione" del Maestro insieme alla sua presunta immunità dai difetti umani. Il Maestro stesso non ha mai fatto tali proclami di "piena illuminazione" o l’immunità ai difetti umani... 

In sintesi, nelle definizioni e descrizioni del Maestro o Roshi citate all'inizio di quest’articolo, c'è una straordinaria pretesa all’autorità. Queste descrizioni furono date da individui che sono essi stessi Maestri o Roshi, veri portavoci ufficiali delle istituzioni Zen. Ma dagli esempi dati sopra, appare che c'è disparità tra le ingenue aspettative dello studente che sono il risultato di questa visione idealizzata e quello che accade nel mondo reale. È lecito chiedersi, quali sono le basi per tali richieste di autorità e quanto valide sono queste richieste? Che tali idealizzazioni possano aver provocato problemi nell'Estremo Oriente non riguarda l’interesse di questa ricerca. Tuttavia, è mia intenzione dimostrare che una versione Asiatica idealizzata dello Zen sia stata accettata acriticamente in America e che qui è una fonte di veri problemi. 

Girando per i Centri Zen in America, ben pochi partecipano, se ogni discussione che riguardi il significato dei termini e titoli che definiscono lo Zen, o come questi termini e titoli siano stati davvero usati nell'Est durante la lunga storia dello Zen. Forse una delle ragioni dietro a questa limitata opportunità per la discussione è che, mancando ogni genere di struttura teorica o consapevolezza critica, i membri delle comunità Zen hanno fatto ricorso solamente al contesto previsto dalle loro esperienze personali. Questo contesto personale è in gran misura il mondo dello Zen, la sua lingua, le idee, e i modi di pensare. Se lo studente tenta di guardare con occhio critico alle istituzioni Zen, egli può fare ciò soltanto all'interno del contesto e della lingua dello Zen, che per ragioni discusse più avanti nel testo, idealizza se stesso, i suoi ruoli, e gli importanti termini definiti. Anche in questa situazione di esaminare criticamente le istituzioni Zen, lo studente spesso finisce per aumentare l’autorità alle figure in questione, proprio come si vedrà in queste pagine, e come il linguaggio dello Zen fu intenzionato a fare. 

La confusione creata da assunti di illuminazione e autorità spirituale non è deli-mitata al summenzionato Centro Nord-americano, o anche solo negli Stati Uniti. Io ho ricevuto corrispondenza da Francia, Germania, Regno Unito, Australia, e Nuova Zelanda in risposta ad una lettera da me scritta e pubblicata su Internet, che riguardava la disparità tra i modi in cui le istituzioni di buddhismo Zen operavano nel mondo e la nostra aspettativa su di esse basata su una visione idealizzata che è stata acriticamente accettata. Una persona dalla Francia mi contattò e mi chiese di tradurre la mia lettera in francese, affermando specificamente che la ragione del suo far così era perché una monaca buddhista francese gli aveva detto che un Maestro di Zen era una persona pienamente illuminata. Queste risposte indicano che il dogma di questo tipo è pervadente in tutto lo Zen Occidentale, e che le organizzazioni di Zen sbagliano nel provvedere un contesto, nel quale tali assunti possono essere indirizzati alla critica. 

Come antidoto per questa situazione, io credo che sia necessario vedere il mondo Zen, la sua gerarchia, e le figure autoritarie, tramite una struttura teorica separata dallo Zen. Penso che una tale struttura sia offerta dal lavoro del sociologo americano Peter L. Berger. Parti di quest’articolo sono informazioni derivanti dalla visione di Berger della costruzione sociale della realtà e del suo inerente carattere dialettico. Benché le visioni di Berger ora possano sembrare come verità evidenti, trent’anni dopo la pubblicazione del Canopo Sacro, io credo che esse offrano un utilissima visione critica all’interno delle strutture sociali e simboliche della tradizione Zen. L'adozione di convenzioni asiatiche, prevalentemente giapponesi, da parte di aspiranti Occidentali negli ultimi cinquant’anni è stata, ironicamente per una scuola che apparentemente enfatizza l’indagine personale, come minimo priva di senso critico. 

In questo articolo noi ci siamo principalmente interessati della visione del praticante individuale dei ruoli e delle istituzioni di Zen in America. La visione più spesso accettata è quella propagata dalle stesse istituzioni di Zen. In modo più specifico, noi esamineremo l’autorità e la gerarchia, come sono stabilite, come sono mantenute, e come sono prodotte e riprodotte. Nel caso del Gruppo di Zen nord-americano menzionato in precedenza, che incontrò problemi risultanti dal bere eccessivo e dalla "cattiva condotta sessuale" del Maestro, possiamo vedere un’illustrazione della conseguenza funzionale del processo che desidero discutere. Ricordo che la persona che raccontò di questo incontro fu sorpresa che così molti studenti credessero che l’illuminazione del Maestro fosse così "piena" o "completa" e che fosse incapace di fragilità alquanto umane, nonostante il fatto che il Maestro stesso non avesse mai fatto tali affermazioni. Tuttavia, non è necessario per ogni particolare Maestro fare affermazioni riguardo alla propria illuminazione o al proprio livello di perfezione, perché le tradizioni istituzionali Zen, in una forrna o nell’altra, rivendicano quest’affermazione per la persona che siede nel ruolo di Maestro Zen. Benché il particolare seguace Zen sia adeguatamente socializzato all’interno del determinato gruppo, egli non può che vedere il Maestro come colui che esprime la Mente stessa del Buddha. Infatti, spesso il Maestro crede la stessa cosa. Attraverso la sua struttura, le sue pratiche rituali, e forse ancor più significa-tivo, attraverso il suo uso di una speciale terminologia e definizioni, l'istituzione rinforza questa posizione del Maestro Zen. 

Il termine Maestro di Zen è in special modo glorificato, ed insieme ai due concetti correlati di ‘Trasmissione del Dharma’ e ‘lignaggio Zen’ forma una triade concet-tuale che supporta la struttura dell’autorità all'interno delle istituzioni Zen. Questi termini della triade si supportano e si riflettono l'un l'altro ed il loro collegamento reciprocamente dipendente è presentato in una maniera idealizzata per stabilire il potere imputato, la sacralità, e l’alterità del Maestro. Insieme a questa triade, l'uso di koan, mondo, e rituali agiscono come elementi di sostegno nello stabilire questa authorità. Variazioni di questa idealizzazione paradigmatica sono state ripetute da quasi tutti gli esponenti dello Zen in Occidente, da D. T. Suzuki in poi. I quattro esempi che hanno aperto questo articolo sono dimostrazioni di questa visione idealistica. Tutto ciò viene ripetuto anche nelle molte storie falsamente presentate come mondo o koan, insieme ai commentari che li accompagnano. Io penso ad un commento che Noam Chomsky fece in riferimento all'indottrinamento politico, se sia applicabile a questo caso. Vale a dire, l'essenza della propaganda è la ripetizione. 

Per chi non ha passato molto tempo nei vari Centri Zen americani, è difficile credere come sia forte la credenza, fra gli studenti, nell'autorità dell’insegnante. Chiaramente, uno non inizia la pratica Zen con questa credenza; essa viene acquisita col tempo come parte di un complesso processo collettivo. Gli esseri umani, ovviamente attraverso un’impresa dialettica collettiva (cioè, un dialogo interno con sé-stessi ed esterno con gli altri) creano la società e poi la società, come realtà oggettivata è riflessa all’indietro e contribuisce alla creazione dell’indi-viduo umano. Considerando il mondo Zen come una micro-società, il mondo collettivo costruendo lo Zen si manifesta attraverso i meccanismi di gruppo e la pratica rituale. Inoltre, tutte le informazioni ricevute dalle persone, verbalmente e non, acquisite attraverso i discorsi dell'insegnante e degli studenti anziani, ed assimilate attraverso le estese raccolte di scritture e commentari della tradizione Zen, allargano e definiscono il mondo dello Zen. Così, allo studente americano dello Zen, viene impartito un potente sistema di credenze attraverso questo complesso di meccanismi.

Berger afferma, "Che la società sia il prodotto dell’uomo e che l'uomo sia il prodotto della società, non è contraddittorio. Ciò riflette il carattere inerentemente dialettico del fenomeno della società". Egli indica anche che, "L’uomo non solo produce un mondo, ma produce anche se stesso... Questo mondo, chiaramente, è la cultura... la cultura è continuamente prodotta e riprodotta dall’uomo... L’uomo produce anche il linguaggio e, in base e per mezzo di esso, un torreggiante edificio di simboli che permeano ogni aspetto della sua vita". Quindi noi vediamo che, "La società è costituita e sostenuta da esseri umani che agiscono " da cui ne consegue, "l'attività dell’uomo nella struttura-mondo è sempre ed inevitabilmente un'impresa collettiva... il mondo umanamente prodotto raggiunge il carattere della realtà oggettiva". 

Ogni individuo è messo a confronto con un crescente input di esperienza. Per evitare un sentimento di caos, è necessario organizzare e dare senso a questa pletora di dati, ossia letteralmente fare il mondo. Questo processo di costruire il mondo porta con sé un nuovo vocabolario con nuovi significati e costruzioni mentali. Consideriamo ora attentamente ogni membro della triade di termini insieme ai koan ed ai rituali. 

Chiunque visiti un Centro Zen di solito è colpito dall’atmosfera formale e rituale del tempio o zendo, un'atmosfera che crea un senso di sacro. Prima di entrare ci togliamo le scarpe, poi cerchiamo una certa quiete, sentiamo l'odore di incenso, vediamo l'altare con le statue del Buddha circondate da offerte di fiori e frutta, ed un prete, monaco o monaca, in formali tonache a cui gli altri mostrano rispetto con inchini e prostrazioni. Uno impara rapidamente che lì esiste una gerarchia, così chiaramente definita e rigida come nessun’altra cosa nelle istituzioni religiose Occidentali. Se uno diventa coinvolto con la vita del gruppo, impara che vi sono adeguati modi di comportarsi nel tempio, nella sala di meditazione, nel dividere pasti comuni, nel salutare gli altri membri, monaci o monache, e quando ci si incontra con l'insegnante, Maestro, o roshi. Si impara anche un totale nuovo linguaggio composto di una nuova serie di termini e definizioni. L'adozione e l’uso continuato di questo linguaggio formerà la visione del mondo della persona e il suo posto in esso - sia in relazione al mondo più vasto che al proprio posto all'interno del mondo Zen. Le visioni esposte all'interno della comunità Zen, in un modo o nell’altro, riformeranno e coloreranno il modo di pensare della persona e la sua visione del mondo. Una persona che diventa attivamente coinvolta con un gruppo Zen non solo si identifica con le stesse idee e significati dello Zen, ma vede anche se stessa come espressione di queste idee attraverso modi di parlare, atteggiamenti, e attività, come un rappresentante stesso dello Zen. E’ interessante notare poi che molte persone attribuiscono la loro nuova visione del mondo come frutto della "pratica". Ciò che appare come frutto spirituale in atto è la correzione  ad essere  istruiti ed indottrinati in una prefabbricata visione del mondo. 

 

Il Maestro, o Roshi.

Nel mondo Zen, il Maestro è alla testa della gerarchia ed è legittimato attraverso l'atto della trasmissione del Dharma. Il Maestro rappresenta la realtà assoluta significata dal Buddha. Questa identificazione della persona del Maestro con la realtà assoluta serve come riferimento sacro ed universale ed è il mezzo con cui la loro autorità e, per estensione, l'autorità dell'istituzione è legittimata. Il Maestro umano è chiaramente carne e sangue, tuttavia egli è anche apparentemente oltre l’umana creatura data la credenza che "la sua mente è sempre pura" e la sua attività proviene dall'assoluto. 

In Giappone, storicamente, il "Roshi" è stato talora realmente inteso per indicare il rango basato sullo sviluppo spirituale, mentre in altri tempi esso è stato usato come termine che connotava nient’altro che un semplice rispetto. Vi sono state occasioni nell’uso giapponese (specialmente Soto) in cui esso denotava soltanto un rango amministrativo. In un modo piuttosto analogo alla storica concessione della "Trasmissione del Dharma" per un numero di diverse convenienti ragioni, il termine "roshi" o i suoi vari affini, sembra aver avuto differenti significati in diverse circostanze e in tempi diversi. Non c'è, e non c’è mai stata, in Cina o in Giappone o dovunque, un'autorità centrale che certifichi il passaggio ufficiale di  chiunque nella condizione di roshi basato su un qualche tipo di criterio formale, certamente non sulla base di un conseguimento spirituale. Forse Soko Morinaga-roshi, il primo Presidente dell'Università [Rinzai] di Hanazono, seppe dirlo in un modo più adeguato, "Un roshi è chiunque chiami se stesso con questo termine e sappia spingere altre persone a fare lo stesso." 

Un interessante esempio si può vedere nel caso dell’insegnante americano di Zen Philip Kapleau. Il Sig. Kapleau usa il titolo di "roshi", e i suoi discepoli, insieme alla maggior parte degli altri coinvolti nello Zen americano, si rivolgono a lui così. Il Sig. Kapleau è stato estremamente influente, sia attraverso il suo insegnamento personale e sia scrivendo libri ed articoli, nel diffondere lo Zen in America ed all'estero. Egli merita rispetto se non altro per il fatto che insegna da molti anni, rimanendo esente da scandali finanziari o sessuali. Questa è una realizzazione che molti altri con titoli e la trasmissione del Dharma ufficialmente sanzionata non potrebbero reclamare. Tuttavia, il Sig. Kapleau stesso ha affermato esplicitamente che lui non è un erede nel Dharma del suo insegnante, Yasutani-roshi e non ricevette il titolo di roshi da Yasutani né da chiunque altro. In essenza, egli si dette il titolo da se stesso. Questo non per dire che egli sia più o meno qualificato di chiunque altro, soltanto che lui non ha mai ricevuto "ufficialmente" il formale riconoscimento da parte di un insegnante più anziano in una delle riconosciute linee di Zen. Per di più, il Sig. Kapleau l’ha “trasmesso” ad alcuni suoi discepoli, stabilendo una linea che fondamentalmente comincia con lui, e con ciò diversa da ogni altro lignaggio Zen, di modo che questi, almeno retoricamente, mantengano il mito di un ininterrotto lignaggio risalente a Shakyamuni. È anche vero che virtualmente nessun studioso, Orientale od Occidentale, prende sul serio l'idea di un ininterrotto lignaggio di Zen che risale a Sakyamuni Buddha. 

Forse sorprendendo gli Americani, che comunemente assumono il modello giapponese come il più autentico o anche l'unica forma autentica, vi è che esiste un altro modello, più vecchio, e non meno autentico, di Zen monastico, come quello dello Zen Coreano (Soen). Robert Buswell, nel suo studio della vita monastica Zen nella moderna Corea, descrive una struttura organizzativa diversa dai centri Giapponese ispirati familiarmente a molti studenti Occidentali di Zen. Nello Zen coreano, l'equivalente di roshi o Maestro-Zen, il pangjang, occupa una posizione elevata che è mantenuta per un termine iniziale di dieci-anni. Se il Maestro non si sviluppa adeguatamente, una petizione fatta da cinquanta monaci sarebbe sufficiente per ottenere un voto di rinuncia. L'affinità di un monaco è più con gli altri monaci compagni di meditazione che con un Maestro specifico". Che la fedeltà del monaco sia più per il suo amico meditante che verso un particolare maestro è un orientamento verso la pratica di gruppo che noi in America dovremmo esplorare ulteriormente. Questo tipo di struttura rimuoverebbe molta della dipendenza verso l'insegnante e l'idealizzazione e gerarchia risultanti che si incontrano nei centri di stile Giapponese. Il contemporaneo ed eminente Masataka Toga-roshi ha affermato, "Nello Zen giapponese, la lealtà è molto importante. La lealtà al proprio insegnante ed alla tradizione è più importante del Buddha e del Dharma". Questo atteggiamento può essere ben adatto alla cultura giapponese, una cultura molto diversa dalla nostra. Tuttavia è tempo che i praticanti americani comincino ad esplorare strutture di pratica non esclusivamente modellate sulla forma giapponese, ma su metodi che siano più compatibili con la nostra propria cultura di ideali democratici ed egualitari. Essi potrebbero mettere meno enfasi sulla lealtà assoluta ad un superiore o ad un'istituzione e più sull’uguaglianza e minimizzando le strutture gerarchiche. 

In un certo senso, lo Zen ha invertito la sua auto-definizione di "una trasmissione separata aldifuori di parole e scritti". Dovremmo tenere a mente che secondo il punto di vista dello Zen la verità non può essere espressa in parole, ma piuttosto solo allusa nelle spontanee e naturali attività della vita quotidiana. Comunque, lo Zen dà grande prestigio ed autorità ad un ruolo istituzionale e cerimonialmente investito, Maestro, roshi, o Shi-fu, che dir si voglia, piuttosto che basare l’autorità sul vero vissuto, attività osservabile dell’individuo. Almeno in teoria, quest’ultimo criterio è l'unico legittimo mezzo in Oriente di discernere il segno del saggio. Esso è basato sul concetto di ‘t'i-yung’, tradotto normalmente come essenza-funzione, che ha valore in tutti i sistemi filosofici Est-Asiatici. Secondo questa visione, è la trasformazione della personalità riflessa nell'abilità di una persona di agire sponta-neamente (cioè, direttamente) e senza ostacolo in risposta a situazioni fenomeni-che che distinguono il saggio o l’illuminato. Il Maestro/roshi è chiamato realizzato, che vuol dire fare dell'attività illuminata il proprio "vero ideale nell'esperienza di ogni giorno".

Lo Zen ha messo il carro davanti ai buoi. Le istituzioni Zen definiscono qualunque insegnante che ha il titolo di Maestro o Roshi come un essere saggio o illuminato. Questa imputazione di carattere è indipendente dall'insegnante che manifesta alcune qualità che potrebbero essere considerate marchi di realizzazione o di illuminazione. Malgrado che il singolo individuo possa o meno manifestare qualche prova evidente di tale elevato livello di conseguimento spirituale, questo status è comunque conferito all'insegnante col titolo istituzionale. In virtù dell'investitura di una posizione istituzionale l'individuo automaticamente acquisisce un intero ordine di qualità impressionanti. Egli o è straordinario, o è totalmente ordinario. In più riceve l'abilità di agire e parlare dalla prospettiva dell’Assoluto, compiere miracoli, mantenere sempre una mente pura e alla fine diventa il depositario, se non la manifestazione vivente, della mente perfettamente realizzata di Shakyamuni Buddha. I discepoli non hanno il potere di confidare nella loro propria capacità di osservazione empirica né l'intuizione di stimare momento-per-momento la reale condotta di ogni giorno dell’insegnante. 

Benché le istituzioni Zen persistano nel definirsi una tradizione “non dipendente da parole o scritture", c'è un non-stabilito imperativo a fare precisamente quello. Si è presunto e ripetutamente insegnato che gli studenti dovrebbero esaltare e riverire il termine "Maestro" o "Roshi", stante il titolo e la posizione cerimoniale, piuttosto che contare sul proprio buon senso e sull'intuizione in materia relativa all'autorità dell'insegnante. Qui c'è un falso operare. Da un lato, la retorica Zen dice ai suoi seguaci di essere nel momento, di vedere quello che è di fronte ai loro occhi - "Guarda, guarda!" eslama Lin-chi. Eppure, da un altro lato, la retorica Zen implica ai suoi seguaci che essi sono incapaci di vedere ciò che sta accadendo di fronte a loro, quando il vedere è diretto verso il Maestro o il Roshi. La natura dell'attività illuminata deve essere presa in virtù di un titolo, sulla fede. Quello che il Maestro fa, è per definizione, ‘attività illuminata’. 

Chiaramente, questa è una situazione che indebolisce il potere degli studenti Zen che accettano o interiorizzano questa strutturazione della realtà. In qualche modo mette il Maestro in una posizione al di sopra dell’umano, dato che tutte le attività del Maestro sono illuminate, provenendo dall'Assoluto. Quindi, vedere il Maestro è uguale a vedere il Buddha in carne ed ossa. Non sorprende che il gruppo di Zen nord-americano menzionato prima, essendo ben socializzato nella retorica Zen, espresse stupore che un Maestro Zen fosse capace di manifestare certe debolezze umane. Il Maestro che trascende l'essere umano, diventa un'icona, una rappre-sentazione idealizzata di una più grande verità oltre la comprensione e il giudizio. Per esempio, un brillante studente universitario in filosofia maggiore, dopo alcune letture sullo Zen e dopo aver visto un Maestro Cinese camminare in una stanza per la prima volta, dette espressione a questa icona-vivente che aveva visto affermando, "era un uomo intenso, era intenso." 

 

La Trasmissione del Dharma 

La Trasmissione del Dharma, secondo la convenzione, è il formale riconoscimento da parte del Maestro, che il discepolo ha raggiunto una comprensione uguale a quella dell'insegnante. Una persona con la trasmissione del Dharma nel lignaggio Rinzai, che insegna in una grande città nello Stato di New York, dette la seguente definizione della Trasmissione del Dharma al mio questionario, "Il Riconoscimento Formale di un insegnante che un discepolo è ufficialmente il suo erede di Dharma--che la comprensione non-mondana passò da Buddha Shakyamuni a Mahakashya-pa e che via via è ora arrivata in questo tempo e luogo. Scritto e registrato nel lignaggio". La visione sostenuta da questo insegnante è quella ampiamente sostenuta riguardo alla trasmissione dell’insegnamento dell’ "autentico Zen". Questo riconoscimento da parte di un insegnante che un discepolo è un erede del Dharma è apparentemente identico alla mente pienamente realizzata del Buddha. È la continuità di questa catena di menti illuminate in un lignaggio ininterrotto, apparentemente unico allo Zen, risalente alla storica ma anche mitologica figura di Sakyamuni Buddha (e perfino oltre, secondo un altro corrispondente) che forma la base concettuale per la considerevole autorità dell'insegnante attuale. Secondo il tradizionale punto di vista dello Zen, la Trasmissione del Dharma giustifica il fatto di dare all'insegnante l'autorità che si concederebbe al Buddha stesso. La Tra-smissione del Dharma è stata impiegata in questa maniera fin dalla dinastia Tang (618-907). E’ questo uso di un lignaggio spirituale come base per l'autenticità ("un insegnamento speciale aldifuori delle scritture") piuttosto che la dipendenza dall'autorità di una particolare scrittura, o in unione con le scritture, che distingue la scuola Ch'an dalle altre sette Cinesi del periodo. Questa visione implica che la Trasmissione del Dharma è data solamente sulla base della realizzazione spirituale dello studente e inoltre che la Trasmissione del Dharma è ricevuta dalle mani di un insegnante vivente, piuttosto che in un sogno o in un’altra maniera.

Sotto investigazione, il termine "Trasmissione del Dharma" risulta essere ben più flessibile e ambiguo di quanto noi in Occidente supponiamo. Per essere sicuri, in teoria essa è data come riconoscimento che il discepolo ha raggiunto una profonda realizzazione della mente come l'insegnante stesso (presumendo che l'insegnante abbia una profonda realizzazione). Questa visione, per i contempo-ranei seguaci Occidentali di Zen, è la comprensione del termine "trasmissione da mente-a-mente". La Trasmissione da mente-a-mente implica logicamente l'illumi-nazione del discepolo, perché se l'insegnante è illuminato, e quella che è stata trasmessa è la mente illuminata dell'insegnante, allora pure il discepolo deve essere illuminato.

Tuttavia, la trasmissione del Dharma nel corso della lunga storia del Ch'an/Zen è stata data per altre ragioni. Essa può essere assegnata per un certo numero di ragioni, che si presumono legittime in certe condizioni o in un particolare tempo. Secondo alcuni studiosi, la trasmissione di Dharma è stata usata davvero come un mezzo per conferire l’appartenenza ad un lignaggio di insegnamento. E’ stata usata per stabilire contatti politici vitali al benessere del monastero, e mantenere la continuità del lignaggio sebbene il destinatario non abbia aperto il suo occhio del Dharma, cementare una connessione personale con un discepolo, aumentare l'autorità dei missionari che diffondono il Dharma nei paesi stranieri, o provvedere alla salvezza (postuma, nel Giappone medievale) per permettere al deceduto destinatario di unirsi alla "linea-consanguinea" del Buddha. Nella tarda Dinastia Song (960-1280), la trasmissione del Dharma veniva data abitualmente a officianti monaci anziani, forse perché così il loro ingresso in un’abbazia non veniva osta-colato. Chiaramente, l’illuminazione non era sempre considerata come criterio essenziale per la trasmissione del Dharrna. Manzan Dohaku (1636-1714), un rifor-matore del Soto, propagò la visione che la trasmissione del Dharma dipendesse da personale iniziazione tra un Maestro e discepolo piuttosto che dall’illuminazione del discepolo stesso. Egli sostenne questa visione davanti a una forte opposizione, citando come autorità la suprema figura dello Zen giapponese, Dogen (1200-1253). Questo avvenne, e continua a tutt’oggi ad essere la visione ufficiale del Soto-Zen.  

Come esempio contemporaneo del ruolo funzionale della trasmissione del Dharma all'interno dell'istituzione Zen, così come lezione di storia istituzionale, proviamo a osservare l’attuale setta di Soto in Giappone. Questa setta si sforza di copiare l'istituzionale struttura del tempo di Dogen quando ogni tempio Soto doveva avere un abate ed ogni abate doveva avere la trasmissione del Dharrna. Nel 1984 erano 14.718 i templi di Soto Zen in Giappone e 15.528 preti Soto. Siccome ogni abate deve essere un prete, ne consegue che pressocché ogni prete di Soto (95%) ha la trasmissione del Dharrna. Si dovrebbe notare che una maggioranza di questi preti passerebbe meno di tre anni in un convento. Molti hanno passato non più di un anno, o anche solo sei mesi di training. Significativamente, nei testi del Soto, mentre molto è stato scritto sul rituale della trasmissione del Dharrna, non c’è  pressocché nulla sulle qualificazioni per essa. 

La gran parte dei preti giapponesi di Soto Zen odierni, sono essi stessi i figli, tipicamente i figli più vecchi, dei preti del tempio, che subentrano nel tempio del loro padre più o meno come un 'affare di famiglia'. Nel caso che nella famiglia vi siano solamente figlie femmine, un 'adeguato matrimonio' sarà fatto tra una delle figlie ed un giovane prete che non avrebbe nessun’altra prospettiva per acquisire il suo proprio tempio. Lo scopo principale di tutte di queste sistemazioni è di assicurare che l'abate pensionato e la sua consorte abbiano un posto dove vivere dopo il loro pensionamento. La trasmissione del Dharrna ora è poco più di una normale formalità.

Per un esempio moderno di trasmissione tra un vivente ed un morto, Yasutani Roshi, uno dei più influenti insegnanti Zen in America, sentì di avere uno speciale e personale legame spirituale con Dogen, e si considerò l'erede diretto di Dharma di Dogen in virtù del suo possesso del "vero occhio" del Dharrna. Egli poté così stabilire la sua propria autorità senza riferirsi al lignaggio patriarcale Soto o Rinzai.

Il significato e valore della trasmissione del Dharrna e del lignaggio Zen non è un affare strettamente dei giorni nostri. Alla fine della dinastia Ming (1368-1644) in Cina, questi problemi erano argomenti preminenti fra i principali Maestri Ch'an, i quali espressero una vasta serie di opinioni. Alcuni Maestri credevano nel dare la trasmissione di Dharma ad un discepolo il cui occhio non fosse aperto, ma che era però capace di condurre il monastero. Ciò fu riferito come "il sigillo del melone d’inverno", cioè, non comparabile ad un sigillo di marmo. Fa-tsang (1573-1635), un famoso Maestro del Lin-chi-Ch’an riteneva che il Dharrna fosse qualcosa da dover essere capito e concernesse l'afferrnazione della mente. Questo Maestro riteneva che fosse possibile essere un successore di un Maestro morto da tempo, e che non si era mai incontrato, in quanto la comprensione tra il vivente ed il  Maestro defunto si era fusa insieme. Egli non ritenne necessario dover avere un certificato del lignaggio per essere considerato un Maestro Ch'an. Il suo fratello di Dharma, Tung-rung (1592-1660), pensava invece proprio l’opposto, e cioè che era necessario incontrare il proprio Maestro vivente e così poter avere un certificato del lignaggio. 

Anche nella setta Tsao-tung (Soto) c'era un ventaglio di opinioni. Una visione abbastanza comune era che l’illuminazione è nella propria mente, non c'è nessuna ragione di cercare la certificazione di un altro, se si è liberi da dubbi. Un Maestro di questa setta, Wui-yi Yuan-lai (1575-1630), credeva che l'essenza della setta Ch'an era che vi doveva essere una fusione di menti, non la formale trasmissione della setta. Egli riteneva che tutti i lignaggi della setta Ch'an erano stati rotti, le loro linee terminate, ma che tutte e cinque le sette originarie del Ch'an potevano essere pensate ancora come presenti, finché alcuni praticanti hanno la giusta comprensione precisamente intonata alla antica comprensione di quella setta. Questo Maestro era anche contro il dare la trasmissione di Dharma per mantenere il lignaggio istituzionale. Egli descrisse questo come, "aggiungere acqua per diluire il latte". Quindi, per questo Maestro era preferibile essere una persona con vera intuizione senza la trasmissione (ufficiale) del Dharma, piuttosto che una persona con una certificazione però non basata sulla sua propria intuizione. Con una persona con vera intuizione ma senza trasmissione del Dharma, solo la linea della setta si interrompe, però il Sentiero rimane reale e nessun danno è fatto al Dharma. Con una trasmissione del Dharma non basata sulla vera realizzazione della mente, la scuola continua, ma la realtà è falsata, perché inganna la mente di uno, ingannando il Buddha, ingannando il mondo. In questo caso, si avrà il cieco che guida altri ciechi, così tutti salteranno nel grande fuoco. E’ stato menzionato che i lignaggi Lin-chi e Tsao-tung (Rinzai e Soto) furono rotti. Da notare che, dei quattro grandi Maestri della tarda èra Ming, nessuno apparteneva alla setta Lin-chi o Tsao-tung, e tre dei quattro non facevano parte di nessun formale lignaggio certificato. 

Non bisogna sorprendersi se, date le implicazioni della convenzionale trasmissione del Dharma prevalga, fra gli studenti di Zen americani e contemporanei, una visione alquanto idealizzata della persona che la riceve e del ruolo della stessa. La maggior parte degli studenti coglierà il termine ‘Trasmissione del Dharma’ come una sorta di sigillo USDA di approvazione garantita, del fatto che il Maestro è pienamente illuminato, e che ogni suo gesto manifesta perciò l'Assoluto. Questo atteggiamento è ben illustrato da una delle risposte al mio questionario: "un Maestro di Zen è una persona di cui è stata certificata l’esistenza in una mente pienamente risvegliata... " 

 

Il Lignaggio Zen 

Il terzo elemento della triade concettuale dei termini che conferma l’autorità istituzionale è il "lignaggio Zen". Nell’introduzione del Maestro Sheng-Yen ad un recente libro, Saggezza Sottile, egli afferma che il suo scopo è descrivere il back-ground e lo sviluppo del Ch'an per i nuovi lettori e per quelli con poche ed erronee informazioni. Egli ci informa poi che, "Fin dal tempo del Buddha, i Maestri hanno dato la 'Trasmissione' della loro saggezza ai loro discepoli quando questi ne dimo-strarono l’esperienza e la comprensione del Dharma, gli insegnamenti del Buddha. Il risultato di questa forma di riconoscimento, è che i lignaggi si svilupparono...”. Chiaramente, implicita in ciò è l'idea che il lignaggio Ch'an risalga al Buddha. Benché egli non dica che sia un lignaggio ininterrotto, nella frase è implicito che la tradizione Ch'an è tuttora prospera e che è trasmessa da Maestro a discepolo. Ciò che con cura è omesso dall'autore, che invece lo sa bene, è che non c'è una tale cosa come un ininterrotto lignaggio Ch'an risalente al Buddha e che il lignaggio che è qui sostenuto non è basato su un profondo conseguimento spirituale. 

La nozione che il Ch'an/Zen sia un lignaggio ininterrotto che risale al Buddha è ripetuto in ogni contesto Zen, uno dopo l’altro. La summenzionata frase del Maestro Sheng-Yen sul mito del lignaggio/trasmissione dello Zen è solamente una recente ripetizione del mito che la setta Zen ha propagato e ha sempre ripetuto da quando le sette ebbero inizio in Cina durante la dinastia Tang. Nelle risposte al mio questionario, da almeno tre corrispondenti fu ripetuto che “Io so come sono "trasmessi" gli insegnanti dei gruppi Zen americani”. 

Il paradigma del lignaggio, insieme all’idea di vari "patriarchi" esistenti tra gli antenati di una linea, non avvenne per caso. È ben noto che la cultura cinese mette grande importanza sulla venerazione degli antenati e sulla genealogia patriarcale. Essentialmente, il Ch'an sostituì il lignaggio centrale di nascita della famiglia alla struttura sociale della traditionale società cinese con una "spirituale" linea di famiglia che discende dal Buddha, vale a dire il lignaggio Ch'an. Questo per non dire che la struttura del lignaggio Ch'an è intrinsecamente Cinese o una esclusiva creazione dell'immaginazione Cinese. I Maestri Kashmiri che stabilirono la base della tradizione di meditazione in Cina portarono "il nucleo della teoria di trasmissione con cui i veri insegnamenti del buddhismo furono trasmessi dal Buddha Sakyamuni attraverso una successione di patriarchi", in Cina. Questa convenzione ben si adattava con l'esistente ordine confuciano, aiutandolo a facilitare l’accettazione di ciò che in effetti era una religione aliena. Alan Cole ha scritto:“Fin dall'apertura delle grotte di Dun-Huang all’inizio di questo secolo, noi sappiamo che i testi del lignaggio-Chan del medio-e-tardo-Tang sono alquanto in disaccordo l'un con l'altro e nelle loro diverse affermazioni ai propri lignaggi-illuminazione risalenti a Bodhidharma sembrarono piuttosto diversi, dipendendo da chi li stava scrivendo. Tutto sommato, questi testi del lignaggio rappresentano una nuova forma di disputa che funziona come segue, 'io ho ragione e tu hai torto, perché io sto in un perfetto e singolare lignaggio di verità e tu no!’. La struttura di questa polemica dovrebbe essere provocatoria semplicemente a valore di facciata. Come poteva accadere ciò nel buddhismo? Perché fu chiuso in un modello confuciano di eredità patrilineare…? ” 

Tuttavia, come abbiamo visto, il Ch'an/Zen tenta di legittimare se stesso tramite l'idea di un incontestabile lignaggio-trasmissione che risale al mitologico Buddha Shakyamuni, Questo mito è una forma costruita umanamente che è necessaria-mente aperta all’interpretazione umana. Con ‘legittimo’, intendo dire "conoscenza" oggettivata socialmente, cioè che serve a spiegare l'ordine sociale. Messo in modo diverso, le legittimazioni sono le risposte a certe domande circa il "perché" delle sistemazioni istituzionali. Ogni legittimazione mantiene la realtà definita in una struttura sociale. Al momento, una determinata legittimazione può sembrare al di sopra della domanda e l'intera idea di costruzione ed interpretazione umana può essere nascosta o persa. Ma in altri tempi, per qualunque ragione storica, le contingenze delle situazioni umane penetrano in questa copertura e mostrano come l'apparente assolutezza della costruzione sia realmente basata sull’inter-pretazione e la comprensione umana. Berger scrive: "Tutti i mondi socialmente costruiti sono inerentemente precari. Sostenuti dall’attività umana, essi sono costantemente minacciati dalle umane azioni di interesse e stupidità". 

Lo Zen appare intrappolato dalla sua propria retorica all’interno di termini chiave idealizzanti come ‘Maestro/Roshi, Trasmissione del Dharma, e Lignaggio-Zen’. Esso ha preso le distanze dalle sue stesse richieste di autenticità dai sutra o alcuni altri testi canonici, e basate sulla sua legittimazione del lignaggio. Inerente a questo modello è la sua idea-corollario della trasmissione del Dharma da Maestro illuminato a Maestro illuminato, sempre facendola risalire al Buddha. Il Buddha rappresenta, ontologicamente, la natura dell'universo, così come l'epitome della realizzazione umana. È così necessario oggi mantenere il mito di un ininterrotto lignaggio basato sulla trasmissione da mente-a-mente, come fu necessario per i monaci della dinastia Sung, che crearono il mito e lottarono per farlo accettare come fatto storico. Altrimenti, non c'è nessun modo di sostenere la pretesa del Ch'an di rappresentare la mente del Buddha. Diventa poi importante sottolineare le connessioni ancestrali, attraverso la trasmissione da mente-a-mente sia reali che fabbricate. Il livello di lode e santità raggiunto nel reame umano dai patriarchi Ch'an e dai successivi insegnanti è interessante argomento di valore per tutti i membri viventi del lignaggio Ch'an, cioè i Maestri e i Roshi viventi. È il prestigio del lignagggio mitologico che garantisce agli insegnanti viventi la loro posizione privilegiata nella tradizione monastica buddhista e nel mondo buddhista in generale.  

Sebbene i tre termini, “Maestro/Roshi, Trasmissione del Dharma, e Lignaggio Ch'an/Zen” possano essere visti in modo separato, in termini di autorità nello Zen, essi sono interrelati e funzionano pressocché come un'unità. Questa convenzione della trasmissione all'interno di un lignaggio richiede che ciò che è trasmesso sia totalmente ed autenticamente la mente del Buddha. Ancor più importante è che non può esservi una trasmissione parziale. Quindi o si è un Maestro, o non lo si è. Non c'è nessuno stato intermedio o equivoco; nessuno è riconosciuto come "una sorta di Maestro" o "quasi-Maestro". Se uno è un Maestro, allora significa che ha perfettamente realizzato la mente del Buddha, e quindi funziona dalla prospettiva dell’Assoluto, prospettiva oltre la comprensione dell'ordinario essere senziente. In questo senso, il Maestro dimora nella sacra Mente di Buddha, la manifestazione vivente e misteriosa della reale natura. Berger dichiara così il caso più generale, "La Religione così si legittima in modo efficace, perché mette in relazione le precarie costruzioni di realtà della società empirica con la realtà ultima. Le tenui realtà del mondo sociale sono radicate nel sacro ‘Realissimum’, cioè localizzandole all'interno di una sacra cornice cosmica di riferimento, che per definizione è oltre le contingenze dei significati umani e dell'umana attività. Le costruzioni storiche dell’attività umana sono viste da un punto vantaggioso che, per sua stessa auto-definizione, trascende sia la storia che l’uomo".  

Quindi, secondo la retorica Zen, ogni atto del Maestro è una manifestazione della verità vivente dello Zen, ogni attività è un insegnamento se solo il discepolo può afferrarlo. Qualsiasi cosa possa sembrare problematica, contraddittoria o sbagliata dimostra che ciò è dovuto alla mancanza di intuizione del discepolo dell’Assoluto, o Mente di Buddha, da cui tutte le intuizioni e le azioni del Maestro sorgono. Questo modello conduce necessariamente ad una visione idealizzata del Maestro. Come incarnazione della Mente illuminata del Buddha, il Maestro è totalmente oltre ogni nostra comprensione e quindi esentato dal nostro giudizio o dalle nostre personali opinioni. Non c’è quindi da meravigliarsi che molti comportamenti che si vedono nei Centri Zen americani apparirebbero settari ai non iniziati. 

 

 I Koan 

Una delle rappresentazioni distintive dello Zen che ha attirato l'attenzione degli Americani è il ‘koan’ Zen. Come vedremo poi, il koan è usato in molti modi e serve ad un gran numero di funzioni. Come molti sanno, un koan è una storia o meglio, un dialogo tra un Maestro ed un discepolo o altre persone. I Koan si usarono in una forma meditativa di Zen nota come meditazione del koan (Cin. k'an-hua-Ch'an, Giapp. Kanna-Zen), o più generalmente come studio dei koan. Lo studio dei koan in Giappone, negli anni, è divenuto una formalità all'interno di ogni linea di insegnamento; ogni linea ha un corso selezionato di koan per "andare oltre", risposte accettate per andare con determinati casi, ed un metodo standardizzato di guidare segretamente gli studenti attraverso il curriculum dei koan e delle risposte. I contenuti di un dato corso all'interno di una data linea sono un segreto. Questi dialoghi sono spesso così strani da rendere perplessi i non iniziati. Sebbene i Koan non siano resoconti storici di eventi reali, i buddhisti Est-asiatici, come pure molti, se non tutti i praticanti odierni in Occidente, credono che essi lo siano. Essi sono piuttosto ricostruzioni letterarie di come i Maestri illuminati del passato avrebbero parlato ed agito. La popolarità dei testi koan alla fine conformò la vera pratica orale. Cioè, essi giunsero a servire come modelli per le forme retoriche e procedurali di pubblica dissertazione all'interno delle istituzioni Zen. Se l'idea delle storie koan come invenzioni letterarie implica troppo calcolo o artificiosità da parte dei compilatori, si potrebbero vederli come le storie popolari della tradizione Zen.  

Benché gli Americani possano pensare di stare seguendo una qualche antica e ortodossa forma di studio dei koan Zen Cinesi, Coreani, o Giapponesi, questo non è certo il caso, perché nessuna tale forma esiste. Non c'è un solo modo di usare il koan; non si conosce esattamente come furono usati i koan nella Cina dei Sung. Un popolare insegnante Coreano negli Stati Uniti ha istituito un corso di koan che sembra rispecchiare la visione che gli Americani sono giunti ad aspettarsi, che è il metodo della moderna scuola Rinzai del Giappone, benché quella non sia la forma impiegata in Corea. Questa versione tronca del modello-curriculum del Rinzai, porterebbe lo studente a credere che vi sia poco o niente contenuto intellettuale nello studio del koan, nel Giappone contemporaneo, tuttavia, G.Victor Sogen Hori, uno studioso Canadese che ha passato duramente quindici anni nei monasteri in Giappone, facendo lo studio dei koan, ne dipinse un ritratto assai diverso. A sentir lui, si passava considerevole tempo a scrivere discorsi sui koan, prima di presen-tarsi per essere valutati dal Roshi. Molti sforzi venivano fatti per avere familiarità con il libro delle frasi raccontate, fino a che questa grande raccolta di frasi era in essenza memorizzata. Alla fine, ai più abili veniva richiesto di scrivere, copiando i  poemi in Cinese, tutti i vari koan. 

Come quasi tutti gli altri aspetti dello Zen, i koan e l'illuminazione, che si spera possa far seguito al loro studio, sono presentati agli Americani in una maniera estremamente idealizzata. Le qualità presentate nelle descrizioni idealizzate, total-mente contenute negli aneddoti dei koan, sono molto facilmente trasposte al Maestro vivente o al Roshi, poiché la retorica Zen presenta le persone in queste posizioni, come se avessero completamente padroneggiato il koan. Un esempio di questa visione idealizzata è vista nella seguente citazione di Yasutani-roshi, nel suo commentario al koan ‘Mu’:

Una volta che scoppierà l’illuminazione, sbalordirete il Cielo e farete scuotere la Terra. Come se aveste catturato la grande spada del Generale Kuan [un grande generale invincibile in combattimento], sarete capaci di uccidere il Buddha se per caso lo incontraste [ed egli vi ostacolasse] e liquidare tutti i patriarchi che doveste incontrare [se essi dovessero impedirvelo]. Essendo pronti ad affrontare la vita e la morte, improvvisamente voi sarete liberi; nei Sei Reami di Esistenza e nei Quattro Modi di Nascita voi vi muoverete in un samadhi di deliziosa innocenza e purezza”.

Si potrebbe pensare, dalla descrizione qui sopra, che il Roshi si muove solamente nel "samadhi di deliziosa innocenza e purezza". Tuttavia, questo è come lo stesso illuminato Roshi manifestò la sua saggezza indirizzandosi alla condizione sociale e politica del moderno Giappone. Quella citazione sono parole scritte per un ristretto pubblico giapponese da Yasutani, poco prima della sua morte nel 1972. Dopo aver dato del traditore al movimento dei sindacati del lavoro del Giappone, egli continuò col dire, "Le università che abbiamo qui devono essere tutte spazzate via una ad una. E se ciò non può essere fatto in questa costituzione, allora essa dovrebbe essere dichiarata subito nulla e priva di valore legale, perché è una costituzione non-giapponese, che rovina la nazione, una costituzione fittizia nata come un figlio bastardo delle forze di occupazione alleate". Questo tipo di visione fu una costante caratteristica dei discorsi di Yasutani nell’arena sociale e politica, almeno per gli ultimi 40 anni della sua vita. 

I Koan sono usati principalmente in due modi. Nei gruppi associati alla tradizione Soto dello Zen Giapponese, essi sono usati in discorsi formali come argomento principale  delle conferenze o come strumenti pedagogici per chiarire alcuni punti o per funzionare come segnali. Nei gruppi associati al Rinzai o alle tradizioni San-bokyodan dello Zen Giapponese, così come in alcuni gruppi  delle tradizioni Cinese o Coreana, i koan sono usati anche in questi modi, ma per la maggior parte essi sono usati anche come argomento principale o soggetto per la meditazione dei discepoli. Parti del processo sono gli incontri privati con l'insegnante (sanzen, o dokusan) quando i koan sono usati in quest’ultima maniera. 

Nelle scuole Zen in cui il koan ha preminenza come focalizzatore nella pratica della meditazione, il koan ha la funzione aggiunta di conferire potere all'insegnante e rinforzare l'autorità di una gerarchia istituzionale in parte basata su quello che è un'invenzione ampiamente letteraria. L'insegnante, che apparentemente ha ben padroneggiato il koan, è un rappresentante vivente della mente illuminata a cui il koan punta. L'insegnante giudica l'intuito del discepolo e decide se la risposta è completa o abbastanza profonda per ottenere la conferma o l’approvazione e "muoversi" al caso successivo del curriculum. Nonostante una popolare retorica al contrario, benché uno possa "muoversi" verso il prossimo caso, in nessun modo questo "muoversi" significa che lo studente abbia visto davvero in profondità nel caso precedente. C'è un certo "muoversi verso" che avviene, ma non c’è niente di apertamente discusso o scritto al riguardo. Ovvero, lo studente è tenuto ad avanzare continuamente attraverso il corso dei koan sebbene possano esservi un’intuizione o una realizzazione molto piccole dei vari koan. 

Gli incontri privati tra insegnante e discepolo avvengono in una forma stilizzata: vi è incenso che brucia nell'atmosfera e un certo riserbo silenzioso nella stanza degli incontri, il discepolo si inchina entrando e lasciando la stanza, e si prostra sul pavimento prima di venire a sedere di fronte al seggio che aspetta l’insegnante. L'insegnante ha il controllo dell’incontro; egli decide se incoraggiarlo lievemente o fortemente, dare un segnale o congedare, sgridare o incoraggiare, raccontare un aneddoto personale o essere freddo, e terminare a suo piacimento l'incontro con il suono di una campanella. Alla fine, è l'insegnante che decide quando lo studente dovrebbe "muoversi" ad un altro caso o, più importante, quando la sua intuizione è una genuina esperienza Zen o no. Tra i praticanti viene inteso che questo sia il vero Zen, in cui il vero addestramento prosegue in segreto. Il discepolo non deve discutere di ciò che avviene nel ‘sanzen’ con nessun altro. In questa atmosfera e contesto, è facile vedere come lo studente attivi una connessione tra l'insegnante dei giorni nostri e i grandi Maestri del passato, le cui parole e gesti sono esaminati nei koan. 

Come con buona speranza credo di aver dimostrato, la retorica delle istituzioni Zen riconosce l'insegnante dei giorni nostri che attende lo studente nella quieta stanza degli incontri come il discendente vivente dei nostri antenati Cinesi, i grandi Maestri del koan. La dissertazione sostiene che attraverso la trasmissione da mente-a-mente e l’ininterrotto lignaggio Zen, esiste un diretto collegamento tra l'insegnante vivente e Bodhidharma ed il sesto Patriarca, di fatto, all’intera linea di patriarchi fino al Buddha stesso. Questa nozione della diretta connessione è dichiarata nell'idioma Zen come "da sopracciglio a sopracciglio", dando implicita una grande intimità, ovvero, sentire con gli stessi orecchi e vedere con gli stessi occhi. Così, attraverso la sua partecipazione in uno scambio collegato intimamente tramite forma e simbolo alle attività dei Maestri illuminati il discepolo rimette in vigore il vero caso del koan, ed in un certo senso, entra in un reame senza tempo di spazio sacro. Durante tutto l’incontro privato, il Maestro/Roshi presenta il caso, dirige la linea di discussione o di indagine, introdurrà uno speciale linguaggio ed a volte un modo fisico di rispondere, o può raccontare una storia privata. Ma sempre l'insegnante è il solo arbitro finale della corretta intuizione e comprensio-ne, cioè di "andare-attraverso" o "passare-attraverso" il koan. Cosa veramente questo "passare-attraverso" significhi, varia ampiamente da insegnante ad inse-gnante e da caso a caso. Perfino fra le grandi figure della tradizione Zen troviamo un gran disaccordo riguardo a cosa significhi "conseguimento". Per esempio, Dogen, il fondatore del Soto Zen in Giappone, criticò Ta-hui (1088-1163) che era un contemporaneo dell’insegnante di Dogen, e forse il più grande esponente  del koan Zen e eminente figura del Ch'an in Cina, di non avere l’intuizione, accusan-dolo in essenza di essere una frode.

Durante un ritiro di sette-giorni, gli incontri privati tra discepolo e Maestro sono ripetuti molte volte al giorno, in altri momenti forse una volta o più volte alla setti-mana. Ma essi sono sempre fatti con la comprensione che questo è il "vero" insegnamento e che uno si sta confrontando con l'essenza dello Zen. Non meno importante, è così che qualcuno avanzerà in un dato gruppo, se sarà riconosciuto come un bravo studente favorito per essere adeguato ad un ruolo di insegnante e forse ad entrare nella famiglia-Buddha con l’atto della trasmissione del Dharma. Berger scrive, "La religione legittima così efficacemente perché collega le precarie costruzioni di realtà della società empirica con la realtà ultima". Quì nella stanza del sanzen, in privato, fra inchini, campane, ed incenso, per mezzo del koan, il discepolo si confronta con la comprensione Zen della realtà, e l'intera tradizione dello Zen o dei nostri "antenati-Zen" è presente lì come gruppo. Il discepolo si confronta con la natura di Buddha, o la Mente-Buddha come manifestazione nel mondo di ogni giorno nel ruolo del Maestro che siede silenziosamente, aspettando che lo studente venga e presenti la sua propria natura di Buddha. Ciò è fatto in un ambiente in cui il Maestro/Roshi è la manifestazione dell’assoluto, la controfigura del Buddha. Il Maestro invita, alletta, incoraggia lo studente a unirsi, vedere, prender parte a questa sacralizzazione del mondo di ogni giorno attraverso i koan, i Buddha manifestati e gli antenati. L'insegnante siede di fronte al discepolo, confrontandosi con il discepolo, ed il discepolo si prostra a lui e si presenta con cuore totalmente aperto. 

L'orchestrazione dell’incontro opera almeno su due livelli di idealizzazione. Uno è tacito e testuale, nell'uso delle letterarie storie di saggezza, il cui esoterico signifi-cato interiore si suppone che l'insegnante abbia padroneggiato, e che presenta un idealizzato paradigma della relazione di Maestro/discepolo. L'altro, più esplicito e gesturale, è decretato dal rituale scambio di inchini, la cura messa nella sistema-zione fisica della stanza, l’insegnamento di un nuovo linguaggio, un modo di espri-mere le idee non facilmente afferrato dal non iniziato e l'addestramento nel rispondere spontaneamente ed iconoclasticamente, cioè, con azioni pressocché formalmente prescritte. Il risultato finale di questa idealizzazione dell'insegnante e dell'istituzione che egli rappresenta è la legittimazione della gerarchia istituzionale. Tramite questi atti fortemente ritualizzati e, in una certa misura, le risposte rituali agli stessi koan, l'autorità del Maestro/Roshi è incarnata e il significato è attribuito. Lo studente partecipa in un rituale che incarna il Maestro vivente come simile al Buddha e alla linea dei patriarchi. Allo stesso tempo lo studente si sottomette alla propria posizione di comune e ordinario essere umano, con manifesti desideri per progredire, e per ottenere il riconoscimento del Maestro. 

Benché tutti gli elementi dell'incontro siano convenzioni monastiche, che riflettono la struttura istituzionale più che la qualità inerente dell’illuminazione, lo studente può avere in effetti l'impressione di star partecipando ad un localizzato evento in uno spazio sacro e senza tempo. 

Questo intero scenario è totalmente costruito dalle persone, eppure allo studente è fatto credere che questo sia l'unico modo, che è sempre stato fatto fin dagli inizi o dai primi tempi dello Zen. Come lo descrive Berger, l'intento del rituale è di: "far sì che le persone dimentichino che questo ordine fu stabilito da esseri umani e continua ad essere dipendente dal consenso degli uomini. Lasciando credere loro che, nel mettere in atto i programmi istituzionali che sono stati loro imposti, essi stanno solo realizzando le più profonde aspirazioni del loro essere, mettendosi in sintonia con l’ordine fondamentale dell’universo". 

 

L'Alienazione del Maestro/Roshi 

A questo punto, vorrei guardare alla persona del Maestro/Roshi ed esaminare alcuni degli effetti, da parte sia dell'insegnante che dello studente, di presumere un ruolo maggiormente idealizzato per lo stesso insegnante. Io svilupperò la tesi, seguendo il modello di Berger, che il Maestro sia "alienato", usando il termine "alienato" in un preciso senso tecnico. Berger descrive l'incarnazione dei principi istituzionali come un processo a due vie, "L'ordine istituzionale è reale soltanto in quanto è realizzato in ruoli conformati e che, d'altra parte, i ruoli sono rappresen-tativi di un ordine istituzionale che definisce il loro carattere e da cui essi derivano il loro senso oggettivo". Chiaramente, tutti i mondi socialmente costruiti cambiano perché sono prodotti dalla storia dell'attività umana. Guardando alle complessità della costruzione concettuale con cui ogni mondo particolare è mantenuto, ci si può dimenticare che, "la Realtà è socialmente definita. Ma le sue definizioni sono sempre incarnate, cioè, coloro che definiscono la Realtà sono individui concreti e gruppi di individui". Nello Zen, il ruolo idealizzato del Maestro/Roshi è l'incarna-zione di tutto ciò che sta per Zen. Il Maestro, tramite parole e gesti, non solo definisce la realtà, ma serve anche a stabilire il tono e la colorazione di come lo Zen deve essere manifestato nella vita. 

Le persone prendono parte alle attività dell'istituzione Zen ed accettano le sue credenze principalmente per due ragioni: esse stanno cercando sia il significato della loro vita e sia una trasformazione personale che incorporerà questo stesso significato nella loro propria vita. È necessario che le persone credano che la tra-sformazione personale sia possibile. Il Maestro-Zen è quell'incarnazione vivente di quella trasformazione personale. Lo Zen promuove una trasformazione che è così completa quanto le istituzioni Zen la definiscono, è aldilà della comprensione e del giudizio umani, il che implica anche grande libertà e potere; un ideale ben valido per lottare. Tuttavia, le idealizzazioni sono troppo grandi per adempiere realmente le necessità istituzionali di un Maestro incarnato, con una reale creatura umana. Eppure una persona in carne ed ossa deve adempiere al ruolo. Spesso, una persona che è assai lontana dall'ideale che si suppone che essi incarnino adempie necessariamente al ruolo. Infatti, vi sono ben poche persone che possono avvi-cinarsi allo standard stabilito nell'idealizzazione del Maestro Zen. L'insegnante cerca di recitare la parte ed i suoi discepoli accettano l'autorità e l’essere speciale così come sono stati istruiti attraverso i vari metodi. Ma una grande istituzione come lo Zen richiede molti insegnanti, così che la maggior parte di essi non sanno incarnare pienamente la pratica né possono essere esempi viventi della promessa trasformazione. In una società eterogenea ed estremamente individualistica con i pochi strutturali controlli sociali come la nostra, l'idealizzazione del Maestro mi sembra che sia un’ulteriore prescrizione per i problemi. 

La società, tramite i processi di esteriorizzazione, oggettivizzazione, ed interioriz-zazione è il prodotto della collettiva attività umana. Attraverso questi tre processi, la società confronta l'individuo come un realtà a priori esterna e soggettivamente opaca. L’esteriorizzazione e l’oggettivizzazione implicano la produzione di un reale mondo sociale, esterno agli individui che lo abitano; l’interiorizzazione implica che lo stesso mondo sociale avrà lo status di realtà all'interno della coscienza di questi individui. Questo è un processo in atto allorché necessariamente ogni individuo si avventura nel mondo. Attraverso questi tre processi, l'individuo partecipa e coopera nella realtà della costruzione sociale. Questo stesso mondo sociale poi, mantiene il suo carattere di oggettività allorché è interiorizzato nella coscienza. Il fondamentale potere persuasivo della società non sta nei suoi mezzi di controllo sociale, ma nel suo potere di imporsi come realtà.   

Qui ci sono due punti importanti. Primo, che la socializzazione è sempre parziale e che l’interiorizzazione mette una parte di coscienza contro il resto della coscienza. Secondo, l’interiorizzazione comporta l’auto-oggettivizzazione: una parte del ‘sé’ diventa oggettivato, non solo per gli altri, ma anche a se stesso. Viene creato un "sé sociale" che è e rimane in uno stato di difficile sistemazione con la non-sociale auto-coscienza su cui è stato imposto. Ad esempio, il proprio “sé” socializzato e posto in società può essere, lavorando sodo, un uomo di una famiglia borghese, eppure questa stessa persona può vedersi ancora come un Don-Giovanni. Ciò potrebbe portare questa persona a tutta una serie di problemi con sua moglie e i suoi bambini. Tuttavia, il ruolo di uomo di famiglia della media borghesia diventa una "presenza" oggettiva, apportando un potente senso di realtà all'interno della coscienza dell’individuo. Siccome il processo socializzante non è mai perfetto, l’uomo produce l’ "alterità" sia dentro che fuori di sé, come conseguenza della vita in società. Sorge poi la possibilità che non solo il mondo sociale sembra estraneo all'individuo ma che egli diventi estraneo a se stesso in certi aspetti del suo ‘sé’ socializzato. Si può avere il ruolo oggettivamente socializzato di Maestro Zen, un ruolo che porta una rappresentazione istituzionale di ideali estremamente elevati, mentre il ‘sé’ non-socializzato sul quale il ruolo è stato imposto, ha ancora fame di gratificazione, dei corpi di giovani discepole attraenti, di un più grande gruppo di seguaci, un più grande tempio e più terreno, più soldi, o un numero di altri oggetti di desiderio. In una situazione come questa, una parte della coscienza è lasciata in una scomoda relazione con l’altra parte. 

Si dovrebbe notare che la divisione o scissione nella propria coscienza che mette un ‘sé’ sociale in una scomoda sistemazione con la coscienza del ‘sé’ non-sociale è necessaria, ad un certo livello, come una qualità dell’essere un ‘essere-sociale’. In altre parole, fa parte dell’essere umani. Tuttavia, come Berger sottolinea sotto, si può procedere lungo percorsi diversi, 

“Vi sono, tuttavia, due modi in cui questa estraniazione può procedere – uno, in cui l’estraniazione del mondo e del ‘sé’ può venir riappropriata dal "ricordo" che il mondo ed il ‘sé’ sono prodotti della propria stessa attività - l'altro, in cui tale riappropriazione non è più possibile, ed in cui il mondo sociale ed il ‘sé’ socializzato confrontano l'individuo come inesorabile realtà, analoga alla realtà della natura. Quest’ultimo processo può essere chiamato 'alienazione’. Detto diversamente, l'alienazione è il processo da cui la relazione dialettica tra l'individuo ed il suo mondo è ormai persa". 

L'alienazione è una erronea coscienza in cui ci si è dimenticati che questo mondo sociale era, e continua ad essere, una pseudo-realtà co-prodotta dall'individuo come partecipante attivo nella collettiva impresa di una vita sociale. 

È importante capire che l'alienazione non necessariamente indebolisce o disabilita l'individuo alienato. Infatti, può esservi il caso opposto - può diventare fonte di un più grande potere allorché rimuove i dubbi e le incertezze che potrebbero provocare problemi ed esitazione in una persona non-alienata. Per l'alienato, "Il mondo sociale cessa di essere un'arena aperta in cui l'individuo espande il suo essere in significative attività, e diventa invece un ristretto aggregato di reifica-zioni separate dall’attività presente o  futura". Ancor più importante, percepire il mondo socio-culturale in termini alienati serve a mantenere le sue strutture che danno un significativo ordine con particolare efficacia all’esperienza, precisamente perché ciò immunizza contro le innumerevoli contingenze dell’impresa umana di edificare il mondo. Nel caso che stiamo qui esaminando, segnatamente quello del Maestro Zen in America, abbiamo visto un numero di casi in cui, non importa quanto il Maestro sia poco preparato, egli sembra capace di continuare ad agire, quasi come se oscurasse i propri difetti, e riuscire a mantenere la sua posizione di Maestro. C'è una forza apparente che permette al Maestro di mantenere la sua posizione, quasi del tutto separata dalla sua attività, malgrado la retorica Zen che dà un così alto valore alle attività normali della vita quotidiana e che sostiene che ogni azione del Maestro proviene dall'Assoluto. In questi casi, l'alienazione riesce ad immunizzare contro le numerose contingenze e le sconfitte della vita di tutti i giorni. 

Nello Zen, l'istituzione è "incarnata", o "realizzata" nel ruolo conformato del Maestro o del Roshi. Un ruolo che è pressocché necessariamente idealizzato (con rarissime eccezioni) attraverso i consueti meccanismi della trasmissione del Dharma, del lignaggio Zen, koan, mon-do, e rituali. Gli studenti interiorizzano la retorica Zen, si aspettano che il vero insegnante sia un maestro ideale, e così non vedono l'ora di avere un simile insegnante ideale che li guidi e li istruisca. Queste idealizzazioni sono state ripetute in una forma o nell'altra durante tutta la storia della tradizione Ch'an. In uno dei più antichi testi Ch'an, il Sutra dell’Altare, del sesto Patriarca, il quinto Patriarca Hong-yen dice al suo successore Hui-neng, il sesto ed ultimo Patriarca, "Se tu sei capace di svegliare un’altra mente, essa non sarà diversa da me". Ciò che è implicito qui, è che ogni Maestro nella linea di trasmissione è uguale a qualunque altro, e che l'insegnamento che dà ogni nuovo Maestro è identico a quello dato da tutti i maestri del passato. Essenzialmente, almeno per quanto riguarda la comprensione, un insegnante è identico a tutti gli altri, essendo ognuno di essi come il Buddha stesso. 

Per elevarsi nell’istituzioni Zen, bisogna essere, come in tutte le istituzioni, ben socializzati nei propri modi e non mettere in dubbio gli ordini istituzionali ed i suoi ruoli. Siccome il ruolo del Maestro è connesso al Buddha storico e semi-mitologico, attraverso i meccanismi della trasmissione del Dharma e del lignaggio Zen, l’auto-identificazione del Maestro nel suo ruolo aumenta ulteriormente e diventa più profonda, come il suo senso di assoluta correttezza. È mia convinzione che le idealizzazioni associate con questa posizione portano il Maestro o Roshi ad avere una prospettiva alienata del mondo. La persona che occupa il ruolo di Maestro diviene, attraverso il processo di interiorizzazione dei privilegi e qualità incarnati dal suo ruolo, qualcosa di diverso dal suo stesso ‘sé’. Il ruolo, in quanto definito dalle istituzioni Zen, come abbiamo visto, descrive una persona che attualizza la perfetta libertà, libero da prefissati modelli ripetitivi incentrati sul suo ‘sé’, pieno di semplicità, benevolenza, umiltà, perspicacia e compassione o, secondo un’altra descrizione capace di compiere miracoli, e ancora un'altra descrizione in cui il Maestro ha sempre una mente pura. Quest’ultima è veramente una persona stupefacente, davvero molto raro. 

Tuttavia, l’interiorizzazione del ruolo non è mai completa, ed una parte della persona rimane con i normali difetti ed i concomitanti dubbi, desideri e incertezze che colpiscono tutte le fallibili persone ordinarie. Dicendo che il Maestro/Roshi diventa qualcosa di diverso da se stesso, voglio dire che il ruolo e le sue qualità imputate sono a lui estranee, o in conflitto con le attività e i pensieri manifestati nella sua vita quotidiana, al suo sé non-socializzato su cui è stato imposto il ruolo di Maestro. Per la persona alienata, in questo caso il Maestro-Zen, c'è una sorta di "diversità" (il ruolo di Maestro Zen) prodotta all'interno di se stesso, conformato al mondo sociale e che, per di più, è estraneo a se stesso. E’ estaneo a se stesso perché il processo di socializzazione non è mai perfetto. Esso resta uno scomodo arrangiamento per l’auto-coscienza non-socializzata ed i suoi vari desideri. "Quindi l'alienazione è un'esagerata espansione del processo di oggettivazione, laddove l'oggettività umana ("vivente") del mondo sociale è trasformata nell'oggettività non-umana ("morta") della natura... In questa perdita della dialettica sociale, la stessa attività viene a sembrare qualcos’altro - cioè, una sorta di processo, destino o fato, o con terminologia buddhista, karma o cause-e-condizioni". In questo caso, anche gli studenti diventano per il Maestro ‘cose reificate’. Benché non necessaria-mente con una intenzione sinistra, gli studenti diventano oggetti da essere usati e insidiosamente manipolati per gli scopi del Maestro, qualunque essi possano essere. È insidioso, perché le azioni e le motivazioni del Maestro, definite dal ruolo istituzionale come "buone" e fondate nell'assoluto, venendo da una mente pura, essendo utili per diffondere il Dharma, e per aiutare tutti gli esseri senzienti, in realtà servono per i suoi propri desideri umani. Simultaneamente, pensiero critico e dubbio sono esplicitamente denigrati con il peggiore degli epiteti dello Zen, vale a dire "attività ego-centrata". 

Una volta che questa sorta di alienata e quasi illusoria visione del mondo è stata ampiamente accettata, è stata aperta la porta a ogni sorta di abusi potenziali da parte della persona che occupa il ruolo di Maestro/Roshi. Una scissione si è avuta tra la persona in potenza ed il ruolo che occupa, tra le responsabilità personali ed il titolo. Il Maestro, a cui originariamente si guardava come un modello di com-portamento, un umano più completo e sviluppato che non gli studenti, ora appare ad un osservatore che l’ha visto attraverso il processo dell'idealizzazione e la sua alienazione risultante, come una persona sminuita. La persona vivente è andata, sostituita da un reificato occupante del ruolo. Il normale bilanciamento dei diversi ruoli e delle posizioni, insieme con la congiunta dialettica interna, che uno deve assumere nel corso di una normale vita dinamica, è ora sostituito soprattutto da un solo ruolo, il ruolo di Maestro. Sfortunatamente, nello Zen questo è spesso mascherato dietro una retorica di non-ego e vacuità, in cui l'alienazione dell'in-segnante diventa solo più profonda. A questo punto, il Centro Zen viene quasi ad assomigliare ad un teatro, dove tutti i partecipanti hanno i loro piacevoli ruoli, ognuno per le sue proprie ragioni. Gli studenti soprattutto diventano reificati a se stessi come studenti. I pochi studenti che a modo loro lavorano per la gerarchia che aspira a divenire insegnanti, possono evitare nel tempo la reificazione della loro posizione come studenti, che essi vedono come una transizione. 

Una persona che sostenga la visione che il Maestro è alienato potrebbe predire, che comunque il Maestro agisce nel mondo ordinario, il Maestro vedrebbe ancora se stesso come un Maestro e continuerebbe ad agire in quel ruolo. Il Maestro sta agendo in un ruolo idealizzato e sovrapposto su un se stesso che è ordinario con tutte le normali debolezze umane. Gli studenti, essendo socializzati nella retorica Zen ed i suoi legittimanti meccanismi, vedono il Maestro come un avvicinarsi all'ideale, come sono stati indottrinati a fare. Quel gruppo-Zen del Nord-America menzionato più avanti in questo articolo, che fu sorpreso dal fatto che il Maestro Zen potesse manifestare debolezze e difetti umani, è solo uno dei molti esempi che possono essere dati riguardo agli individui che accettano la retorica Zen e la visione idealizzata del Maestro. Poiché nessuna socializzazione è completa, c'è una parte del Maestro che è consapevole della falsità delle sue parole, attività, e ruolo. Quel lato della coscienza del Maestro è consapevole del suo essere ordinario che condivide con le persone normali del Centro. Tuttavia, il Maestro vede il suo gruppo accettare le loro attività attraverso la lente del ruolo idealizzato. Mentre il Maestro è consapevole del lato "ordinario" della sua propria coscienza, egli vede gli studenti che rispondono a lui nel suo ruolo idealizzato. Come spesso accade in questo tipo di incontro, esiste poi una tendenza a considerare gli studenti babbei, "stupidi", o persone un po’ sceme. Ossia, il Maestro alienato vede i suoi discepoli con poco rispetto, quindi c'è un’inclinazione a trattarli con un certo disdegno e disprezzo. Berger afferma, 

“Le gigantesche proiezioni della coscienza religiosa, qualunque esse possano essere, costituiscono lo sforzo storicamente più importante di un uomo per rendere la realtà umanamente significativa, a qualunque prezzo... Il grande paradosso dell’alienazione religiosa è che il vero processo di disumanizzare il mondo socio-culturale ha le sue radici nel fondamentale desiderio che la realtà nell'insieme possa avere un posto significativo per l’uomo. Si può quindi dire che anche l'alienazione è stata un prezzo pagato dalla coscienza religiosa nella sua ricerca per un universo umanamente significativo". 

La disparità tra la vita del Maestro ogni giorno vissuta con le sue occasioni di errori, desideri, e dubbi e la presentazione idealizzata della persona come Maestro spesso riportata nelle storie dei mondo e koan, è troppo grande. Tuttavia, la retorica dei cardini dello Zen sulla dottrina del lignaggio Zen, così com’è passata attraverso la trasmissione del Dharma, la legittimazione istituzionale e l'autorità del Maestro/Roshi è dipendente da questo modello. In altre parole, "La dottrina e una narrazione dell’origine di questa dottrina sono totalmente interconnesse, con la storicità di... eventi essenziali alla narrazione della verità. Benché il momento di trasmissione si possa giocare con successive denuncie che alla fine nulla è stato trasmesso, non ci si può sbarazzare della storicità del lignaggio". Vale a dire che il contenuto della trasmissione non è così importante come lo è lo spettacolo, la trasmissione e la ri-creazione del fatto sociale del lignaggio. Tuttavia, il secondo viene ignorato dall'enfasi messa sul primo. La setta Soto in Giappone è solo una dei più validi esempi. Ai giorni nostri, in America, forse come caso più eclatante, il mantenimento della stabilità e continuità istituzionale è della massima importanza. La famiglia dei presunti Buddha ha avuto continuità nella generazione successiva, l'istituzione è perpetuata, e ovviamente alcuni membri "ordinari" della comunità si possono necessariamente espandere. Rispetto a questo, lo Zen non è diverso dalle altre maggiori istituzioni religiose. 

C'è un potere dinamico chiaramente osservabile al centro della relazione studente-insegnante Zen. Secondo il sociologo David Bell, "Il potere implica l'esistenza di un oggetto di valore, che a) possa essere manipolato (cioè, aumentato o diminuito da un agente rispetto ad un altro); b) sia valutato dal convenuto; c) possa essere (relativamente) di facile e veloce fornitura; d) sia condivisibile. Ogni oggetto che adempie a questi criteri può diventare la base di una relazione di potere".

Usando il succitato criterio, l'intuizione e la comprensione dei koan e del Buddha-Dharma, può funzionare come base di una relazione di potere tra lo studente ed il Maestro Zen. La lotta che avviene in quest’area è almeno su due fattori, il primo è che lo studente vuole avere il riconoscimento per aver realizzato la verità dello Zen, ed il secondo che egli è autorizzato al diritto di essere un insegnante a sua volta. Un esempio di questa dinamica può essere visto in un evento accaduto anni fà in un gruppo-Zen che stava sperimentando delle tensioni. Un discepolo andò dall'insegnante dicendo che vi era insoddisfazione e tensione nel gruppo. L’inse-gnante rispose che il problema era che lui non stava superando così facilmente le persone con i loro koan. Non superare il koan significa che gli studenti non erano riconosciuti capaci di ottenere l’intuizione, né di illuminarsi, ed anche, per coloro che avanzano nel curriculum dei koan, significa essere bloccati e non completare il corso dei koan e quindi, non poter diventare insegnanti essi stessi. Cioè, il loro ottenimento della trasmissione del Dharma e dell’ingresso ufficiale in un lignaggio Zen erano bloccati. Cosa significhi "non superare così facilmente le persone " sullo studio dei koan, e "superare un koan", qui non viene considerato. Sfortunata-mente, la vera fonte dell'insoddisfazione e tensione fu che l'insegnante, sposato con un bambino, era segretamente coinvolto con due ragazze sue discepole, nessuna delle quali era sua moglie. 

Allo scopo di mantenere l’apparenza dell’autorità spirituale, la persona scelta per adempiere il ruolo di Maestro è pressocché costretta, dalle idealizzazioni attribuite al ruolo dall'istituzione Zen, a vivere in uno stato di falsa coscienza, cioè, a vivere con una bugia. Al tempo stesso, fra gli studenti vi è una certa determinazione ad elevare ed idealizzare il Maestro come un esempio vivente dell'insegnamento e dei principi ben venerati nella tradizione del lignaggio. Le persone vogliono un insegnante notevole, nessuno ne vuole uno mediocre. La retorica classica dello Zen alimenta nello studente il desiderio di avere un insegnante preminente come modello di comportamento, affermando che l'insegnante deve essere notevole per definizione o, come tre degli insegnanti citati all'inizio di questo articolo ci hanno dichiarato, "oltre la vostra comprensione", quindi capaci di compiere miracoli ed in possesso di una straordinaria qualità della vita. Questo genere di termini alimenta lo studente con una collezione di allusioni e dubbi allo scopo di stimolare le loro fantasie riguardo alla purezza e al notevole conseguimento spirituale del Maestro. 

Questa pressione degli studenti è una forma di complicità con l'istituzione, nel far accettare il titolo di Maestro/Roshi; essi si affidano alle descrizioni della posizione stabilita all'interno della tradizione, ed attribuiranno quelle qualità a chiunque ottenga quel titolo. Infatti, può essere che le qualità imputate al ruolo di Maestro, saranno viste da tutti i discepoli. C'è una collusione tra Maestro e discepolo, una simbiotica relazione in quanto egli è nella confortevole posizione in cui lo studente deve avere un senso di certezza in un idealizzato modello di comportamento; mentre nel contempo il Maestro è elevato ad una figura idealizzata di autorità che in casi estremi diviene pressocché un culto, come si può osservare in certi centri di Zen. 

Coloro che giungono allo Zen sono in larga parte attratti dal senso, dal significato, o dall’ordine che esso dà all'esperienza di vita. Nello Zen, come abbiamo visto, quest’ordine strutturale è incarnato nell'insegnante Zen. Riguardo al suo ruolo, la certezza dell'insegnante, che è il risultato dell'alienazione, riafferma la gerarchia. L'insegnante, apparentemente immunizzato dai normali dubbi, difetti ed errori umani, si eleva al di sopra degli studenti col loro senso di precarietà, auto-incertezza, e dubbio. In un certo senso, lo studente coopera con l'alienazione dell'insegnante per mantenere il significato che lo Zen dà alla vita, che l'inse-gnante "incarna" e che lo studente ambisce, quasi con la forza di un istinto. La vera gerarchia implicata dall'alienazione dell'insegnante stesso impone una strut-tura che è una sorta di secondo livello di ordinazione. Ora uno ha l'istituzione Zen, un sistema in cui vivere con rituali e gerarchia, con a capo il Maestro/Roshi visto come una figura idealizzata, con monaci e monache, e gli studenti più anziani al di sotto e così via. Questa struttura offre un canale per le aspirazioni di progresso degli studenti, e soddisfa il desiderio di un mondo ordinato e sensibile. Ci si può quindi ben stabilire dentro una simile gerarchia. Ogni persona trova la sua collo-cazione, o come nuovo studente, o al livello di studente più saggio e più vecchio, o con la volontà di venire ordinato, tutti con i loro privilegi e status da seguaci. Si diviene parte di un gruppo iniziato ad uno speciale linguaggio, un modo speciale di parlare, speciale comportamento rituale, ed un intuito o comprensione interiore del mondo, aldilà della comprensione del resto della società. 

La gerarchia collegata alla relazione simbiotica tra l'autorità del Maestro ed i membri del gruppo Zen viene sostenuta in molti altri modi. Vestire speciali tonache durante le cerimonie, come pure il luogo speciale e gli inchini riservati al Maestro durante i servizi, emblematici equipaggiamenti come l'uso di campanelli, speciali bastoncini, attrezzi, accenti, e forniture per officiare, servono tutti a collocare la fonte di autorità. In alcuni centri Zen, vi è molta pompa e cerimonia che precedono e accompagnano i discorsi dati dal Maestro. In altri luoghi, la rappresentazione di autorità e gerarchia può prendere la forma di comportamento stilizzato, come lo stare in piedi o tenere le mani in una specifica maniera, o il parlare e rispondere in prescritti modi stilizzati. In altri centri ancora, l'autorità può essere manifestata nel distacco o distanza che il Maestro tiene dai componenti del gruppo. O ancora in altri luoghi, la gerarchia può essere mostrata nelle attività cerimoniali riservate per il Maestro e gli ordinati. Con qualunque sistema, l’autorità e la gerarchia sono localizzate, stabilite, ed accresciute. 

Lo Zen in America è stato presentato in un modo estremamente semplicistico, così che uno è portato a credere che la terminologia Zen sia "pura", cioè che non ha implicazioni sociopolitiche. Si viene portati a pensare che lo Zen, e quindi la terminologia che lo definisce, con parole di D.T. Suzuki, "… si tiene distante dallo scenario di sporcizia ed agitazione mondane". Il prete dello Zen Rinzai, Ichikawa Hakugen, indica che i concetti che così identifichiamo con lo Zen erano tutti fattori che permettevano allo Zen di essere d’accordo con l'autoritarismo e il militarismo giapponese - termini come armonia, non-resistenza, tolleranza, karma, nessun-sé, il termine di Dogen "lasciar-cadere-corpo-e-mente", il concetto di debito e gratitu-dine, l'interdipendenza reciproca di tutte le cose, la dottrina della Via di Mezzo, l’enfasi sulla pace interiore piuttosto che sulla giustizia, e infine la caratteristica di "proprio così com’è" che può condurre ad una visione statica, estetica, distaccata, una soggettiva armonia con le cose. Questi termini, visti in modo naif, sembrano puri e giusti, l'essenza dello Zen, eppure con un pensiero più dal punto di vista storico, possiamo vedere che non hanno alcun significato al di fuori della cultura in cui essi sono inseriti, o più precisamente in quale cultura e in quale tempo li si sta usando. Berger, nel 1966 puntualizzò questo, "Detto crudamente, è essenziale continuare a farsi domande su concettualizzazioni di realtà storicamente disponibili, dall'astratto 'Cosa?' "al sociologicamente concreto ‘Chi lo Dice?’-".

 

Sommario 

In questo saggio abbiamo visto come il Ch'an/Zen sia stato presentato in America, in un modo più che idealizzato. Specificamente, abbiamo visto che termini come ‘Trasmissione del Dharma, Lignaggio Zen, e Maestro/Roshi’, sono interconnessi a formare una rete non disgiunta che insieme ai koan ed al comportamento rituale, eleva falsamente l'insegnante Zen, qualunque titolo egli possa assumere, ad una posizione che è paradossalmente umana, ma simultaneamente oltre l’umano. Ho pure mostrato che non è necessario per ogni insegnante individuale fare proclami riguardanti la propria illuminazione o il livello di conseguimento spirituale perché le istituzioni Zen proclamano questa istanza, in una forma o nell’altra, per la persona che siede nel ruolo di Maestro Zen. Abbiamo visto che questi importanti termini Zen e la maggior parte degli elementi auto-definiti di Zen sono stati accettati acriticamente in America e in Occidente in generale. In più, come gli studenti siano stati scoraggiati dal ricorrere a qualche struttura teorica non-Zen per una critica disamina delle istituzioni Zen, un membro che tenti una visione critica è gettato in una retrograda terminologia Zen, che tende soltanto ad accrescere il potere dell'insegnante. In questo articolo, ho proposto una struttura teorica per vedere le istituzioni Zen, cioè quella del sociologo americano, Peter L. Berger. Sicuramente ve ne saranno altri, ed io spero che gli studenti Zen possano cercarli al di fuori. 

Lo Zen pretende di essere interessato all'assoluto, la vera Mente, il vedere dentro la propria natura originaria. Eppure, le stesse definizioni delle sette Zen e della struttura istituzionale sono essenzialmente basate sull'idealismo, sull’inganno, e  sulla falsità, che servono a certi interessi istituzionali e agli interessi di coloro che mantengono i ruoli legittimati dalle istituzioni Zen. Ma uno si potrebbe chiedere, "A quale prezzo?" I Maestri stessi pagano un prezzo assai alto. Essendo tenuti in alto dalla retorica Zen e dall'interiorizzazione della stessa retorica da parte degli studenti, ad una posizione ben oltre ciò che è uguale al loro conseguimento, essi sono costretti a recitare un ruolo, piuttosto che fungere come normali umani nella posizione di insegnanti. Ciò mette l'insegnante nella non invidiabile posizione di vivere nel falso o nella negazione, o al massimo cercare di eludere la retorica della vera istituzione che legittima il suo ruolo. Questa è una situazione insostenibile. Molto spesso l'insegnante sceglie di interiorizzare il ruolo sociale, mettendo una parte della sua coscienza contro l’altra, piuttosto che mettere in dubbio ciò che legittima e conferisce il suo potere, cioè la retorica e la terminologia Zen. Poiché l’interiorizzazione comporta l’auto-oggettivazione, l'insegnante allora rende se stesso oggettivato come Maestro o Roshi, un richiamo di auto-immagine basata su una convenzione idealizzata, cioè, una trasmissione da mente-a-mente che risale al mitologico Buddha storico, una convenzione non collegata alla realtà della propria vita. Questo auto-inganno del Maestro lo porta così all'alienazione, il processo in cui si è persa la relazione dialettica tra il mondo e l'individuo stesso. E spesso, questa posizione conduce ad una visione dei discepoli come oggetti da dover usare, come esseri inferiori degni solo di disprezzo o sottovalutazione. 

Anche gli stessi discepoli pagano un prezzo. Quanto meno, essendo ogni tipo di pensiero critico fortemente scoraggiato, le facoltà critiche dei singoli studenti sono così svalutate, che un importante aspetto di ciò che significa essere umani viene annullato. L’esser tagliato fuori dal pensiero critico mette lo studente anche nella posizione di vedere il mondo Zen solo attraverso la sua propria lente. Inerenti a questa visione, vi sono forti elementi di gerarchia ed autorità che sono ancor più  immeritate per le ragioni già menzionate. E ciò, in un certo senso, ha permesso ogni sorta di eccessi e follie per farle passare inosservate, o non capite, nei modi per preservare l'istituzione, le sue idealizzazioni, e la sua gerarchia ad ogni costo. 

Un altro aspetto per stabilire una non-reale gerarchia è la necessaria inversione del riflesso del potere, cioè quando da parte dello studente si sminusce e denigra tanto l’insegnante che il discepolo stesso. Ciò si vede nell’assenza di dubbi riguardo all’insegnante, che se anche avvenissero, sarebbero congedati come un comportamento egocentrico, dall'insegnante stesso come dagli altri discepoli ben socializzati nella retorica Zen o nell’adorazione quasi ‘cult’ dell'insegnante, comune in tutti i centri Zen. Una frase comune, sentita spesso in quasi tutti i centri di Zen è, "Roshi dice... ". Essa ha luogo, di solito, in replica ad una domanda, ad un disaccordo o a qualcuno che sta resistendo ad un ordine o sta mettendo in dubbio qualche aspetto di come deve funzionare il Centro. In questo "Roshi dice…", è chiaramente implicato che qualunque cosa dica il Roshi, è oltre ogni questione, semplicemente perché l'ha detto il Roshi, e i Roshi, per definizione, non sbagliano mai. Allorché lo studente interiorizza la retorica Zen e sopravvaluta l'insegnante idealizzandolo, avviene una chiusura della sua mente. Non si mettono in dubbio ingiunzioni o situazioni problematiche, per paura di essere fuori posto nel mettere in dubbio la figura dell’autorità, per paura di essere respinto o di perdere diritti nell'organizzazione, o per paura che l’intero edificio si sbricioli. Un edificio poi da cui uno dipende, essendoci venuto apposta, per dare un senso a se stesso ed al suo mondo, che è la peggiore e più terribile posizione fra tutte. 

Ragioni sociali e storiche costrinsero il Ch'an/Zen a costruire una mitologia e una retorica basate sull'idealizzazione e falsi proclami. Si dovrebbe provare a fare una ri-valutazione per vedere se lo Zen è adattabile alla moderna cultura Occidentale, una cultura basata su liberali idee democratiche contrapposte alle lunghe tradi-zioni di gerarchia, obbedienza, ed autoritarismo delle culture del Lontano Oriente da cui derivarono l’uso e le istituzioni Zen. Come potremmo guardare allo Zen in un modo che sia più in sintonia con la nostra cultura moderna, una cultura aperta all’indagine critica, con una visione dell’individuo e dei suoi leaders radicati nel nostro proprio terreno culturale, col suo senso di individualità, libertà, e apertura, come pure con i suoi dubbi e paure, piuttosto che tentare di funzionare all'interno di rigide idealizzazioni istituzionali e vecchi miti più adatti alle culture dell’Oriente? Com’è possibile posizionare correttamente lo Zen in un regno umano interessato agli umani problemi di creature umane fatte di carne e sangue, e non con proiezioni di fantasia di modelli di comportamento ritagliati nel cartone? Possiamo fare questo e avere lo stesso un rispetto per le istituzioni Zen del passato che mantennero viva la tradizione? Possiamo trovare forme di organizzazione e linguaggio che risuonano con persone moderne, le quali indirizzano i loro interessi e preoccupazioni e che possono instillare la vita con scopi e significati? 

Forse un sistema da usare è la vecchia idea buddhista del kalyana-mitra, cioè l'idea di un sincero amico spirituale. In questa visione, il kalyana-mitra  non è idealizzato né elevato ad una posizione che sia al di sopra dell’umana fragilità, ma è visto come un qualcuno che ha più intuizione, più esperienza, più conoscenza. Una persona saggia che manifesti pazienza e volontà di ascoltare, che abbia il merito di insegnare, unito ad una buona conoscenza meditativa, una più profonda comprensione. Una persona, che un praticante semplice cerchi come un mentore, per una guida, un consiglio, e un aiuto. Si può essere un kalyana-mitra solo quando si è in relazione con gli altri. E questa relazione è possibile soltanto tra persone amiche con un comune interesse, benché una sola di essa possa avere più conoscenza ed esperienza dell’altra. La relazione è un preciso senso di responsabilità fra entrambi gli amici, ed entrambi portano qualche cosa ad essa. 

Tuttavia, nello Zen, agli studenti non viene fatta capire la loro responsibilità né si permette loro di dare giudizi o di discriminare. Infatti, abbiamo visto che nello Zen viene detto allo studente che non può capire l'insegnante, perché l'insegnante parla da un posto oltre la sua comprensione. Il kalyana-mitra dovrebbe funzionare come un qualunque viaggiatore esperto, che ci accompagna sul sentiero senza una necessaria gerarchia estrema e l’inerente "diversità", nella idealizzata visione offerta dalle istituzioni Zen. L'amico spirituale non dovrebbe funzionare come un esempio già costituito di Stato-di-Buddha, ma piuttosto dimostrare che le qualità in lui stesso carenti sono addirittura un promemoria per cogliere la consapevo-lezza delle sue stesse inerenti risorse. 

Un'altra area da esaminare, menzionata in precedenza, è di mettere una maggior enfasi sulla lealtà verso la comunità dei praticanti, gli amici ricercatori, piuttosto che una quasi completa dipendenza ad un determinato insegnante e ad una data istituzione. Robert Buswell ha indicato che i monaci dello Zen Coreano, per non essere dipendenti da un Maestro specifico, dal pensiero e dalla pratica buddhista, si tengono distaccati dalla persona del Maestro. Poiché s’impara da molti insegnanti, non si deve prendere la versione del Dharma di una sola persona come definitiva. Almeno in teoria, questo è decisamente più democratico, e coltiverebbe un senso di indipendenza, permettendo un più dinamico ed aperto flusso di dialogo e di idee. 

Infine, io ritengo necessario aprire ad un esame critico tutto ciò che chiamiamo Zen. In quest’area, il lavoro degli studiosi può servire come un bene insostituibile all'intuizione della comunità Americana degli studiosi di Zen, e come un prece-dente storico di prezioso sviluppo per la loro abilità nel tradurre i testi. È attra-verso il lavoro degli studiosi che noi abbiamo potuto cominciare a guardare alla formazione e sviluppo della tradizione Zen, vedendolo almeno parzialmente dall'in-terno del contesto delle culture in cui esso si formò e si sviluppò, ma anche dal punto di vista della nostra stessa cultura, dei nostri interessi e concettualizzazioni. Gli studiosi possono servire oggi anche come un controllo sulle agiografie che sono state scritte, su Maestri viventi o recentemente deceduti. Queste agiografie, proprio come nel passato, intendono migliorare il prestigio e l’autorità dei Maestri/Roshi Zen dei giorni nostri. Sfortunatamente, di questi tempi,  gli studiosi sono visti dalla comunità Americana di Zen più come una minaccia, con buona speranza che questo possa cambiare nel prossimo futuro. *** 

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Tratto da- http://www.darkzen.com!Articles/meansofauthorization.htm-23/10/2000 

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“Modi di Stabilire la Gerarchia e l’Autorità nel Buddhismo Ch’an/Zen in Occidente” di Stuart Lachs –  (Estratto da Internet – www.darkzen.com- )

Tradotto da Alberto Mengoni ( Aliberth) – per il CENTRO NIRVANA – Via Ostiense 152/B – 00154 ROMA – tel. 06.5128013 – 338.7021800 – 347.5808241