"LINEE GUIDA PER LA VITA INTERIORE"

• Di Swami Gokulananda. Estratto da Tattvaloka, Febbraio 2007.

(Tratto dal Bollettino ‘VIDYA’- di FEBBRAIO 2008)

 

 

 La mèta suprema si consegue con la

 Comprensione che ogni cosa in questo mondo

 è transeunte e da ciò nasce la spassionatezza.

 

 

Il richiamo interiore

Si sente spesso ripetere da un numero considerevole di devoti, discepoli iniziati del Math di Ramakrishna, che pur avendo ricevuto l'iniziazione (diksha) e il mantra, per loro non sembra esserci stato alcun progresso lungo il sentiero spirituale e si domandano come mai questo possa succedere.

Innanzitutto occorre ribadire che è necessario aver commpreso con sufficiente chiarezza qual è la meta; infatti, per molti essa non è altro che il veder esaudite alcune ambizioni terrene o anche celesti. Ma il fine supremo, la meta, dovrebbbe essere il conseguimento della perfezione in questa stessa vita - realizzare la propria vera natura che è Esistenza, Conoscenza e Beatitudine assolute. È facile conseguire tale Meta suprema se si è tanto fortunati da ricevere l'insegnamento da un sadguru, un realizzato, simbolo vivente della Divinità prescelta (ishtadevata) cui si è devoti.

Ma per essere capaci di un tale conseguimento occorre essere stanchi dei piaceri terreni, del teatro delle illusioni, cosÌ che sorga imperiosa una determinazione a volgere lo sguardo all'interno e a tornare alla nostra vera dimora. Solo allora avvertiremo la necessità di ritirarci da ogni lusinga e seduzione di questa terra. Coloro nei quali si è instaurata una simile potente aspirazione e che avvertono sete di Eterno e di Infinito sono pronti per perseguire la Meta suprema. Si tratta di auto-realizzazione in cui l'aspirazione profonda della vita umana trova il suo compimento.

Perché dobbiamo batterci per conseguire l'Infinito o l'Eterno? Chi può conseguire la Meta suprema?

La vita spirituale è fatta di dedizione al Supremo; è una vita di consacrazione e sacrificio, di direzione univoca. Una certa dose di divina insoddisfazione è necessaria, perché se siamo del tutto soddisfatti di ciò che la vita ci offre non possiamo sperare di conseguire la meta. A volte il mondo ci colpisce e ciò ci fa ritornare in noi.

Si dice perciò che quando si avverte un certo malcontento si può più facilmente giungere a comprendere che questo mondo non può dare una felicità durevole e reale e si cercheerà così di eliminare l'attaccamento a ciò che è terreno.

A tal riguardo è opportuno fare riferimento al concetto di màya (Illusione) nella sua duplice funzione: velante (avarana) - un velo che copre il nostro vero Sé - e proiettiva (vikshepa) - distorsione della realtà sostituita da qualcosa di mentale. È a causa di questa maya che i non-conoscitori vengono illusi e percepiscono i molti oggetti invece del Brahman, l'Uno-senza-secondo. La verità è che noi siamo divini (aham brahmasmi = Io sono Brahman)(1), ma ci pensiamo e ci comportiamo come jiva, esseri limitati e finiti. Il jiva non è altri che Brahman (Jivo brahmaiva naparah) afferma Shankara(2).

Pertanto, non è forse prudente, da parte nostra, impegnarci seriamente nella vita spirituale e cercare di raggiungeere la Meta suprema in questa stessa vita? Questo non significa che tutti devono diventare monaci o suore; ciò che veramente occorre è sviluppare il distacco-spassionatezza (vairàgya) verso tutto quello che riguarda il mondo e ricordare sempre che esso è temporaneo e fuggevole.

Solo se sviluppiamo tale attitudine sarà possibile un giuusto rapporto con gli altri nel nostro vivere quotidiano. Si dice che la mente nella sua interezza deve esser donata al Divino, ma perché ciò sia possibile occorre non fare distinzione tra secolare (mondano) e spirituale. Qualcuno potrebbe chiedere: «È possiibile agire in questo modo, per un aspirante che stia nel mondo?». La risposta è sì; cercate di spiritualizzare le vostre relazioni quotidiane; ricordate sempre la verità secondo cui la vita di un aspirante spirituale è una vita di continua meditazione. Che non ci sia intervallo alcuno!

 

Ostacoli lungo la via spirituale

Anche se il richiamo interiore verso la nostra vera patria si è fatto sentire, l'attrazione che proviamo verso gli oggetti dei sensi è tale che simile richiamo rischia di venire sommerso dal rumore e dalla frenetica agitazione del mondo. Ma coloro che persistono nel dare ascolto al richiamo possono intravedere la fugace apparizione di una realtà interna quando, anche solo per un breve istante, riescono ad acquietare il rumore esterno; allora essi non permetteranno più alle attrazioni del mondo di assalire la loro mente distogliendola dalla meta.

Il "visto" non è altro che apparenza o maya, mentre il fine è di conseguire la Meta suprema, la Realtà. Come poter rag-giungerla? Dobbiamo strappare il velo della maya; dobbiamo scoprire Brahman, la realtà sottostante ai mutevoli fenomeni del mondo: un compito facile e difficile allo stesso tempo. Ma quali sono gli ostacoli? Ce ne sono alcuni fondamenntali, uno dei quali è il nostro attaccamento a tutto ciò che non è àtman.

Consideriamo questo nostro corpo. Esso è solo un involucro, un contenitore, ma noi, a causa dell'avidyà (ignoranza), ci identifichiamo totalmente a questo insieme di corpo-mente e non ci dedichiamo a scoprire la realtà che vi dimora. Se l'insieme corpo-mente viene paragonato ad un portagioie, possiamo dire che le gemme che si trovano al suo interno rappresentano la nostra vera natura, l’àtman, o pura Coscienza. Solo quando comprenderemo il valore delle gemme daremo scarsa o nessuna importanza al portagioie. Ogni momento della nostra esistenza è occupato dal pensiero del corpo e solo del corpo; se non cerchiamo di rinunciare al falso attaccamento verso questo corpo-mente, la realizzazione dell' àtman non è possibile.

Un altro modo per superare le attrazioni del mondo esterno è essere al di sopra dell'idea maschio-femmina. Fintanto che siamo confinati nell'ambito corpo-mente emerge il problema del rapporto tra i sessi, ma l'anima è senza sesso. Anche se abbiamo sentito parlare di tale verità, se ne abbiamo parlato noi stessi e l'abbiamo meditata, è molto difficile viverla. Occorre coltivare la spassionatezza (vairàgya) verso le cose mondane, ma perché ciò sia possibile occorre instaurare un cambiamento nel nostro atteggiamento mentale. Essere attaccati al complesso corpo-mente significa rendersi vittime di molteplici desideri e ostacolare il conseguimento della nostra reale natura divina, l’àtman o pura Coscienza.

A volte potrebbe presentarsi il seguente pensiero: «È il mio passato cosi negativo che mi ostacola!». A tale persona le grandi Anime direbbero: «Non rimuginare sul passato, ma dimenticalo del tutto!». È stato detto: «Ogni santo ha avuto un passato e ogni peccatore ha un futuro».

È bene comprendere la sottile distinzione tra l' "io" superiore e l' "io" inferiore. L’ "io" inferiore o ego ci spinge a fare questo e quello, di conseguenza abbiamo molti desideri e questi desideri sono senza fine, contraddittori, e spesso di difficile attuazione. Se veramente vogliamo percorrere il sentiero della perfezione spirituale dobbiamo superare tutti i desideri che da tale sentiero ci allontanano, e abbracciare docilmente una disciplina tramite cui l’ "io" inferiore possa essere integrato da quello superiore.

È assolutamente necessario, per coloro che in questa vita sono interessati alla realizzazione spirituale, cambiare del tutto il proprio modo di agire e di pensare. Se vogliamo la Verità suprema, dobbiamo essere pronti a pagarne il prezzo. Senza dubbio, la realizzazione è un processo lungo e a volte penoso, ma non dovremmo permettere di essere vinti dall'io inferiore.

Se l'appello verso la spiritualità è stato ricevuto, non dovremmo lasciar passare invano questa vita preziosa. Malgrado possano esserci degli alti e bassi nel nostro viaggio spirituale, non sentiamoci scoraggiati e abbattuti. Assumiamo un atteggiamento ottimista e positivo, prepariamoci a pagare qualsiasi prezzo pur di trascendere le limitazioni di questa esistenza materiale e realizzare l'immortalità.

 

Appoggi per la vita spirituale

Vorrei ricordare quanto affermato in un' occasione dal grande Swami Vivekananda, a proposito del ruolo giocato dalla immaginazione nel cammino spirituale: «Immagina di trovarti in una condizione che si accosti sempre più alla perfezione. Cosi potrai avvicinarti sempre più alla perfezione, conseguiresti inoltre una maggiore armonia e la tua luminosità crescerebbe. Ed anche il tuo dinamismo aumenterebbe».

Vediamo ora quale ruolo viene giocato dalla meditazione. Con l'aiuto della meditazione possiamo infondere in noi nuova vita. Ma quando ci si chiede di meditare sull'ideale da noi scelto, dobbiamo ricordare che non ci viene chiesto di meditare sulla forma fisica di un nostro ideale spirituale (ishtadevata), ma sulle qualità divine che vengono attribuite ad esso. La meditazione è davvero difficile e dovremmo comprendere la distinzione tra qualità e quantità.

Spesso nelle nostre preghiere (japa) e in meditazione (dhyàna) la nostra mente si allontana dal seme di meditazione. Quando ciò si verifica, si può provare il lila-cintana (3): immaginiamo di andare nei luoghi associati con il lila divino di una incarnazione della Divinità che forma l'oggetto della nostra devozione. Tutto ciò può avere la sua validità.

Nel mezzo delle molteplici attività del vivere quotidiano occorre essere vigilanti e cercare di continuare a meditare sul nostro ishtadevata, perché altrimenti saremo assorbiti dagli oggetti del mondo empirico. Pertanto, tutti coloro che vogliono seriamente conseguire la Meta suprema in questa stessa vita dovrebbero cercare di ritirare la propria mente da tutti gli oggetti che presentano forma, odore, gusto, tatto e suono.

Sri Ramakrsna ha detto: «Durante la meditazione, si può conseguire un'attenzione tale che si riuscirà a non vedere, non sentire, né si sarà consapevoli del tatto, ecc. In simile stato, un serpente potrebbe strisciare lungo il corpo del meditante senza che questi se ne accorga: nessuno dei due sarà consapevole dell'altro. Nella meditazione profonda gli organi dei sensi smettono di funzionare; la mente non guarda all'esterno, è come chiudere la porta di casa. I cinque oggetti dei sensi: forma, gusto, odore, tatto e suono vengono tutti lasciati fuori».

Come ben sappiamo, i nostri sensi, e con essi la mente (manas), sono rivolti all'esterno in cerca dei rispettivi oggetti. Soltanto coloro che sono intenti a ritirare la propria mente dal mondo esterno praticano il vero raccoglimento interiore (uparati) e possono conseguire la meta. La Kathopanishad dice: «Qualunque saggio, aspirando all'immortalità e divenuto uno che ha rivolto all'interno la visione [che prima era esteriore], vedrà l'intimo àtman»(4).

Che cosa dobbiamo fare se vogliamo conseguire la Meta suprema? Dobbiamo praticare l'introspezione, dobbiamo ritirare la mente dal mondo esterno. Chi può farlo? Solo quei pochi saggi determinati a conseguire l'immortalità. Allora potremmo chiederci: «Se la realizzazione suprema non è per tutti, a che serve studiare i testi del Vedànta e ascoltare i discorsi al riguardo?». La risposta che dovremmo darci è: «Se uno su un milione può conseguire la meta, perché non potrei essere proprio io quell'uno?». Quindi, abbiate fede, abbiate un vigoroso ottimismo.

Davvero desideriamo e vogliamo la salvezza? Davvero vogliamo conseguire la Meta suprema proprio in questa vita? Se questo è il caso, ogni momento della nostra vita deve essere trascorso in raccoglimento, con attenzione e vigilanza; dobbiamo costantemente cercare di aderire a ciò che va sotto il nome di brahmanistha, "essere fermamente stabiliti nel Brahman", avere la costante "consapevolezza del Brahman". Se non riusciamo a far ciò, allora non sarà possibile attuare un sostanziale progresso lungo la via spirituale.

 

Vairàgya o spassionatezza

Si dovrebbe compiere uno sforzo costante per aderire a ciò che è noto come ‘Coscienza brahmanica’ - cioè che noi siamo ‘Brahman’, Esistenza-Conoscenza-Beatitudine assolute. Dovremmo sempre essere consapevoli della pura Coscienza e della nostra inerente natura divina; dobbiamo cercare di vivere costantemente in accordo con il nostro Sé reale. Se non lo faremo, la nostra mente verrà inevitabilmente assalita da ogni tipo di tentazioni e dalle distrazioni del mondo esterno. Dimorare sul piano dell' àtman significa vivere nel proprio Sé interiore.

Un uccello ha bisogno di due ali se vuole librarsi nel cielo; allo stesso modo, se cerchiamo la liberazione, abbiamo bisogno di due cose: distacco-spassionatezza (vairàgya) e comprensione della nostra vera natura (bodhi).

Dobbiamo sempre esser consapevoli del fatto che questa vita è transitoria e di breve durata; un giorno sicuramente moriremo e nessuno verrà con noi, neppure i parenti più vicini e cari. Quando simili pensieri si presentano, si è portati a prendere le cose più seriamente ed a cercare la guida delle Scritture e di un vero maestro che ci fornisca il sentiero di una sàdhana spirituale per conseguire tale meta; sarà quindi vairàgya, insieme alle altre pratiche spirituali, che ci condurrà verso la Meta suprema.

Tutte le cose di questo mondo sono apparenze, non-realtà, e finché non svilupperemo una sincera spassionatezza non riusciremo a conseguire la liberazione-moksha. Il primo prerequisito importante è perciò vairàgya, e tuttavia ciò non è tutto. Facciamo un esempio per illustrare questo punto. Un tavolo ha quattro gambe: si consideri la prima gamba quale viveka (discriminazione), la seconda quale vairàgya (spassionatezza-distacco), la terza quale samadishatkasampatti o l'insieme delle sei virtù (cioè sama, dama, titiksha, uparati, sraddha e samadhàna) e la quarta quale mumukshutvam (anelito alla liberazione)(5). Se le quattro gambe del tavolo non sono perfettamente bilanciate questo può oscillare. La quarta gamba, si è detto, è mumukshutvam e solo quando si ha una potente aspirazione per la liberazione, la propria sadhana diviene operante e prooficua.

Supponete che si voglia innaffiare un campo per coltivarlo. Una semplice annaffiatura non sarà sufficiente. Dobbiamo evitare in tutti i modi qualsiasi tipo di movimento doppio. Ma che cosa significa movimento doppio? Come abbiamo già detto, i nostri sensi sono rivolti verso il mondo esterno e si protendono per afferrare i rispettivi oggetti. Ma ci sono delle persone, persone intelligenti, dotate di discernimento e con gli occhi ben aperti, che comprendoono nelle profondità del proprio cuore che se si lasciano attrarre dalle seduzioni del mondo esterno non saranno poi in grado di conseguire in questa vita la meta desiderata. Esse hanno compreso che i sensi hanno la tendenza a trarci via dal mondo reale interiore per spingerci verso le apparenze esteriori, e così non li assecondano più. Nella nostra ricerca dei banali piaceri effimeri del mondo, dimentichiamo che questo è un mondo di apparenze e che è non-reale. Se permettiamo di esser ingannati dalle attrattive del mondo e vogliamo, allo stesso tempo, procedere lungo il sentiero spirituale, incorriamo in ciò che potrebbe esser definito un "movimento doppio". Se siamo invece determinati a seguire seriamente il sentiero verso la nostra meta finale ed eterna, allora dobbiamo fare la scelta una volta per tutte.

Dobbiamo dare una direzione divina ai nostri desideri. Il mondo esterno, secondo il Vedànta, significa cinque cose: nama, rupa (nome, forma), asti, bhati, priya (esistenza, conoscenza, beatitudine)(6); riuscendo a eliminare nama, rupa (cioè, il nome e la forma) integrandoli, percepiremo l'onnipresenza di Brahman: e cioè, asti, bhati, priya, o esistenza, conoscenza, e beatitudine assolute.

 

Sadhana e japa

Spesso, quando ci sediamo per meditare, ci si presenta tutta una serie di pensieri vari. C'è modo di venirne fuori? C'è un metodo grazie al quale potremo riuscire a infrangere questo muro di ostacoli? C'è un metodo grazie al quale un aspirante può superare tutte le difficoltà che sorgono sul sentiero verso la Meta suprema?

La risposta è affermativa: c'è una tecnica sperimentata che si basa sul japa e consiste nella ripetizione metodica di una formula sacra, un nome - un siddha-japa-mantra - che si riceve dal proprio guru o Maestro spirituale. Tramite il mantra il potere viene trasmesso dal Maestro al discepolo.

Per procedere verso la meta divina dobbiamo avere una divinità propria, o ishtadevata, e un seme di meditazione o siddha-bija-mantra. Il japa diviene efficace quando, insieme alla ripetizione del mantra, ci soffermiamo sul suo significato secondo l'istruzione del Maestro.

La disciplina (sadhana) che si basa sul japa pone l'enfasi sull'aiuto proveniente dai simboli sonori, poiché pensiero e suono sono interrelati. Tale sadhana ha duplice valore, uno esoterico, l'altro essoterico. Grazie alla semplice vibrazione di un dato suono (mantra) si verifica un senso di risveglio spirituale, si apre per noi un nuovo campo di consapevolezza; esso genera una facoltà (shakti) che unifica tutte le energie presenti in noi in un unico fascio di energia. Le nostre energie vengono dissipate in molteplici direzioni: la sadhana-japa assorbe tutte queste energie e le unifica. In tal modo un aspirante riuscirà a svegliare il potere della kundalini che giace in noi allo stato latente.

Si deve essere in questo stato di preghiera sempre e ovunque. Ma è praticabile essere sempre in tale disposizione? Trascorrere tutto il tempo nella sola orazione sembra alquanto impraticabile, ma se si vuole conseguire l'illuminazione spirituale si deve pregare ininterrottamente. Non c'è dubbio che altri pensieri occuperanno la nostra mente distraendoci e impedendoci quindi di essere sempre raccolti in preghiera; il rimedio consiste nell'esercitare la nostra forza di volontà e riportarci alla condizione di orazione malgrado possano esserci altri pensieri.

Orazione incessante non significa che dobbiamo continuamente ripetere il nome del Signore a voce alta, ma vuol dire che dobbiamo essere consapevoli di vivere costantemente alla sua presenza. Dobbiamo anche assicurarci di non fare o dire o pensare qualunque cosa che possa allontanarci da lui. La cosa importante da notare, mentre impariamo l'arte della preghiera incessante, è che possiamo riuscirci solo se amiamo il Signore, e forse non lo amiamo veramente. Noi siamo in preghiera solo per un'ora o giù di lì, la mattina o il pomeriggio. Swami Yatisvaranandaji, un venerato monaco del nostro Ordine, soleva dire che siamo dei religiosi solo per mezz'ora la mattina e mezz'ora il pomeriggio, ma ciò non costituisce una vera vita spirituale. Pertanto, dobbiamo rivolgerci in preghiera al Signore onnipresente senza soluzione di continuità. Ciò implica una vigilanza e una presenza a se stessi che non conosce soste; l'azione stessa verrà così compiuta alla vivente presenza dell' àtman.

 

Controllare le tendenze-vasana

La società in cui viviamo e il nostro ambiente sono pieni di svariati tipi di influenze nocive e mondane a cui non possiamo sfuggire. Se non le neutralizziamo, se non ci diamo da fare per sbarazzarci delle influenze che ostacolano il nostro progresso spirituale, non riusciremo a realizzare in questa vita la sublime meta dell'esistenza. Shankaracarya fa notare che il modo per neutralizzare le influenze mondane consiste nel considerare ogni cosa, in ogni circostanza, ovunque, sempre, e in ogni modo, come il Brahman e solo Brahman(7)•

I desideri rappresentano ostacoli formidabili sul nostro cammino verso la Meta suprema; i desideri, o vasana, vengono stimolati da due fattori: pensieri interni e azioni esterne. Inizialmente c'è un desiderio mentale: voglio possedere questo, voglio usufruire di questo o di quell'altro oggetto. Il pensiero si presenta alla mente, e ciò che inizia come pensiero gradatamente precipita in azione; pertanto il desiderio è nella mente, l'azione all'esterno.

A causa di questi due movimenti - il continuo dimorare sugli oggetti dei sensi e poi l'agire, spinti da questi ultimi, siamo invasi da un numero sempre crescente di vasana. A volte è stato osservato che, anche se per un qualche motivo teniamo a freno alcune gratificazioni dei sensi, continuiamo tuttavia a soffermarci su tali oggetti sensibili. Facendo così, le nostre imposizioni non sono altro che semplici finzioni e invece di risolvere il problema lo aggravano.

Allora che cosa dovremo fare? Dovremo sviluppare la consapevolezza, l'attenzione, la vigilanza. Nel nostro viaggio verso la grande meta, se accordiamo spazio all'estroversione incontrollata rischiamo di cadere, perché interviene subito l' ego e di nuovo gli oggetti dei sensi ci si affollano intorno per reclamare attenzione. Così, altre terribili vasana si imprimono nella sostanza mentale e saremo soggetti a nuove e reiterate cadute. La nostra sadhana allora diviene pura perdita di tempo ed energia per cui è imperativo coltivare l'attenzione e la vigilanza.

Viviamo una vita identificati a ciò che è mera apparenza; fondamentalmente e intrinsecamente siamo l'Atman, siamo sat-cit-ananda, ma abbiamo dimenticato il nostro divino lignaggio. Siamo consapevoli solo della nostra eredità biologica e viviamo un'esistenza psicofisica, sul piano della non-realtà. Continuiamo a indulgere in diversi tipi di tendenze egoiche (vasana-asat) che dominano la nostra mente. Tali tendenze devono essere rimosse tramite i desideri puri (vasana-sat). Dobbiamo assicurarci di non indulgere o lasciarci attrarre da alcun tipo di pensiero erroneo ed egoico e non demordere mai. La perseveranza si impone: dobbiamo continuare ad estirpare le erbacce e allo stesso tempo fare in modo che venga ridotta l'eredità del passato con tutte le sue cattive impressioni. Insieme allo sforzo di ridurre le impressioni negative del passato dovremo anche coltivare degli atteggiamenti positivi. Una volta che il prato è sgombro dalle erbacce dovremo piantare al loro posto dei fiori e alberi da frutto. Allo stesso modo, mentre eliminiamo tutti i pensieri di natura egoica dobbiamo, contemporaneamente, coltivare delle virtù positive.

 

Come annientare il senso dell'io (ahamkàra)?

Tutte le grandi anime che hanno realizzato Dio ci fanno ripetutamente notare che bisogna rinunciare al "senso dell'io" (ahamkàra), che nasce dalla mente proiettante e immaginativa (manas) in cui si riflette la luce del nostro intelletto (buddhi). In realtà, tutti i nostri problemi possono esser fatti risalire all'ahamkàra. Finché continueremo a pensarci in termini di "io", non sarà minimamente possibile neppure parlare di liberazione. Continuando a vivere sul piano egoico, saremo soggetti a un'innumerevole varietà di agitazioni mentali circa noi stessi, la nostra famiglia, ricchezza, erudizione, ecc. Una volta superato il "senso dell'io", la molteplicità - la quale non è altro che la somma delle sovrapposizioni (upàdhi) proiettate sulla Realtà dalla mente immaginativa - scomparirà e così realizzeremo il Sé supremo.

L'ahamkàra viene qui definito duràtma, il malvagio. Qual è di solito il nostro atteggiamento? Pensiamo di essere colui che agisce (karta) o colui che fa esperienza (bhokta). Questi atteggiamenti devono essere superati perché non sono altro che modalità espressive dell'io o ahamkàra. Che cosa succede quando siamo identificati all'ahamkàra? Ci pensiamo in termini di intelletto, mente e corpo, con tutti i relativi organi sensoriali. Di conseguenza, ci autolimitiamo e tramite l'ignoranza-avidyà, sovrapponiamo a noi stessi, in quanto àtman, piaceri e dolori che sono causa di sofferenza. Superate tali limitazioni possiamo realizzare in questa stessa vita la nostra vera natura eternamente pura, intelligente, illimitata e di assoluta beatitudine.

Se siamo intenzionati a realizzare la meta finale dobbiamo ricorrere ai vari mezzi e supporti, alcuni dei quali sono già stati esaminati. Ciò di cui ci stiamo occupando ora riguarda il superamento del senso dell'io. È stato affermato che l'assenza di ego conduce alla realizzazione, ma dovremmo sempre ricordare che questo ‘senso-dell’io’ (l'ahamkàra) è un nemico formidabile. Se non riusciamo a neutralizzalo, in quanto «simile a una spina nella gola di un commensale»(8), non potremo conseguire la meta a cui aspiriamo.

Come possiamo superare il senso dell'io e poter così godere della beatitudine del Sé? Come la spina viene estratta tramite delle pinzette affinché si possa godere del cibo, allo stesso modo, con l'aiuto della conoscenza-jnana e con la spada della discriminazione-viveka, dobbiamo eliminare il senso dell' io e svelare la felicità del regno dell' àtman.

E ora eccoci ad un punto importante. Supponiamo che, tramite la disciplina spirituale e la grazia di Dio, si riesca ad attenuare il "senso dell'io", causa delle modificaazioni mentali come: io sono l'agente, questo è mio, io sono fatto così e così, ecc. Qui occorre la massima attenzione perché l'io può in qualche modo riprendere vitalità. È quanto afferma Shankara: «[Sappi comunque che] questo terribile io, per quanto tu lo creda sradicato, può riapparire anche per un istante nella tua mente, provocando centinaia di calamità, pari alle nuvole minacciose che si agitano nella stagione delle piogge» (Vivekacudamani, 309).

Che cosa succede quando si continua a pensare agli oggetti dei sensi? Si crea un attaccamento, dall'attaccamento sorge il desiderio che, se non viene soddisfatto, dà luogo all'ira, dall'ira ha origine la credenza erronea e questa porta alla perdita di memoria che va a incidere sulla capacità discriminante e quindi si soccombe(9)• In uno dei versi del Vivekacudamani  si sostiene che solo armati con la spada della discriminazione (viveka) possiamo attraversare l'oceano che rapppresenta la condizione terrena: pertanto, se perdiamo la discriminazione, non c'è speranza alcuna di salvezza (10).

Un altro punto importante: gli oggetti dei sensi producono delle impressioni nella nostra mente. Dobbiamo comunque muoverci in questo mondo, non possiamo tenere gli occhi chiusi, né menomare gli altri organi, per cui è inevitabile che ci colpiranno impressioni sensoriali relative a oggetti di vario tipo. Tutto ciò rientra nella normalità; il problema sorge solo quando iniziamo a stabilire un rapporto e intrattenere desideri su tali oggetti (attaccamento). Pertanto, se queste impressioni affolleranno la nostra mente, non dovremo permetter loro di sopraffarci. Allora qual è il rimedio? Per non sbagliare dovremo respingere la tendenza della mente a soffermarsi sugli oggetti piacevoli, radice di ogni calamità.

Vorrei ora proporvi una grande ricetta. Riprendiamo la domanda: perché inseguiamo i piaceri sensoriali? A tale domanda possiamo rispondere: a causa dell'identificazione con il corpo. Colui che si identifica con il corpo naturalmente è avido di piaceri sensoriali di ogni tipo, ma colui che è privo di tale identificazione non si curerà di inseguire tali piaceri.

Quanto segue è una sottile verità filosofica. ‘Kàma’ signiifica desiderio. Chi è un kam? Qualcuno che ha desideri, una persona che vive costantemente immerso nella convinzione di essere il corpo. Fintanto che perdura il senso "io-sono-il-corpo" ci sarà anche la richiesta di gratificazioni sensoriali e, è bene essere franchi, si sarà disinvoltamente gaudenti. Tale persona penserà a se stessa solo come corpo, e a proposito di ciò Swamiji ha detto che occorre finirla con questa erronea identificazione, e che lo spirito, attualmente percepito come corpo, deve essere compreso in quanto spirito.

Nel momento in cui ci si comprende come spirito si è liberati, certamente una grande consolazione per tutti noi. Per la realizzazione della Verità suprema non abbiamo necessariamente bisogno di aspettare anni ed anni o addirittura un'altra nascita. Alcuni filosofi parlano di ciò che può esser definito "la realizzazione post-mortem"(11). Non è questo il problema; a noi interessa sapere se la liberazione è possibile in questa stessa vita e proprio in questo corpo. Sri Ramakrishna, della cui illuminazione spirituale tutto il genere umano ha beneficiato, Swami Vivekananda, e altre grandi anime, ci assicurano che è possibile, purché vengano ricercati e impiegati gli idonei giusti mezzi. (continua…)

 

NOTE:

1) Cfr. Brihadaranyaka Upanishad, con il Commento di Shankara, 1.4.10. Traduzione dal sanscrito e note a cura del gruppo Kevala. Edizioni Ashram Vidya, Roma.

2) Cfr. ShanIkara, ‘Il canto della conoscenza del Brahman’ (Brahmajnanavali), 18, in "Opere Minori" vol.III. Edizioni Ashram Vidya.

3) Lett. riflessione sul "gioco" divino. In India sono famosi i lila di Krishna con le pastorelle a Vrindàvan, la sacra foresta dove Egli nacque; la loro simbologia richiama il gioco divino dell'anima con il suo Signore. Cfr. Glossario Sanscrito. Edizioni Ashram Vidya.

4 Cfr. Katha Upanishad con il commento di Shankara 2:1.1. Traduzione dal sanscrito e note a cura del gruppo Kevala. Edizioni Ashram Vidyà.

5 Cfr. Shankara, Vivekacudamani. 18-30. Traduzione dal sanscrito e commento di Raphael. Edizioni Ashram Vidya.

6) Sono sinonimi di sat, cit, ananda.

7) Cfr. Shankara. Vivekacudamani, 315-16. Anche 236. Op. citata.

8) Cfr. Shankara. Vivekacudamani, 307. Op. cit.

9) Cfr. Bhagavadgita, II, 62-63. Traduzione dal sanscrito e commento di Raphael. Edizioni Ashram Vidyà.

10) Cfr. Shankara, Vivekacudamani, 80. Anche 147, 307. Op. cit.

11) In altri termini, videhamukti (liberazione al momento della morte), o kramamukti (liberazione differita o per gradi).