Hoseki Schinichi Hisamatsu:

La pienezza del nulla

(Sull'essenza del buddhismo Zen)

Titolo originale ‘Die Fulle des Nichts’ Trad. di Carlo Angelino-

Hoseki Scinichi Hisamatsu: LA PIENEZZA DEL NULLA -

Gli ideogrammi cinesi che si trovano nel­l'illustrazione a forma di rotolo di questa pagina, sono

eser­cizi calligrafici dell'autore che è maestro dell'arte dello scrivere e dello stile elevato e difficile adottato

in tale occa­sione, stile che presuppone una straordina-ria concentrazione di pensiero. L'ideogramma

della copertina, il cui originale è di proprie­tà del Prof. Koichi Tsujimura - in cinese viene pronunciato:

Wu; in giapponese: Mu; e significa "Nulla".-

I due minuscoli ideo-grammi alla sua sinistra sono il monogram­ma del maestro Hisamatsu, che ha firmato col suo nome da monaco: "Hoseki". Il testo del rotolo va letto dall'alto verso il basso e da destra verso sinistra e significa nella traduzione del professore Koichi Tsu­jimura: "tutte le passioni e i desideri mondani sono scomparsi e contemporaneamente si è anche svuotato completamente il senso della santità". Si tratta della frase iniziale dell'ottava figura della celebre serie del ‘Bue e del Mandriano’ "Zehn-Ochsen-Bilder" (Der Ochs und sein Hirte, Neske, PfuIlingen,1958, pag. 41).

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PREFAZIONE: «Nel buddhismo si ricorre sovente alla metafo­ra dell'onda. Un'onda non cade nell'acqua dal­l'esterno, ma proviene direttamente dall'acqua senza separar­sene; scompare e torna all'acqua da cui ha trat­to origine e nell'acqua non lascia  la minima trac­cia di sé. Come onda, essa si solleva dall'acqua e torna all'acqua; come acqua, essa è il suo stesso movi­mento. L'acqua forma con l'onda un'unità e tuttavia l'acqua non sorge e non tra­monta col sorgere e tramontare dell'onda. L'on­da che sorge e va, intesa come soggetto, è simile al sé quotidiano dell'uomo. Il fatto che questo soggetto ritorni sempre di nuovo dall'onda all'acqua è l'essenza del Nulla Zen».

L'AUTORE- Shinichi Hisamatsu, nato nel 1889 nel villaggio di Nagara nella prefet­tura di Gifi - Giappone centrale - proviene da una antica famiglia buddhista ortodossa della setta Jòdo-Shin-shù, "la vera setta del puro paese". Per queste ragioni, dopo le scuole medie, ha frequentato anche l'acca­demia buddhista di questa setta. Ma, in relazione allo straordinario svi­luppo della scienza, frequentò il terzo ginnasio a Kyoto e dal 1912 l'università imperiale della stessa cit­tà in cui insegnavano filosofi rinomati come Kitarò Nishida.

Fin dalla giovinezza si era applicato alla dottrina del buddhismo-Zen. Profonda-mente deluso dalla filosofia delle università e disperando del sen­so stesso della propria vita, decise di entrare in un monastero Zen per essere iniziato alla vita Zen. Nel 1915, terminato il suo corso di studi su­periori, su consiglio del suo maestro Nishida, si affidò al maestro Zen Shozan Ikegami nel monastero di Myòshin-ji - della setta Zen-buddhista Rinzai - monastero che si trova nella stessa città di Kyòto. Dopo un esercizio di tre giorni ottenne il Satori, il grande risveglio.

Nel 1928 iniziò la sua attività di insegnante nell'accademia buddhista della setta Rinzai, l'attuale Università Hanazono, e nell'Università di Ryiìko­ku, accademia buddhistica della setta Jòdo-Shin. Dal 1932 insegnò presso la facoltà filosofica della Università imperiale di Kyòto, nel 1937 venne nominato professore straordinario e qui dal '43 al '49 tenne la cattedra di buddhismo e filosofia della religione. A differenza di molti suoi colle­ghi condusse una vita tranquilla e senza clamori. Quando nel 1944 cominciò a farsi evidente la sconfitta del Giappone nella se­conda guerra mondiale, su iniziativa del prof. Hisamatsu fu fondato un "semina-rio per chi studia la via" a cui egli si de­dicò con tutto il suo impegno. Nel 1957/58 compì viaggi in America e in Europa, tenne lezioni all'Università di Harward e conobbe in storici incontri Paul Tillich, Martin Buber, Gabriel Marcel, Rudolf Bultmann, Cari Gustav Jung e Martin Heidegger. Nello stesso anno (1958) il semi­nario da lui fondato venne trasformato nel F.A.S. Zen Institut, sigla che sta per "Se stesso senza forma-umanità tutta-storia metastorica". Grazie ai suoi studi fondamentali di filosofia della religione sul con­cetto di "Nulla dell'oriente asiatico" o "Nulla Zen" e sul "sentiero del soggetto assoluto", egli divenne un riformatore del buddhismo Zen in Giap­pone. Questo trattato è il nucleo essenziale dei suoi scritti.

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Ciò che qui intendo con l'espressione: "Nulla dell'Asia orien­tale" o "Nulla del buddhismo-Zen", è il nulla caratteristico del mondo del lontano Oriente. Questo nulla è ciò che differenzia in modo essenziale la cultura dell'Asia orientale da quella dell'Occi­dente. È il cuore del buddhismo e il nucleo essenziale dello Zen. È anche il destarsi in me della verità (Satori) in cui hanno le loro radici la mia vita religiosa e il mio pensiero filosofico. Anche se a più riprese ho cercato di parlare di tale nulla, le mie asserzioni fino ad oggi, fino a questo scritto, sono rimaste allo stato di fram­menti. Perciò vorrei tentare ora, in modo del tutto nuovo, di chia­rire - ripartendo da zero e in forma sistematica - il Nulla del buddhismo-Zen nella sua vivente pienezza, dicendo e ciò che non è, e ciò che propriamente è.

AI fine di evitare ogni possibile confusione con altre concezioni del Nulla, quest'ultimo va innanzitutto analizzato e circoscritto co­me concetto. Non si può evitare che il Nulla in ogni caso cosi costretto e im­prigionato entro un linguaggio concettuale perda la sua verità e vitalità effettiva e si riduca alla propria nuda ombra. È una ne­cessità ineludibile cui è esposta ogni chiarificazione concettuale del nulla. Ciononostante non sono mancati sin dai tempi più remoti tentativi di presentare il nulla con gli strumenti del linguaggio con­cettuale. E ciò per un verso va ascritto anzitutto al bisogno uma­no di una concezione astratta e quindi all'interesse scientifico, per l'altro scaturisce dalla esigenza religiosa di aiutare coloro che cer­cano la verità; coloro che vogliono sperimentare immediatamente e toccare il "nulla" in se stesso, indicando loro uno scopo infalli­bile o una visione che li guidi.

Mentre la maggioranza dei filosofi di oggi si occupa del nulla per farne un aspetto delle loro trattazioni, mossi da un interesse scientifico, i maestri Zen da sempre sono mossi in modo esclusivo dal bisogno di aiutare coloro che cercano la verità in mari neb­biosi. Per dare loro un criterio sicuro e certo come una bussola, si sfor-zano di distinguere questo "Nulla", che, nella sua vera es­senza, si sottrae ad ogni possibilità di distinzione, e di renderlo così accessibile all'intelletto.

Vi è perciò una grande differenza fra chi si occupa del Nulla nel contesto di una ricerca scientifica e il maestro Zen, tanto in relazione alla sfera dei loro interessi quanto in relazione ai fini delle loro presentazioni concettuali e scientifiche, differenza che non può essere ignorata.  Ma poiché questo Nulla in sé impensabile deve venir qui tratta­to in forma concettuale e scientifica, una certa esattezza nell'arte della distinzione va indubbiamente auspicata e perseguita. Del re­sto, nato dalla necessità di aiutare coloro che cercano, questo la­voro non potrebbe neppure raggiungere il suo scopo religioso, senza una qualche precisione concettuale.

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1) L'INTERPRETAZIONE NEGATIVA DEL NULLA DEL buddhiSMO-ZEN

È innanzitutto importante chiarire che cosa il Nulla del buddhismo-Zen non è. Infatti abitualmente con la parola nulla si intendono cose molto diverse e di molteplici significati. Per ren­dere accessibile il Nulla del buddhismo-Zen è perciò necessario dif­ferenziarlo ponendolo a confronto con altri modi di intendere il nulla. Potrei perciò iniziare la mia trattazione con una considera­zione introduttiva dei diversi aspetti del nulla e indicare le cinque differenziazioni che seguono:

 

1. Il Nulla, come negazione della mera presenza.

Si tratta del nulla quale è inteso e compreso in asserzioni come: "il tavolo non c'è" o "la gioia non esiste"; perciò della negazio­ne di un ente o materiale o spirituale. Tale nulla nega in due sen­si: tanto l'esser-presente di un ente individuale come nei casi indicati, quanto l'esser-presente di un qualsiasi ente in assoluto, come "non vi è nulla" o "ogni cosa non è (presente)".

 

2. Il Nulla come negazione dell'asserzione, del giudizio.

Si tratta in questo caso di constatazioni e affermazioni quali: "un tavolo non è una seggiola" o "la gioia non è tristezza". Ciò che viene negato è l'asserzione intorno a una cosa. Non si tratta come nel primo caso della negazione del tavolo in quanto tale, ma della negazione del predicato che gli viene attribuito. Il nulla entra qui in gioco nel significato di "questo non è quello". Anche qui vi è una doppia nega-zione, nel caso speciale di giudizi riferiti a un sin­golo soggetto come nell'asser-zione: "il tavolo non è una seggio­la"; e contemporaneamente nel caso del tutto generale di giudizi in cui il soggetto della frase è indeterminato come: "ciò non è qual­cosa d'altro" o "ciò non è nulla".

In questi due ultimi casi di negazione totale si possono di nuovo distinguere due modi: la negazione che suona totale, ma non esclu­de un giudizio, come "questo tavolo non è qualunque altro", e la negazione che nega totalmente senza limita-zioni e perciò non consente nessuna affermazione. Poiché nell'affermazione: "la ve­rità assoluta non è qualcosa", si esprime non soltanto la negazio­ne totale che la verità assoluta non sia qualcosa, si afferma anche che essa non autorizza nessun giudizio su di sé.

 

3. Il Nulla come idea.

Questo nulla non afferma che "qualcosa di determinato non è (pre­sente)", o che "siffatto qualcosa non è questo o quello", ma in­dica il non-essere-presente in generale in opposizione all'essere-presente o il Nulla in opposizione all'Essere in generale. Si tratta del nulla come idea logica del pensiero astraente che può essere così rappresentata: "il Nulla non è l'Essere" o "dal Nulla non proviene nessun essere".

 

4. Il Nulla come prodotto della immaginazione.

In questo caso posso immaginare che qualcosa non sia anche se la sua realtà è innegabile; posso persino immaginare di essere morto e non essere più in vita, anche se hic et nunc vivo senza alcuna possibilità di dubbio. Tale è il nulla immaginato. Con un siffatto nulla l'immaginazione può riferirsi tanto a una determi-nata co­sa o persona, come nel giudizio "questo tavolo non è" o "io non sono", quanto anche a tutto ciò che è, come nella proposizione: "tutto ciò che è, non è".

 

5. Il Nulla come assenza di coscienza.

Si può dire che per un uomo che giace in un sonno profondo, è prigioniero di una sorta di totale impotenza o è morto, determi­nate cose non sono, o tutte le cose non sono; anche nella veglia vi è la possibilità di questa assenza di coscienza. Esiste perciò tut­ta una serie di fenomeni che possono caratterizzarsi con la parola nulla, ma che sono essenzialmente e univocamente distinti dal Nulla del buddhi-smo-Zen.

 

Il Nulla non si identifica con il nulla citato nel primo caso come negazione dell'esser-presente, in quanto non nega né l'esser pre­sente di un singolo ente né dell'ente in generale. In realtà nessuno vorrà credere che il nulla che si esprime nella asserzione: "il tavo­lo non c'è" o "la gioia non è" rappresenti il Nulla specifico del buddhismo-Zen. Ciò nonostante il Nulla zen viene qualche volta frainteso come la negazione della presenza di tutta la realtà, tanto più se riferito a espressioni quali "in tutti i tre mondi non vi è nessun essere (Dharma)" o "tutto ciò che è, è vuoto" o "nessuna cosa è pre­sente". Non a torto si possono in questi casi avvalorare tali false inter-pretazioni, in quanto espressioni come quelle citate, se prese alla lettera, signifi-cano la negazione della presenza di tutto ciò che è. Ma siffatte espressioni affer-mano solo che nel Nulla dello Zen, o altrimenti detto nel destarsi della verità, non vi è nulla che pos­sa venir affermato come ‘essente’. Tuttavia non si deve sulla base di tale indeterminata definizione dedurne la conclusione erronea che il Nulla dello Zen significhi in assoluto la negazione dell'esser­-presente. Si deve stare bene in guardia dal fare proprio questo fraintendimento totale che nel mondo del lontano Oriente è stato rifiutato da tempi remotissimi come "nichilistico" o come l'erro­nea visione del "nulla nientificante" o del "nulla ostinatamente oggettivato".

Il sesto Patriarca del buddhismo Zen, Hui-neng, nel secondo ca­pitolo, "Saggezza", della sua raccolta di domande e risposte, il T'an-­ching, afferma: "Il cuore è tanto ampio e tanto grande come il vuoto spazio celeste. È senza confini e senza orli, non è rotondo, né quadrato, né grande né piccolo, non è né verde, né giallo, ros­so o bianco, non ha né un sotto né un sopra, non è lungo né cor­to. Non conosce gioia né dolore, non dice né si né no, non possiede né il bene né il male, né l'inizio né la fine. O discepoli che ascoltate le mie prediche sul vuoto non appog­­giatevi al vuoto, non cercate in esso un sostegno". Anche nella raccolta di prediche di Huang-po, "Ch'uan-hsin fa-yao", è scrit­to: "La vera essenza reale è uguale allo spazio vuoto del cielo; è senza forma e figura, senza direzione e senza luogo; tuttavia non è un non-essere".

Il Nulla dello Zen non è neppure identico con il nulla proprio della negazione del giudizio, come al secondo punto. Nessuno considererà il nulla che si esprime nella proposizione "il tavolo non è una seggiola" come il Nulla del buddhismo-Zen; ma forse un modo di esprimersi generalizzante come: "ciò non è né questo né quello" o "ciò non è qualcosa d'altro" potrebbe far pensare che in questi casi si tratti del Nulla dello Zen. L'asser­zione "ciò non è qualcos’altro" può essere riferita ad ogni sog­getto come per esempio accade nella frase: "questo tavolo non è qual-cos’altro" o nella frase "quella sedia non è qualcosa di altro". Poiché il soggetto stesso, questo tavolo e quella sedia, è già qualcosa di ben determinato, l'asserzione "non è qualcosa di altro" significa soltanto che "ciò non è qualcosa di altro; esso è se stesso", e non esclude la possibilità di una asserzione. Infatti un giudizio su qualcosa di ben determinato o delimitato deve in ogni caso essere possibile. Applicato ad una definizione del con­cetto di "Dio", significa tuttavia che Dio non è qualcosa d'altro - e ciò significa non solo che "Dio non è qualcosa di diverso da Dio, Dio è Dio", ma anche "Dio esclude ogni asserzione su di sé". Che Dio non sia qualcosa di altro, non può venir compreso come un'espressione negativa di una mera identità tautologica nel senso della proposizione "il tavolo non è qualcosa d'altro", ma ha unicamente e soltanto un significato: il concetto di Dio esclude ogni definizione. Anche nel Cristianesimo si afferma: "Dio non è qualcosa di altro", "Dio non è qualsiasi cosa", "Dio è nulla" e ciò va compreso nel senso cui sopra si è accennato. Se il giudi­zio cade su qualcosa di relativamente determinato e finito, come nell'esempio del tavolo: "ciò non è qualcosa d'altro", allora si ha solo una tautologia, vale a dire: "questo tavolo è nient'altro che questo tavolo", e tale tautologia, intesa come giudizio, è di infimo valore. AI contrario il giudizio: "Dio non è qualsiasi co­sa", se compreso come giudizio su Dio che esclu-de ogni defini­zione, deve venir inteso come il supremo di tutti i possibili giudizi su Dio.

Nel Ch'i-hsin-Iun, un commento buddhistico, è scritto: "L'essenza della verità non ha una forma, né è priva di forma, né è senza forma né senza assenza di forma, né ha, né non ha for­ma contemporaneamente, né ha una forma uguale né una forma diversa, né infine ha una forma uguale e una diversa insieme".

Questa proposizione afferma: "la verità assoluta non è in ulti­ma analisi qualcosa di altro e diverso, ma propriamente è Nulla". Questo nulla è fondamentalmente e nient'altro che quel nulla che nella terminologia cristiana si esprime nell'afferma-zione "Dio è nulla". Nel buddhismo il concetto di nulla, nel significato di cui sopra si è detto, viene spesso usato per definire la natura del Buddha, della verità assoluta o del Nirvana. Ma questo nulla è in sé pur sempre il nulla come negazione del giudizio e non il Nulla dello Zen. Poiché il Nulla del buddhismo-Zen esclude ogni asserzione e determinazione concettuale su di sé, si può anche dire di esso: "il Nulla dello Zen non è qualcosa" o altrimenti: "il Nulla del­lo Zen è Nulla". Tuttavia in questa proposizione non vi è lo stes­so nulla presente nella negazione dell'as-serzione. Se identità si pone, non vi sarebbe nessun motivo di nominare in modo proprio e appropriato il Nulla-Zen.

Il Nulla del buddhismo-Zen non è neppure una mera idea come al terzo punto. Il nulla come idea non significa né il nulla nel sen­so del non-esserci, né il nulla come negazione dell'asserzione, ma il nulla in generale. Allo stesso modo l'essere come idea non è né una semplice presenza, né un'asserzione su una semplice presen­za, ma è l'Essere in "né. Il nulla, com'è inteso nell'espressione "essere e non-essere" o in quella "l'essere non è non-essere, il non-essere non è essere" né è un non-essere presente, né esprime un giudizio negativo su qualcosa, ma mani-festa il non-essere in quanto tale, il nulla come idea.

Ma siffatto non-essere si contrappone necessariamente all'esse­re. Essere non è non-essere, non-essere non è essere. Non si può nello stesso tempo essere e non-essere qualcosa. Il non-essere o nulla, così definito è - al pari dell'essere - una delle categorie logiche indispensabili per la conoscenza delle cose o per un giudi­zio su di esse; e grazie a tali categorie a priori diviene determina­bile l'essere o non essere di una cosa concreta. A siffatto nulla come idea va ascritto il nulla dello spazio vuoto che Parmenide ha escluso in opposizione all'essere che colma di sé quello spazio o il nulla hegeliano che nell'unità con l'essere rende possibile il divenire. Ma anche in questo caso il Nulla dello Zen non viene ancora colto; infatti non è un nulla come forma a priori, né un nulla inteso come alcunché che viene determinato negativamente da qualcosa di diverso. Il Nulla dello Zen non è quell'aspetto del nulla che nell'espressione "essere e non-essere" si pone di contro all'essere, ma esclude del tutto una definizione che ricorre allo sche­ma essere o non essere. La cosa può venir espressa anche in questi termini: "la verità non appartiene né all'essere né al non-essere".

Nel 21°capitolo del Nirvana-Sutra (in cinese: Niech-pan-ching) è scritto: "La natura del Buddha non è né essere né non-essere". Anche nella seconda parte del Pai-lun si legge: "Tutto - essere come non-essere - è nulla. Perciò ogni dot­trina buddhistica (Dharma) insegna che nella nostra vera essenza, tutto - essere come non-essere - è nulla". Anche nel Chao-Iun, raccolta di trattati cinesi sul buddhismo del V° secolo, ci si richiama a nient'altro che al "nulla assoluto" che si trova al di là di essere e non-essere.

Il Nulla dello Zen non è neppure il nulla immaginato di cui si è detto al quarto punto. Noi siamo in grado di immaginare che il tavolo che si sta di fronte hic et nunc, non ci sia. Se sciolgo le briglie della mia immaginazione posso far sparire il tavolo nel mio pensiero, anche se effettivamente si trova davanti ai miei occhi. Se ci si può perciò suggestionare nella rappresentazione che qual­cosa c'è, allora è anche possibile che l'occhio possa vedere ciò che in realtà non c'è; e inversa-mente, se si può immaginare che qual­cosa non sia, può accadere che si dilegui dal nostro sguardo ciò che effettivamente esiste. A qualcuno appare infine che tutte le cose come tavoli, seggiole, pavimento, casa, terra, cielo, anima e corpo, che purtuttavia sono realta, non ci siano. Così si può spe­rimentare effettivamente nell'immaginazione una sorta di vuoto. Una cosa analoga accade quando nel corso di una concentrazione sull'immagine del Buddha, cioè quando si indirizza la propria at­tenzione, con tutta la forza che si possiede, sulla figura di Buddha, alla fine accade che si vede il Buddha, davanti a noi cogli occhi ben aperti.

Anche in questa visione del Buddha si può sperimentare qualco­sa di affine al vuoto; si tratta tuttavia di un vuoto visto solo este­riormente. Parallelamente ai concetti "la visione del Buddha", o "l'adorazione del Buddha", si potrebbe anche parlare di visione e adorazione del nulla. Ma anche siffatto nulla esteriormente scorto e percepito resta a noi remoto dal Nulla del buddhismo-Zen, in quanto non si tratterebbe di niente altro che di un oggetto risulta­to di una finzione soggettiva. Dal punto di vista del Nulla del buddhismo-Zen il vuoto così esteriormente visto e percepito è tan­to poco il vero vuoto quanto il Buddha scorto nell'immaginazione è il vero Buddha.

Il Nulla dello Zen non è un oggetto visto in virtù di un atteggia­mento passivo, ma è piuttosto il cuore stesso che vede. Tuttavia ciò non si esaurisce neppure in un mero attivo vedere, ma piuttosto il soggetto del nulla è attivo e passivo insieme e iden­tico con l'oggetto.

Nel Ch'uan-hsin fa-yao di Huang-po sta scritto: "L'uomo comune si aggrappa all'oggetto, colui che cerca pre­dilige il cuore. Chi ha dimenticato entrambi - cuore e oggetto - a questi si manifesta la verità assoluta".

Anche Lin-chi dice: "In tale situazione si percepisce il fondamento originario della

verità assoluta".

Alla domanda di un monaco: "Dimmi come posso vedere la natura del Buddha?", Ta-chu rispose: "Il vedere stesso è la natura del Buddha".

Se "cuore" e "vedere'' vengono separati l'uno dall'altro e per­ciò diventano un oggetto, non sono più né il vero cuore, né il ve­ro oggetto.

Si dovrebbe perciò dire come P'ang Kung: "Si badi solo a libe­rarsi delle cose e a non considerare il nulla come una sostanza".

Il Nulla dello Zen non è neppure il nulla sperimentato nell'as­senza di coscienza di cui al quinto punto. Le condizioni del son­no, dello svenimento e della morte non sono in sé la stessa cosa, tuttavia si equivalgono se riferite all'assenza di coscien-za. Per noi in tali condizioni tutto è come dissolto, non solo le cose del­la natura, anche il nostro corpo e la nostra anima sembrano non esser più presenti. Una condizione siffatta potrebbe chiamarsi la condizione del nulla. Ma questa condi-zione scaturisce solo dal fatto che è venuta meno la nostra coscienza e noi non siamo più in condizione di conoscere. Anche il nulla è allora assente dalla nostra coscienza. Sotto questo aspetto vi è una differenza rispetto al nulla immaginato al quarto punto. Nel nulla prodotto dalla facoltà dell'immaginazione la coscienza viene attivata ai fini pro­pri della fantasia, e il nulla sta di fronte come oggetto. Ma nel caso del nulla proprio dell'assenza di coscienza, il nulla non può in nessun caso diventare oggetto, poiché la coscienza non è atti­va. Orbene, il Nulla del buddhismo-Zen non è un nulla siffatto. È una situazione di piena e compiuta chiarezza che con sempre maggior evidenza e perspicuità viene conosciuta dalla nostra co­scienza. Quantunque questa situazione venga riconosciuta da noi con la più estrema evidenza, in essa il nulla non ci è noto come oggetto, ma colui che conosce e ciò che viene conosciuto sono noti a se stessi come Una e medesima cosa. Il che significa che il Nulla del buddhismo Zen riconosce se stesso come il nulla in cui soggetto e oggetto sono inseparabilmente uniti. In questo sen­so si può dire che il Nulla del buddhismo-Zen conosce se stesso, nel momento in cui l'uomo diviene cosciente di se stesso. Non può esserci perciò discorso alcuno che riguardi il nulla in una situazione di assenza di coscienza. Se vi fosse, un nulla speri­mentabile nell'assenza di coscienza, sarebbe per noi estremamente facile introdurci in esso grazie al sonno, allo svenimento o alla morte. In verità questo Nulla del buddhismo-Zen viene detto ora "non-cuore", ora "non-riflessione", ora "grande morte", ora "Nirvana", ma tutto ciò non significa assenza di coscienza co­me nel sonno, nello svenimento e nella morte. Al contrario, la situazione del "non-cuore" o della "non-riflessione", è tanto chiara e luminosa quanto nessun'altra; è libera da ogni offusca­mento come uno specchio immacolato, come la chiara luna au­tunnale. In nessuna situazione si è così desti e coscienti come in quella del "non-cuore" e della "non-riflessione". Nessun at­timo è così stracolmo di vita come quello in cui si entra nella "grande-morte".

Certo, Pai-chang Huai-hai afferma: "Purifica lo spirito da ogni dottrina (Dharma)"

e Huang-po: "lo dimentico entrambi, l'io e il non-io".

Ma ciò non ha niente a che fare con l'assenza di spirito; al con­trario, è il grande risveglio, in cui non resta la più piccola om­bra di un'assenza di coscienza. Anche se Pai-chang Huai-hai dice: "Il cuore è come legno e come pietra e in nessun modo si dif­ferenzia da essi" e Huang-po: "Interno ed esterno, corpo e anima, tutto ciò va abban­donato"; o se Dògen afferma: "Cuore e coscienza devono essere resi inattivi". Tutte queste sentenze non devono significare che si debba annullare la coscienza per diventare come legno e pietra, né che si debba abbandonare corpo e spirito e morire per far scompa­rire la coscienza.

Bodhidharma insegnava a Hui-k'o, il secondo patriarca del buddhismo-Zen: "Solo chi si pone al di fuori del Karma, chi nell'intimo è libero dalla sete e ha il cuore simile a un muro solitario, può imbocca­re il cammino della verità". Ma non intende con ciò che si debba annullare la coscienza, e così Hui-K'o intese il senso delle parole del suo maestro e in­segnò lui stesso: che si deve serbare sempre la situazione di "estrema chiarezza" e "non-cuore".

Nell'antica mistica europea si intende con il termine estasi, che letteralmente significa "essere-fuori-di-sé", una situazione di ispi­razione o invasamento divini, alla cui origine vi è la possibilità di un annuncio oracolare inteso come una sorta di interpreta­zione della volontà di Dio come conseguenza di uno stato di in­coscien-za. Non si può perciò caratterizzare il Nulla dello Zen né come estasi né come Unio mystica nel senso di un'esperienza mi­stica personale, poiché non si tratta in questo caso di ispirazio­ne o invasamento divini, ma di una situazione di piena coscienza, vissuta in perfetta chiarezza e scaturente dal Samadhi, cioè dal­lo spro-fondare; una situazione, quindi, in cui soggetto e oggetto sono inseparabilmente riuniti. II Samadhi del Nulla del buddhismo­-Zen viene anche caratterizzato come lo sprofondare nel vuoto assoluto (il genuino Sunyata-Samadhi), come lo sprofonda-re nella verità assoluta (il Butha-Tathata-Samadhi), come lo sprofonda­re del Re (il Raja-Samadhi), come lo sprofondare nell'unica epi­fania (il Laksama-Samadhi) o sprofondare nell'una-unica azione (l'I-hsing-Samadhi).

In questa prima parte della mia trattazione ho esposto solo cinque distinti aspetti del "Nulla" e mi sono sforzato di dimo­strare che essi in ogni singolo caso non corrispondono al Nulla dello Zen. Tuttavia sussistono affinità così forti che posso-no fa­cilmente generare fraintendimenti. Ma questo è anche il motivo per cui le definizioni sopra riferite, nonostante i difetti e le in­sufficienze che possono pre-sentare, vengono sempre nuovamen­te riprese e avanzate, quando si cerca di comprendere mediante il linguaggio ciò che viene immediatamente visto e percepito nella profonda esperienza vissuta del nulla; infatti non vi è altra pos­si-bilità di esprimere giudizi sul Nulla Zen. Questo Nulla del­la vivente pienezza è inequivocabilmente distinto dal nulla della negazione della presenza, benché lo si possa dire nel modo più persuasivo con perifrasi come "qualcosa non è presente" o "tutto ciò che è, è Nulla".

Anche se è diverso dal nulla come negazione dell'asserzione, lo si può esprimere tuttavia con "non è né questo né quello" o anche con "non è qualcosa d'altro" oppure "è al di là di ogni modalità di giudizio e negazione". È anche diverso dal nulla co­me idea, ma può venir espresso per viam negationis con parole come nulla, vuoto, vacuità, nessuno, non. È distinto anche dal nulla dell'immaginazione; ma lo si può an­che indicare con "lìberarsi da ogni pensiero terreno ed entrare nel Samadhi del nulla" o "osservare il nulla". È pur sempre diverso dal nulla inteso come assenza di coscienza, nonostante gli si pos­sano applicare le espressioni non-pensare, non-essere, non­-riflettere, "come legno e pietra", "grande Morte", Nirvana.

Senza ricorrere a questi aspetti del concetto quotidiano di nulla, il Nulla dello Zen può a mala pena essere detto in parole. Ma tut­ti i tentativi di chiarificazione devono necessariamente fallire se non si è sperimentato il Nulla Zen immediata-mente in se stesso. Anche Huang-po esprime ciò, quando dice: "Questa verità è naturale e genuina, non ha propriamente nes­sun nome. Tuttavia, poiché l'uomo è inconsapevole e prigioniero dell'illusione, molti Buddha compaiono sulla terra e dànno a tale verità un nome provvisorio. Non dovete esporvi al rischio di affi­darvi a nomi e parole e così misconoscere la verità".

Se si resta abbarbicati alle espressioni concettuali e si indaga solo la lettera, non si comprenderà mai il Nulla Zen neppure in tre mil­lenni. Lo si può solo afferrare in una propria esperienza imme­diata. Ogni cosa porta in sé il sapere della propria essenza, nonostante l'esperienza personale resti per il Nulla dello Zen una neces-sità essenzialmente condizionata. Nelle cose quotidiane che rappresentano pur sempre qualcosa di finito, di determinato, que­sto sapere della loro vera essenza come esperienza in sé è già ciò che va compreso e trasposto nel pensiero con-cettuale. II Nulla Zen per contro non lo si può rendere visibile, né in alcun modo deter­minare. Percio lo si può sperimentare al di là di ogni comprensio­ne e di ogni concetto. In questo senso si può dire che l'esperienza del Nulla Zen si rifiuta, si nega a ogni possibile asserzione ed è immediatamente il sapere della essenza che gli è propria. Il fatto che la verità del fuoco o dell'acqua si manifesti immedia-tamente da se stessa e il fatto che la verità dello Zen si mostri da sé imme­diata-mente, questi due fatti, nonostante l'identità d'espressione, sono asserzioni che divergono profondamente. Se gli oggetti del conoscere sono cose come Fuoco e Acqua, la loro verità la si può esprimere del tutto semplicemente con parole. Ma se si tratta del­lo Zen, una formulazione concettuale è del tutto esclusa. Perciò l'affermazione che la verità si manifesta da se stessa vale propria­mente solo in un àmbito come lo Zen. E se si è riconosciuto ciò, diviene chiaro in che misura il sapere immediato della vera essen­za si differenzi da ogni pensiero concettuale. Si diviene intimi del­la vera essenza in una visione immediata, se si rinuncia a volerla comprendere con concetti. La frase di Leng-chia-ching: "Il Buddha illumina senza parole", e la verità assoluta, indipendente da parole, del Ch'i-hsin-lun al­ludono a questa impossibilità di distinzioni concettuali.

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2) LA CHIARIFICAZIONE POSITIVA DEL NULLA DEL buddhiSMO-ZEN

Il "non-essere-qualcosa" o la compiuta indeterminabilità

 

Se il Nulla dello Zen si differenzia essenzialmente dal mero "nul­la come nega-zione di una semplice presenza", perché allora fin dai tempi più remoti viene espresso in modo tale da alimentare sempre di nuovo questa confusione e frain-tendimento, come se si trattasse di una sola e medesima cosa? La ragione di ciò consi­ste nel fatto che il Nulla dello Zen può essere percepito nel mi­gliore dei modi proprio grazie a questo fra i diversi aspetti del modo consueto di concepire il nulla. Decisivo a questo proposito è il suo carattere di compiuta, piena indeterminabilità. Con questa parola si intende affermare che nel Nulla del buddhismo-Zen non vi è qual­cosa, che possa essere chiamato una realtà presente. Se si dice che non vi è nulla di presente, non si intende dire ciò solo in senso generale, "nulla è" o "niente è presente", ma si vuole affermare che nel Nulla dello Zen non vi è nulla, non vi è alcunché.

Ma il Nulla dello Zen non presenta uno spazio vuoto, privo di oggetti, che si trova al di là della mia persona, ma è la mia condi­zione di nulla, il mio me stesso, che è "nulla". Se nel Nulla Zen non vi è nulla, può necessariamente anche in me non esserci nulla. Orbene, se affermo che in me non vi è nul­la, si potrebbe pensare che ci sia pur qualcosa al di fuori di me. Ma questo "in me non vi è nulla" non deve indurre, secondo l'u­so linguistico consueto, a contrapporre a un mondo interno in cui non vi è nulla un mondo esterno; significa piuttosto che in me non vi è nulla poiché per me non vi è né un interno né un esterno. "In me non vi è nulla" non significa perciò che nel mio interno, nel caso in cui si separi l'io in interno ed esterno, non vi è nulla - infatti l'io è già al di là di una distinzione siffatta - ma significa che in nessun luogo vi è qualcosa. E ciò in cui non vi è qualcosa, sono io stesso. Il Nulla Zen è il non esserci-qualcosa in nessun luo­go e ciò è l'io o, in termini rovesciati: l'io è il non esserci qualcosa in nessun luogo. Ma se si parla di un non-esserci-qualcosa in nes­sun luogo senza l'io, vi sarebbe allora solo uno spazio vuoto, o se si parla di un io senza un non-esserci-qualcosa in nessun luogo, questo io verrebbe ridotto a un fenomeno psichico o fisico; ma né l'uno né l'altro possono caratterizzare il Nulla Zen.

L'uomo è abitualmente circondato dalle cose più diverse che ap­partengono al mondo interno o al mondo esterno. Percio è im­possibile affermare che nulla è presente. Nel mondo esterno vede colori e ascolta voci, gioisce e soffre nel proprio intimo. Certa­mente collega i suoi pensieri a qualcosa, così che si trova sempre alla fin fine di fronte o a un oggetto del mondo interno o a un oggetto del mondo esterno. L'io che vive nella dimensione quoti­diana della vita è perciò l'io che costantemente è in rapporto con oggetti. Un io siffatto non può perciò sottrarsi al venir-determinato dall'esterno. Se vede colori, viene limitato dai colori; se sente vo­ci, da voci; se pensa al male, dal male; se pensa al bene, dal bene. Così in ogni caso è determinato da un oggetto del mondo interno o del mondo esterno e di tale oggetto è prigioniero. Osservato in modo superficiale, ciò potrebbe risultare affine alla condizione di uno sprofondare, a un Samadhi; ma l’apparenza inganna; è uno pseudo-Samadhi che si differenzia fondamentalmente dal vero Sa­madhi. Come lo spirito, che è "ancora legato a piante e alberi", l'io è in contatto internamente ed esternamente con oggetti e mu­ta con essi; nasce e muore - sorge e tramonta. Se l'io ha un cor­po, ha un cuore e di questi è prigioniero, crede di morire con la morte del corpo, di andarsene col tacere del cuore. L'io che si la­scia sedurre dalla ricchezza e dall'onore, diviene uguale ad essi; parimenti, l'io che è prigioniero del Buddha ed è diventato in tutto simile al Buddha - l'io che è diventato prigioniero del nulla e si­mile al nulla - l'io, infine che è prigioniero del fatto che non vi è nulla, e che è diventato simile al non esserci nulla in nessun luo­go - tutti questi sono modi dell'io in ceppi e non libero. È lo spirito "ancora legato a piante e alberi". Soltanto l'io che non conosce nessun oggetto, l'io come il non-esser-qualcosa, è indi­pendente da tutto. È l'io che non è determinabile dall'esterno. Se questo è l'io in cui nulla è, si potrebbe tuttavia pensare che in es­so resti ancora la coscienza che nulla è. Ma fintanto che vi è an­cora in me una coscienza che ha come contenuto il nulla come oggetto, io non sono ancora realmente nella situazione del nulla. Il nulla verace sono io stesso, e non il mondo dei miei oggetti. Nel momento in cui diviene oggetto, è un essente e così è qualco­sa che mi tiene prigioniero.

Se anche solo la più piccola ombra di oggettività colpisce il nul­la come non-esser-qualcosa, vi è già qualcosa. Solo se io sono real­mente e veracemente nulla, io sono pienamente liberato dai ceppi e illimitatamente libero e di nulla prigioniero. E poiché per me non vi è allora più nessun interno ed esterno, da cui venir toccato e influenzato, io sono una unica singola cosa. Il numero Uno è un'u­nità, ma siccome ve ne sono molti così esso non può venir detto unico. Come unica singola cosa io devo perciò essere uno, in cui nulla è, e che si trovi al di là dell'interno e dell'esterno.

Il sesto Patriarca del buddhismo Zen, Hui-nèng afferma: "Il cuore è ampio e grande come lo spazio vuoto del cielo; è senza limiti e senza confini", oppure: "la tua vera natura è come lo spazio vuoto del cielo, e se ti ac­cade di scorgere il non-esser-qualcosa, questo può essere detto il vero, il giusto percepire".

Nel chéng-tao-ko e nel Ch'uan-hsin fa-yao sta scritto: "il Nulla è una percezione chiara. È il non-essere-qualcosa. Non è un uomo né un Buddha".

E questo è l'io come il non-esser-qualcosa. Anche ciò che il se­sto patriarca Hui-nèng caratterizza come "il retto cuore ", non si­gnifica altro. "Retto" in questo caso non ha significato morale, ma vuoI dire l'esser-eretto, il non esser vincolato a qualcosa di al­tro e diverso. Se il cuore è prigioniero, non può esser eretto, viene attratto ora verso destra ora verso sinistra. Un cuore che si lascia prendere e toccare da colori e voci o falsità e malvagità, ma anche dal vero e dal bene, non può esser detto un cuore retto. Solo un cuore che non è in se stesso qualcosa, non può esser sporcato. So­lo un cuore che non si volge né dalla parte del bene né dalla parte del male è un cuore retto. Proprio perché è anche una singola co­sa, e non una pluralità di cose, si dice appunto che il cuore retto è uno. Solo il cuore in cui non vi è qualcosa può - come afferma Lin-chi - penetrare nel mondo dei colori e tuttavia non ricevere da essi nessuno stimolo, entrare nel mondo delle voci e tuttavia non venirne sedotto; penetrare nel bene e non esserne fuorviato, può realmente sprofondare nel "Samadhi del non essere-toccato dalle cose del mondo", "nel Samadhi della libertà da tutto il fan­go" o "nel Samadhi del gioco che compie miracoli". Quest'unico vero sprofondare è essenzialmente distinto da altri modi in cui, prigionieri delle cose, ci si precipita nell'entusiasmo e nella confu­sio-ne. Certamente anche siffatti esercizi di meditazione sono ge­nuini, ma sono solo meditazioni individuali o "Samadhaya dei fenomeni", poiché non presuppongono le situazioni dell’"in me non c'è nessuna cosa" e si riferiscono a cose singole come colori e voci, al vero o al bene. Per contro è un cuore quello che non è nessuna cosa - poiché rappresenta un unicum, senza interno e senza esterno, senza confini e senza limiti, al di là della dualità di soggetto e oggetto - nello "sprofondare dell'unicità, nello spro­fondare dell'uno-unico fenomeno" o dell'una-unica azione. Que­sto è il cuore nel Raja-Samadhi, nello "sprofondare dei Re". Le "forme di sprofondare dei vassalli", possono manifestarsi sul fon­damento del Samadhi regale. Se uno si fa prigioniero delle cose, e da esse dipende o se al contrario si immerge in esse in un vero oblio di sé, ciò avviene nella misura in cui il Samadhi-regale costi­tuisce o meno il tratto fondamentale. Perciò anche in Ch'i-hsin-­lun il Samadhi dell'incommensurabilità sorge e si erige sulle fon­damenta del Samadhi della verità assoluta.

Nello stesso senso il sesto patriarca Hui-neng afferma: "Se tu vuoi raggiungere la Bodhi, l'originario sapere, devi penetrare nel Samadhi dell'una-unica apparizione, dell'una-unica azione. Se in nes­sun modo si manifesta un'apparizione e tu ti attie-ni alla situazio­ne, senza odio e amore, senza prendere e lasciare", non pensi al pro e al contro, al nascere e al trapassare e sei tranquillo, calmo, lieto e in pace, allora ciò può ben pretendere il nome di Samadhi dell'una-unica apparizione. Se tu soprattutto e sempre, nell'anda­re e nello stare, sedere e riposare, hai il cuore del tutto puro e ret­to, se tu non devii dal sentiero di Buddha e raggiungi realmente il puro paese di Buddha, allora tu sei nel Samadhi dell'una-unica azione".

Anche Ma- Tzu afferma: "lo non ho mai in me la più piccola fra le cose".

L'io che egli intende, è l'io che corrisponde al non-esser­-qualcosa-in-alcun-Iuogo. Come anche si dice nel sesto capitolo del Tsung-ching-lu, "ciò che non è la più piccola cosa" non è para­gonabile con "l'esteso vuoto e concavo e con la dissolu-zione per­fetta e con l'assenza di sapere", ma con l'io in cui "non" vi è "la più picco-la cosa".

Nel Tokay-yawa di Takuan sta altresì scritto: "Il confuciano fraintende il vero nulla, lo rifiuta; infatti lo con­sidera unicamente un non-qualcosa e non distingue. ..Io chiamo vero nulla il fatto che non si serbi nulla nel proprio cuore. Ma il cuore è un attore che rappresenta ogni ruolo. .. lo chiamo vero nulla il fatto che il cuore non possa esaurire sé in nessun ruolo … Il vero nulla di cui parlo è ciò che è libero da ogni ruolo e da ogni compito". Il "vero nulla" di cui qui si parla è nient'altro che il cuore che è uguale al non-esser-qualcosa.

 

IL VUOTO

 

Il Nulla Zen ha da sempre il carattere del non-esser-qualcosa. Ma al tempo stesso gli è proprio un altro tratto che si può espri­mere con la parola "vuoto". Perché si può indicare il nulla del buddhismo-Zen anche con il concetto di vuoto?

Per chiarire ciò potrei innanzitutto rifarmi al significato della parola vuoto. Yung-ming dice nel sesto capitolo del suo Tshung­-ching-lu, in cui cita dal terzo capitolo della "disputa del grande veicolo del buddhismo" Shih-mo-ho-yen-lun, che al vuoto vengo­no attribuiti dieci significati:

-In primo luogo è indisturbato. Cioè, per esso nessun fenomeno, comunque sia la sua forma, costituisce un pericolo.

-In secondo luogo è onnipresente. Non vi è nessun luogo che non possa raggiungere.

-In terzo luogo è privo di differenza, cioè non conosce differen­za alcuna.

-In quarto luogo è ampio e aperto, cioè non ha limiti.

-In quinto luogo non appare. Cioè non presenta nessuna mani­festazione conoscibile dai sensi.

-In sesto luogo è puro. Cioè, è incontaminato e senza macchia.

-In settimo luogo è stabile e immoto, cioè non nasce né tramonta.

-In ottavo luogo non ha essere. Cioè, è al di là di ogni misura.

-In nono luogo è vuoto senza esser vuoto. Cioè non è attaccato a se stesso.

-In decimo luogo non possiede nulla. Cioè non possiede e non può essere posseduto.

In questa ricerca propedeutica forse potrei introdurre ancora al­tre e più ampie proprietà, ma mi voglio accontentare di questi dieci significati. Tutte queste caratteristiche del vuoto sono in egual modo pro­prie del Nulla Zen. Percio lo si è paragonato al vuoto fin dall'antichità.

Così sta scritto nel capitolo Yeh-tso-chieh del Wu-hsing-lun: "Il cuore è puro come il vuoto. Riempie le dieci direzioni del mondo ed è per esse sufficiente. Nessun monte, fiume, rupe, o muro sono per esso una minaccia e un pericolo. Innumerevoli mon­di quanti sono i granelli di sabbia nel Gange sono dentro di lui". Ciò dimostra che ''il cuore", cioè il Nulla dello Zen, corrispon­de nel suo carattere al primo, al secondo e al sesto dei significati del vuoto-indisturbato, onnipresente, puro.

Nel Hsueh-mai-lun sta scritto: "Il cuore non ha né forma, né corpo, né è sottoposto al giuoco reciproco di causa ed effetto. Perciò al pari del vuoto non lo si può afferrare". Ciò dimostra che il cuore viene caratterizzato anche dai tratti cinque e dieci del vuoto - privo di apparenza e senza possesso.

Nel Ch'uan-hsin-fa-yao si afferma: "Il cuore non è mai nato dall'inizio privo di inizio e non cono­sce tramonto... È simile al vuoto che è senza limitazione nello spazio e nel tempo e non può essere pesato e misurato". E:    "Il cuore è immutabile, il suo interno immoto e imperturbabile come legno e pietra, il suo esterno illimitato e indisturbato come il vuoto".

Anche nel Lèng-chia-ching si legge: "Nel cuore non vi è grandezza alcuna misurabile". Tutto ciò dimostra che il cuore in ciò che lo caratterizza, corri­sponde ai significati uno, quattro, sette e otto: indisturbato, aper­to e ampio, immoto e duraturo, senza essere.

Nel T'an-ching del sesto patriarca Hui-nèng si trova: "Il cuore è come il vuoto e al pari di questo al di là di ogni possibilità di misura", e: "Il cuore è come il vuoto, esso non è prigioniero di un'idea ni­chilistica".

E nel Hsin-hsin-ming si afferma: "Neppure un uno-unico viene tenuto fermo". Tutto ciò dimostra che il cuore, in ciò che lo caratterizza, corri­sponde al nono significato del vuoto: è vuoto privo di vuoto.

Sentenze come "presso i barbari esso assume la forma di appa­rizione propria dei barbari, presso i cinesi quella propria dei cine­si" e "esso è contro ogni scelta e distinzione" affermano che il cuore, in ciò che lo caratterizza corrisponde alla terza proprietà del vuoto: è privo di differenza.

Oltre queste dieci proprietà si potrebbero forse attribuire al vuoto ancora più ampi attribuiti, come "unico" e "senza interno ed ester­no". Unico, significa che il vuoto è un Unicum; non c'è due vol­te. Senza interno ed esterno, significa che per il vuoto non vi è un esser-fuori, solo un esser-dentro, che quest'ultimo tuttavia non va caratterizzato come interno; infatti, senza un esser-fuori come polo opposto, esso trascende i concetti abituali di interno ed esterno.

Si può perciò descrivere il Nulla dello Zen in stretta corrispon­denza con il carat-tere di unicità del vuoto come "l'unico cuore" "il solo cuore retto", "l'assenza di dualità", "il mondo oggetti­vo è un'una-unica apparizione"; ma in relazione alla sua pro­prietà di essere senza interno e senza esterno, anche con "una sfera irradiante luce senza interno ed esterno" o con "il mondo della verità assoluta non ha nulla di identico e nulla di opposto" e con "cuore che non conosce né interno né esterno né una condizione intermedia, che non ha né direzione né luogo".

Tutto ciò dimostra la grande affinità che intercorre fra il Nulla Zen e il vuoto. Se si leggono queste parole in Ch'uan-hsin fa-yao: "Il vuoto si estende in tutte e dieci le direzioni. È fin dall'inizio nel mio cuore intatto e indiviso. Anche se potessimo stac-carci dal vuoto e sbarazzarci di lui, come sfuggirgli?"; oppure: "L'essenza della dottrina buddhista, cioè il Dharma, è il vuo­to. L'apparizione del vuoto non è diversa dall'essenza del Dhar­ma", si ha l'impressione che il vuoto e il cuore siano un'unica e medesima cosa. Ma naturalmente il cuore, cioè il Nulla Zen, non è identico al vuoto. Tuttavia l'affinità è così forte, che li si può considerare una identica cosa. Ma il Nulla Zen non è in nessun modo alcunché di inconscio e non vissuto, come lo è il vuoto, es­so è invece il soggetto che si conosce "chiaro e limpido". Perciò il cuore si può anche chiamare "il se stesso" o "il vero uomo".

Nella prefazione generale al Chan-yuan-chu-ch'uan-chi sta scritto: "Il cuore è la vera natura. Esso non è identico al vuoto, non è simile a legna e pietra. Perciò lo si chiama anche Saggezza"; o: "Cuore è solo un mero nome. La sua essenza è la Saggezza. Questa conosce a partire da se stessa la sua natura spirituale. Ma tale co­noscenza non è assimilabile alla falsa conoscenza che si ottiene nel porsi di fronte a un oggetto spinti e sollecitati dallo stesso. Non ha nulla a che fare con l'esteso concavo vuoto e la perfetta disso­luzione e l'assenza del sapere".

Da ciò si evince inequivocabilmente che il cuore non può essere paragonato sic et simpliciter con il vuoto, la perfetta dissoluzione e l'assenza di sapere.

Anche Huang-po usa spesso l'espressione: "Il cuore è come il vuoto". .., ma non si deve dedurre che egli consideri cuore e vuoto una sola e identica cosa. Si può anche leggere occasionalmente nei suoi scritti: "Il mondo vuoto è ab origine nel mio cuore intatto e indiviso" o "l'essenza della dottrina, del Dharma, è il vuoto".

Ma allora esprime di nuovo inequivocabilmente la sua opinione: "Buddha, cioè l'essenza del Dharma, può venir descritto e com­preso con la parola vuoto. Ma è solo un modo di esprimersi per immagini, se si dice che l'essenza del Dharma è vuoto o che l'es­senza del vuoto è identica al Dharma"; o: "L'essenza del Buddha è per natura inattiva, quieta; e non può venir suddivisa nelle singole forme fenomeniche. Il concetto di vuo­to è utilizzabile solo in senso metaforico".

Da tutte queste parole si evince senza possibilità di equivoco che la parola vuoto viene costantemente usata solo per rendere ed espri­mere il Dharma con una im-magine sensibile; e che quest'ultimo si differenzia fondamentalmente dal pantei-smo che semplicemente identifica Dio con l'intero universo spaziale. E ancora una volta occorre affermare: il Nulla del buddhismo-Zen non è identico al vuo­to; tuttavia il suo carattere ci consente di usare per più rispetti il vuoto come metafora.

Prendendo le mosse dalla definizione di vuoto cui si è prece­dentemente fatto cenno, potrei ora chiarire in modo più esatto il carattere del nulla. Anche se il Nulla Zen non può possedere nes­suna qualità, sono tuttavia costretto a servirmi a titolo provviso­rio di espressioni comprensibili per l'intelletto.

1. Che il nulla del buddhismo-Zen sia indisturbato significa che al pari del vuoto non può venir minacciato o impedito, forzato da nessuno fenomeno interno o esterno. Da ciò risultano la sua in­toccabilità e libertà. Il nulla è contenuto in ogni cosa e non v'è nulla che possa minacciarlo.

Anche nel fatto che tutto è contenuto nel suo interno, e che tutta­via in quest'ultimo non sono riconoscibili né tracce né segni, è si­mile al vuoto.

2. Il fatto che tale nulla sia onnipresente, significa che simile al vuoto si estende, sulla totalità dei fenomeni fisici e psichici senza riferimento a lontananza e vici-nanza, grandezza e piccolezza, pro­fondità e superficie, grossolanità e finezza, chiarezza e oscurità. In antitesi al vuoto che si riferisce solo a ciò che è fisico, il Nulla Zen comprende anche l'intero universo psichico. In questo senso si può affermare che è qualcosa di veramente onnipresente.

3. Che questo nulla sia privo di differenza, significa che non co­nosce nessuna opzione e distinzione, e da niente vien toccato. Al­lo stesso modo accoglie il puro e l'impuro, tratta alla pari ciò che è elevato e ciò che è prigioniero della bassezza, va incontro al be­ne e al male, considera uguali il vero e il falso, acconsente che sacro e profano coesistano insieme, non prende nulla e non rifiu­ta nulla, esattamente come il vuoto.

4. Il fatto che tale nulla sia ampio e aperto, significa che esso è uno e medesimo e non conosce nulla di diverso e di esterno. Poi­ché non può venir costretto da niente di altro e diverso, è illimita­to e indeterminabile. Non solo possiede al pari del vuoto l'assenza di limiti in senso spaziale, ma anche l'infinitudine temporale. Si può così dire che tanto l'illimitatezza spaziale quanto l'infini­tudine temporale scaturiscono dalla originaria assenza di limita­zioni del nulla nello spazio e nel tempo. Poiché di Buddha si dice che è infinito e illimitato, allora si può anche dire: il vero Buddha non è nient'altro che il Nulla dello Zen.

5. Che questo nulla sia privo di fenomeni significa che non si manifesta né come una forma fisica nello spazio né come una immagine psichica nel tempo, mentre al contrario, secondo il mo­do di pensare abituale, ciò che è fisico ha una forma, a diffe­renza di ciò che è psichico. Ma, considerato a partire dall'a-fenomenicità del Nulla del buddhismo-Zen, anche ciò che è psichico deve avere una forma. Non si può perciò dire che ciò che abitualmente è detto il cuore - la psiche - non abbia nes­suna forma. Al di fuori del Nulla del buddhismo-Zen non vi è nulla che si possa dire veramente a-fenomenico.

6. Che siffatto nulla sia puro, significa che esso non è né alcun­ché di fisico, né alcunché di psichico e con ciò che esso è inin­fluenzabile, che non ha in sé nulla di sporco e osceno, che non può venir insudiciato o corrotto da niente. Ciò che abi-tualmen­te si chiama purità, non può essere caratterizzata come la purità vera e assoluta, poiché ogni cosìddetta purità è pur sempre qual­cosa di determinato. Già il "venir determinato" in quanto tale significa "venir sporcato e corrotto". Ciò che viene determina­to con un attributo, è già in "né sporco, anche se non è sporcato da nient'altro. Anche un Buddha considerato come qualcosa di determinato è già in "né una impurità. Non vi è nessuna cosa che sia in verità pura. Solo il Nulla dello Zen che esclude ogni pos­sibilità di essere determinato, è ciò che è veramente puro e in­tatto. La vera purificazione di me stesso ha luogo quando il mio lo non è più nulla di fisico e di psichico e trascende ogni deter­minabilità.

7. Che tale nulla sia eterno e immoto, significa che esso non è sot­toposto né al divenire né al passare, poiché non ha né inizio né fine, non sorge e non tramonta. Percio non conosce movimento in quanto in esso scompaiono tutte le direzioni come destra, si­nistra, alto, basso e non può muoversi in nessuna di esse. L'as­senza di moto paragonata col movimento è una mera condizione momentanea destinata a passare e non può perciò venir confron­tata con la vera Immobilità. Questa ultima è una realtà una e unica che esclude ogni possibilità di movimento. Poiché l'assen­za di moto non si estende nello spazio e nel tempo e contiene in sé entrambi, non è Vera Immobilità. Solo quest'ultima è as­soluta pace e quiete del cuore. Finché l'io vive in modo abituale con un corpo e con un cuore non è in condizione di raggiungere la vera Immobilità.        

8. Il fatto che tale nulla sia vuoto d'essere, significa che esso non può essere pesato secondo il peso né misurato secondo lo spazio e che non possiede alcun valore, determinabile da concetti nor­mativi come verità e bellezza. In senso assoluto trascende ogni possibilità di misura e di stima.

9. Che questo nulla sia vuoto senza essere vuoto, significa che il Nulla Zen è sì un Nulla, ma non tale da essere contrapposto all'essere, sebbene, aldilà di essere e non-essere, non ha perciò né il carattere dell'essere, né del non-essere. Esso rifiuta ogni de­finizione e non abita, come nulla soggettivo, né nell'essere, né nel non-essere. Se fosse rimasto in se stesso, attaccato a se stes­so, esso starebbe di contro a un Essere e non sarebbe perciò il Nulla Zen. Da quest'ultimo tratto del Nulla del buddhismo-Zen si può anche dedurre con chiarezza che un vero Buddha non può abitare nel Nirvana; infatti un Nirvana, rappresentabile come un luogo, come una dimora, significa la pace spirituale dei beati con­tro la inquietudine del mondo; ma ciò non è il vero Nirvana.

10. Che questo nulla non possiede niente, significa che ad esso, in quanto - un non-esser-qualcosa - non appartiene né alcunché di altro e diverso, né esso stesso, significa che esattamente non gli appartiene nulla. Da ciò consegue che un vero Buddha, non pos­sedendo, non può essere oggetto di possesso; e che, assolutamente povero, è senza bisogno alcuno e senza ambizione alcuna.

 

IL CUORE

 

Poiché il Nulla del buddhismo-Zen in più di un aspetto è molto simile al vuoto o allo spazio infinitamente vuoto, si è cercato di chiarire la sua essenza ponendolo a confronto con le qualità ca­ratteristiche del vuoto. Ma fondamentalmente non può essere ri­condotto al vuoto, poiché in quest'ultimo non è compresa una delle carat-teristiche essenziali del Nulla Zen: la sua natura di cuore. E in­fatti il Nulla Zen possiede un tratto peculiare che noi chiamiamo abitualmente "cuore". Questo concetto di cuore non può essere esaurientemente posto a confronto con il vuoto o con lo spazio infinitamente vuoto. Oltre agli uomini, così si dice, anche le più evolute specie animali hanno un cuore, ed è persino possibile ri­conoscere un embrione di cuore nelle più piccole forme di vita. Il vuoto al contrario, non possiede cuore alcuno e neppure niente che potrebbe in qualche modo chiamarsi vita, mentre anche il mi­crobo ha una vita. Da questo punto di vista il vuoto non può es­sere ritenuto un appropriato termine di paragone per il Nulla Zen. In relazione alla vita il microbo sarebbe un termine di confronto più adeguato. Infatti il Nulla Zen non è privo di vita, come il vuo­to, ma al contrario è una realtà total-mente vivente. Non solo è vivente, ma ha anche cuore ed è grazie a ciò cosciente di sé. Per­ciò il cuore soddisfa tutte le condizioni per un confronto con il Nulla Zen. Si afferma nel buddhismo-Zen: "Occhio e tesoro della vera legge, Nirvana, cuore miracoloso", oppure "con il dito che accenna al proprio cuore si diventa Buddha in vista della propria natura", oppure "immediata trasmissione da cuore a cuore", op­pure "il cuore retto è il luogo dell'esercizio", oppure "il proprio cuore è Buddha", o "il cuore è ciò che si chiama Buddha", op­pure "al di fuori del cuore non c'è verità", oppure "cuore-­puro", "cuore-incomprensibile", "cuore-Dharma", "cuore­-natura", "cuore-origine", "cuore-situazione", "cuore-essenza". Tutte queste espressioni indicano la natura di cuore del Nulla Zen. Non solo nella versione Zen, ma anche nel buddhi­smo in generale, ci si rifà al vuoto per indicare il vero Buddha, ma vi sono anche espressioni come essenza del cuore ed essenza dell'auto-coscienza. Ciò significa che la natura del Buddha ha il ca­rattere del cuore.

Anche se ha tali caratteristiche, tuttavia il Nulla Zen non può essere posto a con-fronto con ciò che noi abitualmente diciamo cuore-anima-psiche; questo aspetto del nulla in relazione al suo significato è paragonabile a quello del vuoto. Infatti il cuore così inteso possiede - al pari del vuoto - le proprietà che più sopra sono state attribuite al vuoto stesso: è indisturbato, onnipresente, privo di differenza, aperto e ampio, privo di fenomeni, puro, im­moto, senza essere, vuoto senza vuoto, privo di possesso, Uno-­unico, e senza un interno e un esterno. Poiché ciò che abitualmente chiamiamo cuore, non possiede queste caratteristiche del vuoto, si dice da sempre per differenziarlo: il cuore del nulla è il vuoto. Il che significa: "un vero Buddha è come legno e pietra, non-cuore, non-riflessione, libero da ogni vaghezza", oppure "senza idee del bene e del male", oppure "in condizione di non-pensare e non­-ponderare", oppure "arrestare la funzione della coscienza", op­pure "una vera essenza è libera del sapere, un vero esser-desti è non-esser-desti", oppure "vera natura è non-divenire e non­-passare, è senza nascita e senza morte". Ma tutto ciò non signifi­ca di non aver cuore, non aver coscienza di sé, non aver vita al pari del legno e della pietra. Significa al contrario che il cuore nella accezione abituale - quello che noi abbiamo -, al pari del no­stro conoscere quotidiano e del nostro vivere consueto, non è il vero cuore, non è la vera conoscenza, non è la vera vita; infatti il vero cuore, la vera conoscenza e la vera vita hanno tutti il ca­rattere del vuoto. Un vero Buddha non è senza cuore, ma ha il cuore del non-cuore e del non-pensiero; non è non-desto, ma possiede l'esser desto del non-esser-desto, il risveglio del non-risveglio; non è privo di io, ma ha l'io del non-io; non è senza vita, ma ha la vita che non conosce né nascita, né morte.

Il nostro cuore abituale è sovraccarico di impedimenti e minac­ce, è limitato nel suo spazio vitale, distingue e classifica, appare, lo si tocca e lo si sporca, sottostà al divenire e al passare, conosce la misura, può essere afferrato, ha un interno e un esterno e mol­te altre cose ancora. Così, si può diventare Buddha dopo che si è messo in ordine il proprio cuore e lo si è ricondotto all'unico vero cuore che è simile al vuoto del Nulla Zen. Lo sprofondare-zen, in cui corpo e anima cadono uniti, non è nient'altro che la realizza­zione di un cuore veramente vuoto. "Il cuore è Buddha. Il cuore forma il Buddha. Si deve sapere che il Buddha non è nient'altro che il cuore, che al di fuori del cuore non vi è nessun altro Buddha", così come lo descrive il Wu-liang-shou-ching, qui il cuore è simile al vuoto. Di tale natura è il cuore, di cui ci rende consapevoli il Nulla del buddhismo-Zen.

 

IL se stessO

 

Si può perciò caratterizzare il Nulla dello Zen come “cuore”. Tut­tavia non è un cuore che mi sta davanti come oggetto, ma un cuo­re che è diventato soggetto in me. Senza dubbio io sono questo cuore. Ed esso non è una realtà visibile, ma un cuore che vede, il che significa: vede attivamente, ma non è visibile passiva-mente. Vedere attivamente non significa in questo contesto vedere con il senso della vista, ma attività come soggetto di ogni funzione cor­porea e spirituale. Il vedere del cuore è attivo nel senso che tutte queste funzioni possono essere viste grazie a tale cuore. È perciò attivo come soggetto unitario di ogni funzione. Si potrebbe pen­sare che il cuore è attivo solo all'interno della dualità passivo-attivo. Ma poiché una siffatta attività del cuore non significa un esser di­retto verso un oggetto, ma Essere soggettivo, non è separabile dalla passività. Perciò in un cuore siffatto non vi è differenza alcuna fra attivo e passivo. Sarebbe frainteso, se venisse compreso come una attività distinta da una passività e pensa­to come un oggetto in modo oggettivistico. È un Esserci soggettivo che non possiede al­cuna attività riferita a un oggetto.

Il cuore di cui qui si parla, non è perciò il cuore nella accezione abituale, ma è il cuore che è al tempo stesso Buddha. Questo cuore­-Buddha viene sovente inteso come un oggetto trascendente, e po­sto in rapporto con noi come oggettivazione di cio-che-è-altro-e­-diverso, del totalmente altro. Se realmente potesse essere per-cepi­to come oggetto della nostra sensibilità, del nostro sentire, sareb­be qualcosa di assolutamente normale, ma anche Buddha, quando diventa oggetto della fede, della volontà e della ragione, non può non essere caratterizzato come una oggetti-vazione del totalmente altro. In questi casi noi non siamo Buddha, ma stiamo di fronte a Buddha. Ma l'io che si pone di fronte a Buddha, non è il soggettivo se stesso. Nonostante quest'ultima verità, tanto nella religione quanto nella meta-fisica, Dio o Buddha vengono sovente considerati in modo oggettivistico come il totalmente altro. Come il Dio nella religione cristiana, anche Buddha molto di frequente nel buddhismo­ Mahayana viene visto come l'altro, l'oggetto che ci sta di fronte e che ci trascende. Poiché nella prospettiva delle religioni fondate sulla fede, Dio o Buddha guidano in un certo senso il singolo uo­mo e l'uomo li segue e si dà loro, si deve da ciò inferire che in tali casi Dio e Buddha non sono solo compresi come l'altro che sta di fronte, ma che oltre ad essere ciò, sono anche il mio proprio soggetto. Quando nella Bibbia sta scritto: "lo vivo, e tuttavia non vivo, sibbene il Cristo vive in me" o la Setta Jòdo-Shin esige che non si operi seguendo le proprie norme ma si faccia affidamento solo al Buddha-Amitabha, allora in questi casi si possono definire Cristo e Amitabha come l'altro, e al tempo stesso come il soggetto; quel soggetto che dona all'uomo la vera vita. Ma il Buddha-cuore di cui qui parlo, non è il soggetto di quell'Altro e Diverso che mi sta di fronte e mi trascende, ma un soggetto nel quale un siffatto Altro è al tempo stesso il mio proprio me-tesso. Non è neppure il soggetto come lo intende ingenuamente l'uma-nesimo moderno, ma il soggetto in cui l'altro è al tempo stesso il proprio se- medesi­mo. Il Buddha-cuore non può essere qualcosa, che l'io deve segui­re incon-dizionatamente, a cui si offre, si abbandona, in cui ripone la propria fiducia. In questo caso il Buddha sarebbe il soggetto trascendente che guida e conduce gli uomini, dall'interno verso l'ester­no. Ma Buddha non è neppure un soggetto che mi sovrasta e mi guida, è piuttosto un soggetto che è il mio proprio me-stesso.

Nel primo caso Buddha sarebbe certamente un soggetto oggetti­vo e difficilmente caratterizzabile come puro soggetto. Nel secon­do caso, al contrario, sarebbe un soggetto soggettivo, cioè un puro soggetto assoluto. Soprattutto su queste basi si afferma che nel buddhismo Zen l'ipseità del Buddha in quanto si dice: "Buddha è il mio proprio cuore, è ipseità, è la natura dell'esser-se stesso" o an­che "non si deve cercare di conoscere Buddha, ma innanzitutto mo­rire alla grande morte".

Nel libro Shòbò-ghen-zò, nel capitolo 'Nascita e morte', si trovano le seguenti parole di Dògen: "Quanto prima uno lascia liberi corpo e anima e li dimentica, li offre a Buddha, quanto prima si dedica a ciò che proviene dalla parte del Buddha, tanto più rapidamente può senza sforzo liberare corpo e anima dalla vita e dalla morte e diventare Buddha".

Se si intendono queste parole come testimonianza di una sal­vezza operata da una forza esterna, e così li intende la setta Jòdo­-Shin, e se si considera Buddha come un soggetto oggettivato, si re­sta avvinti a una interpretazione superficiale che non penetra nel vero contenuto delle parole di Dògen. Questa interpretazione e pre­sentazione del Buddha come oggetto soggettivo, come soggetto as­soluto, è un aspetto particolare del buddhismo Zen e al tempo stesso un tratto essenziale che lo differenzia dalle altre sette. Non si esa­gera nel dire che il motivo essenziale che ha determinato la compar­sa dello Zen nel corso della storia del buddhismo, va cercato nel fatto che lo Zen ha intimamente compreso e affermato il caratte­re di Cuore e di Ipseità del Buddha. Nell'affermazione e tesi fon­damentale dello Zen - "indicando con la mano il proprio cuore, si diventa Buddha nella propria natura" - in ultima analisi non viene posto in evidenza nient'altro che il carattere di cuore e di ipseità del Buddha.

In Hsueh-mai-lun si afferma: "Il mondo abbagliato e accecato non sa che il suo proprio cuore è Buddha. Così corre via da "né per cercare Buddha ed è tutto il giorno occupato a pregare e venerare Amithaba. Ma dove deve essere Buddha? In nessun caso ci si deve lasciar sedurre da una im­magine e rappresentazione, ci si deve sforzare di conoscere il pro­prio cuore. Infatti Buddha non è che nel proprio cuore".

In Liu-tsu T'an-ching di Hui-neng è detto: "Il Buddha è in ogni se stesso il vero Buddha. Se non si ha il cuore­-Buddha, dove cercare il vero Buddha? lo dico che il nostro cuore è il vero Buddha. Non dubitate!"

Nel Cheng-tao-ko sta scritto: "La propria natura originaria è il vero Buddha"; e nel Ch'uan­-hsin fa-yao: "Riconosci hic et nunc che il tuo proprio cuore è originaria-mente Buddha. Allora non devi più acquistare nulla, né impegnarti in al­cun esercizio. Poiché questa è la via suprema della verità".

Perciò gli antichi Patriarchi dello Zen hanno insistito nell'af­fermare soprattutto che nessun Buddha si trova al di fuori del cuo­re, poiché volevano veder riconosciuto di nuovo il Buddha nella sua vera essenza e ben sapevano che gli uomini tendono a cercarlo al di fuori di se stessi. L'edificare templi, l'elevare statue del Buddha, il tradurre testi, lo scrivere commentari, meditazioni e altro di si­mile non ci porta più vicini al vero Buddha. Bodhidharma chiariva all'imperatore cinese Wu Ti che tutto ciò non porta pregio alcuno e affermava inequivocabilmente che, costruire templi, elevare sta­tue, adorare il Buddha, meditare e altro - che una volta costitui­vano la tendenza dominante nel buddhismo - non sono affatto una via per giungere al vero Buddha; egli voleva portare il Buddha davanti agli occhi in quanto al di là di tutti i tentativi di rappresentarlo.

Anche Huang-po afferma: "Anche i trentadue attributi del buddhismo sono solo parvenze esteriori, e tutte le parvenze sono illusioni; anche gli otto distinti caratteri o contrassegni del Perfetto (Thathagata) altro non sono che proprietà sensibili. Ma se si considerano come vero Buddha ta­li proprietà, ci si pone su una falsa via e non si può essere in nes­sun caso realmente i perfetti".

Queste parole vogliono dire che anche i Thathagata con i loro trentadue attributi così compiuti e i loro contrassegni distinti re­stano prigionieri della tendenza all'og-gettivazione e sono perciò al di fuori del vero cuore, e quindi nessuno di essi è un vero Buddha.

Che il vero Buddha non sia un mero se stesso, né un' Alterità, né Uno-che-si-è-posto-di-fronte, che egli non sia un soggetto og­gettivo, ma solo soggettivo, e perciò un soggetto assoluto, tutto ciò è chiaro ed evidente se si afferma il carattere di Ipseità del Nulla del buddhismo Zen.

 

LIBERTÀ E IMPERTURBABILITÀ

 

Il Nulla del buddhismo Zen è soggetto soggettivo; e ciò significa in questo contesto soggetto imperturbabile. Ma poiché vi sono mol­ti modi di imperturbabilità e libertà, ci dobbiamo chiedere quale   sia quello caratteristico del Nulla Zen.

Nel buddhismo Zen si afferma sovente: "Se vuoi andare, va'; se vuoi fermarti, fermati"; o: "Se hai fame, mangia; se sei sazio, non ti resta che dormire".

Se si prendono queste espressioni alla lettera, le si può compren­dere come affermazioni di libertà assoluta, come se fosse possibi­le fare tutto ciò che si vuole. Animali e bambini cercano di fare tutto ciò che vogliono, mangiare tutto ciò che vogliono mangiare, e si irritano se questo è loro impedito. Infatti animali e bambini esigono naturalmente la loro libertà. Ma, con il crescere dell'età, scema sempre più nei bambini questo stimolo, questa tendenza alla libertà. Infine viene per gli uomini un momento in cui comincia­no a porre ostacoli alla libertà. Si trattengono da ciò che non de­vono fare, anche se lo farebbero molto volentieri, e cominciano a portare a termine con sollecitudine ciò che devono fare anche se non ne hanno desiderio e volontà alcuna. Così fanno libera­mente ciò che devono fare e trala-sciano liberamente ciò che non devono. Alla libertà che i bambini cercano di otte-nere, gli adulti contrappongono una libertà sottoposta alla critica e al controllo.

E nell'imporre a se stessi questa cosiddetta libertà, affermano la loro diversità rispetto ad animali e bambini. Questa capacità e fa­coltà di sottoporre alla critica e al controllo la propria libertà ­quella caratteristica di animali e bambini - è ciò che fa l'uomo un'essenza razionale. Ciò che i bambini vogliono è la libertà sen­sibile; ciò che vogliono gli adulti è la libertà fondata sulla ragio­ne. Questa libertà razionale è ciò che Kant chiama libero arbitrio, e che caratterizza come "santa" quando poi raggiunge la perfezione. Anche quando Confucio dice "io ubbidisco alla volontà del mio cuore e tuttavia non trasgredisco la legge", si ha la libertà razio­nale. Questa libertà fondata sulla ragione è la vera libertà dell'uo­mo e volere tale libertà è ciò che rende uomini gli uomini. Virtù e moralità dell'uomo hanno lo scopo di realizzare questa libertà razionale. Il problema che noi poniamo in questa sede è se questa libertà razionale concorda con ciò che si intende per libertà nel dominio della Spiritualità.

Il concetto religioso di libertà significa un rifiuto della ragione umana, il suo supe-ramento e trascendimento. Nel Cristianesimo si afferma che causa della cacciata dell'uomo dal paradiso fu la conquista della ragione umana. Anche nel buddhismo la ragione umana, nella forma specifica dell'intelletto che opera distinzioni, è con-siderata l'origine di tutti gli errori. Poiché la ragione produ­ce differenze, non riesce mai a trascendere e a superare la dualità. Non vi è ragione umana che non con-trapponga giustizia e in­giustizia, bene e male, sacro e profano, mondo e Buddha, essere e non-essere. L'autentico compito della religione consiste tuttavia nel procedere oltre siffatte differenze e nell'affrancarsi da esse. Soprattutto laddove la giustizia è considerata solo come giustizia, l'ingiustizia come ingiustizia, il bene come bene, il male come male, la colpa come colpa, non sussiste nessun motivo di perdonare la colpa e liberare un uomo malvagio dalla condizione del male ­come accade nel Cristianesimo e nella setta Jòdo-Shin del buddhismo.

La salvezza dai peccati deve aver luogo su un piano che trascende il dualismo di bene e male. Innnanzitutto nello Zen non si deve discriminare il bene dal male e perciò non si deve separare il sacro dal profano, il mondo da Buddha. Persino la legge sacra (Dharma) e innanzitutto il suo opposto, il non-Dharma, devono essere su­perate. La religione cristiana e la setta del buddhismo Jodo-Shin trascendono l'antitesi bene-male, ma Dio e uomo, Buddha e mon­do, vengono tenuti radical-mente distinti, e Dio e Buddha vengono in ogni caso contrapposti rispettivamente all'uomo e al mondo co­me realtà trascendenti. Poiché per contro, considerare Buddha in modo oggettivistico e trascendente al di fuori del mondo, nello Zen è avvertito come un vincolo, che limita la libertà, si cerca di oltrepassare anche il Buddha e la sua dottrina solitamente considera­ti come traguardi finali. Perciò Lin-chi afferma che, se si incontra un Buddha, lo si deve uccidere; se si incontra un anziano maestro, lo si deve ucci­dere.

Anche nella scrittura incisa nella parete di smeraldo, nel Pi­-yen-Iu (Bi-yùn-Iu) si afferma: "Non fermarti e non dimorare dove abita il Buddha; infatti, se ti ci stabili-sci, ti nascono corna sul capo, cioè divieni un dèmone; corri via in fretta laddove non abita il Buddha, perché, se non corri via, cresceranno piante alte tre metri (i tuoi peccati)".

Solo in tal modo si può compiere e realizzare l'interna evolu­zione verso la vera libertà che non può perciò essere incatenata e minacciata né dall'uomo né dal Buddha. Questa è la libertà e la imperturbabilità del Nulla Zen. Nel buddhismo si può sviluppare compiutamente la vera liberazione proveniente da tale impertur­babilità e libertà. Qui sta la differenza con le teorie salvifiche del Cristianesimo e delle altre religioni. Considerata dall'esterno, la dottrina salvifica cristiana sembra esser molto simile a quelle del­la setta Jòdo-Shin; ma la dottrina salvifica buddhista della setta Jòdo-Shin si differenzia da quelle cristiane in quanto in ultima ana­lisi affonda le sue radici nella libertà e imperturbabilità del Nulla Zen. Potrei chiamare tale libertà l'imperturbabilità assolutamen­te soggettiva. Nello Zen la si raggiunge mediante la contemplazio­ne della propria natura. In questo senso la contempla-zione è essa stessa il soggetto libero imperturbabile.

Il sesto patriarca Hui-nèng afferma: "Chi ha contemplato anche una sola volta la propria natura, può stare, se lo vuole, e non stare, se non lo vuole; può andare e venire indisturbato; non vi è per lui prostrazione o minaccia al­cuna. Egli agisce in corrispondenza ai fatti, risponde come la domanda lo esige. Incorre in mutamenti e tuttavia non abbando­na la propria natura. Così raggiunge il Samadhi dell'im-perturba­bilità e della libertà e il Samadhi del gioco che opera miracoli. Questa là si chiama contemplazione della propria natura".

Da ciò risultano chiare l'imperturbabilità e la libertà fondate nel contemplare la propria natura. Hui-nèng dice anche: "I pensieri scaturiscono dalla verità assoluta, dalla natura più intima. Anche se i suoi sei sensi hanno quattro funzioni: vedere, udire, sentire, e conoscere, essa tuttavia non è influenzata dai die­cimila fenomeni del mondo. La vera natura è sempre libera".

Contemplare la natura più intima non è in tutto ma è tutto: in­fatti è tutto e insieme non è tutto. Ciò non significa nient'altro che: negazione assoluta è affermazione assoluta, e affermazione as­soluta è negazione assoluta. "Quando non si prende dimora in nul­la di ciò che appare, si rivela il cuore". Il che non significa semplice-mente che non si ha una dimora, ma che non si ha tale dimora e tuttavia contem-poraneamente si rivela il cuore. Neppu­re significa semplicemente che il cuore si rivela, ma che il cuore si rivela e nello stesso tempo non risiede in nessun luogo.

Lin-chi dice: "Penetrare nel mondo dei colori e tuttavia non sentirsi stimolato da essi, penetrare nell'universo della voce e tuttavia non venir toccato da quella, penetrare nel gusto e tuttavia non esserne at­tratto, penetrare nei profumi e tuttavia non esserne inebriato, pe­netrare nel mondo dominato dal tatto e tuttavia non restarvi attaccato, penetrare nel mondo del Dharma e tuttavia non restar­vi prigioniero - questo è il comportamento di quegli uomini che hanno riconosciuto che i sei fenomeni colore, suono, profumo, gusto, tatto e Dharma, sono soltanto realtà esteriori. È impossi­bile che uomini di tal fatto non attaccati a nulla possano restare imprigionati in qualcosa". Così Lin-chi indica a tali uomini il vero sog­getto assolutamente libero e imperturbabile. Egli afferma inoltre:"La dottrina dei Buddha non ha utilità alcuna. Non è nient'al­tro che le faccende di tutti i giorni: fare i propri bisogni e orinare, vestirsi e mangiare e, se si è stanchi, coricarsi e dormire".

La stessa cosa affermano le parole che seguono, già citate: "se vuoi andare, allora va'; se vuoi fermarti, siediti", o "Se hai fame, mangia; se sei stanco, coricati e dormi". Tutto ciò, applicato nello spirito dello Zen, non significa sem­plicemente libero arbitrio, ma libertà e imperturbabilità, affrancate da se stesse, indipendenti da tutto e non attaccate più a nulla.

 

LA FORZA CREATIVA

 

Quando si afferma che l'uomo si differenzia dalle altre specie animali in quanto crea per sé strumenti, si mette in rilievo la crea­tività come un segno caratteristico per eccellenza dell'uomo. Fin dai suoi inizi la cultura umana si fonda sulla capacità creativa del­l'uomo e questa si sviluppa col progresso dell'umanità in una mi­sura che non conosce limiti. Il progresso della scienza nell'ultimo secolo è una prova sufficiente della sua grandezza. La forza crea­tiva dell'uomo può essere ben detta gigantesca e tuttavia, con­templata da un altro punto di vista, del tutto insigni-ficante. L'uomo può estrarre dalle piante fibre, trasformarle in fili di co­tone e con ciò produrre abiti, ma non può creare le piante. Non può neanche una sola volta produrre un microrganismo cellula­re. Di fronte alla creazione nella sua totalità deve confessare la sua completa impotenza. L'uomo può solo trasformare una cosa in un'altra, ma non può creare niente di originario. Anche ciò che egli produce contiene pur sempre un nucleo che non è in condizioni di produrre. La forza creativa dell'uomo non può perciò essere assolutamente originaria. Nel Cristianesimo è con­siderata assoluta la forza creativa di Dio. Così si dice: ‘Dio creò dal nulla cielo e terra, piante e uomini, e il mondo intero. Pri­ma della creazione non vi era nulla, e solo ciò che venne creato dal nulla, può essere considerato vera creazione’.

In questo senso possiamo considerare il Dio del Cristianesimo come il perfetto ideale del creatore. Scoto Eriugena ripartisce la natura in quattro categorie: ciò che crea e ciò che non è creato; ciò che è creato e crea; ciò che è creato e non crea; ciò che non crea e non è creato. In questo senso l'uomo è creato e creatore, ma Dio è creatore e non-creato. Chi è creato e crea è un creato­re, ma poiché egli stesso è stato prodotto non può essere il crea­tore perfetto. Solo in un creatore non-creato la capacità di creare può essere considerata come originaria e assoluta. Colui che crea non essendo creato è perciò il creatore perfetto; ma ciò per noi è indimostrabile. Conseguentemente si tratta di una immagine ideale, di una idealizzazione della creazione umana, che dovreb­be venir dimostrata; in caso contrario resta una pura ipotesi o un atto di fede. Come pura immagine ideale, o Ideale, non è niente di più che una totale finzione chiamata creazione e non possiede nessuna forza effettivamente creativa. Un mero atto di fede non può essere una prova della sua realizzabilità. L'idea di un creatore può sorgere, ma deve restare tale, poiché non pos­siede possibilità alcuna di realizzazione creativa.

Nel buddhismo è detto correntemente: "Tutto ciò che è, proviene dal solo unico cuore. Non è un mero ideale, o una pura e semplice fede, ma la vera testimo­nianza dell'unico cuore". La realtà, come noi la sperimentiamo giorno dopo giorno, non è, come afferma Kant, totalmente in­dipendente dal nostro cuore, ed esistente al di fuori di esso se­condo le nostre abituali rappresentazioni, ma è scaturita dal nostro stesso cuore. Se perciò sostituiamo ciò che chiamiamo mondo esterno con l'espressione "tutto ciò che è", affermiamo in real­tà, che tutto ciò che è, è stato creato dal nostro cuore, o che tutto ciò che è, viene prodotto dall'unico cuore. Tuttavia il cuore-che­-tutto-produce del buddhismo è la kantiana "coscienza in genera­le" e quest'ultima non è niente altro che il cuore che si racco­glie a partire da ciò che viene affermato dalla kantiana "cosa in sé" in virtù della sua categoria "coscienza in generale". Così un cuore è come uno specchio che riflette immuta-bilmente tutte le cose che dall'esterno vengono a lui. Ciò che si specchia nello specchio, non va perciò tenuto distinto da esso, finché non mu­ta se stesso mediante il rispecchiarsi stesso. Quando si ha uno specchio, all’inizio non vi è nulla che dall'esterno si rispecchia in esso, non può esserci neppure un'immagine riflessa. Infatti dall'inter­no dello specchio non può provenire nessuna immagine. Ma nel buddhismo ciò che si manifesta nello specchio non proviene dal­l'esterno, ma scaturisce dal suo interno. Scaturisce dallo spec­chio stesso, si specchia nuovamente in esso e compare così fenomenicamente all’esterno; scompare dall'interno dello specchio e nel pas­sar via non lascia in lui nessuna traccia di sé. Nel buddhismo il cuore di cui si dice nel motto "tutto ciò che è, è prodotto dal­l'unico cuore", è simile allo specchio. Ciò che si specchia non proviene mai dall'esterno, e perciò anche questo "cuore" è to­talmente diverso dalla kantiana "coscienza in generale". Ma uno specchio, dal cui interno scaturisce l'immagine specchiata, non può in nessun modo essere reale; perciò per il cuore di Buddha l'immagine dello specchio è solo un pretesto. Così nel buddhismo si ricorre so­vente alla metafora dell'onda che è più appropriata, più adatta come immagine sensibile della forza creativa del cuore. Un'onda non cade nell'acqua dall'esterno, ma pro­viene dalla stessa acqua senza separarsene; scompare e torna all'acqua da cui ha tratto origine e non lascia nell'acqua la minima trac­cia di sé. Come onda, essa si solleva dall'acqua e torna all'ac­qua; come acqua, essa è il movimento dell'acqua. L'acqua forma con l'onda un'unità, e tuttavia l'acqua non sorge e non tramon­ta col sorgere e tramontare dell'onda, né si alza e si abbassa. Come onda (l'acqua) sorge e tramonta e come acqua non sorge e non tramonta. Così l'acqua forma mille e diecimila onde e tut­tavia resta in "né costante e immutata. L'unico cuore, da cui tut­to viene prodotto, è simile all'acqua.

Il sesto patriarca Hui-neng afferma: "La natura vera è nella sua essenza immota e può produrre tuttavia diecimila cose" e :"Tutte le diecimila cose non sono separate dalla vera e pro­pria natura".

Nel Yui-ma-Kyò sta scritto: "Sull'originario fondamento della vera e propria natura che non ha dimora, sorgono tutte le cose".

Queste sentenze ci rendono avvertiti della natura vera di que­sto cuore. Il Nulla Zen è questo cuore, che può essere presenta­to in un'immagine, con l'acqua intesa come sostanza che non muta. La forza creatrice del nulla trova la sua metafora, nel si­gnificato più ampio, nel rapporto necessario dell'onda con l'ac­qua da cui proviene.

L'onda che sorge e passa, intesa come soggetto, è simile al se stesso ordinario e quotidiano dell'uomo. Il fatto che questo soggetto sem­pre di nuovo ritorni dall'onda all'acqua, è l'essenza del Nulla Zen.

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3). ANNOTAZIONI SU NOMI E TITOLI E SU ALCUNI CONCETTI ESSENZIALI DEL buddhiSMO COMPRESI NEL TESTO

 (Nella disposizione si segue l'alfabeto latino; vi sono indicate le opere ci­nesi citate dall'autore nel testo con il loro nome cinese, integrate da ne­cessari riferimenti alle versioni e lezioni sanscrite e giapponesi).

 

Buddha-Amitabha- cin.: O-mi-t'o-fo; giapp.: Amida-butsu (abbr. anche Amida).

"Il Buddha dell'incommensurabile splendore luminoso". Secondo la leggenda il pio monarco Dharmakara, un re indiano che aveva abbandonato il suo trono, aspirava a raggiungere l'essenza del Buddha. Ma egli aveva fatto voto di voler ricevere per la prima volta la perfetta illu­minazione, quando come Buddha avesse governato in un mondo ultraterreno, in cui tutti coloro che credevano in lui sarebbe-ro rinati, per raggiungere ivi la perenne san­tità sotto la sua guida: le sue promesse si compirono e sorse così il paradiso Sukhavati, il "paese della felicità", in cinese anche: Hsi-T'ien, il "paradiso occidentale"; nello Zen la "Terra pura"; cinese: Ching-t'u; giapp.: Jo­do (cfr. Jodo-Shin-shù).          .

 

Bodhidharma - cin.: P'u-t'i Ta-mo;  giapp.: Bo-dai Daruma (abbr. Daruma)

Secondo la tradizione, Bodhidharma nacque da un re del­l'India del Sud e giunse nel 520 d.C. in Cina. È conside­rato il fondatore del particolare buddhismo meditativo ovvero buddhismo Dhyana (cin.: buddhismo-ch'an, giapp. buddhismo-Zen) e in ragione di ciò, 28° patriarca dell'In­dia e primo patriarca della Cina. Secondo la leggenda pra­ticò la medita-zione, dopo aver superato i sessant'anni, fissando un muro nel convento Shao-lin del Nord della Cina per nove anni. Per non dormire si tagliò le palpebre. Per questo fino ad oggi è stato rappresen­tato come il santo con lo sguardo che incute terrore.

 

Ch'an-yuan-chu- ch'uan-chi -  

Raccolta di spiegazioni sulle origini e fonti del Bud­dismo Zen dovuta al quinto Patriarca della Setta Hua-yen­ - (giapp. Kegon), di nome Tsung-mi (o anche chiamato Kuei-gèng Ch'an-Shih). Visse nel nord della Cina dal 780 all'840 sotto la dinastia T'ang.

 

Chao-Lun- giapp.: Jo-ron.

Trattati sul buddhismo Mahayana, composti dal prete ci­nese "néng-Chao (giapp.So-Jo). Visse dal 384 al 414 e fu discepolo del famoso Kumarajiva di Kucha nell'Asia Centrale.

 

chéng-Tao-Ko- giapp.: Sho-do-ka

"Canto dell'esperienza del sentiero" di Yung-Chia Hsuan-chiao (giapp. Yo-Ka Gen-gaku) della città Yung­-chia nel sud-est della Cina, visse dal 665 al 713.

 

Ch'i-hsin-lun –(Titolo completo Ta-ch'èng Ch'i-hsin-lun).- giapp.: Ki-shin-ron

Commento all'Introduzione al buddhismo Ma­hayana di Asva-ghosa, celebre poeta dell'India centrale che visse intorno al 100 d.C.; titolo originale: Mahayana­sraddhopade-sastra. Il testo venne tradotto in cinese una prima volta sotto la dina-stia Liang (502-56) e più tardi sotto la dinastia T'ang (618-906).

 

Ch 'uan-hsin-fa-yao - giapp.: Den-shin ho-yo.

Raccolta di prediche che contiene l'essenziale delle dot­trine del Huang-po Hsi-yùn.

 

Dharma- cinese: Fa - giappon.: Ho

Questa parola sanscrita rinvia a un verbo che significa "tenere", "mantenere", "custodire". Tale verbo si separa a sua volta in due concetti, in ciò che è contenuto e in ciò che contiene. Il contenuto è l'Essente e il contenente è ciò che contie­ne l'Essente (cfr. il concetto occid.le di Logos).

 

Do-gen– (Nome completo Do-gen Ki-gen; nome familiare Kuga)

Fondatore della setta Soto del buddhismo Zen in Giap­pone, originario di Kyoto, visse dal 1200 al 1253. Dal 1223 al 1227 studiò Ch’an in Cina e fondò nel 1244 in Giap­pone nella prefettura Fukui, l'odierno Eihei-ji, come sede abituale della Setta Soto-Zen. È autore del Sho-bo gen-zo.

 

Hsùeh-mai-lun

Quest'opera deve essere stata composta da Bodhidhar­ma, il primo patriarca della tradizione Zen Cinese, anche se ciò non può essere provato scientificamente. Di essenziale contiene l'affermazione "Si deve giungere fi­no all'intuizione della propria autentica natura".

 

Hsin-Hsin-ming - giapp.: Shin-jin-mei

Un'opera del terzo patriarca della tradizione Zen-cinese, "néng-ts'an (giapp. So-san), che morì nel 606. - W. Gun­dert traduce il titolo di questo scritto: "Scritto scolpito del cuore fedele".

 

Huang-po Hsi-yùn - giapp.: O-baku Ki-un

Patriarca Zen vissuto nella Cina meridionale sotto la di­nastia T'ang. Morì nell'850 ed è considerato l’autore del Ch'uan-hsin fa-yao.

 

Hui-K'o - nome completo: Erh-tsu Hui-K'o; - giapp.: Ni-so E-Ka.

Secondo patriarca, dopo Bodhidharma, della tradizio­ne cinese Ch’an, visse dal 487 al 593. Nel 520 si recò a Ch'ang-an nel cuore della Cina settentrionale. Venne ac­cettato da Bodhi-dharma come discepolo e seguace dopo che si fu tagliato un braccio per dimostrare la propria motivazione.

 

Hui-nèng - nome completo: Liu-tsu Hui-nèng oppure: Ta-chien Hui-nèng

giapp. Roku-so E-no oppure Dai-Kan-E-no

Il sesto patriarca (Liu-tsu oppure Roku-so. La designa­zione è diventata in questo caso nome proprio) della tra­dizione Ch’an cinese ritenuto l'autentico fondatore del buddhismo Zen cinese. Visse dal 658 al 715, fu attivo nel nord della provincia cinese meridionale Kuangtung ed ebbe numerosi discepoli. È autore del T'an ching.

 

Jodo-Shin-shu

"La vera setta della Pura Terra" fu fondata nel 1224 dal monaco giapponese Shinran Shonin. In Giappone si in­dica solitamente la setta con la abbreviazione Shin-Shù "la vera setta".

 

Karma - Termine popolare per Karman - cin.: Yen-yin -  giapp.: Go-in

L'attività dell'uomo che grava con la sua forza sulle spalle di chi se ne fa promotore e conduce all'anulus aeterni­tatis (la concatenazione) delle possibili rinascite.

 

K'ung-(fu)-tzu, latinizzato: Confucio  - giapp.: Kòschi

Il celebre filosofo cinese nato nel 551 a.C. nello Stato Lu (Shantung). Funzionario dello stato, venne manda­to in esilio e ivi svolse con zelo particolare la sua attivi­tà di insegnante. Morì nel 478 a.C. nella sua patria. La citazione nel testo proviene dal secondo capitolo dei suoi "colloqui" Lun-yiù (giap. Ron-go).

 

Lèng-chia-chin - giapp.: Ryò-ga-Kyò

Si tratta del Lankavatara-Sutra che il Buddha predicò sul monte dell’isola Lanka nell'India meridionale (oggi:Ceylon).

 

Lin-chi - nome completo: Lin-chi I-hsùan-  giapp. Rin-zai Gi-gen

Fondatore della setta cinese Lin-chi del buddhismo Ch’an (giapp. Zen-Rinzai), fu discepolo di Huang-po Hsi-yùn e vis-se dall'854 nel monastero Lin-chi a Hopei (Cina del Nord). Morì nell'867. La sua dottrina venne introdotta in Giappone dal sacerdote giapponese Eisai all'inizio del 13° sec.

 

Mahayana - cinese: Ta-chéng; giappon.: Dai-jò

L'espressione sanscrita ha il significato di "grande vei­colo" in antitesi a Hinayana, "piccolo veicolo". Sono le due correnti fondamentali del buddhismo indiano. Il fine ultimo del Maha-yana non consiste solo nel salvare il singolo ‘Io’ come nel Hinayana, ma, al di là e al di so­pra di ciò, nella salvezza di ogni creatura. Il Mahayana sorse fra il primo e il secondo secolo d.C. Si diffuse nel­l'Asia centrale, in Cina, Corea e Giappone.

 

Ma-tzu - nome completo: Ma-tzu Tao-i; giapp.: Ba-so Dò-ichi

Patriarca del Ch’an cinese dell'ottava generazione che visse nel sud della Cina dal 709 al 788 sotto la dinastia T'ang.

 

Nieh-p'an-ching -nome completo: Ta-po Nieh-p'an-ching; giapp.: Dai-hatsu Ne-han-kyò; - Con questo titolo si intende il Mahaparinirvana-Sutra che secondo la tradizione del buddhismo Mahayana con­tiene le ultime istruzioni del Buddha.

A parte alcuni frammenti in sanscrito, è rimasto solo nella versione cinese.

 

Nirvana – cinese: Nieh-p'an;  giappon.: Ne-han

Significato della parola sanscrita: "estinzione". È la si­tua-zione spirituale in cui tutte le passioni dell'uomo giun­gono all'estinzione totale. In tale condizione dello spirito si contempla la vuotezza dell'essere.

 

Pai-chang Huai-hai - giapp.: Hyaku-jò E-kai

Patriarca Ch’an cinese e discepolo di Ma-tzu Tao-i; visse dal 720 all'814 nel sud della Cina sotto la dinastia T'ang.

 

Pai-Iun - giapp.: Hyaku-ron

Si tratta dell'opera fondamentale Sata-'sastra di Arya­deva, quindicesimo patriarca della tradizione indiana che visse nel sud dell'India nel III secolo (abbr.: Deva; giapp. Daiba).

 

P'ang Kung-     conosciuto anche come P'ang Chù-shih -giapp.: Hò Koji –

Un noto laico zen del periodo T'ang che era in realtà un dotto confuciano. Sotto la guida del grande maestro di allora Ma-tsu (giap. Ba-so) ha raggiunto il Satori e ricevuto il sigillo dello spirito di Buddha. Si conserva una raccolta in tre volumi dei suoi discorsi.

 

Patriarca – cinese: Tsu-shih –

Fondatore di una setta o scuola buddhistica o successore ufficiale dello stesso.

 

Pi-yen-Iu (Bi-yàn-Iu) - giappon.: Heki-gan-roku

"Iscrizione della parete rocciosa di smeraldo" (Raccolta della Roccia Blù) compo­sta dal maestro cinese Yùan-wu fra il 1111 e il 1115, com­parsa a stampa per la prima volta nel 1300. È stata tradotta in tedesco e commentata da Wilhelm Gundert. I volumi 1-3 sono comparsi nel 1960, 1967 e 1973; il ter­zo volume, lasciato postumo dal traduttore, presso l'edi-tore Carl Hanser, Monaco. Nei tre volumi sono contenuti 68 dei cento esempi di cui si compone l'opera.

 

Rinzai vedi: Lin-chi

 

Samadhi - cinese: San-mei; giappon.: San-mai

oppure cinese: San-mo-ti; giappon.: San-ma-ji;

La parola sanscrita significa "unione". Con questo con­cetto s’intende una condizione spirituale in cui il cuore si con-centra esclusivamente su un punto e grazie a ciò raggiunge la quiete perfetta.

 

Satori - cin.: Wu – giapp.: Mu

Il risvegliarsi alla natura propria dell'uomo. - La tradu­zione "illuminazione" non è corretta in relazione alla interpretazione "giapponese" del concetto.

 

Scotus Eriugena Johannes -

Filosofo e teologo irlandese che nell'845 dall'Irlanda venne in Francia alla corte di Carlo il Calvo e ivi mori neIl'877. Oppositore della dottrina ufficiale della chie­sa, attese alla prima traduzione latina delle opere del pseudo-mi­stico Dionigi l'Aeropagita. La sua opera originale De Divinatione naturae venne messa all'indice della chiesa nel 1210. Tuttavia a lui si deve la diffusione in occidente del lessico della mistica neo-platonica.

 

Shih-mo-ho-yen-Iu - giapp.: Shaku ma-ka-en ron

- Commento del (Ta-ch'eng) Ch'i-ssin-lun che viene at­tribuito al grande filosofo del buddhismo Mahayana Na­garjuna, il quale visse nell'India del Sud intorno al 300 d.c. La versione cinese venne portata in Giappone nell'ottavo secolo.

 

Sho-bo gen-zo (giapp)

"Occhio e tesoro della vera legge", una delle opere fonda-mentali di Do-gen.

 

Ta-chu- nome completo: Ta-chu Hui-Hai - giappon.: Dai-shu (Dai-ju) E-Kai

Un discepolo del grande maestro Ma-tsu. Autore del "Trattato per il raggiungimento del subitaneo risveglio" (trad. in inglese di John Blofeld - The Path to sudden Atteinment -, London 1948).

 

Taku-an -

Sacerdote della setta Rinzai del buddhismo Zen. Origi­nario della prefettura giapponese di Hyogo visse dal 1573 fino al 1645. Studiò nel Daitoku-ji a Kyòto e più tardi nel 1607 divenne abate di questo tempio, uno dei centri della setta Rinzai. Nel 1638 fu "fondatore" (giapp.: Kai­zan) del grande tempio Zen-Tòkai-ji che Tokugawa le­mitzu permise di edificare a Edo (l'odierna Tòkyò). È l'autore del Tò-kai ya-wa.

 

T'an-ching - oppure: Liu-tsu T'an-ching

Una raccolta di domande e risposte. L'autore è il sesto patriarca Hui-neng.

 

Tathagata - cinese.: Ju-Iai - giappon.: Nyo-rai

"Colui che cosi è andato o arrivato", vale a dire colui che è già giunto alla fine del cammino della trasfigura­zione nell'Immutabile. Perciò: il perfetto.

 

Tò-kai ya-wa

"Dialogo notturno dal Tòkai ji"; autore Taku-an.

 

Tsung-ching-Iu

Un'opera del maestro Zen del convento Yung-ming pres­so Hang-chou nel sud della Cina di nome Yen-chou, che all'inizio del periodo Sung (dal 960) morì settantaduen­ne nell'anno 975.

 

Wu-hsing-Iun

Questo scritto viene attribuito al pari del Hsùeh-mai-Iun al primo patriarca Bodhidharma; tuttavia si tratta an­che in questo caso di una attribuzione scientificamente incerta, non dimostrabile. Cosi per esempio la frase: "Dal pensiero che non conosce movimento scaturiscono tre­mila pensieri", contenuta in questo scritto, appartiene propriamente alla dottrina della setta cinese Tien-tai, che sorse in Cina cinquant'anni dopo Bodhidharma.

 

Wu ti- oppure Liang Wu-ti

Imperatore Wu della dinastia Liang del sud della Cina, usurpò il trono con il nome di Hsiao-yen intorno al 500. Fondò nel sud della Cina la dinastia Liang ed entrò nel­la storia con il nome di imperatore Wu-ti e promotore della diffusione del buddhismo. buddhista convinto si ri­tirò più volte in un monastero abbandonando il gover­no e visse come un monaco. Il suo impero durò quarantotto anni e segnò un pe-riodo di grande fioritura per l'arte e la letteratura che si richiamava a Buddha.

 

Wu-liang-shou-ching- giapp.: Mu-ryò-ju Kyò

Il cosiddetto Sukhavati Sutra (più grande) uno dei tre Amida-Sutra, che descrivono il "pa­radiso occidentale" o la "Pura Terra".

 

Yeh-tso-chieh

un capitolo del Wu-hsing-Iu

 

Yung-ming -

Abbreviazione per: Maestro-Zen Yen-chou del tempio Yung-ming. È l'autore del Tsung-ching-Iu.

 

Yui-ma-kyò - Cin.: Wei-mo-ching

È il Vimalakirti-nirdesa sutra, che studiò il noto principe giapponese Shòtoku Taishi e si diffuse nel 7° Secolo in Giappone come introduzione a un buddhismo aperto al mondo laico e tuttavia rigoroso nei suoi principi. La fi­gura maggiore di questo testo è un laico benestante e pro­fondo filosofo vissuto ai tempi del Buddha storico.

 

Zen –  cinese: ch’an;

L'espressione proviene dalla parola sanscrita Dhyana che fu resa in cinese con Ch'an-na. Nel corso del tempo il "na" scomparve e rimase il con­cetto abbreviato ch'an che in giapponese si pronuncia zen. Il significato della parola sanscrita è: concentrazio­ne della coscienza. Il buddhismo Zen (Chan) si sviluppò in Cina come scuola buddhistica particolare e dalla Cina passò successivamente in Giappone.

 

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Nota: La trascrizione delle parole cinesi con le consuete sem­plificazioni, segue il sistema del Wade-Giles che nel mon­do scientifico trova applicazione quasi dovunque; quella delle parole giapponesi il sistema Hepburn che da lungo tempo si è imposto. Conseguentemente, nei segni della scrittura cinese vie­ne applicata la forma classica, e ciò anche per evitare le discrepanze sorte fra la scrittura ci­nese moderna e la scrittura giapponese.

 

 

(gentile concessione: ed. Il Melangolo)