IL SORRISO INTERIORE…

di Aliberth Meng

 

   Devo dire che, fin da quando ho cominciato intensamente ad interessarmi della Spiritualità Orientale, sono sempre rimasto colpito dalle immagini sorridenti dei vari Guru e Maestri spirituali che, con i loro sorrisi, sembrava che mi guardassero invitanti così da farmi ben immaginare quanta gioia vi fosse nella loro illuminazione. Ed il sorriso sul volto non è solo prerogativa dei saggi della tradizione Induista, ma anche in molti di quella buddhista, come si può vedere dal meraviglioso sorriso del Dalai Lama, del Maestro Tich Nat Han, e tanti altri…

   Mi ricordo anche che, leggendo nei libri le vite illuminate di Ramana Maharshi, di Yogananda, di Aurobindo, come pure del Buddha, ma anche di Cristo e di alcuni santi Sufi, mi sentivo attratto dall’angelica seraficità delle loro persone, dal loro comportamento calmo e pacifico quando stavano in mezzo alle persone, e perfino quando, in alcuni casi, venivano discreditati e maltrattati. Essi erano sempre sereni e pressoché sorridenti, e mai nel loro volto si potevano vedere tratti alterati o elementi di frustrazione ed ostilità. Bisogna dire che, questa bella scenografia, in effetti procura molta pace nel cuore di colui che vede e si trova davanti a queste persone. E’ pur vero che il sorriso, anche fatto da persone ordinarie, mette subito di buon umore e predispone alle migliori intenzioni, ma se è fatto da uomini (o donne) di livello spirituale, di sicuro apre la mente ad un approccio più convinto, in termini di volontà di partecipazione e aggregamento verso quella disciplina, o religione, o cultura spirituale.

   Poi, però, quando in tempi più recenti, mi sono maggiormente interessato al Chan ed allo Zen, mi sono accorto che molti dei famosi personaggi della storia del Chan e Zen, non erano poi…così sorridenti o almeno, non lo erano in una maniera così tanto manifesta. Cioè, i loro volti apparivano sì, sereni, ma non con quel tipo di sorriso che potrebbe farlo sembrare quasi stereotipato, accattivante, adescante. Anzi, addirittura alcuni famosi maestri Chan e Zen, mostravano sempre un cipiglio burbero così fortemente distaccato, pur nella loro evidente calma mentale, da far pensare che nei loro volti vi fosse tutto, fuorché un invito ad approdare alla loro disciplina. Quasi come se, anziché far sorgere un’attrazione emotiva, come invece solitamente dovrebbe accadere quando qualcuno vi sorride amichevolmente, essi volessero mettervi in guardia dall’avvicinarvi e volessero proprio tenervi distanti.

   Il fatto, a parer mio, è che nella disciplina Chan e Zen, non ci si può entrare con la mente convenzionale ordinaria (quella, appunto, che è sensibile all’aspetto, alla forma e, in definitiva, al formalismo). Non è il sorriso esteriore e l’apparente calma dei tratti somatici che stabiliscono il trait-d’union fra l’insegnante di una dottrina così caustica come il Chan-Zen e l’apprendista che vorrebbe imparare a dominare la sua mente profonda. Già a vedere i ritratti di Bodhidharma, o di Ma-tsu, come pure di tantissimi altri Patriarchi e maestri Chan, si può vedere come i loro arcigni atteggiamenti del volto e del corpo appaiano tutt’altro che amichevoli e suadenti. Basta ricordare la storia di Bodhidharma ed il suo discepolo, il primo Patrairca Hui-ké che, sprofondato nella neve, dovette tagliarsi un braccio per dimostrare al suo maestro, che lo aveva lasciato volontariamente fuori nella tormenta, di essere veramente e totalmente intenzionato a praticare il Dharma, chiedendo al maestro di volerlo così accettare come suo discepolo.

E tantissime altre storie ci narrano dell’apparente scontrosità dei maestri Chan e Zen nel trattare coi loro discepoli, ed anche coi potenti che, in qualche modo, volevano ingraziarseli. Essi erano quasi sempre bruschi e scortesi, ma bisogna però dire che, una volta che il ghiaccio era rotto ed essi potevano vedere l’onestà spirituale e la forte motivazioone dei loro discepoli, diventavano subito dolci e teneri come padri affettuosi, pur mantenendo nei tratti del viso e nel comportamento esterno quella caratteristica durezza, totalmente priva di un qualunque sorriso accattivante.

Questo però non significa che all’interno, essi non fossero invece compassionevoli. Anzi, si può dire che quanto più essi erano scorbutici e scontrosi all’esterno, tanto più la loro intima compassione per le sofferenze e per la misera condizione degli umani si manifestasse nel loro interno e nel desiderio che questi esseri sofferenti potessero abbandonare le forme esteriori (quindi, anche quelle delle convenzioni formali) per arrivare ad una vera comprensione della vacuità e della apparente realtà del mondo dei fenomeni.

Ci sono esempi anche nel Buddhismo Tibetano. Per esempio, nel caso di Marpa e del suo discepolo Milarepa. Chiunque abbia letto la storia, si sarà meravigliato della assurda e impassibile durezza di Marpa che, per ben dodici anni, tormentò Milarepa in modo così disumano, facendogli erigere e poi distruggere tantissime costruzioni di torri di pietra, fino a che quest’ultimo, disperato e sconfortato decise di lasciarlo e di andarsene a stare per conto suo. Naturalmente, poi, quando essi si rincontrarono, proprio mentre Marpa stava per morire, il discepolo Milarepa comprese quanto amore invece il suo maestro aveva avuto per lui, proprio per aiutarlo a distruggere il suo coriaceo e terribile ego (che è un po’ la situazione di tutti noi).

Stessa cosa, qualche secolo prima, era accaduta in Cina tra Nan-chuan e Chao-chou. Quest’ultimo, pur essendo il discepolo prediletto di Nan-chuan, dovette subire una serie infinita di frustrazioni e prepotenze da parte del suo maestro, finché un giorno, preda ormai della più totale disperazione, Chao-chou prese una zappa e minacciò Nan-chuan di colpirlo. Quello, allora, fu il momento della ri-appacificazione, perché Nan-chuan comprese che finalmente il suo discepolo si era emancipato (“Il tigrotto ha messo i baffi!”, è la frase con cui ci viene ricordato l’ammissione dell’illuminazione di Chao-chou, fatta dal suo maestro).

Perciò, vediamo che a seconda di quale disciplina noi pratichiamo, non dobbiamo assolutamente cadere nella trappola di considerare l’aspetto formale (quindi, il sorriso, più o meno aperto e manifesto) come distintivo di una qualche apertura verso la liberazione mentale. Non è tanto il sorriso esteriore che conta, quanto un certo tipo di sorriso interiore che, ovviamente, può esservi tanto in colui che lo manifesta all’esterno, quanto in chi se lo tiene gelosamente segreto dentro di sé, manifestando però un amore e compassione altrettanto potente ed efficace. Nel Chan, è sempre, o quasi, accaduta la seconda ipotesi. Non si pensi, quindi, nel vedere la ‘seriosità’ di un praticante del Chan, “Guarda quanto è scontroso e burbero, questo insegnante. Lo vorrei più sorridente e amichevole!”. Imparate a conoscerlo meglio, più in profondità, ed allora potrete scoprire una grande umanità e compassione, un vero e proprio sorriso smagliante sulla bocca e sul volto, che si apre all’interno del suo cuore!. ----------------------JJJ