COLUI CHE VA, NON VA…’(La Vacuità di Nagarjuna)

 

(Tratto da “A GOER DOES NOT GO” di Sadakata Akira- Prof. della Tokai University e ripreso dalla Rivista ‘Japanese Trade & Industry’ del 1,2, 1999-) (Trad. da M. R. e  A. M.)

    ^^^^^^^^^^^^^^^^^

 

L’asserzione ‘Colui che va, non va…’ (ganta na gacchati) è tratta dal Mulamadhyamakakarika di  Nagarjuna, il massimo filosofo buddhista dell’India del Terzo secolo a.C., che la usava per spiegare il principio della ‘Vacuità’. Come molti sanno, la VACUITA’ è l’essenza della filosofia buddhista. Essa insegna che ciò a cui noi, condizionati individui occidentali di oggi, ci riferiamo come ‘sostanza materiale’, in realtà, non esiste. ‘Vacuità’ è il corrispondente del termine sanscrito ‘Shunyatà’, una parola difficilmente traducibile nelle lingue occidentali, dato che non c’è alcun concetto di questo tipo, nel pensiero occidentale. Tuttavia, benché gli studiosi occidentali delle filosofie Indiane abbiano reso ‘shunyatà’ con ‘vacuità’, questa traduzione ci porta ad un fraintendimento, perché essa è sinonimo di ‘non-esistenza’, cioè l’opposto dell’esistenza.

Per il pensiero Occidentale, ciò che non esiste è non-esistente; di converso, se qualcosa non è ‘non-esistente’, deve esistere, poiché non c’è uno stato intermedio (legge dell’esclusione intermediale). Il termine ‘vacuità’ invece, si riferisce ad uno stato dell’essere che è né esistente né non-esistente. Persino tra i buddhisti che hanno a lungo studiato il buddhismo, ve ne sono molti con una opinione errata che ritengono che ‘vacuità’ sia sinonimo di ‘non-esistenza’ e, benché deliberatamente cerchino di non confondere i due concetti, tuttavia a livello inconscio, lo fanno. Ciò dimostra quanto sia difficile ottenere una corretta comprensione del concetto di ‘vacuità’. Per di più, questo è stato un problema fin da quando la filosofia della Vacuità fu proposta, tant’è che a coloro che confondevano la vacuità con la non-esistenza, veniva dato questo ammonimento ‘Anche la vacuità è vuota’.

E’ virtualmente impossibile far uscire le persone dal loro fraintendimento, con questi mezzi, perché esse confonderanno sempre la vacuità, assumendo come base la frase ‘Anche la vacuità è vuota’, per designare la non-esistenza, postulando così una nuova forma di ‘non-esistenza’. Per poterle liberare da questa incapacità a comprendere, si potrebbe forse dir loro: “Perfino il fatto che la Vacuità sia vuota, è il Vuoto Stesso!” Ma ciò probabilmente non servirebbe, dato che esse semplicemente postulerebbero una ulteriore forma di ‘non-esistenza’. Alla fine, nessun carico di parole potrebbe servire a coloro che sono sottomessi ad una visione pregiudizievole, che in questo caso è l’idea che vi sia una sostanza o entità, corrispondente ad ogni parola. Per cui, questi individui riterranno che la parola ‘vacuità’ significhi un particolare tipo di sostanza. In altre parole, essi identificano la ‘vacuità’ con la ‘non-esistenza’.

Normalmente, noi riteniamo che ‘non-esistenza’ non rappresenti una ‘sostanza’, ma piuttosto l’assenza di essa. Sia come sia, si tratta comunque di un’illusione. Quando noi diciamo “C’è lo spazio”, ‘spazio’ (cioè il vuoto non-esistente) rappresenta una sostanza, come viene dimostrato da Newton. All’Università, io spiego ai miei studenti la differenza tra ‘vacuità’ e ‘non-esistenza’ nel modo seguente. Entro nella classe, mi dirigo verso la cattedra e metto la mia valigetta sotto di essa, in modo che gli studenti non possano vederla. Poi, dopo aver parlato per circa trenta minuti, mi chino lentamente e, senza più parlare, prendo la valigetta da sotto e la pongo al di sopra della cattedra. Gli studenti, chiedendosi che cosa stia accadendo, fissano lo sguardo sulla valigetta ed io, dopo aver appurato questo fatto, rimetto la valigetta sotto la cattedra, iniziando la mia spiegazione. Dico loro che ora stanno certamente osservando lo spazio sopra la cattedra, con la consapevolezza che la valigetta non è più lì. In altre parole, essi stanno associando quello spazio con un certo tipo di non-esistenza. In ogni caso, lo spazio di adesso sopra la cattedra è identico allo spazio che era sopra la cattedra durante i primi trenta minuti. Durante quei trenta minuti, gli studenti non avevano avuto nessuna idea di non-esistenza riguardo a quello spazio. Vi era stata, quindi, una condizione anteriore a qualsiasi divisione tra esistenza e non-esistenza, tanto che essi avrebbero potuto dire di osservarlo con mente libera da ogni preconcetto. Queste due posizioni, nei riguardi dello stesso spazio, corrispondono alla differenza tra ‘non-esistenza’ e ‘vacuità’.

Potrei aggiungere che i grandi pensatori Ch’an e Zen si riferiscono allo stato di non-consapevolezza come ‘non-mente’, usando spesso questo termine per intendere ciò che essi ritenegono lo stato ideale dell’Essere. Non vi è dubbio che cercare di spiegare il significato di ‘vacuità’ è una cosa senza senso, per quante parole si possano spendervi, essendo emerso nel buddhismo l’assioma che la Verità Ultima (o la Verità della Vacuità) è oltre ogni espressione verbale. Questo significa che si deve lasciar andare ogni idea di usare il linguaggio per spiegare la verità. Abbandonare l’uso del linguaggio equivale ad abbandonare la differenziazione, perché l’essenza del linguaggio si basa sul differenziare una cosa dall’altra.

Per esempio, la parola <grande> differenzia ciò che è grande da ciò che non lo è, indicando la prima possibilità. D’altra parte, la parola <bianco> distingue ciò che è bianco da ciò che bianco non è, <libro> tra ciò che è il libro e ciò che non lo è, ed <esistente> distingue tra ciò che è esistente da ciò che è non-esistente. Perciò, il termine buddhista per far a meno del linguaggio (inclusi i concetti, che sono parole non ancora espresse) è <non-differenziazione> o <non-discriminazione>, mentre l’aspetto del mondo prima della differenziazione, è descritto come ‘non-duale’. Non a caso, si potrebbe accennare che, etimologicamente, il prefisso “dif/dis” significa “due volte”, mentre il termine Giapponese ‘Kotowake’, che ha il valore di ‘scusante’, letteralmente significa “dividere (wake) una faccenda (koto)”. L’accorto lettore si sarà avveduto che se il linguaggio non può darci la verità, ancor di più parole come “non-dualità” o “non-differenziazione” non possono illuminarci sulla verità. In realtà, è così, ed i filosofi buddhisti ne erano pienamente consapevoli.

In un certo Sutra troviamo il seguente episodio: “Una volta, i discepoli del Buddha stavano discutendo su ciò che significasse ‘comprendere la non-dualità’. Uno dei discepoli disse: - Nascita e morte sono una dualità, ma in realtà nulla nasce e nulla muore; capire questo è comprendere la non-dualità –. Un altro discepolo disse: - Io (soggetto) e mio (oggetto) sono una dualità; laddove c’è ‘Io’ c’è anche ‘mio’; ma se non c’è alcun ‘Io’ non c’è neanche nessun ‘mio’; la comprensione di ciò è chiamata ‘comprensione della non-dualità’ -. Infine, un altro discepolo disse: - Gli esistenti e la vacuità sono una diualità, ma esistenti e vacuità di fatto sono identici; capire questo è comprendere la non-dualità! -. Dopo che ebbero ognuno espresso il loro punto di vista, i discepoli interrogarono Manjushri, che era noto per la sua saggezza, riguardo a come egli la pensasse. Così egli rispose: - Tutte le cose trascendono i reami della parola e del discorso, per cui ‘comprendere la non-dualità’ significa abbandonare ogni argomento e discussione.”

La risposta di Manjushri andava ben oltre le risposte dei discepoli. Considerato che essi erano rimasti inconsapevoli dei limiti del linguaggio nei loro discorsi, Manjushri capì i loro limiti e li sottolineò. “Alla fine Manjushri disse a Vimalakirti, l’unico che non aveva ancora parlato: - E’ il tuo turno; cosa si intende con ‘comprendere la non-dualità’? – Vimalakirti restò in silenzio, senza dire una parola. Poiché sembrava totalmente sereno e pieno di fiducia, Manjushri esclamò: - Eccellente, eccellente! Tu non hai pronunciato una parola e quindi sei tu che hai spiegato nel modo migliore che cosa significhi ‘comprendere la non-dualità’! –”.

Ma, anche dopo aver ascoltato episodi del genere, la nostra fede nel linguaggio può rimanere salda come prima. Noi abbiamo sempre creduto alla nascita ed alla morte, ed ora il credere che le cose stanno proprio così, non ci è affatto di aiuto. Ciò è sorprendente perché, da quando siamo venuti in questo mondo, siamo cresciuti in un ambiente dove l’uso di questo linguaggio è la norma, non avendone noi mai avuto motivo di dubitarne. A coloro tra noi che possiedono una fede incrollabile nel linguaggio, la vacuità appare come un vero ‘dogma’ e, anziché come oggetto di comprensione, esso appare un oggetto di ‘fede’. Se possibile, noi vorremmo essere portati alla comprensione della Vacuità tramite il mezzo linguistico, cioè con la logica, mentre invece i filosofi della Vacuità, a quanto pare, erano estranei a tali metodi di insegnamento.

Per l’appunto, proprio Nagarjuna risponde a questi nostri desideri e, una delle espressioni che egli usava a tale scopo, era la frase citata all’inizio: “Colui che va, non va”. Le persone normalmente ritengono che il viandante (cioè Colui che va…) sia uno che va…, ma Nagarjuna lo nega: “Com’è possibile che ci sia Chi va, quando senza l’atto di ‘andare’, non potrebbe esservi nessun soggetto che va?”. Questa asserzione può apparire difficile da capire, ma ha un suo preciso significato.

L’idea che “Colui che va, va” è postulata sull’assunto che la persona che va e l’atto di andare siano due fenomeni distinti. Tuttavia, “La persona che va” contiene già in sé l’atto di andare e non ha bisogno di essere collegata ad alcun atto di andare, dal momento che ‘uno che va’ è logicamente impossibile che ‘non vada’. Perciò, la proposizione “Colui che va, va” dà origine alla contraddizione che vi siano due ‘atti di andare’ e ciò è chiarito dalle parole di Nagarjuna: “Se la persona che va, fosse ‘l’andare’, ne conseguirebbe che ci sarebbero due atti di andare”. Il primo atto è inerente alla parola ‘Colui che va’ mentre il secondo è lo stesso ‘atto di andare’, che rappresenta il movimento compiuto dal viandante.

In più, se vi fossero due atti di andare, ciò porterebbe all’assurda conclusione che in uno, vi siano due persone che vanno, dal momento che è impossibile che ci sia solo un atto di andare senza il soggetto che lo compie. Questo ragionamento ci porta a penetrare dentro l’essenza del linguaggio. Ogni fenomeno costituisce un tutto completo che non può essere diviso in parti ma, quando ci proponiamo a rappresentarlo con i mezzi del linguaggio, dobbiamo passare attraverso il processo di dividerlo prima in un soggetto ed in una azione, e poi riassemblare le due parti.

Ciò risulta chiaro nella frase “Colui che va (soggetto)/ va (verbo o predicato)”; sembra che ogni comunicazione sia di questo tipo. Quando un immagine è trasmessa elettronicamente, viene prima dissezionata in piccole aree elementari, le cui ombre e toni sono convertiti in segnali elettrici corrispondenti, che vengono poi inviati alla stazione ricevente dove sono riconvertiti al fine di riprodurre l’immagine originale. Tutti oggi lo sanno, ma nessuno pensa mai di applicare questo tipo di conoscenza  al linguaggio. Ed è a questo fatto che – inavvrtito da noi tutti – Nagarjuna allude.

Comunque, la spiegazione di Nagarjuna non ci è di grande aiuto; ciò accade perché la frase innaturale “colui che va, va” non è usata nel linguaggio di tutti i giorni e, di conseguenza, la gente si domanda se il suo criticismo possa essere applicato altrettanto validamente al parlare comune. Per dissipare questo dubbio, proverò ancora ad intrattenermi sulla sua esposizione. I nostri discorsi di tutti i giorni sono composti da frasi di questo tipo: “John va”, “John cade”, “John ride”, “John piange”. Da tali espressioni noi estraiamo un’entità che non cambia: ‘John’. Quindi, propriamente parlando, questo ‘John’ è ‘uno che va, che cade, che ride e che piange o che fa una qualsiasi altra cosa. Tuttavia noi ipotizziamo un John che non è collegato a nessuna di queste azioni. In nessuna circostanza può esistere alcun ‘John’ astratto, eppure noi siamo persuasi che questo John astratto esista.

Consideriamo ora la seguente serie di frasi: “John va”, “Mary va”, “Il cane va”, “Il treno va”. Sulla base di tali frasi noi astraiamo l’azione universale di andare. Ma non esiste di per sé una tale azione di andare. C’è sempre qualcuno o qualcosa che va. Nonostante ciò, noi tacitamente diamo per scontato che esista di per sé un atto di andare. Continuiamo quindi ad interpretare continuamente i fenomeni allo stesso modo. Crediamo che esistano varie sostanze ed entità, ciascuna delle quali sceglie di compiere certe azioni. In altre parole, siamo convinti che esistono sostanze ed azioni ciascuna indipendentemente l’una dall’altra e che una particolare sostanza si combina con una determinata azione, a seconda dell’occasione.

In tale guisa, l’idea di una ‘sostanza’ diventa profondamente radicata nella nostra mente, tramite comuni frasi del tipo “A fa B”. Questo accade specialmente nel caso delle moderne lingue Europee, che sono caratterizzate dalla struttura linguistica <Soggetto + Verbo> (S+V) (In molte altre lingue, come il Giapponese, il soggetto viene frequentemente omesso).

All’inizio, il lettore può essere portato a pensare che Nagarjuna abbia semplicemente sostituito la frase “Colui che va, va” alla frase “John va”, per supportare le sue argomentazioni, ma dovrebbe esser ormai chiaro che nella proposizione “John va”, non c’è alcun John se non un John ‘che va’; invece la gente pone prima un John che non è collegato all’atto di andare e poi lo unisce a quell’azione e dice: “John va”. E  ciò, semmai, rappresenta una forzata sostituzione di parole. Prima avevamo considerato il caso del Soggetto + Verbo (S+V), ma lo stesso discorso si può fare anche nel caso ‘Soggetto + Verbo + Oggetto’ (S+V+O). Supponiamo, ad esempio, che io bastoni un cane; prima che questa azione sia espressa con il linguaggio (cioè prima che consciamente io la concepisca con il pensiero), ‘Io’ ‘bastonare’ e ‘cane’ costituiscono un singolo fenomeno indivisibile, in cui non esiste alcun ‘Io’ separato da ‘bastonare’ e da ‘cane’. Questo stato viene descritto da qualche filosofo Giapponese come ‘la non-separazione di soggetto ed oggetto’-.

Solamente quando questo fenomeno si imprime nella nostra coscienza e viene verbalizzato, viene anche diviso in soggetto ed oggetto e si manifesta con tre elementi indipendenti quali ‘Io’, ‘cane’ e l’atto di battere, l’ultimo dei quali lega i primi due. Ho precisato prima che ciò accade quando si trasmette una informazione e l’atto di divenire consci di qualcosa può essere considerato equivalente alla trasmissione dell’informazione, per cui rappresenta quest’ultima fatta da se stessi a se stessi. I due stadi, prima e dopo la verbalizzazione, si possono considerare corrispondenti alla differenza tra sensazione e giudizio.

Tutto ciò ci richiama le parole di Goethe: “Le orecchie e gli occhi non mentono; è il giudizio che mente!”. Quando noi vediamo una corda e la scambiamo per un serpente, pensiamo che siano i nostri sensi a sbagliare e che poi il giudizio corregga l’errore. Forse poiché gli animali di ordine inferiore sono anche dotati di sensi diversi, noi riteniamo che i sensi siano grossolani ed il giudizio invece raffinato. Ma è il nostro giudizio che ha sia scambiato la corda per un serpente e poi corretto l’errore; i sensi non sbagliano mai perché essi sono al di là del giusto e dello sbagliato; è il giudizio che commette gli errori e poi, semmai, li corregge (come ci ricorda Nietzsche, nel suo “Reason in Philosophy”).

Un’altra caratteristica del linguaggio è che le stesse parole sono usate in continuazione senza cambiare la loro forma e questo fatto contribuisce a farci credere che esistano entità immutabili, corrispondenti alle singole parole. Così pensiamo che se esiste la parola, deve esistere l’entità o la sostanza corrispondente. Nella maggior parte dei casi non c’è nulla di male a pensare così, e infatti gli esseri umani hanno aderito a questo modo di pensare per la semplice ragione che ciò ha portato vantaggi e, come risultato, sono state create grandi civiltà. Ma talvolta noi dimentichiamo l’essenza vera del linguaggio e siamo colpiti dalle parole, soffrendo per i loro negativi effetti.

Consideriamo ora alcune parole nocive, “Io”. Questa è la parola con cui abbiamo la più grande affinità, ed è anche quella più ripetuta; di conseguenza, la nostra fede nell’esistenza di una entità immutabile chiamata ‘Io’ (ma potrebbe anche essere chiamata ‘anima’) è diventata tra le più radicate. Ciò dà origine alal consapevolezza di sé, alla quale essa poi pone un altro limite e questa consapevolezza di sé diventa un fardello psicofisico che causa numerosi conflitti con ‘gli altri’. Al tempo stesso, questo senso della consapevolezza di sé ci porta a concepire false idee pure sulla nostra morte. Noi immaginiamo un universo esistente in cui siamo solo noi a sparire. In questo modo concepiamo la nostra morte e ciò ci spaventa profondamente.

Ma stiamo dimenticando che è per il fatto di essere vivi che noi immaginiamo queste cose. Per qualunque essere vivente è impossibile visualizzare davvero la propria morte. Nondimeno, la ragione per cui indulgiamo in queste fantasie è perché, dato che esiste la parola ‘Io’, riteniamo che esista anche una entità ‘Io’, che sia indipendente dall’universo. Cosippure la parola ‘Individuo’ acuisce questa illusione. Un individuo non è altro che un’astratta nozione. In realtà, ognuno è padre o figlio di qualcuno e si può essere Americani o Giapponesi o Europei. Ma una persona che sia indipendente da ogni relazione, cioè che sia una individualità, semplicemente non esiste.

Anche la parola ‘Atomo’, che significa l’ultima, irriducibile forma della materia, appartiene a questa serie. Ogni fisico che creda che un giorno sarà possibile catturarlo è una persona caduta nella trappola delle parole. Un atomo non è altro che una parola e, nella realtà, una tale cosa non esiste. - “Infinito”. I fisici hanno dibattuto ripetutamente se l’universo sia finito o infinito, e gli argomenti a sostegno della prima tesi sono i più stringenti. Ma pure questo dibattito è un ‘non-senso’, perché ‘finito’ e ‘infinito’ non esistono in quanto, in realtà, sono solo parole.

Non voglio però lasciare una impressione falsata. Nonostante ciò che io ho dichiarato finora, i filosofi della Vacuità non ci impongono di abbandonare il linguaggio. Se noi non perdiamo di vista la natura effimera del linguaggio, è di certo vantaggioso servirsi pienamente di esso. Poiché parole come ‘anima’ e ‘individuo’ rendono felice la gente, e parole come ‘atomo’ e ‘infinito’ contribuiscono alla sviluppo della scienza e della tecnologia, bisogna dire che il linguaggio va usato nella sua totale capacità. In questo senso, le parole sono strumenti e, così come un coltello, possono essere sia pericolose che benefiche. La Filosofia dfella Vacuità non ci insegna soltanto la vera natura del mondo, ma ci offre pure la saggezza per evitare che il linguaggio possa diventare un utensile letale come un’arma.

 

***********************************************************

IL SUTRA DEGLI OTTO RISVEGLI

(Tratto dal libro "Tre Sutra buddhisti Inediti" di John Blofeld,

(trad. a cura del Movimento Neodiano- Realpa- Terni

Questo sutra contiene materiale che deriva direttamente dagli Insegnamenti dati dalle parole del Buddha e introduce la concezione di base del Mahayana. Esso è il comandamento del Bodhisattva che ritorna all'esistenza, dai margini del Nirvana finale, per poter dedicare se stesso alla salvazione di tutti gli esseri viventi. Il nome completo del Sutra è "Il Sutra sugli Otto Risvegli dei Grandi" e si dice che sia stato portato in Cina da un monaco persiano, dal nome cinesizzato di An Shih Kao, durante la tarda dinastia Han (circa 25-250 d.C.).

------------------------------------------------------------------------------------

"I discepoli del Buddha recitano costantemente, con ardore e devozione "Gli Otto Risvegli dei Grandi (1)", di giorno e di notte".

----------------------------------------------------------------------------

Il Primo Risveglio.

"Il mondo (2) è impermanente e l'esistenza di popoli e nazioni è destinata soltanto a migrare. I quattro elementi che costituiscono il corpo (3) sono una fonte di pena e (in realtà) sono totalmente vuoti. I cinque aggregati (4) non costituiscono il reale <sé>. Gli eterni cambiamenti tra nascita e morte (e morte e rinascita)(5) sono vuoti, falsi, e al di là della possibilità di controllo. La mente è la fonte del male ed il corpo è il covo delle perversità. Tramite una tale percezione, viene una tale libertà da nascita e morte (6)".

Il Secondo Risveglio.

"Avere molti desideri è un'afflizione. (Il circolo di) nascita e morte (7), che è fonte di grande affaticamento, deriva dal desiderio. Quando i desideri vengono diminuiti e ci si astiene da tutte le azioni (che conducono alla produzione di cattivo karma) la mente ed il corpo esistono indipendentemente (dalla catena di causa ed effetto, che altrimenti continuerebbe ad unirli alla ruota di nascita e morte)".

Il Terzo Risveglio.

"Quando la mente rimane insoddisfatta, già questo sfocia in un tale numero di desideri che fanno aumentare l'assommarsi di perversità e male. Un Bodhisattva (8) non è così. I suoi pensieri sono continuamente quelli dell'essere pago e di stare nella tranquillità. Accettando la sua sorte, per quanto povera possa essere, egli mantiene la Via non indulgendo in alcuna altra attività, che non sia quella di guidare, se stesso e tutti gli altri esseri, verso l'Illuminazione".

Il Quarto Risveglio.

"Pigrizia e negligenza conducono ad arretramento. E' necessario sforzarsi con diligenza e continuità per distruggere le tre afflizioni (9) sottomettendosi ai quattro destini (10), per far si che si possa sfuggire alla prigione dell'esistenza sensoriale (11)".

Il Quinto Risveglio.

"Gli ignoranti sono infatuati da (il circolo di) vita e morte, ma il Bodhisattva pondera continuamente sulla Via, studiandola profondamente e (passando) molto (tempo) nell'ascoltare (i discorsi ad essa concernenti) allo scopo di aumentare la sua conoscenza ed ottenere quei poteri verbali (grazie all'aiuto dei quali) egli converte gli esseri, essendo siffatte conversioni accompagnate tutte da grande gioia".

Il Sesto Risveglio.

"Il mormorare costantemente contro povertà ed afflizioni sfocia in (una mente) sempre più profondamente immischiata nel cattivo karma. Il Bodhisattva dà (il suo aiuto) generosamente, non facendo differenza tra coloro che lo trattano male e quelli che lo tengono caro(12). Egli non si basa neppure sui vecchi errori e non sente odio alcuno per gli uomini cattivi".

Il Settimo Risveglio.

"I cinque desideri (13) sono il male e portano calamità nella loro scia. Anche i laici non dovrebbero consentire a se stessi di essere contaminati dai godimenti mondani, ma con costanza dovrebbero pensare alle tre vesti ed alla ciotola di terra per mendicare. Con questi simboli della Dottrina, essi dovrebbero formare una salda intenzione di lasciare la loro casa, in modo tale da mantenere la Via in tutta purezza. Essi dovrebbero praticare il più alto grado di vita pura e mostrare compassione per tutti gli esseri".

L'Ottavo Risveglio.

(Il circolo di) vita e morte è come un impetuoso fuoco ed è accompagnato da dolore immensurabile. Siate attenti a coltivare il cuore Mahayana e ugualmente pronti a liberare tutti gli esseri senzienti. Siate capaci di soffrire innumerevoli afflizioni per conto loro e vogliate infine condurli tutti a trovare la gioia infinita".

"Fu per mezzo di questi otto, che i Buddha e i Bodhisattva raggiunsero l'Illuminazione. Essi, diligentemente seguendo la Via, con l'esercizio di compassione e conoscenza, si imbarcarono sulla zattera del Dharmakaya (14) e navigarono verso le sponde del Nirvana. Indi ritornarono al regno di vita e morte per trasportare altri nella traversata. Con questi otto mezzi essi iniziano l'istruzione di tutti gli esseri e li conducono a risvegliarsi all(inevitabile) dolore (che è inseparabile dal circolo di) nascita e morte, allo scopo di allontanare da se stessi i cinque desideri e coltivare il Nobile Sentiero nei loro cuori. Se un discepolo del Buddha li intona e, nel momento in cui li recita, pondera su di essi, sarà purificato da immensurabili colpe. Egli progredirà verso l'ottenimento della Suprema Saggezza (15) e rapidamente, diverrà Illuminato. Per lui, nascita e morte saranno per sempre finiti, dimorando così per l'eternità nella felicità".--------------------

NOTE:

1) Per "Grandi" qui si intende i Buddha ed i Bodhisattva.

2)"Kuo t'u" (paese, landa) è qui usato per indicare una divisione dell'universo di cui questo mondo è solo una piccola parte.

3)"I quattro elementi" qui significano il corpo stesso. Essi sono 'solidità (terra), umidità (acqua), calore (fuoco) e vapore o fiato (aria)'.

4) "I cinque aggregati" (sanscrito: skandha) sono 'forma, sensazione, concezione o percezione, volizione o discriminazione e cognizione o coscienza'. Essi formano una classificazione molto antica dei vari componenti che producono l'illusione dei fenomeni, partendo dall'idea di forma e finendo con i funzionamenti della mente in risposta alle sensazioni prodotte dalla forma. Ma, dal buddhismo, questa iniziale 'forma' è ritenuta illusoria. Giacché la forma è illusoria, questa individualità non ha alcuna ragione di esistenza.

5) Con ciò si intende l'esistenza samsarica, che è ritenuta consistere in un cerchio di cambiamenti che continuano in risposta alle cause prodotte dal desiderio.

6) Questa libertà implica l'entrata nel Nirvana, lo stato che giace al di là del mondo dei fenomeni e che è identico alla Realtà Suprema, che soggiace all'apparenza dei fenomeni.

7) Di nuovo, ciò implica il mondo dei fenomeni.

8) Secondo la concezione Mahayana, un Bodhisattva è colui che ha raggiunto l'orlo, o porta, del Nirvana ma che mantiene il contatto con l'esistenza fenomenica allo scopo di poter aiutare tutti gli altri esseri ad ottenere la stessa possibilità, vale a dire l'Illuminazione.

9) Desiderio, odio e ignoranza.

10) I quattro destini sono nascita, malattia, vecchiaia e morte.

11) lett. "La prigione dei diciotto dati sensoriali". Essi sono i sei organi di senso (occhio, orecchio, naso, lingua, corpo e mente) con le sei facoltà e i sei oggetti relativi.

12) lett. "ch'in", parola cinese che implica sia chi ci vuol bene e sia le persone a cui si vuol bene.

13) Desideri per le cose viste, sentite, odorate, assaporate e toccate.

14) qui usato per significare la Realtà Ultima.

15) vale a dire, il Bodhi, o Prajna.