I SUTRA del buddhiSMO CHAN CINESE: 

Il Primo Capitolo del  “Leng-Yen-Ching” 

(Sutra del Fermo Stabilirsi nella Dottrina)

di J. EDKINS, D.D.  Ed. KEGAN PAUL, LONDRA, [1893] 

{redatto da Christopher M. Weimer, maggio 2002} 

(Tradotto da Aliberth- Alberto Mengoni)

  

IL PRIMO CAPITOLO  del  LENG-YEN-CHING.--

(Il Sutra del fermo stabilirsi nella Dottrina - che descrive chiaramente il merito segreto e i conseguimenti nella vita religiosa del Tathâgata, che appare come il Buddha nella sua grande ed insuperabile statura; con in più le molte azioni dei Bodhisattva. Esso è stato anche chiamato Chung-yin-tu-na-lan-to-ta-tau-ch'ang-ching. "Il Sutra di Nalanda, il luogo di grande adorazione, in India Centrale"). 

  

Il monastero di Nalanda, nel regno di Magadha, l’attuale Bihar, era enorme e durò per più di sette secoli. Il viaggiatore cinese Hiuen-tsang lo visitò. Egli vi trovò diecimila monaci che vivevano in sei edifici eretti da molti monarchi, formanti insieme un luogo in cui si stabilirono molti asceti, il più splendido dell’India. Esso fu celebrato come un luogo di studio sia per i libri del Brahmanesimo che del buddhismo, e fu dedicato allo studio di quel ramo della dottrina buddhista chiamata il "Maggiore Sviluppo". Grazie alle leggende connesse con questo fiorente luogo di buddhismo, la traduzione di M. Julien dei viaggi di Hiuen-tsang, da cui ho estratto questi fatti può essere consultata. Esso si trova a circa trenta miglia a sud-est della moderna Patna. La traduzione cinese del Leng-Yen-Ching fu fatta a Canton nell’anno 705 d.C., da Paramiti, un monaco buddhista Indiano. Egli fu assistito da Yung-pi, un Cinese, e Migashakya, un nativo di Udyana, un paese a nord-ovest del Kashmir. 

  

La TRADUZIONE INGLESE del SUTRA. 

   “Così io ho udito:-- Una volta, il Buddha era nella città di Shravasti, nella cappella nel boschetto di Jeta. Egli era là con milleduecentocinquanta Bikshu, suoi discepoli, che avevano tutti raggiunto il rango di Arhant. Questi figli di Buddha erano in pace nelle loro menti, avendo fermamente compreso la dottrina del loro maestro, ed eccellendo in bontà. In ogni paese, essi erano modelli di virtù e di dignità. Essi attendevano alle "regole monastiche" (Vinaya) con cura esemplare. Assumendo senza limiti qualunque forma fisica che serviva, essi potevano salvare gli esseri umani dalla sofferenza. I loro nomi erano Shariputra, Maha Maudgalya-yana, Maha Kuhila, il figlio di Puruna, Mitarani, Subhûti, Upanishata, ed altri. 

   Oltre ad essi, innumerevoli Pratyeka, insieme con molti altri che avevano iniziato da poco a desiderare l’aumento della conoscenza, vennero nel luogo in cui stava il Buddha, verso la fine dell’estate, pentendosi delle loro precedenti azioni malvagie. 

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   Commento.--Shravasti era situata là dove ora c’è la provincia di Oude. I Pratyeka in Cinese sono chiamati P'it-ti, o P'it-ti-ka-la. In Sanscrito, essi sono denominati "Pratyeka-buddha", ed in Cinese Yuen-kioh, "quelli che hanno raggiunto l'intelligenza con lo studio delle cause". Quando nella storia del mondo c’è un periodo in cui non vi è un Buddha, appaiono i Pratyeka e, arrivando alla percezione della dottrina in sua assenza, prendono il suo posto come insegnanti fino a quando egli arriva. 

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   Era il tempo in cui i Bikshu alla fine dell’estate erano sciolti dai loro vincoli. Da ogni regione i Bodhisattva venivano a fare delle domande per rimuovere tutti i loro dubbi. Essi ascoltavano rispettosamente, e cercavano di sapere i pensieri segreti del loro insegnante. Il Tathâgata sedeva in atteggiamento tranquillo, rivolgendo al suo pubblico profonde dottrine che essi non avevano mai sentito prima. La sua voce, come il canto del Kalavingka, penetrava i confini del mondo. Tutti i Bodhisattva presenti alla riunione erano numerosi come i granelli di sabbia del Gange ed il principale fra loro era Manjusri. 

   A quel punto, il re Prasenajit, in memoria della morte di suo padre, aveva preparato un pasto vegetale per il Buddha. Egli invitò il Buddha agli appartamenti interni del suo palazzo, e egli stesso venne a chiamarlo insieme ai Bodhisattva.    In città vi era anche un uomo di rango che aveva invitato i monaci ad una festa, e stava aspettando l'arrivo del Buddha. Il Buddha inviò Manjusri insieme ad alcuni dei Bodhisattva ed Arhant per partecipare alla festa in suo luogo. 

   Ananda che era stato invitato da solo in un altro luogo ad una certa distanza, non era ancora ritornato. Egli era in ritardo per prendere parte alla festa insieme agli altri, e non c'era nessun monaco anziano con lui, né un A-je-li per ammonirlo. Egli stava facendo ritorno da solo ed a mani vuote. Quando passò lungo le strade tenendo nella sua mano una ciotola, egli chiese elemosine porta a porta. Egli desiderava di poter essere intrattenuto da qualcuno che non avesse già invitato i monaci. Lui non avrebbe chiesto se le vivande fossero o no piacevoli al gusto, se l'oste fosse della casta Kshatrya, o appartenesse ai Chendara. Provando la stessa gentile disposizione verso il ricco e il povero, egli non dava la preferenza ai poveri, ma era ansioso che tutti quelli che incontrava avrebbero dovuto ottenere la piena felicità (dal loro donare). 

   Ananda sapeva che il Buddha aveva biasimato Subhûti e Kashiapa, perché essi non avevano ottenuto la giustizia imparziale degli Arhant, e aveva riverentemente ascoltato il suo saggio consiglio per alleviare gli scrupoli e prevenire i sospetti e le calunnie. Attraversò il fossato, e si avvicinò lentamente al cancello. Serio era il suo contegno. Era quello di uno che osservava con riverenza le regole dietetiche. Sulla strada, passò davanti alla casa di una prostituta, e cadde sotto l'influenza dell’infatuazione. Matenga, grazie al suo fascino, avuto da Brahma come Sabikara, lo attirò sul suo divano, e lui stava quasi per rompere il suo voto di castità. 

Il Tathâgata seppe che lui era stato attratto dal fascino di lei. Di ritorno dal pasto a cui era stato invitato, il re, i suoi cortigiani, e molte persone nobili nella città, vennero ad ascoltare il discorso del Buddha. Sulla testa del Tathâgata splendeva una luce che sembrava combinare i diversi raggi di tutte le pietre preziose. Fuori da questa leggera radianza fu visto uscire un fiore di loto con una profusione di petali, e su di esso il Buddha si sedette a gambe incrociate con una metamorfosi del corpo, emettendo un potente fascino. Egli spedì questo fascino per mano di Manjusri a salvare Ananda. Il messaggero andò, e interrotta l'influenza del cattivo fascino, riportò Ananda insieme con Matenga alla presenza del Tathâgata. 

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     Commento - L'uccello chiamato Kalavingka, in India, aveva una voce molto ricca e dolce.   Prasenajit, il re di Shravasti, era assai favorevole alla religione buddhista. Fu Sudatta, il suo ministro, che comprò il giardino di Jeta dal principe con quel nome, e vi eresse una residenza per il Buddha. (Vedi ‘Les Memoires sur les Contrées Occidentales’ di Julien). Si dice che molti dei Sutra attribuiti al Buddha siano stati rilasciati qui. Al tempo della visita di Hiuen-tsang la città era tutta in rovina. Egli vide i resti del monastero che in precedenza stava sul luogo del giardino di Jeta, due miglia oltre la città. (Vedi ‘Histoire de la Vie de Hiouen-thsang’ di Julien). Era qui che i Bikshu si radunavano per ascoltare il Buddha. Durante i tre mesi d’estate in cui i Bikshu vivevano in isolamento, era proibito viaggiare o vedere il Buddha. Alla fine di questo periodo essi si incontravano davanti al Buddha, e si davano la libertà l'un l'altro di indicare alcune colpe nella loro condotta, per far sì che potessero subire una penitenza nominata dal Buddha. 

   Il termine A-je-li significa un istruttore nella disciplina ascetica. Era richiesto che, andando ad una certa distanza, i monaci dovessero essere almeno tre insieme. Un monaco nella posizione di Ananda avrebbe dovuto avere con sé un superiore in rango ed anche un A-je-li. 

   Quando il buddhismo stava fiorendo in India, i Kshatrya e i Chendara erano ai due estremi della scala sociale. I re e i nobili appartenevano alla casta Kshatrya. I Chendara erano macellai, ed appartenevano ai vari mestieri umili. 

   Subhûti chiedeva elemosine solamente ai ricchi, perché loro erano in grado di dare. Kashiapa preferiva implorare ai poveri, desiderando aumentare la loro felicità karmica. Ed il Buddha li biasimò entrambi perché trasgredivano la regola della giustizia. 

   I Sabikara erano una setta eretica, con capelli chiari, che non mangiavano riso. Essi ottennero questo fascino per la speciale adorazione del dio Brahma. Erano in grado di poterlo comunicare agli altri, e Matenga se ne avvalse su di Ananda. 

   Il commentatore, Te-ts'ing, un monaco buddhista Cinese della dinastia Ming, dice che un lettore superficiale potrebbe chiedersi perché questo Sutra, che svela la ignota natura umana, punta ad un sicuro luogo di pace, e spiega una dottrina in tutti i suoi aspetti completi, dovrebbe fare di un tale evento ordinario come la tentazione di Ananda il suo punto di partenza. Lui dice, a chiarimento, che sono le passioni che impediscono all’uomo di raggiungere il Nirvâna. Fra le passioni, la concupiscenza sessuale è la più potente, e perciò ha bisogno di un rimedio di forza corrispondente per poterla rimuovere. 

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   Ananda vedendo il Buddha chinò la sua testa fino a terra e pianse amaramente. Egli si lamentò di non aver ancora avuto un buon inizio e che, dopo tutta l'istruzione che aveva ricevuto, lui mancava ancora di una vera forza morale. Con voce seria, egli chiese di sapere in che modo i Buddha di tutti i mondi avessero raggiunto l’ingresso al luogo di pace e la contemplazione. Gli ascoltatori, numerosi come le sabbie del Gange, sedevano silenziosi, aspettando che il Buddha rispondesse. Il Buddha allora disse ad Ananda:- "Tu ed io siamo consanguinei per nascita. Noi siamo obbligati così dal cielo ad amarci l'un l'altro. Tu sentisti in precedenza il desiderio di seguire il mio insegnamento. Quale apparenza fu così bella da portarti ad abbandonare il profondo amore che avevi per il mondo?" Ananda rispose: "Io vidi le trentadue bellezze del Tathâgata (1). Esse sono così inesprimibilmente belle, e la forma fisica a cui appartengono è trasparente come il cristallo. Io riflettei che tale forma non può essere prodotta dall’amore terreno. Poiché i desideri fisici sono concupiscenze grossolane e male-odoranti, ed essi non possono dar origine ad una pura forma brillante che irradia una luce rosso-dorata come quella del Tathâgata; perciò io bramai di seguire il Buddha e mi privai dei miei capelli, come prova del mio abbandono della vita mondana." 

Nota:1) "Tathâgata", un appellativo del Buddha. In Cinese: Ju-lai, "Andato con Calma". 

   Il Buddha rispose:--"Tu parli bene, Ananda. Tutti gli uomini continuano a vivere e morire, e di nuovo a vivere e morire, perché non sanno che la mente dovrebbe rimanere in uno stato di costante purezza, e la loro natura mantenuta in se stessa chiara e vera. Nelle loro menti sorgono idee che non sono vere, e li costringono a entrare in una ruota che gira incessantemente. Se tu vuoi ottenere la conoscenza più alta e sviluppare la tua vera natura nella sua chiarezza, rispondi onestamente alle mie domande. I Buddha hanno percorso un sentiero per uscire dalla ruota di vita e morte. Essi hanno mantenuto retti i loro cuori. I loro cuori e le parole erano retti, e perciò essi hanno ben cominciato e ben completato. Quindi essi non hanno avuto alcun pensiero sbagliato o mutamenti perniciosi. Ora io ti chiedo Ananda, quando il tuo cuore fu attratto verso le trentadue bellezze del Tathâgata, cos’è che esso vide e cos’è che esso amò?" Ananda rispose: "Questo amore venne dall'uso del mio cuore e del mio occhio. Il mio occhio vide la bellezza trascendente di Buddha, ed il mio cuore sentì amore. Così fu che io desiderai di essere liberato dalla vita e dalla morte". 

   Il Buddha rispose:- "Poiché quest’amore venne dal cuore e dall'occhio, dovresti sapere dove risiedono questi organi; altrimenti non puoi superare il danno causato dagli 'oggetti di senso' (ch'en). Quando un paese è devastato, le truppe spedite per castigare i predatori devono sapere dove potranno trovarli. Allora, ti chiedo, dove risiedono il cuore e l’occhio, questi nemici che ti hanno fatto il danno?" 

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   Commento.-- Le passioni sono la causa per cui gli uomini sono soggetti alla vita e alla morte. Metterle in pace è il mezzo per ottenere lo stato di Buddha. Ananda era stato trascinato via da una passione, e lui chiede di essere reistruito nel modo di sfuggirla. Egli sentì il gran danno per lui, e che serviva un energia assai potente per distruggerla. Così desiderò iniziare da capo l’auto-controllo, ma non sapendo da dove cominciare, chiede informazioni. Il primo passo è osservare, contemplare, ed allentare il cuore dai suoi attaccamenti affettivi. 

   Il Buddha non procede subito a descrivere le tre modalità della contemplazione, ma prima gli domanda perché, nel primo esempio, egli aveva cominciato la vita da asceta. La risposta di Ananda rivelò la causa della sua mancanza di successo. Nella sua mente era stato svegliato l’amore alla vista di belle forme. E questo era accaduto perché la sua maniera di pensare era sbagliata. Lui aveva scambiato solo un amore per un altro. Il suo cuore era stato attratto da una bella visione; ma lui non aveva visto il Buddha nella sua più alta caratteristica. Se per lui era giusto amare il Buddha, non poteva egli amare anche Matenga? 

   Non solo Ananda è vittima di pensieri sbagliati. Tutti gli esseri umani sono così; ed è per questo che essi non escono dall’area di vita e morte. Ma la vera natura dell’uomo non può essere sviluppata là dove prevalgono i pensieri sbagliati. Le cause eccitanti di questo stato erroneo delle cose devono essere esaminate dall’ interno. È opera dei sensi. I sensi sono i sei nemici che disturbano la tranquillità originale della natura dell’uomo. Questi sei ladri, come essi sono chiamati, sono governati dal cuore e dall'occhio. Perciò il luogo dove essi risiedono deve essere scoperto. 

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   La risposta di Ananda fu che "gli esseri viventi, di tutti i dieci diversi tipi, senza eccezioni riguardo alla facoltà percipiente, hanno il cuore o la mente all'interno del corpo. Essi vedono anche che l'occhio di Buddha forma una parte dell'espressione del Buddha. Questo mio occhio e tre altri organi di senso sono una parte della mia faccia. Il mio 'cuore' (mente), quindi l'organo percipiente, è certamente all'interno del mio corpo". 

  Il Buddha gli rispose:--"Tu sei seduto in questa casa. Tu vedi il boschetto di Jeta. Io ti chiedo, dov’è esso?" Ananda rispose, "Esso è là fuori da questa sala. Questa casa è nel giardino di Anáthapindika. E di sicuro il boschetto è fuori della casa". Il Buddha chiese di nuovo: "Cosa vedi prima, in questa casa?" Ananda rispose: "Io prima vedo il Tathâgata, poi l’uditorio e, più lontano, gli alberi ed il giardino". Il Buddha continuò: "Nel guardare verso gli alberi ed il giardino, come li percepisci?" Ananda rispose: "Dalla porta e dalle altre aperture". Il Buddha protese allora il suo braccio dorato e toccando la testa di Ananda, disse: "C'è un samadhi chiamato quello del Re Sheu-leng-yen, che in forma e statura è simile al Buddha. Esso poi abbraccia tutte le buone azioni, e descrive come tutti i Buddha furono liberati dal mondo dei sensi e entrarono nel Sentiero glorioso che conduce alla pace duratura. Ascolta!" Ananda fece una prostrazione, e si mise in ascolto. 

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   Commento.--Hiuen-tsang riferisce che il boschetto di Jeta si trovava "sei li" (due miglia) a sud della città di Shravasti. In questo boschetto vi era il giardino di Anáthapindika, o Anáthapindada. Al tempo in cui il viaggiatore Cinese lo visitò, il monastero che in precedenza stava là, era in rovina. Jeta vendette la terra a Sudatta, e lui regalò il boschetto al Beato. Anáthapindika significa "colui che dona agli orfani". Sudatta fu chiamato così grazie alle sue carità. 

   Il ‘Samadhi’ è una sorta di sogno da svegli, o estasi, che accade ai Buddha o ai suoi discepoli quando sono immersi in una profonda contemplazione, ed in cui una impressione o visione che insegna certi dogmi religiosi sembra presente all'occhio della mente. 

   Il commentatore Te-ts'ing rimarca che gli uomini generalmente cadono nell'errore di Ananda. Essi pensano che la mente sia racchiusa nel corpo visibile. La continuità nella sfera della metempsicosi (reincarnazione) sorge dall'opinione sbagliata degli uomini che il corpo, la mente, e le "loro azioni" (wu-yün) costituiscano il ‘sé’. Questa falsa visione deve essere combattuta prima. Il Buddha, quasi per sovvertire le opinioni fortemente convinte di Ananda, mise gentilmente la propria mano sulla sua testa per ispirargli fiducia, affinché egli non avesse a sentirsi addolorato. 

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   Buddha:--"Secondo ciò che tu dici, tu sei in questa sala, ed attraverso le porte aperte vedi il giardino ed il boschetto. Se tu non potessi vedere il Tathâgata, saresti capace di vedere quello che sta fuori della sala?" 

   Ananda:--"Ciò non potrebbe essere." 

   Buddha:--"Questo alla tua mente è perfettamente chiaro. Ora, se quella mente che lo percepisce è all'interno del corpo, gli uomini dovrebbero vedere prima ciò che è all'interno del corpo, e dopo quello che è fuori. Poiché noi non vediamo il cuore, il fegato e le altre viscere, mentre possiamo percepire la crescita di unghie e capelli, ed i movimenti di muscoli e polsi, la mente non può risiedere all'interno del corpo." 

   Ananda (prostrandosi):--"Così come sento le istruzioni del Tathâgata, io sono fatto per percepire la verità, che la mia mente risiede fuori del mio corpo. Perché essa è come una lampada illuminata in una casa. Essa prima risplende su ciò che è all'interno della casa e poi, attraverso la porta, fa luce sul portico. Siccome gli uomini vedono solo quello che è fuori del corpo, la mente che percepisce non può risiedere all’interno di essi. Questa asserzione è incontrovertibilmente corretta." 

   Buddha:- "Quando quei Bikshu vengono a cercarmi in questa città di Shravasti, e si radunano al boschetto di Jeta, se ne vedessi uno solo che mangia, tutti loro sarebbero alleviati con ciò dalla fame?" 

   Ananda:--"No di certo! perché benché essi siano Arhant e dividono un diverso tipo di esistenza, come potrebbe accadere che il cibo preso da un solo uomo possa eliminare la fame del resto?" 

   Buddha: -"Se la mente e il corpo fossero totalmente separati l’una dall'altro, niuno di essi potrebbe sapere ciò che è noto all’altro. Ora ti mostro la mia mano. Il tuo occhio la vede, ma la tua mente la distingue?" 

   Ananda:--"Sì, o Signore del mondo!" 

   Buddha:--"Se entrambi la percepiscono, allora è sbagliato dire che essi sono separati l'una dall'altro, e che la mente si trova fuori dal corpo." 

   Ananda:-"Il Buddha ha detto che la mente, non potendo vedere ciò che è all' interno del corpo, non può risiedere là. Poi, egli ha detto che poiché la mente e il corpo conoscono entrambi ciò che è noto all'altro, essi non possono essere l’una fuori dall'altro, ma devono stare in uno stesso luogo." 

   Buddha:--"Allora, dov’è situata la mente?" 

   Ananda:--"Io penso che debba essere nascosta negli organi di senso. L'occhio sta alla mente come un pezzo di vetro che non interferisce con la visione. Ogni volta che l'occhio vede, la mente subito distingue. La ragione per cui la mente non vede l'interno del corpo è perché essa risiede negli organi sensoriali, e stando in quella posizione è abilitata per osservare gli oggetti fuori del corpo".  

   Buddha:--"Supponendo che sia così, mi chiedo, cosa vedrà un uomo quando un vetro è messo davanti agli occhi? Quando vede colline e montagne che sono oltre, vedrà anche il vetro?" 

   Ananda:--"Si, egli vedrà il vetro." 

   Buddha:--"In tal caso, perché l'occhio non dovrebbe essere visto quando colline e fiumi sono visibili attraverso di esso? Però, se l'occhio che è visto è una parte dello scenario, osservata dalla mente, e non c'è interdipendenza tra i due, così la mente dovrebbe subito percepire ciò che è un oggetto di visione per l'occhio. Ma se la mente non vede l'occhio, allora non si può dire che la mente risiede negli organi di senso." 

   Ananda:--"Ora io ho pensato un'altra cosa. Le viscere sono all'interno del corpo, mentre le varie aperture sono fuori. Nelle prime c'è oscurità e nelle altre c’è luce. Mentre io guardo il Buddha il mio occhio è aperto e vede luce. In questo caso io vedo ciò che è esterno. Quando io chiudo gli occhi vedo l'oscurità. In questo caso io vedo quello che è interno. È una distinzione corretta, questa?" 

   Buddha:--"Quando tu chiudi gli occhi e guardi l’oscurità, l'oscurità che vedi è 'oggettiva all'occhio' (wei-ü-yen-tui), o no? Se l'oscurità è oggettiva, è qualcosa che è davanti all'occhio, e perciò è sbagliato dire che sia interna. Se, d'altra parte l'oscurità fosse interna, allora l'oscurità che si vede in una stanza dove nessuna luce può entrare, non sarebbe nient’altro che l'interno del corpo. Tuttavia, se l'oscurità non fosse 'oggettiva' (tui) all'occhio, non si può dire che venga vista. Se l'oscurità è interna, e però è vista oggettivamente dall'occhio, perché non vedi il tuo volto quando con occhi aperti guardi nella luce? Se tu vedessi il tuo volto, la mente che percepisce, con l'organo della visione, dovrebbe essere vacante. Allora essi non possono essere all'interno del corpo, né possono essere parte di esso. Perché se loro fossero una parte del corpo, allora io che ora vedo il tuo volto dovrei essere parte del tuo corpo. Per mezzo del tuo occhio che è vacante, tu sai che il tuo corpo non percepisce oggetti. Dovresti perciò sostenere che ci sono due azioni del percepire e due agenti che percepiscono. Tu diventeresti così due persone. Perciò, non si può dire che nel chiudere gli occhi e guardando l’oscurità tu vedi ciò che sta all’interno". 

   Ananda:--"Io ho sentito il Buddha dire che le azioni sorgono dalla mente, e la mente dall’azione (cioè, mente e azione sono necessarie l'un l'altra, e ugualmente irreali). A me pare che i miei pensieri siano la mia mente, e che dovunque è il mio pensiero, là c'è la mia mente. Quindi, la sede della mente non ha bisogno di essere all’interno o all’esterno, o in una posizione intermedia." 

   Buddha:--"La mente, Ananda, non può essere dove è il pensiero; perché esso è senza 'sostanza' (t'i), e non può essere in nessun luogo. Perché, se si potesse dire che una cosa insostanziale sia in un certo luogo, i diciotto punti limitanti che eccitano le sensazioni diverrebbero diciannove, e i sei oggetti di senso sarebbero sette. Il fatto che la mente sia insostanziale può essere facilmente dimostrato. Quando io tocco me con la mia mano, la mente che conosce (l'atto risultante della conoscenza) deve venir fuori dall’interno verso l’esterno, oppure dall’esterno verso l’interno. Nel primo caso, l’interno del corpo sarebbe visibile; nel secondo, dovrei prima vedere la mia faccia. Siccome io non la vedo, la mia mente deve essere insostanziale". 

   Ananda:--"E’ ben l'occhio che vede; benché non sia l'occhio che conosce. Dire che è la mente che vede non è corretto." 

   Buddha:--"Se l'occhio potesse vedere, anche la porta della casa in cui abiti sarebbe capace di vedere. L'occhio di un morto non vede nulla. Inoltre, Ananda, se la mente avesse sostanza, dovrebbe essere o una sola sostanza o molte. La tua mente dovrebbe pervadere il tuo intero corpo o no. Se la tua mente fosse di una sola sostanza, quando tu ti tocchi un arto tutti gli arti dovrebbero sentire la pressione. Se fosse sentita dappertutto, la sensazione non sarebbe stata riferita ad un particolare punto. Se la sensazione appartiene ad una sola parte, tu che sei il soggetto di essa non puoi formare una sola sostanza. Ma neppure tu puoi essere molte sostanze, perché allora saresti molti uomini. Se la sostanza della tua mente pervade il tuo intero corpo, la sensazione di pressione si sarebbe sentita in ogni parte. Se essa pervade il corpo solo parzialmente, una sola porzione di esso sarebbe suscettibile al contatto, mentre le parti rimanenti non lo sarebbero. Poiché non è questo il caso, la tua supposizione che la mente sia dovunque è il pensiero non è sostenibile". 

   Ananda:--"In precedenza io sentii che il Buddha parlò a Manjusiri e ad altri sulla vera natura delle cose che appaiono. Tu poi dicesti che la mente non é all’interno né all’esterno del corpo. A me pare che senza percezione interna non può esservi conoscenza esterna. Ciò che è nel corpo deve essere percepito, se noi stiamo per conoscere ciò che è fuori del corpo; altrimenti la mente non può essere affatto all'interno del corpo. Sia come sia, noi percepiamo solamente quello che è fuori, e non quello che è all’interno. La mente, perciò, non deve essere né all’interno e né all’esterno, ma tra i due." 

   Il Buddha, in replica, dice che Ananda è in errore, e che la sede della mente non è tra l'interno e l’esterno, non più che all'interno del corpo o all’esterno negli oggetti materiali che sono gli oggetti delle sensazioni. 

   Così finisce il primo capitolo di questo libro. 

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   Commenti.--I diciotto "confini" limitanti (kiai) delle sensazioni sono –“occhi, orecchi, naso, lingua, corpo, mente, colore, suono, odorato, gusto, tatto (chu), dharma, il vedere, l’udire, odorare, assaggiare, sentire, e pensare”. 

   Questi diciotto elementi sono altrimenti considerati come le sei radici, gli organi sensoriali, i sei tipi di effetti, colore, gusto, odorato, ecc., e i sei tipi di conoscenza sensoriale. 

    Il primo di questi gruppi di sei è chiamato anche “i sei soggetti che amano” (ai), e “le sei cose che sentono” (ts'ing). Il secondo di questi gruppi di sei è chiamato anche ‘i sei ladri’, essendo le cause delle illusioni ingannevoli di ogni essere umano che crede nel materiale. 

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