Testimonianze

 

ESSERE PRESENTI
Tratto dal bollettino “Vidyà” del Giugno 2010
 

 
 Nessuno nasce con la mente dominata ché, altrimenti, non ci sarebbe nascita. La mente proiettiva, infatti, e più a monte la coscienza estrovertita, costituiscono la causa del divenire sarnsarico per uscire dal quale serve il domi-nio mentale, realizzabile attraverso un centro-coscienza stabile, cioè attraverso una costante autopresenza.

Essere presenti, per chi si è sempre abbandonato alla passività coscienziale, non è una cosa facile. Richiede uno sforzo continuo, come qualunque automatismo che si vuole interrompere; sforzo necessario fino a quando il centro-coscienza non tornerà a essere uno stato naturale e costante. Allora, dicono i Maestri, ne servirà uno per uscirne.

Nell'esperienza ordinaria, cosiddetta di veglia, la vita si è solidificata nella materia. Tutto scorre molto più lentamente rispetto ai piani sottili, e questo rende più facili la discriminazione, il distacco e quindi l'autopresenza. Il rivestire una forma corporea, perciò, rappresenta più che un'opportunità, ma proprio l'Opportunità che dev'essere assolutamente colta.

Angeli e demoni, piacere e dolore, desiderio e paura, nascita e morte, salute e malattia più tutte le altre coppie di opposti che conosciamo e che ci opprimono, tutto è nella mente, e l'unico modo per liberarsene è perciò quello di rimanere senza pensieri, vale a dire: presenti a se stessi. Va anche detto che «il pensiero è la radice di tutti i mali» (1), finché del pensiero non si torna a essere padroni. Ma occupiamoci dello sforzo che bisogna compiere per la buona riuscita dell'impresa; sforzo che dev'essere conscio, deliberato e costante, dal momento che le ‘vasana’ (tendenze subconscie) reclamano continua attenzione e spingono incessantemente la coscienza a uscire da se stessa.

«Non si dovrebbe permettere alla mente, neppure per un attimo, di esteriorizzarsi, né si dovrebbe sprecare tempo in chiacchiere»(2). Una vita solitaria, ritirata, isolata, che ha ridotto al minimo i contatti con l'esterno, può senza dubbio agevolarci in questo. La solitudine evita la dispersione verbale che, oltre a stimolare il subconscio, tra individui si traduce sempre in una perdita di tempo e di energie, e purtuttavia bisogna sempre far i conti con le stimolazioni provenienti dall'interno, e non solo perché, pur se ridotte, le stimolazioni esterne non mancano e, per neutralizzarle, come abbiamo detto, l'unico modo è rimanere presenti.

«È necessario rimanere sempre fissi nel Sé. Gli ostacoli a questo sono la distrazione esercitata, da un lato, dalle cose del mondo (compresi gli oggetti dei sensi, i desideri e le tendenze) e, dall'altro, dal sonno»(3), cioè dal torpore coscienziale da cui bisogna assolutamente guardarsi. Finché il centro non sarà stato stabilizzato, è indispensabile perciò sforzarsi di non cadere in una condizione di passività e quindi restare in balia del subconscio.

Lo sforzo indispensabile per l'autopresenza, è ancor più indispensabile nell'azione, dato  che questa, lo sappiamo bene, riesce a distrarre la coscienza e quindi a far vagare la mente in tutte le direzioni. E infatti là, dove tutto è movimento, nessuno, neanche il contemplativo, può sottrarsi all'agire, perciò l'autopresenza, che dev'essere continua, va estesa all'azione e non limitarsi alle cosiddette ‘ore canoniche’. «Nel monastero il praticante fa di tutto; porta l'acqua, va a cercare la legna per il riscaldamennto, cucina, coltiva la terra... e anche se impara il modo di sedersi in posizione Zen, di praticare la concentrazione e la meditazione poi, in questa posizione, deve impegnarsi per restare costantemente nella coscienza dell'essere, anche quando porta l'acqua, cucina, coltiva la terra»(4). Egli dev'essere sempre "in guardia", presente a se stesso anche quando, ad esempio, chiude una porta. Chiuderla rumorosamente dimostra che mentre la chiude egli non è affatto cosciente. Dev'esserlo, invece, in tutto quello che fa, sempre, dovunque e comunque. Quando cammina, dev'essere cosciente di stare camminando, quando mangia, di star mangiando, e così di seguito, estendendo la consapevolezza a ogni momento della giornata, poiché la vita è preziosa e il tempo non va sprecato ma saggiamente speso per il ritrovamento di sé.

Purtroppo, basta poco perché lo strumento mentale, ridotto momentaneamente al silenzio, cominci a proiettare di nuovo. E qui lo sforzo consiste, come abbiamo già detto, nel fermare il movimento estrovertito e nel ricondursi al centro, o cuore, giacché centro-coscienza e cuore sono la stessa cosa. Nel centro-cuore spirituale, che secondo i Saggi si trova sul lato destro del petto, due dita dallo sterno, risiede appunto il Sé, ovevro la Coscienza. Questo cuore-spirituale, che «è totalmente diverso dall'organo muscolare, propulsore del sangue, conosciuto con lo stesso nome..., è l'anima stessa del proprio essere»(5), ed è il centro senza il quale non esiste assolutamente nulla.

Si può ritrovarlo, lo ripetiamo ancora, solo fermando l'immaginazione e cercando di “essere”, cioè di rimanere costantemente presenti. Non è semplice, è vero, ma con la pratica può diventarlo; pratica semplice e naturale come il respirare. Infatti, non c'è sforzo, cosciente e costante, che non venga coronato da un buono quanto meritato successo.

NOTE:

1) Gli Insegnamenti di Ramana Maharshi, a cura di A. Osborne, pag. 34. Ed. Ubaldini.

2) Ibidem, pag. 105.

3) Ibid. pag. 113.

4) Thich Nhat Hanh, ‘Introduzione allo Zen’, pag. 12. Ed, Sonzogno.

5) Gli Insegnamenti di Ramana Maharshi, pag. 129. Op. cit.