Centro Ch'an Nirvana
Testimonianze

 

Sulla relazione maestro/discepolo
Di Dagyab Rinpoche
(Postato su FACEBOOK da Cristiana Costa)
 

 
 

Quando il Buddhismo giunse in Tibet, furono necessari più di cinquecento anni prima che potesse sorgere un autentico buddhismo a carattere autonomo. Se guardiamo alla situazione in Occidente, dove nei passati decenni è iniziata la diffusione, dobbiamo riconoscere di essere appena agli inizi. Il primo secolo della storia del buddhismo occidentale, non è ancora consumato!In Occidente, naturalmente, tutto funziona in modo più rapido... forse qui potranno bastare quattrocento anni! Ritengo che queste riflessioni siano particolarmente utili per affrontare il problema con pazienza, perseveranza e decisione. Ciò che si deve sviluppare qui richiederà, per poter giungere a compimento, lo sforzo di più generazioni. Intanto, in Occidente, per ora non ci resta altro da fare che chiedere prestiti all’Asia. Noi importiamo maestri, testi, rituali, e in qualche modo cerchiamo di utilizzare ciò che abbiamo trovato, di ‘tradurlo’,di filtrarne l’essenza. Questo processo è importante e indispensabile, tuttavia non deve essere tropo precipitoso.Gli occidentali sono abituati ad avere tutto presentato subito e in modo ‘bell’e pronto’ e diventano facilmente nervosi se si devono preoccupare di qualcosa...ma un ‘buddhadharma precotto’, che debba essere solo consumato, purtroppo non esiste ancora!

 

Il maestro spirituale, il guru

Uno dei punti critici dell’integrazione del Dharma in Occidente è probabilmente la cosiddetta relazione maestro/discepolo. Ritengo che mai, come in questo caso,la differenza di mentalità tra europei ed asiatici risulti evidente. Ad esempio,coloro che prendono parte agli insegnamenti che impartisco, mi domandano sempre se desidererei accettarli come discepoli, se voglio diventare il loro maestro. Se si traducesse una simile domanda in tibetano e la si rivolgesse in Asia a un lama tradizionale, probabilmente avrebbe uno chock. Semplicemente, non capirebbe in che modo, oltre alla comune base di ‘dare e ricevere’ insegnamenti, si dovrebbe parlare di un’ulteriore ‘relazione’. Mi sembra che, a tale riguardo, sia necessario uno scavo analitico. Concetti come quelli di lama, maestro spirituale, o magari guru, suscitano reazioni completamente differenti,spesso persino violente: dalla fascinazione al completo rifiuto. Il rifiuto si fonda sull’idea che il lavoro comune, tra maestro e discepolo, sia una sorta di schiavitù spirituale e che,quasi obbligatoriamente, i Maestri utilizzino la buona fede e la venerazione acritica dei loro discepoli per scop poco seri. Se guardiamo al passato, ma anche al presente, possiamo verificare come questi timori non siano infondati. Sia sul piano religioso, sia su altri piani, c’è stato molto abuso di questa dedizione. Per questo oggi sono diffusi dubbi di ogni genere nei confronti dell’autorità spirituale. A questo va aggiunto, inoltre, l’estraneità degli europei di questo secolo a un’idea di maestro come oggetto di venerazione. E ora, improvvisamente, sentono direche nel buddhismo tantrico il maestro deve essere visto come un buddha! I pochi che non vivono tutto questo come pretestuoso, non hanno tuttavia un’idea di come fare i conti con un’affermazione di questo genere. E se mai decidono di fare i conti, dopotutto i maestri non sono altro che esseri umani,completamente normali. Dall’altra parte c’è, invece, una certa fascinazione legata all’idea di avviare una simile relazione. Il desiderio di superare i propri limiti, e il proprio isolamento, attraverso la fusione o l’abbandonarsi a un altro essere umano, è probabilmente antico quanto l’umanità.Ora, dopo un periodo relativamente breve di rapporto intenso con il buddhismo, per il praticante dovrebbe essere già chiaro che una collaborazione razionale con un maestro spirituale non deve avvicinarsi a nessuno degli estremi descritti sopra, sebbene,indubbiamente, abbia a che fare con il fascino e l’abbandonarsi, e abbia indubbiamente a che fare con l’autorità. Dunque, in che modo si presenta veramente una tale relazione? Oppure,come dovrebbe presentarsi? Di che cosa si tratta? Potremmo dire, semplificando, che viene stabilito un contatto, tra persone collocate in gradini diversi dello sviluppo spirituale, al seguente scopo:che la persona che conosce meglio il buddha dharma, che ha esperienze e realizzazioni maggiori, aiuti l’altra a progredire. Nulla di più e nulla di meno.Il Maestro, naturalmente, dovrebbe essere il più possibile qualificato, dal punto di vista sia del suo sapere, sia delle sue qualità umane, e a questo proposito i testi canonici forniscono sufficienti criteri di valutazione.

Veramente mi sembra che in Occidente,molto più che in Asia, sia necessario garantire attenzione alle qualità esterne del maestro spirituale.Qui non viviamo in una cultura plasmata dal buddhismo. Molte persone sono diventate particolarmente attente e critiche nei confronti delle religioni – e per il momento il buddhismo è classificato tra di esse – e in particolare verso quegli insegnamenti esotici che vengono dall’Oriente. Qui in Occidente, i maestri spirituali sono esposti e osservati molto più che in Asia. Ciò che i maestri spirituali fanno,come si comportano, viene messo immediatamente in relazione con il buddhismo in generale. È per questo assolutamente importante che le regole di disciplina etica siano chiaramente riconoscibili nella loro condotta.Presentarsi come uno yogi tantrico, per il quale le consuete scale morali non hanno più valore, in una cultura straniera risulta problematico. Perfino inTibet ciò accadeva soltanto nella cosiddetta età dell’oro, quando vivevano e insegnavano veri mahasiddha, integrati in un ambiente culturale assai favorevole, circondati da discepoli con una fede incrollabile. Mi chiedo se, nell’Europa di questo secolo, possa essere soddisfatta una sola di quelle condizioni. Se ciò non accade, allora occorrerebbe far sparire, per un paio di secoli, la seducente etichetta di saggezza folle, prima che, per suo tramite, siano fatti danni peggiori.

 

Il discepolo

Al discepolo, ovviamente, non sono richiesti così tanti prerequisiti come al maestro. In ultima analisi, egli deve soprattutto sviluppare le proprie qualità.Ciò che comunque deve portare con sé,ciò da cui dipendono i suoi progressi, è la buona volontà e la perseveranza.Questo comune lavoro di maestro e discepolo, che nel buddhismo gioca un ruolo molto importante, viene considerato in modo completamente diverso nell’hinayana rispetto al mahayana, tantra compreso.A seconda della tradizione, o della condizione di sviluppo personale, il discepolo deve e può vedere nel maestro sia un uomo ordinario che dispone realmente di un’elevata qualificazione,sia un bodhisattva, un essere simile a un buddha, o ancora, come nel tantra, un buddha.Nelle spiegazioni che seguono, farò principalmente riferimento al lavoro abituale nel tantra, poiché questo lavoro compare spesso nel buddhismo indotibetano ed è, al tempo stesso, la relazione più elevata di questo genere. A dire il vero, difendo sempre l’idea di un ingresso graduale del discepolo nella pratica tantrica, ma il punto è che qui in Occidente il buddhismo tibetano senza tantra praticamente non esiste.La relazione maestro-discepolo in Occidente, viene a costituirsi su uno sfondo, in certo qual modo, colorato dalle sofferenze e dalle paure dell’ego isolato e dalle fantasie hollywoodiane di una soddisfazione duratura dei desideri.È facilmente comprensibile quali attese e quali paure entrino in gioco.L’approccio tradizionale causa problemi riassumibili in poche parole: probabilmente nei confronti del maestro esiste una vicinanza o eccessiva o insufficiente. In altre parole verso di lui si esprimono sentimenti o di paura o di difesa o di attaccamento. Talvolta appaiono tutti insieme, evenienza vissuta in modo molto doloroso. Lo studente, ad esempio, cercherà di compensare la paura arroccandosi intorno alle proprie capacità intellettuali. Diventerà particolarmente critico, si farà forte delle proprie competenze e del sapere precedentemente accumulato e, nel caso, farà casualmente trasparire che, a sua volta, non è privo di realizzazioni.Con il lama nella posizione di fornitore di informazioni aggiuntive tenterà dicostruire una relazione da buon collega.Un simile comportamento presenta vantaggi e svantaggi.[...]

La concentrazione sulle proprie capacità  dà all’allievo fiducia in se stesso e  coraggio. Tuttavia, questa tendenza può  anche consolidarsi in modo tale da far  sorgere un vero e proprio blocco. In  questo caso diventa difficile dargli  qualche contributo: egli sa già tutto.  Perfino quando formula delle domande,  si può osservare come prenda  debolmente nota delle risposte, oppure  come le interpreti immediatamente  secondo le proprie concezioni. Se cerco  di spiegargli il dieci per cento di qualcosa, ne conclude subito il cento per cento. Un tale allievo mostra avversione per gli insegnamenti di base e verso gli aspetti generali della pratica e, fatto che si rivela particolarmente spiacevole, cerca di sganciarsi al più presto dalle tappe del sentiero e diventare egli stesso un Maestro. In Asia, un lama più severo farebbe forse praticare ripetutamente a un tale allievo la presa di rifugio, finché gli diventi chiaro che non esistono temi superati e che noi praticanti, per tutta la vita, iniziamo ogni volta da capo.

 

La falsa venerazione

Un’altra forma di difesa è la falsa venerazione, in pratica una simulazione del vero rapporto tra maestro spirituale e discepolo. Tale resistenza si esprime attraverso questo meccanismo: il discepolo colloca il maestro spirituale su di un piano molto, molto elevato... cioè, possibilmente, lontano. Così vengono enfatizzate le capacità soprannaturali del Maestro, che è trattato con un vistoso, appariscente rispetto. Tutto ciò che dice è accettato senza obiezioni, senza discussione, senza domande... e forse persino senza partecipazione interiore. Un altro meccanismo è che quando    vengono fatte delle domande, ciò accade sulla base di aspettative ben precise sui caratteri della risposta. Se la risposta non soddisfa le aspettative, si insiste ulteriormente. Oppure, sempre con lo stesso atteggiamento esternamente molto rispettoso, saranno interpellati sempre nuovi Maestri, fino a disporre di un fascio di risposte che consentano di fare ciò che si desidera, mentre si sperimenta la piacevole sensazione di sentirsi autorizzato dal lama X o dal lama Y. Talvolta si può arrivare al punto di creare fazioni, partiti, e costruire vere e proprie rivalità, mentre i vari lama sono utilizzati come ornamento. Che si tratti in questo caso vere e proprie strategie dell’ego sullo sfondo del Dharma, è quasi superfluo ricordarlo.

 La resistenza interiore che si ammanta di imitazione esterna, si accompagna spesso a un’accentuazione degli aspetti tradizionali denotati culturalmente. In pratica, l’interessato vede agire se stesso nel ruolo di discepolo, invece di semplicemente esserlo. Il vantaggio di un simile comportamento potrebbe risiedere nel fatto che, comunque, avviene un qualche tipo di contatto con il buddhismo e che questo contatto, si spera, alla lunga produrrà un influsso salutare sulla persona. Lo svantaggio sta nell’impossibilità pratica di una comunicazione vera tra maestro e discepolo, vale a dire nella negazione dell’elemento più importante dell’intero lavoro in comune.

 

L’attaccamento al maestro

Il problema dell’attaccamento al maestro spirituale non è meno spinoso. All’inizio della collaborazione può facilmente accadere che al maestro spirituale sia soprattutto assegnato il ruolo di superpartner, concettualizzato secondo la relazione immaginaria di tipo padre-figlio oppure partner amoroso. Da qui derivano ogni genere di aspettative, timori di abbandono, desideri. Di conseguenza sorge l’afferrarsi a sicurezze e garanzie. Naturalmente questi vissuti non sono dispiegati, ma vengono trasposti in modo conscio o inconscio sul piano esclusivamente spirituale. Anche questo comportamento presenta vantaggi e svantaggi. Per esempio, esso è connesso a un’enorme liberazione di energie in forma di sforzi e abnegazione che, poco a poco, potranno essere ricondotti su binari costruttivi e, in tal modo, diventare utili al discepolo stesso.

 Dalla parte degli svantaggi, il fatto che le oscillazioni dei sentimenti, talvolta estreme, si presentano come un ostacolo alla pratica. Il discepolo è incline a percepire tutte le espressioni del maestro in modo selettivo, riferendole al proprio desiderio di stabilizzazione del rapporto. Così diventa pressoché sordo riguardo ai veri contenuti. Tramite comportamenti positivi tenterà di ottenere l’approvazione e in tal modo, per tutta la durata di questa fase, non indirizzerà la pratica realmente verso l’interno.

Con queste riflessioni non intendo affermare che tutti i praticanti di Dharma occidentali siano dei nevrotici senza speranza! Ho soltanto cercato di descrivere alcuni dei problemi, in modo il più possibile drastico, così da renderli facilmente riconoscibili. È del tutto normale che simili problemi sorgano all’inizio della collaborazione tra maestro spirituale e discepolo, ma ciò non deve costituire un motivo di rassegnazione. Naturalmente ciascuno porterà, nella pratica del Dharma, condotte che corrispondono alle proprie impronte culturali e alle abitudini assunte nel corso della vita. Da qui si può partire per sviluppare un’altra prospettiva. Come ho già accennato, ciascuno di questi comportamenti contiene un potenziale che può essere utilizzato in senso buono. Per poterlo fare senza sprecare tempo ed energia, dovremmo riuscire a valutare le nostre tendenze e i nostri problemi in modo chiaro e rapido, così da non restare bloccati troppo a lungo, scambiando l’attaccamento per dedizione spirituale o la resistenza per prudenza.

 

Rimedi

Forse, in senso generale, che la persona del maestro spirituale sia in un certo qual modo sopravvalutata – e proprio per questo, in un certo senso, sottovalutata – è un problema tipicamente umano. Cosa è meglio fare, allora, in una situazione di questo tipo? Il maestro è obbligato a smontare questa falsa visione, in modo cauto ma implacabile. Il discepolo deve chiarire a se stesso che la relazione non esiste in questo modo. Da parte del maestro, non c’è una situazione concreta, con regole del gioco fisse. Tutto ciò è assolutamente privo di fondamento. Le fantasie e le proiezioni mosse da questo preconcetto sono fantasie e proiezioni che corrono nel nulla. Corrono talmente nel vuoto, che il maestro non sente nemmeno il bisogno di confutarle. Ciò che il maestro può effettivamente fare per il discepolo si svolge su un piano del tutto differente e quindi sfugge necessariamente, almeno in parte, alla capacità di giudizio del discepolo. E non può essere altrimenti. Infatti, il discepolo cercherebbe subito di utilizzare le attività del maestro come superficie di proiezione.

 

Maestro Spirituale e Discepolo in Occidente

In senso generale, forse è un problema tipicamente umano che la persona del maestro spirituale, specialmente all’inizio della relazione, sia in un certo senso sopravvalutata, e per ciò stesso, in un altro senso, anche sottovalutata.

Che cosa è meglio fare, allora, in una situazione di questo tipo?

Il maestro spirituale ha l’obbligo di smontare questa falsa visione, in modo cauto ma implacabile. Il discepolo, da parte sua, deve chiarire a se stesso che: la relazione non esiste in questo modo.

Da parte del maestro spirituale non esiste una situazione concreta, con regole del gioco fisse.

Tutto ciò non ha la minima realtà. Le fantasie e le proiezioni a questo riguardo sono fantasie e proiezioni che scorrono nel nulla. Scorrono talmente nel vuoto, che da parte del maestro non è neppure necessario confutarle. E non perché il maestro sia rozzo e rifiuti la relazione, ma perché non esiste una realtà con questa forma! Non so come dirlo più chiaramente.

Ciò che il maestro spirituale può effettivamente fare per il discepolo, si svolge su un altro livello e sfugge, necessariamente e almeno nella sua parte essenziale, alla capacità di giudizio del discepolo. Non può essere altrimenti, infatti il discepolo cercherebbe subito di utilizzare le attività del maestro come superficie di proiezione.

Ma come funziona realmente la corrispondenza tra maestro e discepolo?

Come funziona: Per poter capire come funziona, dobbiamo cercare di osservare meglio in che modo, noi stessi, agiamo nella realtà. Utilizzerò a questo scopo i concetti di scena, retroscena e retroscena speciale. Cercherò di illustrare questi processi in modo semplificato, ma il più chiaro possibile.

Con il termine scena, intendo le nostre comuni facciate esterne, vale a dire tutto ciò che condividiamo con altri esseri umani. Ad essa appartengono, ad esempio, sia la nostra realtà psichica, sia l’ambito della realtà convenzionale. La scena contiene tutto ciò di cui abbiamo bisogno per costruire le relazioni sociali e per mantenerle.

Il retroscena contiene ciò che costituisce l’essenza di un’esistenza umana, e che non può essere condiviso con altri, o lo può soltanto in modo limitato: le caratteristiche, le capacità, lo specifico e personale modo di pensare, sentire e osservare…in altri termini, l’atmosfera interiore.

Tutti gli esseri umani hanno una scena e un retroscena. Entrambi, a loro volta, sono legati a un’esistenza. Ancora oltre, c’è il retroscena speciale. Significa che coloro che si sottopongono a un training spirituale dispongono di un patrimonio di capacità particolari che non va più perduto. Tali capacità permangono in modo latente, passano da un’esistenza alla successiva. Si manifestano nel livello di chiarezza spontanea, nella conoscenza, nella sicurezza riguardo certe cose, nella capacità di ri-conoscere e in particolari tendenze o caratteristiche della personalità. Ritrovare il proprio retroscena speciale è uno degli obiettivi della pratica del tantra o di altre forme avanzate di pratica spirituale, qualora siano state applicate ininterrottamente nel corso di molte esistenze.

Quanto ho detto fin’ora a quest’ultimo proposito forse può bastare, perché in realtà ogni tentativo di cogliere il significato del retroscena speciale, o descriverlo, conduce di nuovo e inevitabilmente alla scena.

 

La pratica del tantra

Nella pratica del tantra, il retroscena non svolge più il ruolo decisivo, ruolo che è invece assunto dallo sviluppo interiore.

Considerare il maestro tantrico come un buddha, significa mettere in comunicazione il proprio retroscena più profondo con quello del lama.

Si deve costruire una relazione da consapevolezza a consapevolezza, da retroscena a retroscena.

La parola relazione, qui, in realtà, abbastanza debole. In fin dei conti esiste soltanto un retroscena comune, del maestro spirituale e dei discepoli. In tibetano, a questo proposito, si usa l’espressione thugs yid gcic tu dres, mescolare in una sola unità la mente (del lama) e la (propria) mente. Ciò può funzionare solamente se il discepolo padroneggia la tecnica del guru yoga, l’unione con il maestro spirituale.

In questo caso, non si tratta di una conoscenza intellettuale della tecnica. Attraverso la riflessione e la pratica, il discepolo deve sviluppare sensibilità di questo aspetto e realizzarne una comprensione a livello interiore.

Considerare il maestro spirituale come un buddha, non significa dover cambiare qualcosa a livello delle percezioni esteriori. In altre parole: sebbene i discepoli siano totalmente centrati nel loro ego sulla scena, all’inizio della pratica, e siano abituati a comunicare con tutti gli altri esseri senzienti principalmente su questo piano, in questo specifico tipo di pratica [dell’unione con il guru o guru yoga] sono costretti a render chiaro a se stessi che il maestro tantrico, nella sua qualità di maestro, è soltanto retroscena. Tutto il resto è manifestazione. Per lui non esiste alcuna focalizzazione nell’ego sulla scena. È questo che s’intende quando si parla di guardare al maestro spirituale come a un buddha. Perché tutto è così importante nel tantra?

Del significato del tantra per i praticanti occidentali me ne sono occupato diffusamente in un’altra sede. Qui basti questo: in ragione della sua focalizzazione sulla scena, il principiante non è in grado di abbandonare –nemmeno temporaneamente – sulla base delle proprie forze, quella spiegazione convenzionale della realtà che gli è tanto familiare, per assumere, in sua vece, un altro angolo di visuale, più ampio. Tutti i suoi sforzi restano immancabilmente ancorati alla scena. Anche se gli riuscisse aggirare se stesso e trovare un nascondiglio – cosa che non gli è possibile fare – finirebbe con l’incespicare a destra e a sinistra, per così dire, senza orientamento. Per questo gli è temporaneamente necessaria una guida esperta del posto.

È facile immaginare quanto una vera e intensiva pratica di questo tipo possa sconvolgerci. I confini del nostro ego, l’ego a noi conosciuto, debbono dissolversi. Per trovare il coraggio necessario, abbiamo bisogno, tra le altre cose, di una fiducia straordinariamente forte in qualche tipo di punto fisso al di fuori di noi stessi: nel Maestro. In relazione a tali rappresentazioni interiori, l’esercizio del guru yoga acquista un significato impressionante. A proposito di guru yoga: è già capitato che alcuni praticanti abbiano pensato che il proprio maestro potrebbe essere disturbato da troppa attività di questo tipo. A questo riguardo posso soltanto dire: il problema non sussiste. A quanto ne so, non è mai successo che i discepoli abbiano steso un maestro a causa della troppa pratica: semmai il contrario!

In altre parole, il maestro spirituale manifesta le proprie qualità in modo sempre più chiaro via

che i discepoli sviluppano maggiore fiducia, perseveranza e devozione.

 

Il guru radice

A questo proposito vorrei aggiungere un paio di osservazioni sul concetto di guru radice, in tibetano tsawei lama, spesso tradotto con maestro principale. Secondo i testi, questo concetto indica, ne più né meno, quel particolare maestro spirituale dal quale si sono direttamente ricevuti insegnamenti – in contrapposizione ai maestri indiretti, vale a dire ai lama di quel lignaggio di insegnamento.

Nel buddhismo popolare tibetano, il significato concettuale di tsawei lama è stato in parte falsificato, e purtroppo con questo stesso limite è giunto anche in Occidente. Oggi si usa spesso la definizione di guru radice per indicare la persona, tra i propri maestri, con la quale si  ha la relazione più stretta. Il falso concetto legato a questa definizione'’no solo è il vero, il più  grande, il migliore’, è un ostacola alla pratica e all’effettiva collaborazione – e produce, nello stesso tempo, un atteggiamento sbagliato nel rapporto tra sé e gli altri maestri diretti. Per  questo il discepolo dovrebbe impegnarsi a vedere in tutti i suoi maestri il maestro radice. E quando ha l’impressione di poter trarre particolare profitto dall’uno o dall’altro, dovrebbe semplicemente esserne felice e cercare di praticare in accordo alle istruzioni ricevute senza suddividere i propri maestri in lama di serie A e di serie B.

Fin qui per quanto riguarda la collaborazione tra maestro spirituale e discepolo.

Con i concetti di scena, retroscena e retroscena speciale, ho cercato di descrivere i processi comunicativi con noi stessi, con gli altri esseri e con il maestro.

 

Il retroscena tra maestro e discepolo

Per chiarire come possa svilupparsi un retroscena comune tra maestro e discepolo, e in che cosa esattamente consista, vorrei adesso modificare parzialmente l’angolazione della visuale, prendendo in considerazione, in modo diretto, il piano della consapevolezza.

Questo non significa, tuttavia, istituire un parallelo tra scena, retroscena e retroscena speciale da un lato, e consapevolezza di tipo grossolano, sottile e molto sottile dall’altro. Per farlo sarebbe necessario aggiungere ulteriori elementi, e ciò esula dai miei intenti in questo contesto.

Vorrei dire solo questo: non esiste alcun confine rigido tra scena, retroscena e retroscena speciale. Allo stesso modo non esiste alcun confine rigido tra i diversi piani della consapevolezza. le frontiere sono mobili, e quindi dobbiamo sempre pensare che queste divisioni hanno finalità illustrative e non vanno prese troppo alla lettera.

Con questa avvertenza possiamo dunque distinguere tra piano esterno, interno, e profondo.

Il piano esterno è la forma grossolana di quella consapevolezza che ci è nota come abituale consapevolezza quotidiana. Tutto il nostro lavorò concettuale si svolge a questo livello. Il piano interno è più sottile, ma è comunque raggiungibile dalle persone comuni. Al piano profondo, invece, si situa la consapevolezza estremamente sottile, che può essere attivata solo durante una meditazione intensiva extra-ordinaria o durante il processo della morte.

Voglio ora soffermarmi sul piano intermedio. Nel quadro di una collaborazione efficace e fondata sulla fiducia tra maestro e discepolo, la comunicazione diretta si verifica sul piano intermedio. Per comunicazione diretta intendo una comunicazione che non sia ostacolata dalla distanza o da altre circostanze, che non sia indipendente dall’intenzionalità del discepolo e senza segni esterni. Entrambi i partner hanno uno scambio, un certo patrimonio di conoscenze e volontà in comune, impronte o ricordi, eventualmente anche nell’arco di molte esistenze.

Ciò che si definisce benedizione [o energia ispiratrice], avviene a questo livello. A questo livello avvengono le pratiche relative alla realizzazione della mente altruistica dell’illuminazione (bodhicitta) e della vacuità (sunyata). È questo il piano che viene direttamente coinvolto durante gli insegnamenti. Il contatto, tuttavia, può rimanere anche al di fuori di essi. Per questo motivo, per i discepoli che lavorano in modo stabile e fiducioso con il maestro spirituale, la necessità di un contatto personale continuo non è così importante come per i principianti. Essi ricevono ciò di cui hanno bisogno in circostanze normali: durante gli insegnamenti formali pubblici o durante le comuni sessioni di domande e risposte. Il resto si svolge, in gran parte, su di un piano più sottile.

Un simile trasferimento del baricentro della comunicazione è del resto indispensabile, altrimenti un maestro non potrebbe prendersi cura di più di quaranta, cinquanta discepoli.

Sappiamo invece dalla storia che ci sono stati lama con migliaia di discepoli, nessuno dei quali è stato trascurato, nonostante la relazione del maestro con ciascuno di essi non avesse caratteristiche specifiche.

 

Il lama sul trono

Tra alcuni praticanti occidentali esiste l’idea che il maestro spirituale debba troneggiare da solo nel mezzo, mentre i discepoli intorno a lui ricevono esattamente la stessa quota della sua attenzione. Su questo si può vigilare persino con gelosia.

Un prendersi cura ottimale, tuttavia, non significa necessariamente una cura identica. Esistono differenze nei tipi di personalità, nel tipo di comunicazione, nelle possibilità di condurre un discepolo attraverso i differenti stadi della pratica e di proiettarli nel futuro, nelle impronte e nei ricordi ricavati probabilmente da molte esistenze in comune.

La maggior parte dei buddhisti conosce esempi di relazioni speciali ricavate dalla storia tibetana: Marpa e Milarepa, Atisha e Dromtonpa, Tsongkhapa e Kedrub-Je, e questo elenco potrebbe continuare a lungo.

Ciascuno di questi lama ha lavorato in modo particolarmente stretto con uno o più discepoli, senza che ciò abbia creato problemi agli altri. Si trattava semplicemente di ottenere il maggior beneficio possibile. Ovviamente esisteva anche una certa uguaglianza, e precisamente durante gli insegnamenti comuni, in occasione dei quali ogni studente aveva la possibilità di costruire con il maestro la stessa intensità comunicativa.

Questa intensità, o comunicazione sul piano sottile, produce del resto la differenza tra un vero insegnamento – grazie al quale può essere costruita una valida relazione tra maestro e discepolo – e una conferenza sul Dharma.

Anche in tibetano esistono due termini diversi per indicare le due situazioni.

In Occidente si è creata molta confusione, per il fatto che il termine insegnamento (in ing. teaching) è stato applicato a qualsiasi tipo di discorso sul Dharma. Forse sarebbe meglio introdurre qualche distinzione in merito.

Ad ogni modo, la comunicazione nella consapevolezza sottile tra maestro e discepolo costituisce il retroscena in comune. In altre parole, non si tratta di una cosa ma di un processo finalizzato alla realizzazione della buddhità. E al tempo stesso è uno strumento per mettere in atto tale processo. Per questo l’incontro tra il maestro e il discepolo, nella relazione tantrica,

appartiene al registro delle esperienze più profonde che possano avvenire nell’ambito di un’esistenza umana.

Il piano profondo, il più interno, il famoso piano più profondamente sottile, in tale relazione, come anche nella vita quotidiana, è collocabile più lontano, e precisamente al di là del continuo stoccaggio di impronte karmiche.

Per noi, persone comuni, è quindi una dimensione piuttosto inerte. Se però, nel corso della meditazione, si riesce ad attivare la consapevolezza estremamente sottile, durante un tale spazio-tempo, tutte le funzioni più grossolane della coscienza sono interrotte. La consapevolezza sottile può allora esercitare il ruolo svolto in precedenza dall’altro livello e agire liberamente. Si utilizzerà la consapevolezza estremamente sottile in modo naturale, per rafforzare le proprie capacità meditative, e per affrettare lo sviluppo interiore. Con la fine della meditazione, tuttavia, essa verrà disattivata di nuovo, accogliendo, come sempre, soltanto impronte karmiche, mentre la consapevolezza grossolana e sottile lavoreranno secondo le consuetudini. Ma su questo argomento fermiamoci qui, altrimenti si corre il rischio di complicare ulteriormente le cose.

 

Il Dharma in Occidente

Ritorniamo alla nostra vita quotidiana e alla nostra questione del Dharma in Occidente. Abbiamo visto come i falsi concetti iniziali possano indurre numerose complicazioni e come tutto, in realtà, si svolga in modo diverso.

Di queste informazioni, adesso, cosa ne facciamo?

In fin dei conti vorremmo risolvere i problemi uscendo dalla nostra situazione e sviluppando sempre di più un’adeguata collaborazione tra maestro e discepolo.

Qual è il modo migliore di andare avanti?

Il maestro spirituale cercherà in primo luogo di far par spazio nella mente del discepolo per qualcosa di nuovo. Questo aspetto è di particolare importanza in Occidente.

Le nostre teste, qui in Occidente, sono già talmente piene di concetti, che all’inizio non è per nulla ragionevole pigiare al loro interno ulteriori informazioni sull’insegnamento buddhista.

La maggior parte degli europei, peraltro, è ben consapevole di tutto questo e il desiderio più urgente che gli europei esprimono è che si trasmetta loro un’esperienza non-verbale di spazio e di intensità, prima di metterli di fronte a nuove conoscenze intellettuali.

Non appena sono stati creati spazio e fiducia, avrà inizio la confutazione dei falsi concetti. In questo processo possono essere sfruttate pienamente le possibilità dei tipi di comunicazione diretta e sottile descritti in precedenza. Tutto ciò può rendere molto felici, ma qualche volta può risultare doloroso, impressionante o persino noioso.

Ancora una volta può accadere che, in apparenza, la collaborazione non tenga per nulla conto dei desideri o dei concetti del discepolo.

In sostanza, nella relazione tantrica tra maestro e discepolo, le cose non funzionano in modo molto democratico, purtroppo. Ognuno dovrebbe scoprire da solo se può pretendere da se stesso tutto ciò, e perché!

Se poi, nonostante tutto, un praticante prende la decisione di proseguire lungo questo cammino con una buona motivazione, riceverà tutto il sostegno necessario.

Egli stesso - attraverso la sua attenzione, la purezza della sua effettiva comunicazione con il maestro, la perseveranza, il coraggio, la fiducia - sarà in grado di raggiungere quel clima interiore che consente mutamenti positivi.

Per questo tramite nasceranno in lui anche la disponibilità e la capacità di accogliere gli insegnamenti, di metterli in comunicazione con al propria mente e di realizzarli.

Da un simile comportamento nei confronti del maestro – che ora è considerato un alleato – nasce spontaneamente uns sentimento di riconoscenza e una profonda stima, che tuttavia non deve essere legata a forme esteriori.

Nulla può scuotere una simile collaborazione in piena fiducia. Essa fa anche in modo che tra i diversi discepoli del medesimo maestro si crei automaticamente un’atmosfera di armonia, di cordialità, di distensione.

La pratica, allora, non viene vissuta in modo meccanico e faticoso, ma in maniera viva, efficace e ispirata.

Il proprio cuore, lo si nota, è colpito dai contenuti della pratica.

Nel corso dei mesi e degli anni, noi stessi possiamo notare come gli impedimenti si dissolvano.

La chiarezza, la semplicità e la contentezza sorgono quasi senza fatica. Il praticante raggiunge una sicurezza carica di felicità nei riguardi di se stesso, delle proprie potenzialità, del proprio cammino e dell’affidabilità del metodo.