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Andreina Acquarone

LA CASA SULLA COLLINA

   

  I.

La casa sulla collina

Sovrastante una popolosa cittadina dei dintorni d'Imperia, si ergeva una collinetta sulla cui sommità un cancello in ferro battuto lasciava scorgere una casa antica di buona fattura.

Da essa si poteva ammirare un ameno paesaggio. Il sole declinava lentamente dietro le cime dei monti lontani, colorando il cielo di un caldo rosso aranciato, come solo può fare un tramonto in tutto il suo splendore. 

Dalla parte opposta, la glauca distesa del mare si confondeva con la linea dell'orizzonte.

Uliveti, frutteti, orti e giardini erano sparsi sui dolci pendii delle colline circostanti. Un senso di pace e di poesia coglieva i viandanti che lì sostavano per godersi il panorama.

La casa, ad un piano, era circondata da un bel giardino tutto fiorito. Un pergolato di glicini e lillà sfociava in una piccola radura erbosa dove, fra due alberi frondosi, penzolava un'altalena. Poco discosto, due panchine e un tavolo di pietra, sul quale erano rimasti gli avanzi di una merenda probabilmente lasciati lì da dei bambini che si stavano ora dondolando sull'altalena.

Dava accesso alla casa una porta di vecchia quercia, con un batacchio di bronzo. Al piano rialzato si trovava una cucina, con un grande tavolo, un'ampia credenza e alcune sedie impagliate. Dai muri un po' scuriti pendevano tegami e tortiere di lucido rame, che insieme al rosso cupo delle mattonelle che coprivano il pavimento, e al camino con la cenere ancora calda, trasmettevano un senso di calore e di intimità. Un intenso profumo di vaniglia fluttuava nell'aria, proveniente da una torta posta sul tavolo.

Di fronte alla cucina si apriva un'ampia sala da pranzo, tappezzata di tessuto verde oliva e con pannelli in legno di quercia, sui quali spiccavano due arazzi e dei dipinti. Le due credenze, il tavolo e le sedie erano pure di quercia. La sala era un po' austera, ma in un angolo vi era una bella cristalliera colma di porcellane antiche, la quale dava luce a tutto il resto, insieme all'ampio tappeto dai colori che digradavano dal ruggine al rosso e a varie tonalità di verde. Pesanti tendoni di damasco verde incorniciavano leggere tende di batista bianco, tutte ricamate, sulle quali grappoli d'uva, tralci e foglie di vite si intrecciavano con incomparabile armonia in un ricamo a punto intaglio, creando così un gioco di luci e trasparenze insieme agli ultimi raggi del sole morente.

L'aria si era rinfrescata di molto, per cui l'ampio camino era acceso. Il crepitio del fuoco, insieme al tavolo apparecchiato, attendeva i commensali.

Sulla mensola del caminetto erano posati dei ninnoli, una fotografia e due candelieri d'argento.

Il salottino adiacente era di certo riservato ad una donna. Due poltrone e un divano rivestiti di velluto azzurro un po' scolorito dal tempo e dall'uso s'armonizzavano col morbido tappeto che copriva gran parte del parquet di legno. Nel mezzo, un tavolo basso tutto intarsiato, su cui era posto un bel vaso di cristallo colmo di rose e di lillà. Nel vano di una finestra vi erano un tavolino con sopra un libro, un'artistica lampada e una scatola di legno laccata in nero e tutta dipinta. Accanto, una sedia imbottita con un'alta spalliera sulla quale era appoggiato uno scialle di seta nera dalle lunghe frange. Alle pareti erano appesi dei dipinti ad olio raffiguranti fiori e paesaggi. Anche lì, splendide tendine ricamate apparivano fra i tendoni di velluto.

A lato del salotto, uno studio dall'aspetto severo. Un posacenere di onice, fogli, penne, matite sparse un po' in disordine, ed infine una fotografia di famiglia racchiusa in una cornice di legno intarsiato. Un'intera parete era occupata fino al soffitto da una libreria colma di libri. Un mobile e alcune sedie completavano l'arredamento. Non vi erano tende, ma bei vetri istoriati. Le pareti erano tutte rivestite di legno scuro, e su di esse risaltavano alcune belle riproduzioni di celebri dipinti e varie stampe antiche. Era un bell'ambiente, ma un po' cupo e freddo, che non lasciava trasparire alcunché di personale.

Una scala di legno portava al piano superiore. Su un pianerottolo si aprivano tre camere che davano su una terrazza tutta fiorita di oleandri bianchi e rosa.

La prima era una camera matrimoniale arredata con mobili in stile Luigi XV. Un lungo e antico rosario di legno con appeso un crocifisso d'avorio pendeva sopra l'alta testiera del letto. D'avorio era pure il set di spazzola, pettine e specchio, bene in vista su una civettuola toletta tutta rivestita di pizzo antico color avorio, simile alle tende e al copriletto, veri capolavori lavorati a mano. In quella casa doveva essere vissuta un'ava dalle mani d'oro. Alle pareti, quadri di soggetto mitologico. Sul cassettone, alcuni ninnoli di squisita fattura.

La seconda stanza, tutta in rosa, era di certo destinata a tre bambine. Due lettini in ferro battuto tutti dipinti con bellissimi colori erano posti fra due finestre che guardavano sul terrazzo, mentre un terzo, più piccolo ma simile agli altri due, era situato accanto ad un'altra finestra che dava sul retro della casa. Gli scendiletto rosa a fiorellini andavano a braccetto con i copriletto e le deliziose tendine sulle quali la solita mano d'artista aveva dipinto con l'ago fiori variopinti frammisti a farfalline in volo. C'erano un grande armadio, un cassettone e tre poltroncine. Su un tavolinetto una damina di porcellana danzava al suono di un carillon. Al di sopra di ogni lettino era appeso un angioletto con le ali aperte.

La terza camera era ariosa. Da una porta a vetri si poteva accedere alla terrazza. Sul parquet era steso un grande tappeto un po' consunto, cosparso di giocattoli, pupazzi e bambole. C'erano alcune seggioline e una piccola libreria contenente libri di favole, testi scolastici e quaderni. Un orologio a cucù e quadretti di ceramica dipinta davano un tono di allegria e spensieratezza.

Sia l'interno che l'esterno della casa sulla collina rivelavano agiatezza e buon gusto. Non era lussuosa, ma accogliente.

     

II.

Metamorfosi

Il sole era ormai tramontato da un pezzo e dalla casa sulla collina non usciva alcun rumore, alcuna voce, forse erano tutti riuniti intorno al tavolo per cenare.

Si era levato un vento freddo, che trasportava fino a lì l'incessante rumore del mare, delle onde che s'infrangevano contro gli scogli.

Era autunno inoltrato, per cui la notte calò presto, e nel cielo apparve la luna che tutto inondò con la sua luce bianca e fredda.

Tutto parve diverso, tutto cambiò come per magia.

La dolcezza del paesaggio era svanita, scomparsa insieme ai fiori e al verde del giardino dietro il cancello, lasciando al loro posto un angoscioso senso di abbandono, di squallore, di silenzio che incuteva quasi paura.

Ad un tratto, dietro il cancello si delineò una figura femminile, ma dai contorni sfocati e indefinibili come quelli d'un'ombra. 

La figura spinse il cancello arrugginito e si avviò verso il giardino per poi fermarsi nella radura con l'altalena, dalle corde ormai logore e dal sedile tutto sbocconcellato. L'ombra sii fermò lì accanto e la fece dondolare piano piano, avanti e indietro, avanti e indietro.

Il bel giardino fiorito era ora tutto ricoperto di erbacce, il pergolato era sparito. 

Dopo un momento l'ombra si sedé stancamente su una panchina tutta coperta di muschio. Fissando l'altalena, vide alternarsi su di essa alcune figurine infantili tutte ridenti. Poi vide sulla panchina accanto una bimbetta tutta triste, con gli occhi pieni di lacrime, che guardava sconsolata le altre bambine così allegre, le quali però non si curavano affatto di lei, nonostante la sua vocina supplichevole che implorava: Fate salire anche me sull'altalena...

A questo punto un singhiozzo scosse le esili spalle della figurina e si udì nel silenzio della notte una voce accorata che chiedeva: Perché? perché? 

Nessuno le rispose. L'ombra, piccola e zoppicante, si alzò di scatto e si diresse verso la casa. Giunta sulla soglia, spinse la porta coperta di ragnatele, che si aprì cigolando sui cardini arrugginiti.

Entrò nella vecchia cucina dove erano rimasti solo il camino colmo di cenere e un forte odore di muffa e di stantio.

Anche nella grande sala non c'era più niente, salvo ragni e polvere. Sulla mensola del caminetto era rimasta una fotografia capovolta, che l'ombra prese e guardò: raffigurava un uomo in divisa, il cui volto, scolorito dal tempo, era irriconoscibile. L'ombra tuttavia probabilmente lo riconobbe poiché, dopo avere osservato a lungo la fotografia, chiese di nuovo: Perché? perché?

Neppure stavolta qualcuno le rispose, ed allora l'ombra la lasciò ricadere, di nuovo capovolta, poi proseguì, guardandosi intorno con pena.

Nel salottino lo stesso abbandono e lo stesso terribile silenzio delle cose in sfacelo. Solo il vecchio tavolino era ancora lì, accanto alla finestra, con sopra la scatola laccata, che l'ombra aprì. Trovò solo un ditale, che sfiorò con dita gelide, quindi richiuse la scatola, mentre alcune sue lacrime cadevano proprio sopra il coperchio.

All'improvviso le parve di sentire dietro di sé un passo leggero, si volse di scatto, ma non vide nulla, udì solo un fruscio che subito svanì. Forse un topo? o che altro? 

Nello studio erano scomparsi i bei vetri istoriati e tutto il resto, salvo la scrivania, tutta tarlata. L'ombra aprì i cassetti, ma vi trovò solo conti di casa tutti sbiaditi, sui quali si poteva ancora leggere: da pagare, da pagare, da pagare. La figura li ripose bruscamente nel cassetto ed infine rialzò una vecchia fotografia di famiglia incorniciata, che forse era stata dimenticata o che forse nessuno aveva voluto. La contemplò, poi la gettò a terra con un gesto rabbioso. Resto lì sul pavimento, col vetro infranto.

Lungo le scale, sulle pareti i riquadri vuoti di dove un tempo c'erano i ritratti degli antenati davano un'impressione quasi lugubre.

Davanti alla porta della stanza matrimoniale, l'ombra si arrestò di colpo. Una voce femminile dal timbro imperioso gridava: Sei stato tu, è tutta colpa tua se ci siamo ridotti così.

Una voce maschile le rispose con un mormorio indistinto, poi tutto si chetò. La piccola ombra, scossa da violenti singhiozzi, entrò nella stanza tutta vuota e deserta, dove dalle finestre senza vetri entrava un gelido vento, un vento di morte. Insieme ad alcuni ninnoli tutti sbrecciati posti in un canto, trovò anche lì un'altra grande fotografia.

L'ombra la prese tra le mani e l'osservò a lungo. Vi erano raffigurati un uomo bruno coi baffi, una bella figura di donna dall'aria altezzosa e, sedute davanti, due graziose ragazzine. Quasi nascosto, si vedeva tra le altre due un visino di bambina dall'espressione malinconica.

L'ombra guardò a lungo e con grande emozione la donna e poi, colma di dolore, chiese di nuovo: Perché? Quali colpe avevo io? Perché, mamma?

L'angoscia le aveva serrato il cuore come in una morsa.

All'improvviso però i suoi occhi cambiarono totalmente espressione, si incupirono. Rancore, pena, disperazione li resero duri, impietosi, quasi cattivi. Poi, sbattendo la porta, uscì dalla stanza ed entrò nella camera dai tre lettini.

Naturalmente i lettini non c'erano più, era rimasto solo un armadio, forse perché non era di legno pregiato. L'ombra l'aprì e vi trovò una cappelliera contenente un cappellino di paglia. Lo prese, lo guardò, quindi lo lasciò cadere sul pavimento e lo calpestò.

Nella stanza dei giochi inciampò in una bambola, tutta nera di polvere e senza un braccio. Dapprima la prese fra le braccia e la strinse a sé, poi mormorò: Tu sola mi hai voluto bene, tu sola. Ma poi aggiunse:  Sei soltanto una bambola, e con un gesto inaspettato la scagliò con forza contro il muro. La povera innocente bambola si frantumò in cento pezzi. Ma con quel gesto la piccola ombra scura aveva sepolto il ricordo di un doloroso passato.

Meditò un istante, poi, con un po' di fatica, tolse via una pietra da sotto la mensola del caminetto.

     

III.

Un diario

Apparve un buco nero, una mano della figura vi si infilò, estraendo un quaderno un po' sgualcito: era un diario datato «anno 1896». 

L'ombra si sedette su una cassetta vuota e iniziò a leggere, al chiarore della luna che entrava liberamente dalle finestre aperte, mosse dal vento.

Il diario iniziava così.

Ho deciso di scrivere un diario perché non ho nessuno con cui confidarmi.

1° maggio 1896. È domenica, siamo andate tutte a messa. Al ritorno la mamma si è fermata dal pasticcere per comprare dei bignè alla crema. Io non vedevo l'ora di mangiarli, mi piacciono tanto. Nel pomeriggio mia madre ha condotto "loro due" a fare una passeggiata in città, ma io sono restata a casa perché dovevo finire di studiare. Papà si chiuse nel suo studio e non lo vidi per tutto il tempo.

8 maggio 1896. Oggi nel pomeriggio "loro" sono andate ad una festa in casa di un'amica. Io invece sono rimasta a casa perché dovevo aiutare la mamma a rimettere in ordine i miei cassetti. Perché io, con una scusa o con l'altra, devo sempre rimanere a casa?

12 maggio 1896. Ho capito che "loro" mi detestano e che la mamma non mi vuole bene quanto ne vuole a "loro". Papà è sempre così indaffarato per via del lavoro e non saprei dire se mi vuole bene.

28 maggio 1896. È di nuovo domenica e piove a dirotto. Sono a casa con la sola compagnia della domestica che viene ogni tanto ad aiutare mia madre nei lavori più pesanti. Si chiama Lucia, è buona e gentile, ma io vorrei la mia mamma. Potessi almeno andare in giardino a dondolarmi un po' sull'altalena, ma piove a dirotto – che disdetta!

26 agosto 1896. È da un po' che non scrivo sul mio diario. Sono passati più di due mesi, le scuole sono finite da un po', per cui sono in vacanza, ma io preferisco andare a scuola, perché ci sono tante altre bambine (molto più simpatiche delle mie sorelle) con le quali posso chiacchierare. Mi piace anche studiare. La mia maestra è un po' arcigna e severa però è giusta ed è contenta di me – meno male, almeno lei!

26 dicembre 1896. Ieri era Natale, e come regalo ho ricevuto una bella bambola. Anche "loro" l'hanno ricevuta. Nella sala da pranzo avevamo allestito un bel presepio. Il pranzo natalizio era stato preparato dalla Lucia perché alla mamma non piace cucinare, al contrario di me. Difatti fui io ad aiutare Lucia, mia madre invece apparecchiò il tavolo, tirando fuori i piatti e i bicchieri più belli, le posate d'argento e tovaglia e tovaglioli tutti ricamati. Alla vigilia le mie sorelle sono andate in giro con le amiche mentre io come al solito sono rimasta a casa. Però alla sera siamo andati tutti alla messa di mezzanotte. Più tardi però nel mio lettino piansi, ero molto triste. Ed anche oggi mi sento triste. Solo la mia bambola mi vuole bene, anche se adesso è senza un braccio. Infatti, non avendo aiutato una di "loro" a svolgere un lavoretto, lei per dispetto l'ha buttata giù dalla finestra. Ma quando mai "loro" hanno aiutato me? Le odio, le odio, le odio e detesto tutti.

22 febbraio 1897. Ieri ho compiuto 10 anni, la mamma mi ha regalato un bel cappellino di paglia di Firenze per la prossima primavera, mi sta proprio bene. A tavola, una bella torta alla vaniglia mi aspettava. Papà mi ha comprato dei cioccolatini. Le mie sorelle mi hanno fatto gli auguri con fare distratto, persino la Lucia è stata più gentile di loro, mi ha abbracciato e dato un bel bacio sulla guancia. A me pare che Lucia mi capisca assai più della mia famiglia. Essendo domenica, avevo sperato che mamma mi conducesse a qualche festa come aveva fatto l'anno precedente in occasione del compleanno della mia sorella maggiore, ma non è stato così, sono stata a casa come sempre. Non è giusto, non è proprio giusto.

30 marzo 1897. Questa è l'ultima volta che scriverò sul mio diario, perché per me i giorni sono tutti uguali, non cambia mai niente, scuola e casa, casa e scuola. Nessuno mi vuol bene. Perché? Perché?

* * *

L'ombra sfogliò ancora il diario e vi trovò ancora altre pagine scritte, datate otto anni dopo.

18 maggio 1905. Oggi sono felice, ed è per questa ragione che ho ripreso a scrivere sul mio vecchio diario. Finalmente ho da raccontare qualcosa di nuovo, e soprattutto di piacevole. Stamattina siamo andati tutti a messa nella solita chiesetta. Il tempo era bello, per cui ci avviammo per la strada più lunga per respirare l'aria fresca del mattino. Tornando a casa incontrammo la signora Anna, amica di mia madre, e questa, dopo aver scambiato qualche parola, l'invitò con tutta la sua famiglia a casa nostra per il pomeriggio. 

Anna giunse verso le 16, accompagnata dal marito, dalle due figlie, amiche delle mie sorelle, e da Carlo, il suo figlio maggiore. Mamma, come al solito, mi spedì in cucina a preparare il caffè, perché – asseriva lei – nessuno sapeva farlo meglio di me. Io per la verità ne avrei fatto volentieri a meno.

Qualche istante dopo Carlo mi raggiunse, e cominciò a discorrere con me. Carlo è un giovane intelligente, lo conoscevo già da bambina, ha 23 anni, quindi cinque più di me. Era la prima volta che s'interessava a me. Ne fui molto sorpresa, ma anche molto felice e lusingata; in  effetti era la prima volta che un giovanotto si occupava di me. Quando ebbi preparato il caffè e l'ebbi accomodato sul vassoio insieme a dei deliziosi dolcetti, egli mi aiutò a portarlo in salotto. Continuammo a conversare piacevolmente per tutto il pomeriggio, fu evidente che i frivoli discorsi delle mie e delle sue sorelle non lo interessavano affatto.

Quando si accomiatarono, Carlo stringendomi la mano mi promise che domenica prossima sarebbe tornato a trovarmi, per riprendere i nostri discorsi. Stasera sono così contenta che non bado più di tanto alle frecciatine ironiche delle mie sorelle, molto seccate perché Carlo le ha ignorate tutto il pomeriggio. Ho però notato che mia madre mi osservava con una certa, insolita, curiosità.

25 maggio 1905. Oggi pomeriggio, dopo aver indossato il mio vestito nuovo, mi sedetti sulla terrazza per aspettare Carlo, che giunse poco dopo con un suo amico. Il cuore mi balzò in petto per l'emozione: si era ricordato della sua promessa. Mi specchiai, mi ravviai i capelli e scesi per andare ad incontrarlo. Giunta a metà scala mi fermai di botto, perché dal salotto apparvero le mie sorelle, tutte agghindate, col cappellino in testa, le quali li salutarono con effusione, dopodiché se ne andarono tutt'e quattro insieme.

Evidentemente erano già d'accordo, perché mentre uscivano li sentii parlare di un trattenimento in casa di amici comuni. Io non mi ero mossa e nessuno si accorse di me. Corsi a nascondermi in soffitta e piansi tutte le mie lacrime, per il dolore e la delusione.

No, io non piaccio e non interesso a nessuno, forse ispiro solo pietà. O Signore, come farò a sopportare ancora tutto questo? Fino a quando ci riuscirò?

27 ottobre 1906. È trascorso più di un anno da quella triste domenica. Ieri ho sentito per la prima volta litigare i miei genitori. Si erano chiusi in camera da letto, pertanto non potei capire la ragione del litigio, ma sento che sta accadendo qualcosa.

4 novembre 1906. Ieri hanno litigato di nuovo, ma stavolta origliai alla porta. Non è bello ma dovevo sapere. Non avevo la più pallida idea di ciò che stava succedendo. Mio padre, giocando al casinò, aveva perso tutto ciò che possedeva, compresa la dote di mia madre. La rovina si era abbattuta sulla nostra famiglia, portando dolore, devastazioni, paura del domani e debiti. Che cosa succederà adesso? Come vivremo? Ho paura.

18 dicembre 1906. Ieri sono arrivati alcuni uomini accompagnati da un ufficiale giudiziario. Hanno portato via tutte le nostre cose più belle e preziose, i mobili, e hanno posto i sigilli alla nostra casa, per cui abbiamo dovuto traslocare in una vecchia casetta con le cose più indispensabili. Che vergogna, tutti eravamo in preda ad un'angoscia profonda. Le mie sorelle andavano su e giù come anime in pena, mia madre piangeva.

Stranamente, ad un tratto mi resi conto di non provare pena per lei. Io avevo pianto tante tante volte, ma lei non mi aveva mai consolata o chiesto perché piangevo – fingeva di non vedere.

Neppure le mie sorelle mi ispiravano compassione, e tanto meno mio padre mi faceva pena, benché vagasse per tutta la casa con le spalle curve, lo sguardo spento, l'aria colpevole.

2 gennaio 1907. A me è passata la paura del domani, perché ho capito qualcosa di molto importante, ossia che me ne andrò lontano da tutti loro, non so né quando né che cosa deciderò, ma sono arcistufa di soffrire per il loro disamore, la loro discriminazione nei miei riguardi. La loro sorte non mi interessa più, è finita per sempre. 

Quanto a me, povera sono e povera resterò, ma non morirò per questo, in qualche modo mi arrangerò.

Il diario terminava qui. L'ombra lo rimise dove l'aveva trovato e richiuse il buco con la pietra. Lo aveva sepolto, anch'esso, per sempre.

     

IV.

Un altro diario

La piccola ombra salì in soffitta e vi trovò alcune casse colme di cianfrusaglie e di abiti d'antica foggia. Frugò tra i vestiti, che ancora emanavano un lieve profumo di bergamotto. Li tirò fuori l'uno dopo l'altro. Ad un tratto, con somma sorpresa, trovò un altro diario. Esitò un momento, poi l'aprì, quasi con timore. Era scritto da una donna ed era datato 1880.

12 aprile 1880. Mi sono sposata, sono felice, mio marito mi ama, è molto gentile, pieno di premure e molto generoso con me. Abitiamo in una bella casa, dove io passo molto tempo, perché mi lascia spesso sola per via del suo lavoro, piuttosto impegnativo e dagli orari alterni.

Ho conosciuto alcune signore del posto, molto gentili, che spesso mi invitano a casa loro oppure ad andare con loro ad assistere a un concerto o a qualche recita. Naturalmente io ricambio i loro inviti.

15 agosto 1880. Mi sento un po' sola, vorrei passare – come fanno le mie amiche – molto più tempo con mio marito Giambattista.

26 dicembre 1880. Ieri era Natale, siamo stati finalmente tutto il giorno insieme, unitamente ai parenti venuti da Imperia. Mio marito mi regalò un bel braccialetto, e i parenti diversi ninnoli. Chissà perché tutti avevano avuto la stessa idea. Non amo molto cucinare, ma il pranzo natalizio è stato un successo, e questo soprattutto per merito di Lucia, la mia domestica.

11 gennaio 1881. Non è trascorso neanche un anno dal mio matrimonio ed ho scoperto di aspettare un bambino. Siamo entrambi molto felici, mio marito mi colma di attenzioni (quando è a  casa).

11 ottobre 1881. Siamo al settimo cielo, ho messo al mondo una bella bambina sana e perfetta, ne sono molto fiera. Dedicherò tutto il mio tempo ad allevarla bene, l'abbiamo chiamata Luisa.

18 novembre 1883. La mia bambina cresce bene, ma è piuttosto capricciosa, spesso fa le bizze, anche perché ho avuto un'altra bambina ed è un  po' gelosa della sorellina Angela. Pure Angela è tanto carina, sta bene, mangia e dorme come un angioletto. Quando il tempo è bello le porto a passeggio. Sono così graziose e tutti mi fanno i complimenti. Il tempo scorre veloce, non ho mai un attimo di tranquillità. La mia casa è spaziosa e richiede molto impegno, malgrado l'aiuto di Lucia. Mio marito ama molto le bambine ma, come al solito, è sempre molto occupato, perciò tocca a me occuparmene.

30 giugno 1887. Non ho più avuto tempo per aggiornare il mio diario, ma ora devo in qualche modo condividere la mia pena con qualcuno, e non sapendo proprio a chi rivolgermi, la confiderò al mio "amico diario". Mi è nata da poco una terza bambina, si chiama Paola. Però stavolta è del tutto diverso, non ne siamo felici, perché non è come le sue sorelline. È gracile, non bella, e per di più è nata con una gambina più corta. Non oso portarla a passeggio, che cosa penserà la gente? Di certo dirà che è una tara di famiglia, e chissà che altro. Signore Iddio, perché mi hai dato una figlia così? Forse perché ero troppo felice?

Leggendo queste ultime frasi, la piccola ombra sussultò, poi stette lì ferma come ammutolita per parecchi minuti, fissando quelle pagine senza vederle. Infine proseguì nella lettura: la stessa mano femminile dalla bella ed elegante calligrafia, dopo un lungo lasso di tempo, aveva ripreso a scrivere.

27 ottobre 1909. Sono trascorsi anni dall'ultima volta che ho scritto. Non va bene niente. Ho scoperto che mio marito da sempre gioca al casinò, e ci sta portando alla rovina. Perché ho sposato quest'uomo che mi ha tolto da una vita agiata, serena e senza problemi, per poi farmi finire la mia esistenza in povertà e vergogna, dato che ha pure sperperato la mia dote, che gli avevo affidato con piena fiducia? Non è rimasto quasi più niente, e per giunta anche la nostra casa è ipotecata. Non so fino a quando potremo resistere, forse presto ci troveremo su una strada senza una lira e senza amici. Gli amici infatti ci hanno voltato le spalle e so che sparlano di noi – che vergogna!

10 dicembre 1910. Non sto affatto bene, non ho più voglia di vivere. Ieri è venuto l'ufficiale giudiziario con alcuni uomini, hanno sequestrato quasi tutto, salvo le cose indispensabili, e per di più con l'ingiunzione di lasciare la casa entro tre mesi.

Detesto mio marito. Un tempo l'amavo tanto, ma lui ha veramente amato me? Com'è possibile che la sua passione per il gioco abbia superato ogni sentimento di amore, di responsabilità verso tutte noi? Lui per un verso, e la mia figliola Paola per un altro, mi hanno procurato solo vergogna e rovinato la vita. Paola però non ha colpa d'essere nata così, ed è intelligente e sveglia, e chissà, forse avrà capito da tempo che io e le sue sorelle ci vergogniamo di lei. Mi dispiace tanto, non avrei voluto sentirmi così. Ma non potevo farci niente, era più forte di me. Avrei preferito di gran lunga fosse stata meno intelligente ma più bella, e perfetta come le altre due. Forse è per questo che Dio mi ha punita. Adesso credo di averlo finalmente capito, ma è troppo, troppo tardi per tutto. Indietro non si può tornare.

A questo punto l'ombra smise di leggere e posò il diario aperto sopra una cassa, come a testimonianza di quella straziante e crudele verità. Aveva avuto la sua risposta, il resto non le interessava più.

O Dio! – pensò la figurina – mi hanno insegnato a credere in Te, a pregarti in ginocchio, ma Tu dov'eri? Hai mai ascoltato le mie preghiere, le mie invocazioni d'aiuto?

No, Dio, Tu per me non ci fosti mai ed è per questo che mi sono dimenticata di Te, come Tu e "tutti loro" vi siete scordati di me, che invece necessitavo del vostro amore. Ho sofferto tanto, sono stata ferita, umiliata, non sono mai stata amata, e questo scritto di mia madre ne è la conferma.

La piccola ombra tornò sui suoi passi, seminando dietro di sé una lunga fila di lacrime amare  come il veleno. Giunta di sotto, dolente e zoppicante figura, si avviò verso il giardino incolto per poi svanire come ombra fra le ombre della notte.

La patina ovattata e impalpabile del tempo aveva avvolto il tutto in un silenzio sepolcrale, e poi tutto disparve nel buio profondo delle cose morte, giacché anche la luce spettrale della luna era sparita dietro le nubi nere, portatrici di tempesta, di gelido vento, di tuoni e di saette.

All'improvviso un lampo accecante squarciò il buio, illuminando soltanto una collina vuota e arida come un deserto. 

Non vi era più né casa né giardino né cancello. Non vi era nulla di nulla.

Torino, 9 dicembre 2000

   

 

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