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Sommario del sito

LOGICA ED ESPERIENZA

ovvero

LA FORMA E IL SUO ESSERE

Clericus

 

Sommario: 

 Premessa

Parte prima:  Introduzione - Lo “spirito di sistema” va rifiutato, tuttavia… - L’esperienza come totalità dell’io - Non basta postulare il Sé per risolvere la questione - Le forme condizionano l’esperienza e ne pongono gli sviluppi - Paradossi logici - Esperienza e logica - La Logica, il Possibile, le Strutture - Quattro ipotesi - Discussione delle quattro ipotesi - Appendice sulla non derivabilità della Matematica.

 
 

Premessa
 

La questione dell’esperienza o, se si vuole, della coscienza, è seria. Se si decide di discuterne, si deve usare una logica bivalente: principio di contraddizione e terzo escluso. Entrambi sono necessari per separare con assoluta chiarezza vero e falso. La cosa non è però gratis: il numero delle affermazioni possibili si riduce enormemente e viene in compenso esaltata al massimo la potenza espressiva della Matematica, (*) e in generale dei sistemi compatibili con la logica bivalente. Ne segue che le strutture fondamentali vengono necessariamente identificate in questa, anche se l’esperienza non vuole saperne, perché la sua “logica” è differente.


(*) Per essere precisi, la Matematica definisce un sottoinsieme nell’insieme di tutti i sistemi compatibili con la Logica bivalente. A tutto rigore, questa non è la categoria di ogni schema logico. In questo lavoro, la distinzione tra i termini “logica”, “matematica” , “struttura” o “schema” è in parte indifferente: ciò che importa è che il loro comune significato è nell’assenza di un contenuto definito, nell’alterità dall’esperienza. Io ho usato “Matematica”, perché definisce le strutture del mondo fisico, lasciando aperta la possibilità che siano queste a condizionare, sia pure solo negativamente, quelle dello psichismo (body-mind problem ). Ovviamente, questa è solo una ipotesi di lavoro.

Avendo assunto come fondamentale solo la distinzione logica tra Vero e Falso, il polo del discorso si sposta fortemente verso la logica bivalente, che diventa assoluta in quanto non definisce nessun particolare contenuto, e il problema diventa l’irriducibilità dell’esperienza (l’impossibilità di chiuderla interamente in una forma logica).

Dunque, non è affatto detto che si debba usare una logica bivalente, anzi di solito ci si presentano più alternative; ma ci sono buone ragioni per mantenerla.

La prima, è che è illusorio farne a meno. La stessa coscienza accetta questa logica non solo sul piano cognitivo, ma su quello comportamentale ed etico. Questo impone scelte aut-aut , cioè soddisfa la forma dei due principi logici fondamentali. Perciò, qualsiasi asserzione contraria è, sotto questo aspetto, illusoria.

La seconda, è che il mondo fisico soddisfa (pare) questa logica e la sua fortuna deriva proprio da questo. Ovviamente, nulla ci obbliga a pensare che questa stessa logica regoli il mondo psichico; anzi, la irriducibilità ad essa di questo, se c’è, farebbe piuttosto pensare altrimenti.

Comunque, questa conclusione non sembra essere comune nell’ambiente dei “filosofi della mente”.

La terza, che in realtà è la prima, è che penso si debba mantenere la distinzione tra vero e falso, anche se a ben guardare questa è più un programma che una fedele rappresentazione del reale.

L’irriducibilità dell’esperienza ad ogni spiegazione causale logicamente connessa potrebbe essere conseguenza della logica bivalente, troppo rigida ma proprio per questo adatta a identificare catene deduttive e processi unidirezionali, deterministici e descrivibili in termini finiti; essa è quindi estremamente efficace nel controllare la coerenza del discorso, ma incapace di trattare moltissimi costrutti del linguaggio ordinario e tutte le situazioni sfumate o indefinite: non sembra essere questo il modello della coscienza.

In realtà, la mia opinione è molto più spostata verso l’irrazionalità dello psichismo di quanto non sembri. Lo spostamento completo verso l’irrazionalità assoluta è, secondo me, impedito solo dal mondo fisico, cioè dalle strutture matematiche. Probabilmente queste non producono un bel niente: semplicemente impediscono il caos mentale. Il problema della “struttura” della coscienza fondamentalmente potrebbe essere un falso problema, dovuto al fatto che si cerca di spiegare un “contenuto” a partire da una “forma”.

 


 

Parte Prima

 

Introduzione

Carissimo Dario, l’ultimo incontro a tre con l’amico F. ha messo in rilievo alcune cose. Se ho ben capito, tu consideri essenziale l’esperienza intesa come il vissuto realizzato, come percorso e ricerca liberi da schemi, al punto da considerare meri strumenti le forme del rito, il dogma, e le stesse costruzioni mentali in generale. Infatti mi scrivi:

“Se l’esperienza sciamanica è basilare…lo è proprio in ragione della sua scelta affine al congetturale, che è agli antipodi dello spirito di sistema dei filosofi…Rito e categoria sono per me fissazioni, scollamenti dall’esperienza diretta, mezzo mnemonico che rischia di tradire l’oggetto originario, anzi lo tradisce inevitabilmente, in quanto tale Oggetto muta in continuazione, più secondo armonia di congettura che non secondo deduzione logica.” [lettera del 16 Giugno].

Personalmente trovo difficoltà nell’aderire completamente a questa posizione, anche se non vedo né contraddizioni interne, né obiezioni sul piano pratico.

  

Lo “spirito di sistema” va rifiutato. Tuttavia…

Proprio dal punto di vista pratico, i vantaggi sono innegabili: per esempio, si evita di identificarsi con lo spirito di sistema che effettivamente “sistema” le cose a modo suo, risolvendole nelle loro relazioni reciproche spesso ipotetiche, o, peggio, riducendone l’autonomia e l’essenza sotto un contesto forzato. Inoltre, l’adesione rigida a un punto di vista preclude inevitabilmente la possibilità di altri sviluppi. Sulla validità strumentale dell’atteggiamento anti-sistema si deve quindi essere d’accordo, fino a un certo punto.

[E neppure si può ignorare come i “sistemi” - tutti i sistemi, eccetto quelli che parlano di cose assolutamente marginali - si siano formati sotto la pressione di istanze politiche, per non dire che sono stati imposti dal potere politico, o per lo meno dalla struttura nel senso marxista: stabilire che cosa derivi dalle circostanze storiche e dai rapporti di potere, e cosa sia assolutamente valido in quanto indipendente almeno da tali fattori, è un’impresa di chiarificazione la cui stessa eseguibilità è in dubbio. Lo prova proprio il marxismo, che indubbiamente chiarifica gli arcani delle costruzioni altrui, salvo produrne altre ancora più complesse e problematiche.

Insomma: lo sforzo di chiarificazione porta spesso all’edificazione di nuove strutture, che, passata la generazione che ne riconosce un significato, appaiono in seguito come cattedrali di grafemi e fonemi di difficile interpretazione. E non è nemmeno una questione di intenzioni: è lo stesso pensiero che si sviluppa indefinitamente, facendo credere al suo autore di esserne appunto la fonte, mentre in realtà è solo il sostrato del suo prodursi.

La diffidenza verso le forme fisse del pensiero e più in generale verso ogni stereotipo comportamentale quindi non solo è ragionevole; è necessaria. Il problema non è l’atteggiamento, è la possibilità della sua effettiva realizzazione.]

Tuttavia, i “sistemi” ci sono. Non solo, ma non sono del tutto sicuro che se ne possa fare a meno. Il superamento completo dello “spirito di sistema” è molto più affermato che realizzato. Direi che - se c’è - è piuttosto un programma basato sulla fiducia: si afferma talvolta che i “saggi” non parlano o non scrivono, eppure la Teologia e la metafisica delle grandi religioni tradizionali si sono sviluppate in forme imponenti, originando sistemi complessi e analisi molto sottili, nonché dispute (e non solo) estremamente accanite.

Credo sia necessario meglio definire la questione, se non altro a scopo di autochiarificazione.

La mia tesi è che, in realtà, l’esperienza non sia fondamentale; solo che, detto in questi esatti termini, sembra una sciocchezza. E perché lo sembra? Ma perché distinguere tra il soggetto - non nel suo porsi in modo temporaneo e contingente, in relazione a circostanze esterne, ma inteso come percezione di sé, consapevolezza, “senso” - e la sua esperienza, o almeno la sua parte significativa, è contro l’autoevidenza a tutti gli effetti. La posizione, per cui la nostra esperienza e “noi” concretamente, singolarmente intesi, siamo strettamente associati fino a coincidere, è praticamente inevitabile.

Vi sono tuttavia alcuni problemi.

 

L’ esperienza come totalità dell’io individuo

La prima questione, che non può completamente chiarirsi da un punto di vista esperienziale (intendo: quello secondo cui tutto ha origine nell’esperienza in quanto tutto è esperienza), è che l’esperienza stessa appare irriducibile , non tanto in quanto soggettiva, ma in quanto apparentemente non derivabile da altro da sé. Le teorie, tutte le teorie, vale a dire concetti e concettualizzazioni, sono viste soggettivamente come elementi del paesaggio mentale: se così non fosse, perché interesserebbero? Anzi, come potrebbero essere comprese? Una comprensione e una formulazione al di fuori dell’esperienza è così controevidente, da non meritare nemmeno la qualifica di ipotesi. Tuttavia, le “teorie”, proprio dal punto di vista esperienziale, non sono propriamente reali: si dice appunto “la tal cosa è vera in teoria” sottintendendo che in pratica così non è (o potrebbe non essere). La scelta esperienziale, portata alle estreme conseguenze, rifiuta il concetto, in quanto fondamentalmente illusorio. E allora, il concetto da dove nasce? Fuori dall’esperienza? Non si era detto che tutto è esperienza? Nasce forse dal fatto che le singole esperienze soggettive differiscono, e in tal caso avrebbe una funzione regolatrice, impedendo all’esperienza di disperdersi in un Caos indifferenziato? Ma allora il concetto diviene il Concetto, la funzione che consente all’esperienza di essere tale, e non un disordine assoluto di sensazioni, stati mentali, volizioni assolutamente disarticolate e indipendenti. O forse non c’è differenza tra esperienza e concetto, e la distinzione è illusoria? Il fatto è che parole diverse indicano generalmente cose diverse, e, dal punto di vista esperienziale, le cose ci sono in quanto momenti del vissuto, non in quanto entità astratte. Non mi pare il caso che il linguaggio debba sorgere per potersi necessariamente sbagliare sulle cose fondamentali.

Se si assume che l’esperienza sia la totalità di tutto il materiale emerso nella coscienza nasce un problema. Qualsiasi affermazione sensata su x assume che x abbia un significato: o è una rappresentazione, una immagine mentale più o meno definita, o è un termine il cui uso, nel discorso, è definito: in tal caso, il significato emerge dal contesto. Nel primo caso, x appare come un elemento della coscienza, e quindi dell’esperienza, individuabile nello svolgersi di questa. Il problema è questo: come è possibile che ciò avvenga, se x denota l’esperienza? L’esperienza sarebbe un elemento di se stessa? Sembrerebbe che denotare l’esperienza stessa sia contraddittorio. Tuttavia, il fatto stesso che vi sia nel linguaggio un termine che vuol indicarla attesterebbe il contrario.

Ora, il fatto che se ne parli concretamente, cioè che si enunci o si scriva qualcosa su di essa, non è in sé essenziale, in quanto l’azione concreta del parlare presuppone comunque un senso. A meno che non abbia senso il “parlare di esperienza”, in quanto tale; ma allora, perché lo facciamo? Il senso di un costrutto discorsivo implicante x dipende dal senso di x: il primo deriva dal secondo, se quest’ultimo c’è. Che si parli o non si parli, è inessenziale; essenziale è la consistenza di ciò di cui si parla. Si era detto che l’esperienza è il vissuto concreto: il massimo della consistenza, sembra. Che succede ora, il senso di x svanirebbe nel nulla, solo perché l’avere x senso implica che x è un elemento di x? Si può forse obiettare che gli elementi dell’esperienza non sono staccati l’uno dall’altro, e che questa è piuttosto un continuum che varia qualitativamente, non un insieme discreto di unità atomiche reciprocamente esclusive. Come si potrebbe sostenere che nessuna particolare rappresentazione è veridica. Ma il problema non è come la raffiguriamo, è il fatto stesso che si compie l’operazione, vedendola anche come una unità e non solo come totalità di stati distinti. Che l’autorappresentazione in quanto tale sia un’operazione logicamente lecita, è dubbio (*), come è dubbia ogni conclusione che si possa trarre dalla sola introspezione; comunque, il senso di x non svanisce affatto, anzi rimane concreto più che mai; solo che, appunto, l’operazione deve essere possibile, cioè eseguibile: la miglior garanzia della possibilità di una operazione dubbia è che venga eseguita de facto.

(*) Non è in sé contraddittorio che un insieme contenga se stesso come elemento. Però, l’autoinclusione può portare a dei paradossi: non è quindi una operazione universalmente lecita. Un occhio non può vedere se stesso; può vedere la propria immagine riflessa in uno specchio, che è una riproduzione fedele della forma dell’occhio, ma non è l’occhio.

L’esecuzione di fatto di questo strano procedimento di inclusione di qualcosa di concreto entro se stesso, è facilmente riconoscibile, e nasce dallo stesso comportamento del soggetto: anzi, direi che la giustificazione è esclusivamente di origine comportamentale. Dovendo agire o reagire, il soggetto considera le proprie possibilità. Ci chiediamo se una cosa è alla nostra portata. Inoltre, possiamo “giudicare noi stessi” e compiere “atti mentali” riflessi. Almeno, così sembra, perché sull’agente effettivo di tale “comportamento” è lecito avere qualche dubbio, in quanto le operazioni su x non le fa x. Comunque sia, nasce l”immagine di sé”, che ci accompagna per tutta la vita, creando ipso facto non pochi problemi. Ogni questione sul “senso” dell’esistenza nasce da ciò. Quindi, il soggetto si stacca dall’esperienza, pur non dovendo essere nient’altro che esperienza. E il soggetto, apparentemente staccato da sé, è una teoria : non secondo il senso usuale di spiegazione complessa, o di sistema di formule, o di insieme di ipotesi, ma nel senso che ogni soggetto ha una immagine di sé che condiziona il suo comportamento e le sue scelte e, in una certa misura, ne determina l’evoluzione, e che, fondamentalmente, gli consente di identificarsi rispetto al mondo esterno e di operare in modo adeguato. Si tratta di un sistema complesso e organico, di cui la persona singola non è, credo, completamente consapevole, e che svolge il ruolo di un insieme di premesse; perciò ho scelto il termine “teoria”: immagine e rappresentazione non sono sufficienti. Questa “teoria” non nasce dal fatto che se ne parli; non si tratta di un discorso, anzi la sua formulazione completa sarebbe assai difficile; piuttosto è il contrario, si parla e si agisce in un certo modo in quanto c’è già una premessa in parte almeno inconscia, che come ”immagine di sé” implica problemi, giudizi e scelte di cui non sempre siamo chiaramente consapevoli. Che questi elementi vengano esplicitati e formulati estesamente è affatto secondario. Tale “teoria” - o, meglio, il fatto che ve ne sia una - non presuppone neppure l’essere conscio; anzi, è il contrario, l’essere conscio è un suo effetto. Che consapevolezza potremmo avere, se non avessimo una idea definita di ciò che siamo? Se non fosse per questa idea o teoria che dir si voglia, come potremmo porci rispetto a tutto il resto? Ci deve pure essere un ordine interno al soggetto, come suo nucleo fondante: altrimenti il soggetto sarebbe un caos mentale, un essere indefinito, un insieme disorganico di sensazioni, volizioni, immagini.

Ma questo complesso fondamentale fatto di idee su si sé, che ho chiamato teoria, da dove viene? La inventa forse il soggetto? La spiegazione più semplice, da un punto di vista funzionale, è che essa rifletta la situazione del corpo, o, più esattamente, quella che impropriamente si potrebbe definire la sua volontà di autoconservazione. Qui deve essere la sua origine, dato che ogni organismo biologico è separato dall’ambiente circostante, pur essendovi immerso (non è l’ambiente, ma senza di esso non c’è). L’organismo biologico interagisce con l’ambiente mantenendo costantemente la sua coerenza interna e quindi la sua unità: il suo comportamento è in funzione della sua conservazione o, meglio, in termini causali, l’identità dell’organismo (la sua struttura coerente) pone le premesse del suo comportamento, che è determinato dalla sua struttura in relazione all’ambiente, e che ha come conseguenza (apparentemente, come causa finale) la sua conservazione. La “struttura” del soggetto, se mi si consente questa espressione, deve riflettere la condizione del corpo: il soggetto deve riconoscersi come unità e continuità, deve essere, in un certo senso, equivalente a un sistema di condizioni, di premesse, dalle quali consegua un comportamento efficace. Deve pure vedere le fasi o componenti della sua esperienza quasi fossero oggetti: è attraverso questo materiale che può operare in modo funzionale e intelligente per la propria conservazione (identificata con quella del corpo); eppure, questa esperienza non è veramente altro dal soggetto, non è un insieme di fantasmi staccati da lui; se così fosse, come potrebbe esso esserne consapevole?

Questa situazione sembra strana se si vuole mantenere l’unità del soggetto, e d’altronde proprio il soggetto pensa a sé come un tutto unico; a me sembra che vi sia proprio una “teoria” intesa come una idea non volutamente costruita che il soggetto stesso si fa di sé, che non corrisponde veramente alla sua reale posizione , ma senza la quale esso non potrebbe orientarsi e agire in modo intelligente. E tale “teoria” corrisponde alla tensione dell’organismo biologico alla propria conservazione; ne rifletterebbe le intenzioni e i metodi, se questo veramente ne avesse. Insomma: la situazione dell’organismo, il suo comportamento, le sue relazioni con l’ambiente pongono le basi di uno schema che riflette tutto ciò e che condiziona, anzi determina la struttura fondamentale della coscienza.

D’altronde, l’esperienza è vissuta attraverso la rappresentazione di sé. Il suo “senso” è mediato dall’autorappresentazione, che si può considerare una teoria, il punto di vista del soggetto, il modo in cui si pone, suggerito, in un certo senso, dal corpo. In questo senso, l’esperienza non è fondamentale. Il “Sistema” c’è già, bell’e pronto. Il punto di partenza provvisorio, cioè l’io, è l’autorappresentazione, e questa rimanda a operazioni sul cui agente reale non possiamo fare ipotesi, solo in base all’esperienza. Così, almeno, mi sembra.

 

Non basta postulare il Sé per risolvere la questione

Si può contestare (e si contesta di fatto, mi sembra), che il culmine di un certo tipo di percorso esperienziale sia affatto non soggettivo, cioè che i singoli sviluppi individuali possono convergere verso Ciò, che soggettivo e determinato non è, e che la realizzazione di tale convergenza superi ogni differenziazione o paradosso, reale o apparente. È indifferente quale fonema o figura venga impiegata per indicare il culmine; ciò che interessa è l’affermazione in positivo di una unità ultima, che svuota ogni posizione particolare e quindi ogni opposizione.

Non controcontesto: se così è, è, e il dato di fatto non è la tesi di un’argomentazione. Faccio solo notare che però il fatto ci deve essere. Il dato empirico - se vogliamo, il risultato di una osservazione condivisa e riproducibile - non sembra essere fratello dell’esito ultimo di uno sviluppo interiore, anzi: è dubbio che sia persino un parente lontano. Di solito, il “dato empirico” è considerato universale; l’”esperienza” invece nel senso fondamentale del termine non si stacca dal soggetto e ogni suo risultato è reale per il soggetto. Anzi: non è reale, nel senso comune del termine. “Reale” deriva da res, “cosa”: non fatemi spiegare cos’è una cosa. Limitiamoci a constatare pacificamente che una “cosa” è sotto gli occhi di tutti, vale a dire     concretezza universale.

[Sul significato di quanto detto nelle ultime righe, tu hai fatto una serie di osservazioni, che evidenziavano una formulazione non del tutto soddisfacente. Ho ritenuto opportuno riportarle, perché sono corrette in sé; solo, mi pare riguardino piuttosto il modo in cui mi sono espresso, e non il senso.

"Va bene essere pacifici, ma che “cosa” sia ciò che è sotto gli occhi di tutti… e che ciò significhi “concretezza universale”… non è poi così chiaro. Per esempio l’effetto di un narcotico è pressoché universale, ma questo basta a definirlo cosa? Viceversa la vista di una montagna di lingotti d’oro non è universale affatto, ma ciò basta a definire i lingotti di la Fort Knox non concreti? Così anche la reazione di fronte al timore della morte forse ha degli elementi di universalità, è universale che si sfugga dalla traiettoria di un pullmann, salvo che ci si voglia suicidare, mentre non è universale vedere e/o gustare del vino da 1.000 euro la bottiglia, il che non toglie che tale vino sia concreto. Credo inoltre che la paura di tutti coloro che hanno rischiato di finire sotto una macchina si assomigli, ma questa paura, allora, è oggettiva o soggettiva? dato empirico o soggettivo? Ed esiste un soggetto collettivo - tutti i “quasi investiti”? Insomma non è affatto così semplicemente chiaro che memoria mente ed esperienza dividano tanto bene le cose concrete dalle impressioni soggettive".

Non è il fine di questo lavoro discutere cosa si debba intendere per “realtà”, e inoltre nessuna definizione sarebbe soddisfacente: tanto vale lasciare le espressioni che ho usato. Non sarei più chiaro altrimenti; qualche obiezione si troverà comunque. Ho usato concretezza universale per esclusione: un’astrazione è una operazione che facciamo noi, sul materiale che la realtà ci fornisce, ma non è in sé reale, e “particolare” rimanda a qualcosa di limitativo, occasionale, contingente, individuale. Io sono del parere che non vi sono “realtà locali”: tutto è interconnesso. I singoli momenti non si spiegano, presi in sé. “Sotto gli occhi di tutti” è un’espressione inadeguata, ma… esiste un senso comune, che sarà pure anch’esso inadeguato, e senza il quale non si potrebbe comunicare alcunché; è vero che c’è incomunicabilità tra le persone, ma il linguaggio allora a che serve? Per esercitare la laringe? O per manifestare la propria soggettività? Non dovrebbe invece soddisfare l’esigenza di comunicare, il che ha senso solo se c’è qualcosa di riconoscibile e di condivisibile? I tuoi rilievi sono puntuali, ma distanti da ciò che intendo: la “concretezza” e l’”universalità” non si riconoscono certo osservando gli episodi singoli. Non è universale certamente vedere o gustare il vino da 1000 euro la bottiglia, ma è universale e sotto gli occhi di tutti nonché concreto e purtroppo reale che in tutte le società moderne o meno vi siano dei beni accessibili a pochi privilegiati, mentre in quelle stesse società vi sono persone indigenti, che possono permettersi molto di meno della famosa bottiglia; ed è anche assai universale e concretissimo, e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti, che c’è troppo oro dentro Fort Knox e troppo poco dove servirebbe. In quanto alla paura, essa è universale concreta e sotto gli occhi di tutti in ogni momento, perché tutti hanno paura di qualcosa, per esempio di morire, ed è soggettiva solo in quanto percepita da un soggetto; ma se guardiamo alle conseguenze reali delle nostre paure collettive, ebbene, queste sono concretissime e universali: non è forse vero che la paura del “diverso” genera certi esiti? O forse dovrei ricordare che in pieno XX secolo la paura, anzi l’orrore e il terrore hanno imperversato in Europa come non mai? C’è qualche dubbio sui cento milioni di morti di due guerre mondiali, non basta come concretezza ? È vero che il passato non è sotto gli occhi di tutti nel senso letterale del termine, ma non mi pare il caso di formalizzarsi troppo sui termini. C’è proprio bisogno di andare ad Auschwitz per sapere che certe cose sono successe? Il fatto è che vi sono fin troppe persone che hanno una voglia matta di farci credere che la realtà è diversa da quel che è, o, meglio, non c’è: anzi, meglio ancora, è quella che ci viene da loro presentata.

Io non nego che vi siano degli squarci, delle aperture su un mondo più significativo del quotidiano: e tantomeno penso che si debba insistere sugli aspetti negativi e credere non vi siano vie d’uscita. Ma si deve distinguere tra ciò che è individuale, soggettivamente reale, e ciò che è comune, oggettivamente reale.]

Quindi, il fatto supremo non è propriamente un fatto, se non per il soggetto che lo realizza. È una situazione curiosa: un fatto soggettivo, la cui realtà consiste nel superamento di ogni soggettività, di ogni opposizione.

Sarà pure che la sapienza di Dio non è la sapienza umana: altrimenti, non si sbrogliano certi pasticci. Sarà anche bene chiarire che il fatto non realizzato non è un fatto; il termine che lo designa si chiama ipotesi e, come tale, cade completamente sotto il modesto potere della sapienza umana. Oltre all’ipotesi, ci possono essere fede e testimonianza. Ma fede e testimonianza non risolvono: la seconda presuppone la prima (un testimone non creduto è come non fosse) e la prima non trasforma l’ipotesi in un fatto. Può ben essere che sia sufficiente per realizzare la trasformazione: ma finché non realizza, è essa stessa fede nell’ipotesi.

 

Le forme condizionano l’esperienza e ne pongono gli sviluppi

Poiché gli Esiti Ultimi, benché in sé illuminanti, di fatto non ci illuminano, vediamo almeno di definire la questione con i modesti mezzi a nostra disposizione. Forse teorie e comportamenti stereotipi danno forma all’esperienza, impedendo il Caos. Può darsi che farne a meno sia molto più difficile di quanto non si possa credere. Anzi: non se ne fa a meno per niente. Non solo: chi ci dice siano solo principi regolatori, fissazioni di ciò che fissabile non è? Non è che siano preformanti la stessa esperienza? Il contesto culturale, sociale, economico influisce profondamente sul vissuto individuale. Che poi questo abbia un fondamento autonomo non lo metto in discussione: ma lo ammetterei per ipotesi . Diciamo che è un’ipotesi necessaria, se non vogliamo ridurci a momenti pseudoindividualizzati del flusso del divenire, a “risorse umane” o condensato di idee fisse, cioè fisime. È un’ipotesi finalistica, una strategia mentale eticamente finalizzata, non una tesi scientifica. Distinguiamo tra scopo e realtà.

Come poi si possa affermare che il “culmine” o, se vogliamo, il Sé, sia poi uno, e non tanti diversi e personalizzati, dato proprio che si tratta di esperienze concrete, realizzate da singoli soggetti, proprio non si vede. Che le testimonianze in proposito convergano, non è proprio sicuro. Le forme religiose storicamente affermatesi non concordano su ciò di fatto; ciò che da esse viene proclamato a parole è inessenziale. In quanto alle esperienze effettivamente realizzate, la mia impressione (ripeto: impressione) è che in generale sviluppino - circostanze storiche e ambientali permettendo - un nucleo preformante, se vogliamo una “volontà” o “immagine di sé” non meglio definibile e forse solo ipotetica, sulla cui unità universale non farei alcuna affermazione certa. Che qualcuno attesti il contrario è ininfluente: attesta per sé, non per altri. La divergenza delle singole esperienze in generale sembra più plausibile della convergenza: da dove nascerebbero i conflitti? La risposta per cui il Sé risolva i conflitti presuppone la sua realtà e unità.

Forse, il “sistema” - rappresentazione, dogma, rito, metafisica, interpretazione - è proprio l’assioma logico che asserisce dogmaticamente tale Unità. I singoli percorsi convergono verso lo stesso Centro? Questo è assioma: non può certo derivarsi dall’esperienza singola. Sicuri che si giunge a un Centro, senza l’assioma che lo postula? C’è risultato senza punto di partenza e tracciato del percorso? Se non erro, S. Paolo parla di salvazione per fede.

Non è che con questo si voglia dedurre l’impossibilità o l’inattendibilità di un certo tipo di sviluppo interiore. Le testimonianze, se si vuole, ci sarebbero; ma sono tali appunto solo se vengono riconosciute. Comunque, negarne a priori la fattibilità è stupido: è come asserire la non risolvibilità di un problema senza nemmeno averlo considerato. Piuttosto, metterei in rilievo la possibilità di sviluppi divergenti, ma internamente coerenti, sotto forme assai diversificate e non universalmente identificabili, che riflettono una unità del soggetto : al più, aspetti di una Unità, come ipotesi. In tale prospettiva, il rifiuto del “sistema” come forma di rigidità mentale è perfettamente legittimo.

Una contestazione degli sviluppi precedenti è l'affermazione che il “discorso” in generale non può cogliere correttamente il senso dell’esperienza. Ma a dire il vero, questa tesi non corrisponde pienamente a verità. Se ci riferiamo ai profeti delle grandi religioni monoteistiche, si affermerebbe infatti un paradosso: un profeta che non parla, è contro lo stesso significato della parola. Anzi, è la Parola Divina stessa che si manifesta attraverso la profezia. E nemmeno erano muti i sapienti dell’antica Grecia. È vero, tuttavia, che la Parola Divina è per lo più allusiva, o si esprime per parabole, o per enigmi, sottolineando con ciò la sua Alterità dal discorso umano.

 

Paradossi logici

Questa posizione è il simbolo dell’irriducibilità dell’esperienza al discorso. Deve essere autoevidente, perché non c’è possibilità di dimostrazione. Una dimostrazione (un costrutto logico coerente, senza salti logici) presuppone che l’intero campo dell’esperienza possa essere codificato in un linguaggio. Non può darsi alcuna dimostrazione su x , se x non è esprimibile con un insieme finito di termini, che ne rappresentino il contenuto. Ed è proprio questo che l’ipotesi di irriducibilità dell’esperienza impedisce di fare. Quindi, resta ipotesi, e diventa verità solo in virtù della stessa esperienza. Ma allora l’esperienza testimonia per sé la propria indipendenza dal discorrere, cioè dai prodotti della logica; come dire che le cause ultime dell’esperienza, o se si vuole della coscienza, vanno cercate altrove.

Comunque sia, c’è un paradosso: la “dimostrazione” della non discorsività dell’esperienza proprio dalla tesi è impedita, e solo dall’esperienza si può ottenere tale risultato.

Il paradosso, in generale, può sembrare un intrigo del discorso, un’illusione della parola, un artificio del non-senso. Per i logici, il paradosso, o, meglio, la contraddizione, è un incubo, e lo evitano più della morte. La ragione è che da una contraddizione si deriva qualsiasi proposizione, vera o falsa che sia, secondo il principio ex nihilo quodlibet.

Perciò, paradossalmente, il paradosso è paradossale, poiché può avere un effetto affatto opposto a quello propugnato dai logici, può cioè diventare il simbolo dei limiti della logica, e quindi dell’umano pensare. Il quale, in realtà, procede senza affatto curarsi né di limiti né di paradossi.

 

Esperienza e logica

Che relazione c’è dunque tra esperienza e logica? Questa è solo uno strumento del soggetto, un modo di coordinare le proprie azioni e percezioni, insomma una serie di regole d’uso astratte dalla pratica, che simboleggiano degli automatismi o quasi, quindi elementi inessenziali? O, al contrario, si può dare una spiegazione in termini scientifici (e quindi logici) di tutta la coscienza, o almeno di una parte, quella interessata ai processi percettivi e cognitivi? Insomma, qual è il reale punto di partenza: il soggetto concreto, che si avvale di certi mezzi, o invece i “mezzi” che sono necessari per definire i processi che costituiscono il soggetto? Si deve analizzare l’esperienza in base a costrutti logici e alle percezioni, o l’esperienza stessa è un costrutto il cui materiale sono le percezioni?

Di più: se la “costruzione” è l’effetto di operazioni extracoscienti, come si potrebbe escludere che tali “operazioni” non abbiano origine nell’Oggetto? Di qui alla conclusione per cui le forme dello psichismo e del mondo fisico rivelino quelle dell’Oggetto, anzi di più: che questo sia Forma increata, il passo è breve. Ed è stato compiuto e detto in modi diversi, fino a separare la Forma dall’Oggetto , sempre riprendendo da capo, perché è una intuizione che si può avere solo se si ragiona in un certo modo: chi non vede la forma come in sé sussistente, non può avere questa intuizione. (*) Tale intuizione si manifestò la prima volta in Grecia, forse in Talete, o tra i Pitagorici, o vi giunsero primi i Sacerdoti Egizi? Non c’è traccia di essa in altre civiltà: salvo forse in India la distinzione di Prakriti e Purusha nel sistema Sânkhya, che però non ebbe gli stessi sviluppi.

Di qui derivano l’Idea di Platone e la distinzione tra Forma e Materia di Aristotele. Ne è prova che lo sviluppo della Matematica è avvenuto in Occidente, (**) quando si recuperò, nel Rinascimento, l’eredità della Grecia antica, e fu la sua esteriorizzazione, la sua proiezione nel mondo materiale della tecnica e nell’economia, a rendere possibile, in quanto ne è la condizione necessaria, la costruzione del mondo moderno.

(*) Un’intuizione dovrebbe essere nient’altro che un ragionamento non completamente sviluppato. Può essere che la sua trasformazione in Intuizione sia questione di contesto culturale, ma è un fatto che anche nel pensiero scientifico sembrano esserci tracce di “irrazionalità”.

(**) In realtà, la Matematica in India raggiunse un certo grado di sviluppo; in particolare, spicca la figura di Brahmagupta , il cui teorema è citato anche in alcuni testi scolastici. È ben noto che le cifre “arabe” sono in realtà “indiane”. Gli sviluppi tecnici della Matematica, ovviamente, non sono patrimonio esclusivo del mondo greco e occidentale.

È un fatto, tuttavia, che la Geometria elementare oggi insegnata nelle scuole di tutto il mondo deriva da quella di Euclide. Non c’è, al di fuori del Neoplatonismo, una affermazione così chiara della Matematica come scala che conduce alle Idee, all’essenza divina. Se non c’è, in qualche modo, un concetto del genere, laicizzato o no, non può insorgere l’idea che il mondo fisico sia matematicamente intelligibile. Non può esistere nessuna derivazione empirica di tale connessione.

Si ha l’impressione di una circolarità, nel soggetto che studia (o così crede) se stesso. Oppure c’è assoluta estraneità qualitativa tra il vissuto concreto, presente in quanto autopercezione, e le forme senza contenuto della logica, per cui nemmeno vale la pena porsi il problema? Senso e valore dell’esperienza non hanno bisogno di certe spiegazioni. O si tratta di opposizione irriducibile, ma sullo stesso piano? O c’è una sintesi, che ci sfugge?

Veramente, opposizione c’è, idealmente, perché la logica è il mondo della necessità, della costrizione, di ciò che si può dire e non dire in virtù della sola forma del discorso. È la logica che ci obbliga a distinguere tra tautologia, ipotesi, teorema, contraddizione, rovinando quello che sembrava un bel ragionamento, proprio perché la contraddizione era sfuggita. O che impedisce la realizzazione del progetto di tutta una vita, perché quel progetto è impossibile, e nessuno mai lo realizzerà. Per questo motivo, forse, molta gente cerca di starne alla larga: non si sa mai cosa combina. Viceversa l’esperienza, sempre idealmente, è il luogo della libertà, la sorgente della creatività, l’indefinita possibilità dei progetti, dei sogni, del proprio crescere. Se si potesse scegliere, non vi sarebbe dubbio.

Qui è il punto: si può scegliere? La risposta fondamentalmente è un no: la logica non è una scelta, e non è solo un metodo per combinare parole, anche se sembra una regola. E lo è, infatti, e così viene generalmente intesa, come regola negativa che non impedisce la congettura - cioè la libertà dell’esperienza e la creatività - ma fissa dei limiti, che non possiamo superare. Essa funziona come una selezione nel caos indefinito di tutto il materiale che emerge nella coscienza, separando il possibile dall’impossibile.

 

La Logica, il Possibile, le Strutture

Prima di procedere, è necessario chiarire un punto essenziale, e cioè il rapporto tra il soggetto e la “logica”. Questa relazione sembra a molti problematica: non vogliono vedere, nella logica, altro che regole, e questo porta alla strana idea che siano delle convenzioni utili allo sviluppo coerente del discorso. Dunque, non confondiamo logica, grammatica e sintassi. Per queste ultime la cosa forse può andare, perché non sono scindibili dal linguaggio. Per la logica e per la Matematica - il confine di separazione tra le due è estremamente tenue, anzi in ultima analisi non c’è - la questione non si pone in questi termini. Che la logica si esprima nel linguaggio, va bene, anche se in realtà le formule logiche non utilizzano nessun linguaggio particolare, semmai un alfabeto di simboli vuoti. Che sia determinata dal linguaggio, è fondamentalmente falso. Quindi, logica e umano discorrere sono due entità ben separate, come si potrebbe intuire osservando come il linguaggio può esprimere contraddizioni, che la Matematica rifiuta.

Dal mio punto di vista la Logica è autoconsistente, cioè non è verificata da alcunché, né esperienza vissuta, né mondo materiale (*). In questo senso, l’esperienza non può ritenersi fondamentale: esiste un altro elemento irriducibile, che interferisce col primo, determinando conseguenze all’interno stesso dell’esperienza, mentre non può essere il contrario. La Logica (o se si vuole la Matematica, ripeto che la differenza può essere ignorata, è per lo più convenzionale) stabilisce il limite del possibile, non del reale. Insomma, è la forma di ogni fatto, anche se il soggetto, vivendo la sua esperienza, non ne vede la forza, a meno che non vi si immerga completamente.

(*) Questa posizione non è affatto personale o straordinaria, anche se non tutti i matematici concordano sui fondamenti della materia. Sono però concordi nel ritenere che l’unico vincolo alla Matematica sia la consistenza sintattica, vale a dire la coerenza interna dei suoi sottosistemi.

Tuttavia, non tutti i lettori sono matematici; ci sono anche materialisti incalliti, empiristi irriducibili, spiritualisti che non concorderebbero con questa posizione. Non è possibile, ovviamente, darne una dimostrazione diretta; mi pare però giusto fornire almeno alcune giustificazioni indirette e sommarie, che mi sembrano ragionevoli e accessibili a chiunque, ma nell’Appendice, perché sono marginali al contesto del discorso.

La logica non è solo strumentale. Se così fosse - se cioè avesse solo un rapporto d’uso col soggetto, e non definisse anche la forma del mondo (di tutti i mondi possibili) - il mondo stesso non potrebbe esistere: privo di strutture, sarebbe il Caos. Non il “caos” della Fisica, e forse nemmeno quello del Mito. Tale Caos non solo sarebbe assolutamente non rappresentabile, inconcepibile; non è nemmeno il non-essere: questo è perfettamente definito, in quanto negazione di ciò che è. Non è il non essere, è l’impossibile.

Matematica e Logica non sono questioni di parole, ma di “strutture”, o, se si vuole, di “schemi”; preferisco però strutture. Queste non sono intuizioni (però sono intelligibili attraverso intuizioni) e neppure derivano da qualsiasi analisi o tanto meno osservazione, per il semplice fatto che nessuna analisi può aver luogo senza strutture, né vi sono osservazioni senza analisi. Né senza di esse sono possibili le percezioni, almeno quelle visive e uditive: come ben avevano riconosciuto i Pitagorici, quando parlavano dei rapporti armonici. Di qui, la mistica del numero.

Se proprio si vuole un indizio in questo senso, senza entrare nel tecnicismo, ebbene può essere quello della casa e del progetto della casa. Si deve fare attenzione a non cadere nel facile errore, per cui “se non c’è progettista non c’è progetto”. Questo è, a mio avviso, un abbaglio, giustificato dal fatto che il progetto appare come uno strumento del progettista, che materialmente lo “crea”. Intanto, la “creazione” presuppone certe regole: niente regole, niente progetto. Queste sono teoremi di Geometria (*) e leggi della Statica. Che la Statica non sia “creata” è fuori discussione, come la Geometria. Se queste fossero “creazioni” dovrebbe essere possibile “crearne” infinite altre funzionanti, dato che la “creazione” da nulla è limitata, se non dalla volontà. Ma le Geometrie e le Statiche applicabili a un progetto sono una sola, e quindi la “creazione” si muove nell’ambito delle possibilità predefinite dalle regole che esse impongono. Il che implica che queste “regole” non hanno nulla a che vedere col fatto che vengano o meno esplicitamente enunciate: non sono cioè il condensato di una frase indefinitamente ripetibile. Quindi, sono fondamentalmente extralinguistiche , meglio: prelinguistiche. Il linguaggio si limita a incorporarle. E nemmeno sono il prodotto del “pensiero”, in base a quanto detto sulla “creazione”.

(*) Intendo quella euclidea.

In realtà, il rapporto tra soggetto (progettista) e struttura (progetto) è esattamente il contrario, come aveva giustamente intuito Kant nel riconoscere la sintesi a priori: come fa ad esserci un progettista senza un progetto? La vedete, una ruota che mai girerà, perché il movimento non è possibile? Che ruota è, se non può ruotare perché non c’è la possibilità del suo moto? Si è mai visto un agente senza la possibilità dell’azione? La possibilità, questo è il luogo delle strutture: l’equivoco del progettista - che si crede il creatore del progetto - sta nella differenza tra il reale e il possibile.

Il fatto che il progetto venga effettivamente steso da una persona concreta, tridimensionalmente estesa, termodinamicamente funzionante nonché cosciente, crea un equivoco che si trasforma in un delirio di onnipotenza: il soggetto crede veramente d’aver creato qualcosa. È piuttosto da vedere se non sia lui stesso il risultato di qualche altro progetto, di cui nulla sa. Ma la possibilità che qualcosa venga creato, non è essa stessa creata. Il limite non è tra ciò che è e ciò che non è: questo può essere spostato sia pur di poco con la tecnica, è un artefatto. Il vero limite è ciò che separa il possibile dall’impossibile, e pare che non sia artefatto, è assoluto.

Dunque, superare la Logica vuol dire superare il possibile. E l’esperienza, se reale è, dovrebbe essere parte integrante del possibile, dato che ciò che è impossibile è anche irreale. Non dovrebbe quindi essere logicamente formulabile, cioè manifestare nella coscienza una struttura? Della quale, per esempio, fissazioni di qualsiasi tipo non siano un lontano riflesso, o una conseguenza logica? O forse, per essa, non vale l’opposizione tra possibile e impossibile? Questa alternativa appare invero assai attraente, e non vorrei aver suggerito qualche visione mistica al primo sprovveduto; per evitare certi esiti, ricordiamoci che l’impossibile è il Caos inconcepibile, e l’esperienza, per quanto possa apparire casuale, aperta a sviluppi (e regressioni) imprevedibili e fondamentalmente irriducibile a ogni schema, non è una successione casuale di stati mentali. Non lo è nemmeno negli alienati mentali, per quanto possano essere sorprendenti le loro associazioni. Anzi, manifesta un ordine interno e una continuità che sono il filo stesso della vicenda umana. Di più: proprio in virtù di questi elementi di ordinamento, possiamo sentirci parte di una comunità. Il senso dell’esistenza è reale per il singolo individuo, ma è il coordinamento delle esperienze a rendere possibile la società. E il coordinamento richiede corrispondenza da elemento a elemento, rimanda cioè all’idea di struttura. Ritenere la “società” la causa fondamentale del prodursi di un certo tipo di coscienza è un sofisma: la società non c’è , se non c’è l’elemento comune che ne pone la possibilità. Viceversa, il credere che si possa abolire la differenza tra possibilità e realtà produce il delirio di onnipotenza, il pensare che si possa modellare la società su un’idea astratta della coscienza. Gli esiti storici sono ben noti.

Perché, allora, l’esperienza è irriducibile alla forma, alla struttura? (forma e struttura sono per me sinonimi). Ma a questo punto, se veramente la stessa coscienza è permeabile alle strutture del possibile, allora la sua irriducibilità non è forse appunto solo un’apparenza? In effetti, non si può certo sperare che il soggetto cosciente veda le strutture fondamentali - se ci sono - mediante un’autoanalisi. Il soggetto non si stacca veramente dall’esperienza, la sua stessa auto-osservazione è interna all’esperienza. Queste strutture vanno cercate fuori dal campo cosciente. Se ci sono, giacciono nelle profondità più nascoste della Matematica? (*) E quale sarebbe il filo che unisce le forme senza contenuto della Matematica al manifestarsi della coscienza? Come fa la coscienza a derivare, sia pure attraverso una serie immensamente lunga di mediazioni, da ciò che è in sé del tutto incosciente? Da dove, il suo contenuto? E anche la derivazione dai processi biologici è estremamente problematica.

O forse la stessa coscienza non è reale? Nel senso almeno che è completamente diversa da ciò che appare? In fondo, sia i materialisti che gli spiritualisti ammettono, sia pure per motivi opposti, che l’io empirico sia illusione. Anzi, il punto di vista empirico è il più radicale.(**)

(*) Strutture matematiche sono effettivamente riconoscibili nella costruzione dell’immagine del mondo, senza la quale, evidentemente, non c’è nessuna esperienza. Vedasi Piaget, per esempio. Il problema è se non sia tutta una questione di schemi. L’evidenza contro tale ipotesi non è un criterio logico assoluto.

(**) E. Mach (che è più radicale dei materialisti, in quanto respinge l’idea stessa di una “realtà” se non come organizzazione di percezioni) rifiuta di considerare l’ “io” come consistente, oggettivo, sostanziale. È solo un complesso di ricordi, disposizioni, sentimenti. I suoi elementi sono gli stessi che costituiscono la realtà fenomenica: proprio questo rende possibile la relazione io-mondo. Questa posizione elimina le inutili incrostazioni metafisiche, ma invoca un principio formale di economia del pensiero che empirico non è, e svolge il ruolo della “Matematica”. La questione è se tale principio sia sufficiente.

 

Quattro ipotesi

1) Dunque: è inevitabile che l’io empirico si identifichi con la propria esperienza. Ma non si possono ignorare le strutture logico-matematiche, da essa indipendenti, ed è ragionevole supporre che queste pongano delle condizioni, non percepibili per auto-osservazione, alla stessa esperienza. Tali condizioni derivano dalle strutture stesse che rendono possibile il mondo, e verosimilmente mediano tra il sostrato biologico incosciente e l’io cosciente. Ma la percezione di sé, da dove deriverebbe? Il risultato garantito non sarebbe piuttosto un essere intelligente ma incosciente?

2) Oppure: vi è un Quid irriducibile nell’esperienza, ciò che fa sì che sia autocoscienza, che illumina il mondo proiettandovi le strutture da Esso generate in profondità insondabili, rendendolo perciò stesso intelligibile. Ma che cosa allora limita il potere creatore del Quid, insomma perché Esso, che essendo anteriore alle strutture logico-matematiche è libertà assoluta, si autolimita producendo le strutture che a loro volta lo ricondizionano proprio perché riflesse nel mondo? E poi: l’io individuo non è anteriore al mondo. Questo esiste indipendentemente da lui: anzi, è anteriore a tutto il genere umano. O il Quid delle scimmie “pone” un altro mondo? O ci sono tanti mondi reali quante sono le coscienze? E prima che vi fosse qualche essere in qualche modo cosciente, quale sarebbe stata la forma del mondo? Non c’era, per caso? Si era parlato di Caos inconcepibile, mi sembra, a questo proposito.

3) Oppure: lo Spirito (la Coscienza assoluta) esiste ab aeterno e pone il mondo come alienazione da Sé, oggettivandolo attraverso l’infinita catena degli esseri particolari. Le categorie logiche fondamentali sono da Esso poste; oppure, sono lo stesso suo svolgersi, e appaiono necessarie in quanto non vi è luogo fuori dall’Assoluto; detto altrimenti: essere e dover essere coincidono ovunque e in ogni momento, e la separazione che l’io individuo opera è illusoria, in quanto dovuta al fatto che non si identifica con l’Assoluto. Non vi è luogo per il “possibile”, ma solo vi è coincidenza di reale e razionale. In sostanza, Hegel. Ma: è applicabile, concretamente? Qual è il luogo dello Spirito, se non vi è nessun essere finito cosciente? C’è Coscienza senza coscienza?

4) Oppure: Dio è l’origine di tutto, e ha creato il mondo, comprese le strutture; anzi, in base alle strutture. Il “quid ” potrebbe essere creato da Dio, come potrebbe essere un risultato di “processi” che partono dal mondo, secondo lo schema visto prima. Come potrebbe non esserci nessun quid, ma solo il risultato di processi deterministici. Ma la forma del mondo consiste nelle strutture: queste non hanno alcuna consistenza, se non come condizioni del possibile; sono come le regole del gioco, però a differenza di queste non sono una convenzione sociale: l’analogia produce un terribile equivoco. Le “regole” matematiche fondamentali sono tautologiche, cioè, tradotto nel linguaggio della metafisica, increate. Possono essere enunciate e riconosciute, ma il loro “modo di essere”, se mi si consente questa espressione impropria, sta nell’essere del tutto indipendenti da qualsiasi creazione. Le “regole” sono esistenzialmente inconsistenti: non c’è necessità della loro creazione . Questo vale anche per le regole di qualsiasi gioco, solo che si deve ragionare in questi termini: non sono “poste” dall’uomo; sono scelte nell’insieme indefinito di tutte le possibili regole di tutti i possibili giochi. Certo, non è impossibile che una Scelta sia stata fatta. (*) Il problema è piuttosto spostato nella relazione mente-corpo: ammesso che il quid e il mondo “materiale” non siano generati l’uno dall’altro, perché mai sono così strettamente correlati durante la vita dell’essere cosciente? Non è forse vero che gli stati di coscienza sono stati psicofisici? (**). Sembra di capire che, quid o non quid, sia fondamentale la correlazione tra esperienza e sostrato biologico. In che modo Dio spiegherebbe qualcosa a questo riguardo? Dal punto di vista metodologico, in un problema si deve introdurre il numero di ipotesi minimo indispensabile. Stiamo parlando dell’Ipotesi (***) , ma è pur vero che in tal modo le cose si complicano senza possibilità di soluzione.

[Questo punto di vista è metodologicamente corretto, perché semplifica le analisi, ma il nostro modo di essere va ben oltre i ragionamenti e le catene deduttive. Condivido quanto tu affermi in proposito:

“è vero che si deve fare a meno delle ipotesi inutili, ma si deve anche stare attenti a non ridurre le ipotesi per cecità, impoverendo l’esperienza perché non si sa adeguatamente penetrarla, ed anche considerare che possano esservi circostanze in cui l’ipotesi non può precedere la conoscenza, ma in cui questa accada senza mediazione e presentimento, determinando per ciò meraviglia. Ora le ipotesi sulla meraviglia più che tali sembrerebbero dover essere più che altro “supposizioni di incrementi delle capacità cognitive e/o sperimentali” o meglio “supposizioni di possibili contesti esperibili ma non prevedibili”.]

Come si vede, nessuna delle soluzioni è soddisfacente.

(*) È ben nota la tesi di Leibniz, per cui questo sarebbe il migliore dei mondi possibili.

(**) Che gli “stati di coscienza” siano tutti “stati psicofisici” e siano solo quello, non intendo affermarlo e neppure negarlo. Lo affermano, più o meno implicitamente, molti neurofisiologi e molti “filosofi della mente”; più esattamente, il loro modo di procedere è in questo senso; ma è piuttosto una ipotesi di lavoro che non una tesi. Per esempio, una qualsiasi immagine mentale dovrebbe corrispondere a qualche schema o attività del sistema neuronale, ma non identificherei le due cose. Può essere però che la differenza sia solo apparente; ma tale apparenza, da dove verrebbe? Inoltre, lo stesso procedimento logico adottato in questo lavoro conduce piuttosto a operare una distinzione. Dire che la Logica è assoluta significa riconoscere che i ragionamenti non sono solo processi neurofisiologici. Lo schema è lo stesso per gli “stati di coscienza” e, se è lecito parlare di Logica, deve esserlo altrettanto parlare di Coscienza. Il problema è che questa affermazione è logica, e spostata verso uno dei due poli. Quale è il rapporto di questo con l’altro?

(***) Pierre Simon de Laplace, a Napoleone Bonaparte: “Signore, non ho bisogno di questa Ipotesi”.

 

Discussione delle quattro ipotesi

1) La prima è in realtà la più semplice: ha solo il problema della “natura” della coscienza.

In particolare, non riesce a cogliere ciò che ne è il senso, il valore: che valore ci può essere in forme vuote, in sé prive di contenuto? Da dove viene il significato dell’esperienza? Le forme logiche possono essere necessarie per il suo stesso costituirsi (cioè: non c’è senso dell’esistenza senza un ordinamento fondamentale), ma non sono sufficienti. Da dove deriva il “senso”? Dai residui di un Caos, che le forme ordinatrici non hanno compiutamente strutturato? Possibile che il “senso” sia un disordine residuo irriducibile proprio in quanto disordine? Anche se fosse “realmente” così, non ce lo rappresentiamo in questo modo. Che ce ne importa delle origini, se il risultato distrugge il senso? (*)

(*) David J. Chalmers, autorevole (per ora) “filosofo della mente”, distingue tra coscienza cognitiva , luogo degli stati mentali coscienti che mediano tra stimoli ambientali e risposte comportamentali, e coscienza fenomenica che corrisponde all’esperienza soggettiva e qualitativa del mondo, e che creerebbe problemi ad ogni tentativo di riduzione.

Condivido questa distinzione, come ipotesi di lavoro.

2) Molto problematica la seconda: personalmente la ritengo insostenibile. Presuppone la non preesistenza del mondo fisico rispetto alla coscienza. (*)

(*) “Sembra quanto mai strano, anzi quasi contraddittorio, dover immaginare che lo spirito conscio, osservatore, in cui solo si rispecchia la vita dell’universo, sia sorto una certa volta, nel corso di essa; che esso sia, come non si può fare a meno di dire, occasionale, una circostanza concomitante d’un dispositivo biologico speciale… E prima che ciò avvenisse, … un mondo che non è contemplato da nessuno, possiamo noi chiamarlo tale? … un mondo che sarebbe esistito per parecchi milioni d’anni senza che nessuno lo contemplasse, è esso proprio qualche cosa? è esso esistito?” (E. Schroedinger, L’Immagine del Mondo, Boringhieri)

3) La terza è logicamente fortissima: abolisce la distinzione tra il Mondo e la sua Forma risolvendole nello Spirito Assoluto, tant’è che si è parlato di panlogismo. Ha un piccolo problema: la “logica” che adopera non è la logica bivalente. Il simbolismo di questa può esprimere il principio di contraddizione, in virtù del fatto che è una forma pura. Ma la logica interna dell’Assoluto non può permettersi tanto, perché non è staccata dall’Assoluto, fa in un certo senso parte del “Mondo”, anzi è il senso del Mondo e di ogni Essere individuo. L’Assoluto diventerebbe contraddittorio.

Non solo: secondo questa posizione, la coscienza individuale sarebbe completamente concettualizzata, un momento della razionalità del Tutto. È possibile intendere l’irrazionalità come non consapevolezza, all’interno di questo modo di vedere le cose. Ma come la mettiamo con la logica bivalente? È questa che distingue tra vero e falso ed esprime ogni possibile scelta. Nel panlogismo, rigorosamente inteso, la scelta non c’è, non c’è l’errore, vi è solo lo svolgersi di un Processo del quale la coscienza individuale è solo un frammento e che può riconoscere la verità solo attraverso il punto di vista dell’Assoluto. L’errore va inteso come non consapevolezza di ciò.

Questa posizione è interessante, perché apparentemente non ha contraddizioni interne. Ma: è formulabile solo se si riesce a chiudere il Processo in una formula finita; cioè, detto brutalmente, se la “forma” che descrive le fasi del Processo è costituita da un numero finito di parole. Se ciò non fosse, il Processo non sarebbe intelligibile: si aprirebbe all’indefinito, alla potenzialità, diventerebbe un cattivo infinito; il reale non è più razionale, ovvero la sua “forma” se ne distacca, e diventa ciò che appunto la Matematica è: una struttura senza contenuto, potentissima ipso facto.

Su un piano puramente teorico, nulla vieta di ragionare in questi termini. La logica ci obbliga solo a rifiutare ciò che è intrinsecamente incoerente. E in effetti Hegel compie il massimo tentativo di chiudere tutto il reale in una Sintesi suprema. In un certo qual senso, è la prova ontologica dell’esistenza di Dio, dell’Assoluto che è un farsi, un porsi da sé e per sé, la fusione di Dio e Ragione.

Ma la bellissima costruzione, la visione fantastica dell’Essere che si svolge sotto i nostri occhi in modo pienamente intelligibile, l’Infinito ridotto al finito, la trasparenza necessaria del reale al nostro intelletto, insomma l’Intuizione totale, reale, logica, esprimibile, non ha destato quell’impressione, quel trasporto, quell’estasi misticorazionale che ci si aspetterebbe di fronte a tanta Opera: anzi, pochi anni dopo la morte del suo geniale autore, gran parte dell’umanità (voglio dire, quelli che s’interessano a certe cose) era disposta a qualificarlo come ciarlatano, pazzo e servo del potere.

Piccoli e invidiosi uomini distrussero ciò? No, è che tutto vuol spiegare ma non vi riesce.

Sic transit gloria mundi e sic transit anche questa ipotesi fantastica eppure bellissima.

4) La quarta sembra più facile: ma rende il problema definitivamente insolubile. L’idea monoteistica attira a sé tutto ciò che non possiamo o vogliamo capire e trasforma la scelta (dell’individuo) nella Scelta, mediante una operazione che è fondamentalmente una oggettivazione. Logica ed Etica hanno una forma comune: il passaggio dal possibile al reale (l’azione concreta) è una scelta etica, oltre che una realizzazione di ciò che è solo in potenza. Non possiamo evitare di operare le scelte: non si può scegliere di non scegliere. Ma le scelte sono per lo più inconsapevoli, e spesso errate: di qui, la trasformazione illusoria della scelta nella Scelta. Questo aspetto fondamentalmente illusorio dell’idea monoteistica come origine presunta del nostro agire inconsapevole, e quindi non riconosciuto come “nostro”, rende poco credibile qualsiasi analisi che ne derivi. In realtà, nell’idea monoteistica confluisce l’affermazione mascherata della volontà di non sapere.

Riporto integralmente le tue osservazioni finali.

“Per quanto questa tua ultima affermazione sia estremamente interessante e risulti di molto impatto ed efficacia, e sia adattissima ad usarsi contro i fanatici e i bigotti, e per quanto sia vero che l’“idea monoteistica” è quel che tu dici, però non va sottovalutato che “monoteismo” è una parola alquanto moderna e che nessun mistico probabilmente prega il Monoteismo: altro è vivere l’Unità di Dio (abisso in cui si profondono svanendo l’autopercezione e tutte le gnosi) altro incasellare eruditamente il Monoteismo a fianco di Politeismo Panteismo e Ateismo. Tutti questi -ismi sono solo giochi della mente. Misticamente si potrebbe caso mai dire che Ateismo è l’assenza di intensità, Panteismo la percezione meravigliata del mondo, Politeismo il divertimento e la percezione infinitamente ricca e creativa del sapiente, Monoteismo l’adesione immediata al divino destinata ad oltrepassare la morte. Reciprocamente dove c’è intensità non c’è Ateismo e così via. Ma di tutti questi termini perlopiù il mistico non fa uso affatto, non vedendo perché debba legarsi alla memoria ed alla classificazione a fronte di un’esperienza sempre nuova: perché legarsi alle strutture della memoria a fronte del Novissimum? Quanto alla Scelta divina come origine del nostro agire inconsapevole, è il reciproco, mi pare, del libero arbitrio: ambedue posizioni paradossali e insostenibili - uno dei tanti confini della mente autoriflettente. Teniamo anche conto che molte tradizioni hanno dato una definizione antinomica del sapiente: questi in quanto tale non sarebbe vincolato dalla legge, sarebbe “di là dal bene e dal male” - formulazione quant’altre mai destinata ad ingannare i precipitosi ma esprimente la semplice verità della subordinazione della legge al legislatore: chi ha diritto di legiferare - il sapiente e/o il profeta a seconda dei contesti e con diversa estensione e competenza - ha anche diritto di adattare le leggi al momento. La legge, si potrebbe dire, coordina il caos, ma per ciò stesso manca della spinta creativa di esso, che il sapiente è in grado di integrare in virtù della sua adesione a Ciò che lo stesso caos origina preordinandovi le leggi”

 


 

Appendice

sulla non derivabilità della Matematica

 

L’idea di una origine “empirica” della Matematica (e quindi della logica), se c’è, è folle. Non meriterebbe neppure una citazione.

Diversa è la posizione per cui la Matematica, in quanto attività, “derivi” o rappresenti la forma generale di operazioni, materiali o mentali, poste in effetto da un soggetto cosciente. Questa interpretazione è perfettamente legittima, tant’è che la stessa parola “Geometria” intesa nel suo significato originario ne indica il carattere fondamentalmente operativo e costruttivo.

Tuttavia, in questa idea è presente in nuce il suo superamento. Le operazioni matematiche elementari possono essere intese come algoritmi (possono essere anche intese come relazioni tra insiemi, o come formule coerenti con certe regole di formazione), anzi l’aspetto algoritmico- costruttivo è ben presente nelle costruzioni con riga e compasso degli Elementi di Euclide e, in generale, in tutta la Geometria Greca.

Ma un algoritmo può essere eseguito da un automa deterministico discreto; questo passaggio è inevitabile, e non può essere inteso interpretando la Matematica come “linguaggio”. Quindi, la componente algoritmica della Matematica non definisce un particolare tipo di esecutore: il problema non sta nel “chi” o “che cosa” esegue un calcolo.

Che l’automa venga di fatto progettato e costruito in base ad un’attività finalizzata prodotta da un soggetto cosciente, è assolutamente pacifico, ma irrilevante. La questione non sta nell’effettiva costruzione dell’automa, sta nella trasferibilità degli algoritmi, cioè nell’indipendenza dal particolare sostrato che li esegue (il che non vuol dire, evidentemente, che questo sia arbitrario: deve pure soddisfare certi requisiti minimi, che solo in certi casi sono alla portata sia di una persona, sia di una calcolatrice. Ma sempre l’automa amplifica la capacità di calcolo dell’operatore umano, in quanto più veloce e più capace di informazione . Diverso è il discorso per i processi decisionali).

Se non fosse per questo, nessuno avrebbe mai pensato a costruire un “calcolatore elettronico”.

In ciò non vi è nulla di misterioso, se non che un algoritmo è uno schema o “forma generale” di un insieme di processi che comprende anche operazioni non mentali. Di solito, si deriva il particolare dal generale, non viceversa.

[Che gli schemi in generale siano problematici è riconosciuto da Kant. Vedasi p.es. la Critica della Ragion Pura, Anal. trasc., Lib. II , Cap. I : “Lo schema è sempre, in se stesso, soltanto un prodotto dell’immaginazione; ma…lo schema è da distinguere dall’immagine… Nel fatto, a base dei nostri concetti sensibili puri non ci sono immagini degli oggetti, ma schemi… io chiamo schema di un concetto la rappresentazione di procedimento generale onde l’immaginazione porge a esso concetto la sua immagine… Questo schematismo del nostro intelletto, rispetto ai fenomeni e alla loro semplice forma, è un’arte celata nel profondo dell’anima umana, il cui vero maneggio noi difficilmente strapperemo mai alla natura per esporlo scopertamente innanzi agli occhi.”

Così, nella traduzione di Giovanni Gentile. È chiaro che per Kant lo schema non trascende il pensiero, né può farlo: in quanto la sua funzione chiave è il passaggio da un concetto in generale alle singole immagini in esso comprese. Ma la questione è ben diversa, se a concetto si sostituisce operazione, dato che questa può essere inconscia: lo schema dell’operazione non può non trascendere la rappresentazione. Quale poi sia la sede, il luogo d’origine, il perché di tale “trascendenza”, non ha a mio parere alcunché di mistico: è semplicemente l’adeguamento della nostra forma mentis alla forma mundi. Semmai, la questione è come mai il mondo abbia una “forma”].

Inoltre: è estremamente difficile, prescindendo dalla “trasferibilità” della Logica e della Matematica, spiegarne lo stesso aspetto strumentale, applicativo. Alcune sue parti sono indispensabili per definire una immagine fisica del mondo. La possibilità stessa di una tale costruzione implica che la Matematica non può essere solo attività umana. Ma limitiamoci a ciò che è sotto gli occhi di tutti, e cioè alla più importante implicazione pratica delle teorie fisiche, la costruzione di strumenti che senza di esse sarebbero inconcepibili; vale a dire, la “tecnologia”.

Da dove nasce l’efficacia della tecnologia? Se le equazioni matematiche fossero solo oggettivazione formale di processi mentali (di cui peraltro ben poco si sa), tale efficacia sarebbe assai difficilmente spiegabile. La tecnologia non è un processo interno alla coscienza e neppure agisce sugli “spiriti” : è completamente oggettivabile negli strumenti di ricerca e di produzione, e nel loro impiego. Al contrario, è la tecnologia che influenza profondamente l’essere sociale dell’uomo contemporaneo e la sua stessa coscienza, dato che questa non è indipendente dalle condizioni economiche e sociali, che invece sono fortemente dipendenti dalle tecniche.

La posizione per la quale Logica e Matematica riflettono o sono “operazioni mentali” è corretta , se si prescinde dal fatto che le “operazioni mentali” sono assai più misteriose e ipotetiche di quelle addizioni, moltiplicazioni ecc. che, bene o male, quasi tutti sappiamo fare. Ma non è completa. L’efficacia operativa (e quindi la validità cognitiva) della Matematica consiste nella capacità di fare previsioni attendibili non solo di tipo probabilistico: il che può essere spiegato più facilmente ammettendo che contenga le “strutture” del reale. In questa interpretazione non c’è nulla di metafisico; è semplicemente una applicazione del principio dell’economia del pensiero, per cui è inutile inventare ipotesi strampalate e formule verbali che nulla significano, quando si presenta una “spiegazione” che almeno ha il merito di funzionare senza ricorrere all’ignoto.

Possono benissimo darsi altre “spiegazioni”, ma sono molto più complesse e problematiche.

Dato che Dio mai s’è pronunciato sull’argomento, è necessario ricorrere all’opinione dell’Uomo.

Pitagora asserisce che “tutto è numero”; ciò può essere interpretato in molti modi. Alla scuola pitagorica si attribuisce la scoperta degli incommensurabili: e da ciò, e dalla testimonianza degli Antichi, si può arguire, con buona probabilità di non errare, che i metodi deduttivi e in particolare l’uso del principio di contraddizione e la reductio ad absurdum fossero ben noti a quei valenti Matematici. Il che vuol dire, in sostanza, che i loro metodi erano abbastanza “moderni”, anche se lontanissimi dalla formalizzazione della matematica e della logica contemporanee. Ma la “formalizzazione” è, come dice il nome, questione di forma più che di logica. Perciò, non escluderei che essi abbiano espresso, nelle forme espressive caratteristiche della loro epoca, l’interpretazione fornita sopra, sotto forma di intuizione, immagine non compiutamente sviluppata.

Sentiamo Giamblico. “Gli enti matematici sono incorporei (asòmata) e in sé sussistenti (kath’eautà yphestekòta)… e intermedi tra le idee e i concetti (mèsa eidòn kài lògon)… hanno il potere di condurre alle forme indivisibili… conducono alle essenze divine (thèias ousìas) come per mezzo di una scala che porti al punto più alto possibile… [le matematiche] congiungono i fenomeni con gli enti e operano la loro reciproca comunanza” (La Scienza Matematica Comune, trad. a cura di F. Romano).

La teoria di Kant. “I giudizi matematici sono tutti sintetici” [ciò in quanto i principi (assiomi e postulati) non sono conosciuti per il solo principio di contraddizione, il quale - per Kant - è il principio della deduzione in Matematica]; “le proposizioni matematiche sono sempre giudizi a priori, perché portano seco quella necessità, che dalla esperienza non si può ricavare…la Fisica comprende in sé, come principi, giudizi sintetici a priori.” Più oltre, quasi alla lettera: “se lo spazio non fosse una semplice forma dell’intuizione , contenente a priori le condizioni in cui soltanto le cose possono essere oggetti esterni…non sarebbe possibile stabilire nulla a priori, sinteticamente, intorno agli oggetti esterni…lo spazio e il tempo, come condizioni necessarie di ogni esperienza, sono semplicemente condizioni soggettive di ogni nostra intuizione”. Contro la teoria di Kant: le geometrie non euclidee, la cui non-contraddittorietà implicherebbe la non necessità (certezza apodittica) della Geometria Euclidea, e quindi l’impossibilità dello spazio come una rappresentazione necessaria a priori. Il lettore osservi che il fallimento di Kant implica l’impossibilità di un fondamento a prioridella Geometria, vale a dire - in termini moderni - la sua irriducibilità alla “struttura mentale” o a qualsiasi “operazione” che la determini.

Da Bolyai e Lobachevskij in poi, le uniche teorie sensate dello spazio fisico possono essere solo più teorie matematiche.

Interessanti sono anche le posizioni di E. Mach, Avenarius ecc. che vedono nelle scienze (e quindi anche nella Fisica) l’attuazione del principio dell’“economia del pensiero”: l’insieme indefinito delle osservazioni, descritte da proposizioni fondamentali dal significato immediato, verrebbe compresso senza perdita di informazione in un linguaggio ridotto (quello delle scienze) in cui ogni termine riassume una varietà di elementi, esprimendo solo il “fattuale”. Il problema è che, appunto come conseguenza del massiccio impiego della Matematica, le scienze fisiche ne incorporano la struttura, empiricamente indeducibile, e quindi il loro contenuto non è interpretabile come descrittore di “fatti” semplicemente intesi. Insomma, la Fisica non è, né può essere, un riassunto del mondo. Probabilmente ciò incastra anche ogni tentativo di considerarla una compressione algoritmica nel senso di Chaitin [vedasi John D. Barrow, Perché il mondo è matematico?]

In ogni caso, il “principio economico” non riflette alcuna attività umana, pur applicandosi alla ricerca e non solo; non è né progetto, né intenzione, è una regola oggettiva senza la quale il sapere “scientifico” non sarebbe possibile.

Benché empiriche, anche le posizioni di Mach si appellano a regole formali, non derivabili.

 

[Luglio 2002]

   

 

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