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Sommario del sito

RELIGIONE E POLITICA

LE ORIGINI POLITICHE DELLO «SCONTRO DI CIVILTÀ»

Clericus

   

Sommario: 

Introduzione – Alcune premesse generali – Significati della parola “religione”Equivoci sistematiciDivergenze essenziali di approccio e di metodo – Origine storico-politica delle divergenze religiose – Il caso della riforma protestanteSingole forme religiose vs. cause di natura politico-socialeRuolo del potere politicoLa “questione islamica” – I fattori politici reali e la religione – Pretese religiose e dinamiche realiLiberismo vs. IslamCapitalismo vs. religionePremesse politiche dello sviluppo capitalisticoPremesse politiche delle riforme religioseConvergenza delle condizioni – Religione, psicologia, politica – Teoria metafisica della religione e sua insufficienzaInsufficienza delle analisi di tipo psicologicoIl ridimensionamento del ruolo dello StatoLa tesi del “ritardo” del mondo islamicoLa specificità delle strutture politiche in Medio OrienteIl ruolo delle minoranzeIl “problema islamico” come conflitto di interessi localiAmbiguità della politica americana – Tesi conclusiva

   

Introduzione

   

Gli ultimi avvenimenti, descrivibili esteriormente in termini di satira – sacrilegio – indignazione – insurrezione violenta, nonché la clamorosa e – pare – inattesa vittoria di Hamas (*) nelle elezioni del parlamento palestinese, confermano l’impressione di una continua e apparentemente inarrestabile espansione del “religioso” nell’ambito politico-sociale.

(*) Sulla “sorpresa” manifestata a proposito da vari esponenti governativi occidentali e dai loro galoppini mediatici è lecito avere qualche dubbio. Questo continuo “cascare dalle nuvole” da parte degli specialisti della politica francamente è poco credibile, a meno che non si voglia pensare che i vari leader maestri di politica siano più disinformati e ingenui delle massaie. È molto più verosimile che preferiscano passare per fessi, che dover confessare il fallimento di determinate strategie politiche attuate non nell’interesse generale, ma per ragioni di “cassa” personale. Ci penseranno i propri galoppini mediatici a convincere la gente della bontà delle proprie decisioni fallimentari.

Questa tendenza, benché apparentemente di origine recente, è in realtà in atto da alcuni decenni. La cosa più strana – e più difficile da interpretare – è che questa fenomenologia, che definirei revival religioso, sembra assumere essenzialmente tratti marcatamente politici: nell’ambito della mentalità collettiva e delle effettive relazioni sociali, istituzioni, normativa ecc., il mondo occidentale è andato continuamente allontanandosi dai modelli tradizionali, proseguendo una deriva che può farsi risalire almeno al XVII secolo se non alla “riforma” protestante (che in realtà fu una rivoluzione drastica e irreversibile). Basti pensare alle recenti riforme di costume in Europa quali le coppie “di fatto” ecc. Il dubbio che il revival religioso sia una questione mediatica o, se preferiamo, una forma di sentimentalismo diffuso e reclamizzato, è in effetti perfettamente legittimo, dato che la struttura sociale non manifesta nessuno spostamento significativo rispetto al trend plurisecolare che parte dal XVII secolo. Non solo, ma, come vedremo, può essere benissimo che l’illusione mediatica sia strumentale a fini economici e politici, vista la forte concomitanza col fenomeno della globalizzazione. Tuttavia, se questa spiegazione dovesse valere per il mondo occidentale, dovrebbe valerne una speculare per il mondo “islamico” – dove il revival sembra essere in opposizione all’americanizzazione del mondo. Dico “sembra” perché l’apparenza potrebbe ingannare, come vedremo analizzando la politica americana in Medio Oriente.

   

Alcune premesse generali

   

Le analisi sui rapporti tra politica e religione dipendono fortemente dall’ideologia e da condizionamenti di varia natura. In questo genere di cose si è propensi a difendere o ad attaccare interessi e ruoli, il che rende spesso deformate e poco credibili le tesi esposte. Ma, a parte le questioni di mero interesse personale, la dipendenza dal potere altrui, la necessità di svolgere pubblicità politica, il condizionamento culturale, i pregiudizi, la scarsa informazione ecc., che rendono generalmente poco consistente quanto detto sui rapporti tra Occidente e Islam, vi sono difficoltà di ordine fondamentale, per le quali non vi è una soluzione chiara e definitiva.

   

Significati della parola “religione”

Intanto, non è chiara l’estensione di significato della parola “religione”. Nei paesi occidentali, la “religione” è quasi un fatto privato (almeno sul piano giuridico e legale), che non interessa lo Stato, l’economia, la scienza, la tecnica, l’utilizzo delle risorse ecc. Cioè, tutto ciò che riguarda la struttura reale è fuori dalla sfera religiosa. Di fatto, nel mondo occidentale la religione non esiste, come elemento strutturale, anche se vi sono entità organiche operanti e importanti come appunto la Chiesa Cattolica.

Ciò riporta alla contraddizione sopra rilevata, per cui la ripresa della “religione” in Occidente si vede… ma non c’è. Ma cosa è in ripresa, allora? Evidentemente, il ruolo politico e sociale delle istituzioni religiose; meglio ancora, si ha l’impressione che tale ruolo sia crescente.

Qualcuno potrebbe dire che la religione si è spiritualizzata, depurata degli elementi spuri ecc. ecc.; più realisticamente, la società euroamericana si è secolarizzata.

Viceversa, nell’Islam non vi dovrebbero essere confini alla sfera religiosa. Chiariamo subito che ciò è vero soprattutto in teoria – anche se dovrebbe realizzarsi praticamente secondo i movimenti integralisti – ma sta comunque di fatto che la separazione tra sacro e profano è in effetti, nella maggioranza dei paesi islamici, più labile che altrove. Questa caratteristica sembra essere oggi loro peculiare (in passato valeva anche per il Tibet), anche se bisogna tener conto delle non poche differenze tra paesi più conservatori (Arabia Saudita, Iran) e più “laicizzati” (Turchia).

Quindi, nel Medio Oriente la parola “religione” ha un’estensione maggiore che non nel resto del mondo. In effetti, si ha l’impressione che i paesi islamici costituiscano un insieme per il quale valgano regole speciali, altrove cadute in disuso, ammesso che siano mai state in vigore. Insomma, l’Islam resiste, detto alla buona.

   

Equivoci sistematici

Un fatto curioso – che fa parte di questa mentalità integralista – è che gli estremisti islamici identificano gli occidentali come cristiani. Dico subito che, a mio avviso, l’equazione Occidente = Cristianesimo è falsificata già da alcuni secoli di storia, anche se si deve ammettere che “pezzi” di Cristianesimo esistano tuttora. Ma non ha nel presente contesto molta importanza che tale tesi sia vera o meno, è significativo che sia assunta come base dell’analisi che gli estremisti islamici fanno del “mondo occidentale” – a riprova, se ce ne fosse ancora bisogno, di come la percezione delle realtà estranee sia confusa e fondamentalmente erronea. È comunque un fatto che l’isteria antioccidentale che pervade il Medio Oriente si esplica anche attraverso forti pressioni contro comunità cristiane locali ivi presenti da secoli. Del resto non mancano aggressioni neppure contro le minoranze sciite, là dove ci sono (Pakistan; nel caso dell’Iraq, la maggioranza è sciita). In poche parole, sembra che l’Islam sunnita – o, meglio, i suoi gruppi estremisti più attivi – premano per eliminare o comunque ridimensionare il ruolo delle minoranze, per giungere ad una omogeneizzazione dell’insieme sul piano territoriale: un fenomeno forse paragonabile al nazionalismo europeo del XIX secolo, salva la diversa matrice ideologica, che fa dell’estremismo sunnita (ma anche di quello sciita, in Iran e Libano) una specie di nazionalismo panislamico che travalica i confini degli stati nazionali e che, come tutti i nazionalismi, ha bisogno di un nemico.

   

Divergenze essenziali di approccio e di metodo

Inoltre, tutta la questione dei rapporti tra “religione” e strutture politico-sociali è problematica e suscettibile di interpretazioni affatto divergenti. La Storia ha questo di interessante, che non esistono strumenti o esperimenti che possano empiricamente decidere se una tesi sia vera o meno; al massimo, si può forse stabilire se una tesi qualsiasi sia sensata o almeno fondata.

D’altronde, non è chiaro se gli eventi storici seguano o meno un preciso schema di cause-effetti. Le correlazioni nel tempo possono fornire delle indicazioni, ma in fondo il problema è filosofico – irrisolvibile come tutti i problemi filosofici.

Si può convenire che le interpretazioni di matrice religiosa siano storicamente meno valide di altre – orientate all’influenza dell’economia e della tecnica, per esempio – in quanto generalmente intese a fornire giudizi di valore piuttosto che alla formulazione di precisi rapporti di causa ed effetto; in effetti, una mentalità di tipo religioso tende piuttosto ad attribuire un significato agli eventi e a inquadrarli in uno scopo ultraterreno, il che implica uno spostamento (che definirei traslazione metafisica) dei problemi e una loro sublimazione, ovvero interpretazione in termini religiosi. Ciò svaluta la ricerca di cause immanenti, cioè l’analisi scientifica e storica.

Questo non implica affatto si abbiano probabilità significative di successo qualora si vada alla ricerca di cause e si tenti una visione onnicomprensiva degli sviluppi storici. Moltissimi esempi dovrebbero indurre a una certa prudenza, ad assumere come al più ragionevoli, sensate, plausibili, probabili, fondate, sostenibili in base a considerazioni ben specificate le posizioni assunte. Cosa che, come ognuno può constatare, accade universalmente e sistematicamente…

   

Origine storico-politica delle divergenze religiose

Comunque, anche se si accetta come plausibile che la religione abbia un fondamento metafisico ultimo al di là delle contingenze storiche, si può ammettere che le differenze religiose abbiano origine storica, e alla stessa conclusione si dovrebbe con maggior forza pervenire qualora tale fondamento metafisico non venga postulato; in ogni caso, la “religione” allo stato puro non c’è, e quindi con tale termine si indicano anche i condizionamenti storici impliciti che hanno determinato il differenziarsi delle varie forme ed espressioni religiose. Ciò implica che si debba parlare piuttosto di “religioni” al plurale, dovendosi storicamente e attualmente riconoscere come essenzialmente significative le differenze, che costituiscono lo specifico della singola confessione religiosa, inteso quindi non come elemento accidentale, ma come fattore costituente dell’identità religiosa. Insomma, le religioni sono costituite da differenze rispetto ad altre religioni oltre che dalla differenza dal profano. Quest’ultima differenza nell’Islam, almeno in teoria, non dovrebbe esistere, dato che il profano come principio autonomo non c’è, mentre la differenziazione è parte costitutiva di tutte le forme religiose, che sono evolute per distinzione e progressiva separazione da forme religiose preesistenti.

Una tesi molto plausibile è che questo processo di differenziazione-separazione possa essere indotto da cause esterne ovvero che spiegazioni metafisico-religiose del fenomeno siano almeno insufficienti, o anche fuorvianti. Benché alle differenze tra le religioni venga assegnata esplicitamente una natura teologico-metafisica, tali differenze troverebbero nel profano la loro origine. O forse si può anche ammettere che tale origine non sia di per sé conseguenza di fattori profani, diciamo storico-politici, ma sia potenzialmente contenuta nella forma religiosa primaria, e che possa produrre effetti duraturi fino a sfociare in una nuova forma religiosa qualora determinate circostanze politiche lo consentano.

   

Il caso della riforma protestante

Tipico, a questo proposito, è il processo di formazione della riforma protestante. Ammettendo che il potenziale religioso di tale evento sia in nuce nel “messaggio” cristiano, si può constatare come le eresie medievali – spesso di contenuto simile a quello luterano – siano state controllate o represse fino a quando la Chiesa mantenne un sostanziale controllo politico, mentre il sorgere di entità politiche locali autonome nel mondo germanico favorì in modo determinante il consolidarsi della nuova eresia. La frammentazione politica tardo-medievale è un elemento essenziale a favore del formarsi e nell’affermarsi di nuove eresie. Questo non implica che altrove l’unità ideologica fosse garantita, come ben dimostrano le dispute teologiche nell’Impero Bizantino. Ma un impero centralizzato è in grado di controllare e all’occorrenza sopprimere il dissenso con efficacia molto superiore rispetto a quello di Carlo V. In contesti di forte centralizzazione, l’eresia può nascere, ma difficilmente sopravvive in loco – al più, può affermarsi all’esterno, o consolidarsi qualora il vecchio Impero venga sostituito da uno nuovo (es. i monofisiti in Egitto e in Etiopia).

Dunque, se da un lato, all’interno di una data forma religiosa si possono formare spontaneamente diversificazioni (“eresie”) più o meno radicali, il loro consolidarsi in forme indipendenti può dipendere in misura critica da fattori politici, la cui presenza-assenza o il cui variare determinano la riuscita o meno del processo di differenziazione.

   

Singole forme religiose vs. cause di natura politico-sociale

Questo processo, caratteristico del Cristianesimo, ha sviluppato fino al XVII secolo una forte tendenza all’omogeneizzazione territoriale del credo religioso in una forma particolarmente rigida, confermata peraltro nella nota formula cuius regio eius religio, che “rinormalizza” la situazione su base territoriale-dinastica, determinando una sorta di subordinazione della confessione religiosa alla politica.

Tendenze affatto opposte si sono verificate in altri luoghi, per es. in India. Qui la diversificazione, sia pure all’interno della tradizione indù, sembra aver avuto maggiori possibilità di sviluppo. Anche in questo caso, il dilemma potrebbe essere posto nel modo seguente: le diverse evoluzioni del processo di diversificazione in Europa e in India sono da attribuirsi alla “natura” delle due tradizioni religiose, o si debbono riconoscere cause esterne di natura politico-sociale? È chiaro che una risposta semplice non c’è, potendo benissimo convivere entrambe le tesi. Per es. il monoteismo potrebbe benissimo essere addotto come “causa” della rigidità dottrinaria nel Cristianesimo e soprattutto nel Cattolicesimo – un fattore assente nella tradizione indù. Senza dimenticare che le differenze tra le due tradizioni vanno ben al di là del monoteismo. È chiaro comunque che il monoteismo non ha affatto impedito l’ulteriore frammentazione del Protestantesimo. D’altronde, risulta difficile credere seriamente che il monoteismo o qualsiasi –ismo siano cause di alcunché; questi termini sono utili a definire determinati aspetti formali del credo religioso, ma non indicano forze reali: sono parte di una classificazione, peraltro alquanto superficiale ed esteriore. È vero tuttavia che il monoteismo è estremamente utile, qualora si voglia per qualsiasi motivo forzare l’aspetto dell’unicità della verità e quindi della dottrina e quindi ancora la veridicità il prestigio l’autorità di coloro che sono depositari di tale unica verità e, ancora di più, di coloro che, in quanto sovrani temporali sono chiamati a difendere tale verità. Qui accade qualcosa di interessante, perché mentre dal punto di vista della dottrina religiosa il sovrano difende la Verità e la Fede, dal punto di vista strutturale il sovrano usa la difesa della religione come mezzo per esercitare il proprio potere, attraverso il sostegno alla posizione dominante del clero, che a sua volta sostiene il potere del sovrano. In questo modo viene garantito l’ordine sociale, ragion per cui chi non è d’accordo con l’ordine sociale o semplicemente non è d’accordo col sovrano tende a diventare eretico. Se si accetta questo schema, invero un po’ semplicistico e valido – espresso in questi termini – solo per epoche ormai trascorse, allora si deve riconoscere che il monoteismo non è solo termine di classificazione religiosa, ma può essere inteso come una forma funzionale a una certa giustificazione del potere.

   

Ruolo del potere politico

Ma – si dirà – il “potere” non ha affatto bisogno di tale forma di giustificazione ideologica. Infatti, questa è solo una delle possibili forme di giustificazione che si possono elaborare. Probabilmente, il monoteismo si afferma anche come forma di raffigurazione della Divinità caratteristica dell’Impero Romano. Nell’antichità, le varie nazioni identificano Dèi supremi nazionali, cui si rivolge un culto di Stato, ma nell’Impero sopranazionale gli Dèi tradizionali perdono di smalto. Si affermano divinità più o meno esotiche (Serapide, Mitra) o culti esclusivi, presso gruppi diffusi in diverse regioni dell’Impero. L’Impero sopranazionale è un fattore politico che favorisce l’affermarsi di un qualche Dio unico, e lo Stato – o, meglio, il Capo dello Stato – ha interesse a promuovere e sostenere qualche monoteismo. Non importa precisamente quale; la scelta del particolare credo religioso può essere decisa da altri fattori ancora, e qui si ripresenterà il problema di che tipo siano tali fattori – se divini o umani.

Voglio sottolineare comunque come, sotto questo punto di vista, i fattori politici non siano i “creatori” di un determinato credo religioso, né l’origine di specifiche forme religiose; semplicemente agiscono come fattori selettivi, che trasformano la forma religiosa in un elemento funzionale all’esercizio del potere, attraverso la sua legittimazione religiosa.

   

La “questione islamica”

Peraltro, l’affermarsi di una determinata forma religiosa può essere precedente il costituirsi di un’entità politica nella quale è dominante. In questo caso, sembra ragionevole ritenere che certi tratti della forma religiosa, non essendo effetto di una “pressione politica” da parte dell’entità statale preesistente, mantengano una forza particolare e una presa molto più salda sul tessuto sociale. In effetti, la predicazione di Muhammad precede la costruzione della struttura statale del Califfato. Quindi, lo stato islamico ha una forma fortemente condizionata dalla struttura religiosa, e si è tentati di pensare che questa situazione – in un certo senso inversa alla relazione tra Impero Romano e Cristianesimo – possa spiegare la strana resistenza del cosiddetto mondo islamico nei confronti delle influenze politiche e culturali esterne.

Benché questo tipo di spiegazione appaia plausibile e dotato di una certa consistenza formale (dato il ruolo che tradizionalmente viene assegnato allo Stato), la sua piena accettazione mi pare alquanto dubbia, in quanto tende a sovrastimare le strutture formali e scritturali a scapito delle circostanze politiche stratificate nel corso dei secoli, le quali verosimilmente non sono estranee al processo di formazione dello Stato attuale, che non deve mai essere confuso con un modello ideale peraltro realizzato e solo in parte nei primi secoli dell’Islam, scosso da gravi e duraturi conflitti interni già poco dopo la morte del Profeta; e soprattutto trascura i fenomeni politici più recenti quali la colonizzazione e l’influenza europea nella regione, l’impatto di circostanze quali la presenza di essenziali fonti energetiche, e insomma tutto l’insieme dei fattori politici che nel loro insieme determinano il problema del medio oriente.

   

I fattori politici reali e la religione

   

Pretese religiose e dinamiche reali

Detto in parole povere: non è affatto scontato che il ruolo dell’Islam nello scenario politico attuale derivi da qualche peculiarità dell’Islam. Il fatto che l’Islam non riconosca l’autonomia del politico dalla sfera religiosa potrebbe non essere essenziale. Il ragionamento per il quale questa pretesa dell’Islam sarebbe il fondamento di ogni problema è speculare all’idea integralista, per cui l’applicazione integrale dell’Islam risolverebbe tutti i problemi: è un ragionamento integralista, sul piano dell’analisi politica, che trasforma l’analisi politica in analisi religiosa.

Paradossalmente, questo tipo di ragionamento, che dilaga ahimè poco contrastato in diversi settori dell’informazione, talora diluito nella pomposa formula dello scontro di civiltà, dimostra una forma di atavismo e di regresso nella capacità di valutare i fatti.

È evidente che una autopretesa – neologismo col quale definisco la pretesa, codificata in una forma mentis collettiva, di estendere la propria sfera di azione fino a comprendere ciò che in Occidente si ritiene indipendente e autonomo dalla sfera religiosa – non implica affatto la propria realtà. Detto altrimenti: una cosa è la teoria dello Stato secondo l’Islam (o, meglio, secondo gli integralisti), altro è lo Stato reale. Le dinamiche politiche reali sono presumibilmente assai diverse da quelle ipotizzate e vagheggiate. O, detto altrimenti, i rapporti reali di causa ed effetto potrebbero essere ben diversi da quelli postulati teoricamente da qualsiasi credo religioso.

È ugualmente possibile, e alquanto plausibile, che la questione islamica sia definibile entro il tracciato di una analisi politico-storica la cui formulazione problematica potrebbe essere la seguente: “Quali circostanze politiche hanno fatto sì che i gruppi fondamentalisti abbiano acquistato una influenza decisiva nel Medio Oriente? Perché l’Islam appare come un modello praticabile, mentre in altre regioni del mondo il modello occidentale è stato assimilato?”

   

Liberismo vs. Islam

Anzitutto, chiariamo un punto. Quando si parla di modello occidentale, si intende in realtà il modello liberal-capitalista, in particolare nella sua versione liberista. Si dice così, per non dire modello americano, ma in fondo si tratta proprio di questo. In Occidente, nel corso del XX secolo, si sono affermati modelli di altro genere, capitalistici ma autoritari. L’evoluzione politica spontanea nell’Europa continentale durante il XX secolo non era nella direzione liberaldemocratica, tutt’altro. Non c’è nessuna ragione per pensare che gli sviluppi politici nel continente, a partire dalla Rivoluzione Francese in poi, fossero di tipo liberale. Di più: l’ideologia alternativa prevalente non era affatto liberale.

In Russia, la fase “liberale” è durata assai poco, se mai c’è stata. In Cina, l’affermazione del regime comunista dopo il 2° conflitto mondiale può essere vista come un rifiuto dell’influenza politica e culturale occidentale. In India, si è affermato un regime costituzionale di tipo liberaldemocratico, ma solo dopo un secolo e mezzo di governo inglese. Per il Giappone, vale il discorso fatto per l’Europa continentale. In America Latina, l’instaurarsi di regimi democratici è un fatto molto recente.

Dunque, sembrerebbe che l’espandersi del sistema liberaldemocratico sia strettamente connesso al progressivo estendersi dell’influenza americana nel mondo.

Tale influenza ha carattere sistemico, vale a dire che non si tratta di egemonia politica soltanto, ma di trasformazione della struttura sociale e politica.

La questione è quindi la seguente: le resistenze all’americanizzazione del Medio Oriente sono dovute alla natura particolare dell’Islam, o piuttosto la natura dell’Islam è funzionale alla resistenza organizzata al processo di americanizzazione? Le due tesi non si escludono a tutto rigore reciprocamente – nel senso che comunque l’Islam è chiamato in causa come elemento determinante del fenomeno – ma cambia la prospettiva, se guardiamo ai rapporti di causa ed effetto, e cambia la risposta ottimale, da parte occidentale, al problema. Perché propendere per la prima tesi implica, operativamente, agire in modo da diminuire e possibilmente estirpare l’influenza della religione sulle masse, mentre nel secondo caso si tratta di diminuire il peso politico e il potere locale dei gruppi contrari all’americanizzazione.

Inoltre, è da vedere se vi sia una “natura particolare dell’Islam” funzionale all’opposizione all’americanizzazione, che nella realtà specifica del Medio Oriente significherebbe per lo più modernizzazione in senso capitalistico. Per es., sarebbe forse più opportuno chiedersi se tale conflitto non sia piuttosto tra la natura della religione in quanto tale, o, meglio ancora, tra la natura della religione in una particolare fase del suo sviluppo e il mondo capitalistico moderno.

   

Capitalismo vs. religione

L’ipotesi di un conflitto tra religione in quanto tale e mondo capitalistico moderno è comunque assai azzardata, e molto semplicistica. Ci sarebbe, a onor del vero, del materiale a favore di tale tesi; ma è materiale di natura essenzialmente ideologica e irrazionale, certamente sparso in quantità abbondanti nelle sacre scritture di tutti i popoli (nella forma del disprezzo del denaro e della gloria presso gli uomini), avente una funzione per lo più consolatoria presso le masse, alle quali si proponeva un paradiso futuro al posto di un benessere presente (privilegio di pochi). In ogni caso, l’antitesi sarebbe piuttosto contro la ricchezza in generale, non contro un particolare sistema di organizzazione della ricchezza. Certamente, si potrebbe far derivare l’opposizione al capitalismo dalla opposizione alla ricchezza, ma questa sorta di operazioni non convince, se applicata alla critica storico-politica. Intanto, i conflitti reali hanno luogo tra gruppi organizzati, termine assai generico che può applicarsi ad una minoranza etnica come alla Chiesa Cattolica come a qualsiasi classe sociale, purché sufficientemente coesiva e concorde. I conflitti tra ideologie, gli scontri di civiltà, ecc., sono astrazioni, ipostatizzazioni di categorie molto generiche, assai efficaci nell’ambito della propaganda politica quanto inutili nella valutazione dei rapporti di causa ed effetto. Secondariamente, quando mai le classi sacerdotali e le autorità religiose riconosciute si sono fattivamente opposte alle élite dominanti? È vero che i fondatori delle religioni hanno assunto posizioni talvolta radicalmente critiche nei confronti del privilegio, ma hanno trovato la strada sbarrata dalle stesse autorità religiose. In generale, le istituzioni religiose evitano lo scontro col potere politico ed economico, e questo è vero in ogni situazione storica, per cui, di fatto, la religione è un fattore di stabilizzazione della effettiva distribuzione della ricchezza a del potere. Come tale è generalmente contro la rivoluzione e non certo a favore.

D’altronde, l’attuale fase dei rapporti tra “religione” e capitalismo, nel mondo occidentale, non evidenzia certo una situazione di conflitto. Anzi, si potrebbe addirittura sostenere che la ripresa della religione nel mondo occidentale sia in qualche modo collegata all’espansione del capitalismo nella sua forma liberista. La questione può sembrare paradossale, e si sarebbe tentati di fornire una spiegazione in base alla quale la crescita della “religione” sia una reazione antitetica all’espansione del liberismo economico. Tale spiegazione appare ragionevole, e anche plausibile, se si assegna alla “religione” un ruolo simile a quello delle ideologie di sinistra, ormai decisamente sulla via della liquidazione; ma dovrebbe essere completata dalla tesi per la quale la “religione” in Occidente è complementare al liberismo, nel senso che gli “spazi” e le funzioni occupate dallo Stato sociale e dalla politica sociale, ridimensionati dalle politiche liberistiche, passano gradualmente alle Chiese. Dunque l’espandersi del ruolo delle Chiese in Occidente è anche funzionale all’espandersi del liberismo economico, nella misura in cui le politiche liberistiche limitano la presenza del pubblico nel ruolo di garante della pace sociale trasferendo competenze e quindi mezzi operativi alle organizzazioni religiose. Le due tesi possono convivere benissimo assieme, ed è chiaro che la fine delle ideologie “di sinistra” ha dato più visibilità alla presenza della Chiesa, anche nell’immaginario collettivo: al punto che qualche deluso della sinistra politica potrebbe essere tentato di accostarsi alla “religione” perché si illude sulla sua funzione reale… tipico delle persone che ragionano in termini ideologici e quindi irrazionali, dimenticando gli effettivi ruoli storico-politici.

In effetti, anche guardando indietro nel tempo, e intorno a noi nello spazio, emerge come non vi sia, in generale, alcun conflitto tra capitalismo e “religione” – lasciando per ora da parte l’Islam che sembra un caso a sé. Non solo: è stata sostenuta la tesi per cui il capitalismo sia stato promosso da particolari correnti religiose. Come non citare la notissima tesi di Max Weber sul ruolo del Calvinismo nello sviluppo del capitalismo in Olanda, a Ginevra, nell’America? La corrispondenza spazio-temporale è così stretta che bisogna esercitare un certo sforzo mentale per non lasciarsi vincere dalla correlazione postulata da Weber rinunciando a cercare spiegazioni alternative.

   

Premesse politiche dello sviluppo capitalistico

Posto che la tesi di Weber non può essere liquidata neppure in presenza di spiegazioni alternative, vale tuttavia la pena di chiedersi quali potrebbero essere. La risposta può essere cercata osservando le circostanze politico-territoriali che fecero da cornice allo sviluppo del protocapitalismo, tra la fine del medioevo e l’inizio dell’era moderna e del Protestantesimo; in particolare, quello di stampo calvinista. È una regola pressoché universale che lo sviluppo capitalistico – e tutto ciò che vi è connesso – ha avuto luogo in territori marginali rispetto ai grandi centri di potere, ed è legato alla presenza di minoranze marginali rispetto all’esercizio del potere. Insomma, lo sviluppo economico è avvenuto prima lontano dai centri del potere, cioè ai margini dei grandi imperi, o al loro interno, ma dopo che il potere centrale era stato ridimensionato ad un ruolo simbolico. Si possono citare molti casi di questo tipo: le città-stato di Pskov e Novgorod, in Russia, verso la fine del medioevo; la Lega Anseatica; la Lotaringia (Paesi Bassi, Italia settentrionale, Borgogna), la Svizzera. Anche per l’antichità potrebbe valere lo stesso principio, se si pensa al ruolo delle pòleis greche contro la Persia. Per inciso: lo stabilirsi nel Mediterraneo del grande Impero Romano potrebbe essere stata la causa ultima del declino economico e del “fallimento tecnologico” che caratterizzò la tarda antichità.

Ma perché lo sviluppo economico e tecnologico – e quindi il capitalismo – dovrebbe richiedere come premessa al suo sviluppo l’indipendenza dai grandi imperi? La risposta più semplice è che nei grandi imperi le risorse finanziarie ed economiche sono sotto il controllo del potere centrale, che le sfrutta ai fini del proprio mantenimento, e vengono dissipate nelle grandi imprese militari e nelle guerre civili che caratterizzano tutta la durata di questi organismi, fino a determinarne il collasso strutturale nell’arco di alcuni secoli. Nelle città-stato e su scale territoriali modeste il potere è nelle mani dei mercanti e dei capitalisti, e quindi… la conclusione è ovvia. Non solo: nei grandi imperi, il controllo ideologico è rigido, perché la “religione” è indispensabile come elemento per giustificare l’ordine costituito, e quindi tutto ciò che in qualche modo potrebbe minacciare il ruolo della classe sacerdotale è pericoloso anche per il potere politico. Ciò rende difficile la circolazione delle idee; anzi, nei grandi imperi le nuove idee non ci sono proprio: sono esaltate le scienze innocue, le speculazioni sul trascendente, sulla metafisica, la ricerca di forme di controllo delle menti estremamente sofisticate che allontanano sistematicamente l’attenzione dalla realtà sociale per spostarla verso mondi immaginari.

   

Premesse politiche delle riforme religiose

Ma i territori marginali, o i potentati regionali indipendenti o quasi dal potere centrale, sono anche i luoghi nei quali nuove idee possono circolare più liberamente. Non solo: ma proprio la contrapposizione naturale tra le realtà periferiche e il centro stimola il conflitto latente tra l’ideologia ufficiale, fissata in una forma immutabile come il potere centrale, e le ideologie innovatrici, purché queste ultime non diventino effettivamente rivoluzionarie. Poiché quest’ultimo esito è assai frequente, anche i poteri marginali possono assumere un atteggiamento repressivo. Tuttavia, la necessità da parte di chi è piccolo di opporsi efficacemente a chi è più grande consiglia il ricorso a compromessi sul piano ideologico, per ottenere appoggi sufficienti al mantenimento della propria autonomia e libertà d’azione: le innovazioni ideologiche sono strumenti formidabili qualora acquistino consenso tra le masse, finché non mettono in pericolo l’autorità costituita. Le strutture politiche locali in Germania, all’inizio dell’era moderna, realizzarono uno schema politico-religioso di questo genere: opposero i Protestanti al potere imperiale garantendosi l’appoggio di questi, e rafforzando il proprio potere locale; e assicurarono lo stesso potere centrale, impegnandosi a limitare le velleità estremiste e potenzialmente rivoluzionarie. Insomma: la rivoluzione legale, cosa possibile solo in Germania.

   

Convergenza delle condizioni

Da questa analisi segue che i territori adatti allo sviluppo protocapitalistico coincidono con quelli favorevoli all’affermarsi di ideologie rivoluzionarie “addomesticate”, mediazioni perfettamente calibrate tra la necessità di consolare il popolo e quella di mantenere il potere del principe locale. Di qui deriva la stretta connessione strutturale tra le Chiese protestanti luterane nel Nord Europa e i principi, sovrani o feudatari del Sacro Romano Impero Germanico. Sempre per inciso: questo schema potrebbe fornire una spiegazione del perché il capitalismo non riuscì ad affermarsi nell’antichità. Nella tarda antichità le città-stato greche, in Italia e in Grecia, furono soppiantante dagli imperi ellenistici e da quello romano: entità, come abbiamo visto, strutturalmente anticapitalistiche, e tendenzialmente portate alla ricerca di una ideologia universale e alla costituzione di una qualche Chiesa universale.

Dunque la frammentazione politica della Germania e in generale dell’Europa feudale potrebbe essere la causa comune del diffondersi delle riforme protestanti e della rimozione degli ostacoli anticapitalistici. Questa spiegazione tuttavia non è completa; vi sono ulteriori parallelismi tra la nuova forma religiosa e lo sviluppo del capitalismo.

   

Religione, psicologia, politica

   

Teoria metafisica della religione e sua insufficienza

Forse, la critica principale che si può muovere interpretazioni storicizzate e politicizzate della religione sta nell’assunto che l’essenza di tale fenomeno sfugge fondamentalmente ad ogni tentativo di riduzione a circostanze politiche e sociali. La persistenza del fenomeno religioso in contesti storici differenziati e l’universalità nel tempo e nello spazio sembrano confermare tale punto di vista, a prescindere da ogni particolare teoria del significato ultimo della religione. A tale proposito, sembra ragionevole accettare una teoria metafisica della religione, che ne ponga l’origine e lo scopo in un Oltre di là dalla vicenda umana. Tuttavia, le diversificazioni tra le diverse manifestazioni religiose – che non sono aspetti secondari sul piano concreto, visto il ruolo propulsivo dell’antagonismo religioso nell’affermarsi e nell’estinguersi delle singole forme e dei culti – e la divergenza tra “religione” in generale e “laicismo”, proprio a causa della indefinibilità sul piano razionale dell’origine del fenomeno religioso in generale obbligano a ricercare nel corso della storia le ragioni attuali delle disomogeneità e delle contraddizioni. Certamente non si possono escludere motivazioni psicologiche anche banali della frammentazione religiosa: per es., la difesa di un’identità collettiva può portare a una auto-identificazione della “religione” a prescindere da più specifiche circostanze storico-politiche. Questa tesi non va confusa con quella del presunto "scontro di civiltà", che resta un concetto vago finché non si precisano quali sono gli elementi (la mentalità? le tradizioni?) che avrebbero generato il conflitto. Il problema fondamentale delle tesi sullo scontro di civiltà, specie se fanno riferimento a compulsioni di autodifesa dell’identità, è che sono essenzialmente autoreferenziali: chi ragiona in questi termini esplicita la propria paura dell’altro, del nuovo, ecc. Insomma, la spiegazione del fenomeno è in realtà essa stessa parte del fenomeno, e una spiegazione del genere non è certo il massimo, dato che consiste nel proiettare sull’altro i propri timori. Proprio per questo, tuttavia, tesi siffatte sono adattissime alla propaganda politica e ideologica, e ciò rafforza il dubbio sulla loro validità e pertinenza.

   

Insufficienza delle analisi di tipo psicologico

La debolezza delle tesi psicologiche è meno facile da evidenziare. Tuttavia, si può rilevarla osservando come la psicologia – benché intervenga evidentemente in ogni manifestazione comportamentale individuale e collettiva – può spiegare come il comportamento evolva in funzione delle circostanze ambientali, ma non esaurisce l’analisi della genesi delle medesime circostanze. Insomma, una tesi psicologica può descrivere bene una determinata reazione collettiva a una data situazione storico-politica, ma è estremamente improbabile che possa giustificare l’origine di tale situazione. E, in effetti, gli storici ricorrono pochissimo alle dinamiche di tipo psicologico, perché si rivolgono a dinamiche strutturali oggettive la cui dimensione è fondamentalmente non-psicologica.

Non solo, ma la difesa dell’identità religiosa è in realtà difesa di un certo sistema di relazioni sociali e di determinati ruoli. In un certo senso, la difesa della propria religione è la difesa della rete di relazioni – e quindi di protezioni – nella quale il singolo può operare senza dover modificare radicalmente il proprio stile di vita. Se questo viene minacciato dall’inquinamento di influenze esterne, è facile che l’autodifesa assuma valenza religiosa, in particolare quando viene a cadere la difesa di ordine politico. Perciò le tesi psicologiche sono essenzialmente insufficienti: la ripresa della religione è legata alla caduta del politico in quanto modalità di difesa della sicurezza individuale e collettiva. Di fatto, è una forma comportamentale regressiva, gabellata come “riscoperta” dei valori spirituali (che può benissimo esserci, ma a livello di esperienza individuale).

   

Il ridimensionamento del ruolo dello Stato

Qui abbiamo una possibile chiave esplicativa della ripresa del “religioso” sia in Europa sia in Medio Oriente. Il liberismo mette in crisi sicurezze e ruoli, sia a livello economico, sia nell’ambito delle relazioni sociali; ma la caratteristica fondamentale del liberismo è la riduzione del ruolo dello Stato come regolatore degli squilibri sociali. Il liberismo ipotizza infatti che gli squilibri vengano riassorbiti naturalmente nello stesso processo economico, quasi che i processi comportamentali che valgono nei mercati finanziari si possano estendere sic et simpliciter al tessuto sociale. La frammentazione della società in individui in perenne competizione economica non viene più adeguatamente compensata dallo Stato – che si riduce ad amministratore di servizi e di politiche settoriali – ed emergono le istanze che sembrano poter garantire tale compensazione. Ora, fra tali istanze le meglio organizzate gerarchicamente sono proprio le istituzioni religiose.

In Oriente e nel mondo musulmano in generale, l’urto del liberismo ha prodotto una reazione molto forte, paragonabile come intensità ai movimenti xenofobi che in diverse parti del mondo hanno fatto parlare di sé durante il XX secolo. Dico hanno fatto parlare di sé perché tali movimenti, almeno nelle loro manifestazioni originarie, non sono riusciti a produrre altro dal farsi trucidare. Tuttavia la xenofobia nei confronti dell’Occidente è stata contenuta in Giappone dallo stesso governo, accettando di “nazionalizzare” i meccanismi economici occidentali, mentre in Cina, l’opposizione alle strutture occidentali è stata superata attraverso il superamento di una lunga serie di crisi interne, in India la presenza inglese ha evidentemente favorito la transizione, stroncando sul nascere forze politiche locali che avrebbero potuto frenare il processo. Ma nel caso del mondo islamico, come la mettiamo?

   

La tesi del “ritardo” del mondo islamico

È plausibile che lo schema sopra proposto, cioè la crisi del politico come regolatore dello squilibrio, si possa applicare anche al mondo musulmano.

In effetti, l’integrazione del mondo islamico nel contesto mondiale globalizzato rimetterebbe in discussione il ruolo dei gruppi dirigenti locali, sia propriamente “politici” (partiti al potere, ecc.), sia “religiosi” (vedasi Iran 1979). Ora, crisi politiche devastanti hanno effettivamente accompagnato l’integrazione dell’Asia nel mondo capitalista americanizzato nel corso del XX secolo: stando così le cose, la spiegazione della situazione del mondo musulmano sarebbe da ricercarsi, banalmente, in una dislocazione temporale: il “ciclo storico” sarebbe in ritardo rispetto al contesto mondiale e quindi… le resistenze alla modernizzazione avrebbero un carattere diciamo sanfedistico, reazionario e culturalmente arretrato.

L’arretratezza culturale del mondo islamico, e in particolare degli strumenti concettuali che gli islamisti usano a mo’ di spiegazione per le masse della difficile situazione locale, è fuori discussione: pretendere di chiarire il “mondo moderno” con gli strumenti analitici “islamici” è semplicemente risibile. E questo sembra rafforzare idee come lo scontro di civiltà o, meglio ancora, scontro civiltà-anticiviltà alla Fallaci, tanto per intenderci; solo che, essendo attualmente politically uncorrect esprimersi in tali termini – per il pregiudizio in base al quale tutte le opinioni hanno diritto alla par condicio – la parola “civiltà” deve comparire due volte, rafforzando l’idea che si tratti di un contrasto alla pari, contro un nemico alla pari, che potrebbe prevalere e quindi estremamente pericoloso anche quando si tratti di masse analfabete mobilitate da qualche imam locale alla caccia di pubblicità nel proprio quartiere (e di redditizie decime).

La dislocazione temporale quindi – se c’è – viene facilmente sostituita da formule altisonanti e politicamente redditizie in molti paesi occidentali – Italia in prima fila – il cui unico senso è di supporto a politiche di parte occidentale aggressive e tendenti a mettere le mani sulle risorse locali.

Tuttavia, tale spiegazione lascia in ombra – se accettata – il problema principale: ammesso che si tratti di ritardo nell’integrarsi nel mondo globalizzato, da dove originerebbe tale ritardo?

Di nuovo, la tentazione di dire “è la religione” è molto forte. Peraltro, può essere che sia così. Ma ripeto che si dovrebbe a questo punto cercare che cosa di specifico, dell’Islam, produca tali effetti resistenti. Inoltre, l’efficacia della religione è molto variabile in funzione dello spazio e del tempo: per esempio, in Occidente è quasi nulla. Si dovrebbe quindi spiegare come mai la “religione” è efficace in Medio Oriente e non altrettanto in Europa. L’efficacia della religione dipende dalla singola religione? È una tesi molto interessante: a questo punto ci conviene convertirci all’Islam, acquisteremmo poteri speciali…

   

La specificità delle strutture politiche in Medio Oriente

Dare una risposta esauriente al problema del ritardo temporale in termini storico-politici esula da un saggio sui rapporti tra religione e politica. Richiederebbe un’analisi storica approfondita, non potendosi dare una risposta in poche parole. Piuttosto, potrebbe essere interessante valutare se non vi siano ragioni strutturali specifiche createsi nel mondo musulmano che possano fornire una spiegazione o anche un’alternativa all’idea del “ritardo”.

Il punto di partenza è sempre lo stesso: si deve assumere che il “religioso” riempie lo spazio lasciato vuoto dal “politico”. Ora, lo spazio del “politico” può svuotarsi anche quando il “politico” tende ad occupare spazio, fino a irrigidire in modo eccessivo le strutture di governo, chiudendosi ad ogni forma di innovazione e bloccando la dinamica sociale. È il caso di regimi molto autoritari, che in Medio Oriente hanno avuto fortuna, e che tendono a perdurare in un contesto mondiale nel quale il liberismo mette sotto pressione il potere politico nelle sue forme autoritarie. La religione acquista forza anche come alternativa al “politico” e può paradossalmente accadere che il regime, messo sotto pressione dall’interno e dall’esterno, decida caso per caso di allearsi col nemico meno pericoloso nel breve termine, favorendo talora la penetrazione di poteri esterni in cambio di un appoggio condizionato, talaltra le forze xenofobe, imbrigliandole e strumentalizzandole contro le ingerenze esterne. Non solo, ma una saggia amministrazione di entrambe le strategie può essere estremamente utile ed efficace. Ne consegue che l’estremismo islamico, lungi dall’essere qualcosa di unitario, è frammentario e diviso negli scopi: talvolta si fa ammazzare dai governi (Egitto, Siria), talvolta è corteggiato dai regimi (l’ultimo Saddam), talvolta va al governo (Iran, Hamas), talvolta collabora col governo contro ogni tendenza esterna (sauditi, ma anche Egitto), o è alleato o nemico a seconda dei tempi (Bin Laden).

In effetti, una modernizzazione liberistica del mondo islamico deve essere apparsa a qualcuno una possibile soluzione del problema, salvo poi scoprire che la libertà di stampa, le libere elezioni ecc. portano al potere proprio i gruppi integralisti…

   

Il ruolo delle minoranze

Quindi sanfedismo e protesta sociale, con il giusto contorno di xenofobia, dominano la scena – almeno, quella mediatica. Ma questo non spiega ancora il fenomeno del “ritardo” – ammesso che il “ritardo” sia una spiegazione valida. Bisognerebbe esplorare anche le stesse strutture politiche locali. Perché i regimi autoritari del Medio Oriente sono così resistenti nel tempo? Una possibile spiegazione sta nella complessità della struttura politica locale.

In Occidente, si è affermato il ruolo dello Stato-Nazione, omogeneo politicamente e culturalmente. Il Giappone, pur considerando le differenze storico-culturali, sembra seguire lo stesso schema. La Cina e la Russia hanno una struttura più “imperiale”, ma oggi possono essere considerate stati-nazione data la loro evoluzione nel XX secolo. Nel Medio Oriente le disomogeneità sono prevalenti; per es. è essenziale il ruolo delle minoranze, gruppi separati ma nello stesso tempo integrati nel sistema delle relazioni economico-sociali… durante il governo ottomano. Come è noto, i sultani governavano (in realtà, il governo era nelle mani dei vizir e degli eunuchi; ma tralasciamo i dettagli) un impero multinazionale e multireligioso; le entità statali nate dalla dissoluzione dell’impero negli anni ’20 del secolo scorso hanno inglobato minoranze significative, che in molti casi hanno occupato il potere (sunniti in Iraq, alauiti in Siria, wahabiti in Arabia Saudita) in quanto già prevalenti nello stesso impero ottomano (i grandi imperi sopranazionali consentono un ruolo importante alle minoranze, che vedono nel forte potere centrale una difesa nei confronti della maggioranza numerica). Insomma, le minoranze sopravvivono se riescono a controllare stabilmente i governi, e ciò si ottiene esprimendo regimi autoritari inamovibili e occupandone le posizioni-chiave.

La rimozione di questi regimi è tecnicamente molto più complessa dello sradicamento di fenomeni quali il fascismo e il nazionalismo, la cui base era essenzialmente solo politico-sociale. Infatti, le medesime istanze sociali possono trovare espressione politica in forme di governo molto diverse tra di loro. Per esempio, la difesa della proprietà può aversi sia col nazionalsocialismo sia con un regime filoamericano: le implicazioni politiche di tale istanza sono di per sé molto variabili, l’esito politico è a questo punto funzione delle sole circostanze storiche.

Ma l’identità di una minoranza e la sua stessa sopravvivenza fisica sarebbero irrimediabilmente compromesse, qualora quella minoranza perda il controllo del potere politico. Quindi, alcuni regimi offrono una straordinaria resistenza al cambiamento e perciò stesso creano uno spazio extrapolitico cioè, nel contesto mediorientale, “religioso”, nel quale le tensioni trovano sfogo.

Il caso dell’Iran è diverso, pur potendosi riconoscere una dinamica formalmente simile. In questo caso, la “minoranza” è il clero sciita; qui, si tratta della difesa di un ruolo che la rivoluzione bianca dello Shah avrebbe irrimediabilmente compromesso. Secondo copione, la difesa del proprio ruolo da parte del clero è stata proposta alle masse come difesa della Nazione e della Religione, e le masse ovviamente… ci sono cascate, perché anche in questo caso il regime aveva esagerato nell’occupare lo spazio politico, dando luogo a riforme strutturali senza concedere lo sviluppo di meccanismi di compensazione.

   

Il “problema islamico” come conflitto di interessi locali

Peraltro, lo “schema iraniano” potrebbe benissimo applicarsi mutatis mutandis anche all’universo sunnita, se si considera come la “rivoluzione” khomeinista del ’79 abbia avuto l’appoggio del Bazar, cioè del settore commerciale-economico. Il sospetto che il conflitto Islam-Occidente non sia altro che una proiezione verso l’esterno di una grave crisi interna di carattere strutturale – cioè con effetti di lungo termine – è fondato su diversi ordini di motivi:

1) generalmente le tensioni interne vengono trasformate in ostilità verso l’esterno – questa reinterpretazione fasulla del conflitto interno non deve nascondere che il diffondersi dell’integralismo consolida élite il cui ruolo è messo in discussione non dico dal liberismo, ma da qualsiasi riforma in senso “occidentale”;

2) le organizzazioni islamiche sono molto efficaci come garanti di una sorta di welfare che l’occidentalizzazione manderebbe inevitabilmente in crisi;

3) una regione caratterizzata da disoccupazione diffusa, elevato tasso di natalità ecc. è in grado di fornire a gruppi parapolitici locali – e qui si fa riferimento alle organizzazioni politiche islamiste, le uniche strutture politiche che possano operare in molti contesti locali caratterizzati da regimi autoritari, protette dalla veste religiosa – molta manovalanza politica che rende pericolosa la loro soppressione;

4) la religione fondamentalmente è innocua sul piano sociale in quanto non mette in discussione l’ordine sociale esistente ed è il mezzo ideale per fornire sfogo alle tensioni senza farsi del male, quindi l’emergere dell’integralismo potrebbe essere sia una forma di autodifesa nei confronti della penetrazione economica occidentale, sia un mezzo di conservazione dell’ordine politico, sia uno strumento di autodifesa sociale.

   

Ambiguità della politica americana

La polivalenza del fenomeno, unitamente alla complessa situazione geopolitica locale e alla sua importanza strategica, non aiuta certo a definire un sola politica coerente e univocamente definibile verso il problema. Poiché la politica dell’Occidente verso il Medio Oriente è determinata prevalentemente dal governo degli Stati Uniti, si direbbe che le linee strategiche fondamentali siano in qualche misura influenzate dagli interessi delle élite nordamericane. Questo giustificherebbe l’ipotesi che il conflitto abbia origini sistemiche e non culturali-religiose. In effetti, le élite degli Stati Uniti sono anzitutto il centro di un sistema economico-finanziario che non ha confini precisi, e che tende a integrare altri sistemi, lasciandoli in posizione subordinata, ma lasciando a chiunque ne faccia parte, americano o meno, vantaggi e profitti. Peraltro, tale integrazione è ad uno stato piuttosto avanzato in Medio Oriente, per via del petrolio e degli investimenti sui mercati finanziari occidentali degli introiti ricavati dall’estrazione del greggio. Accade in Medio Oriente ciò che succede ovunque, e cioè il differenziarsi del grado di partecipazione al sistema globalizzato: qualcuno ne fa parte, moltissimi ne sono fuori. Tra questi “moltissimi” gli integralisti trovano la loro massa di manovra, dai suicidi agli urlatori delle piazze. La politica americana dovrebbe, a rigor di logica, espandere il sistema, e ci si aspetterebbe che sia orientata a stroncare l’integralismo con ogni mezzo. In realtà, appunto perché trattasi di conflitto sistemico, i nemici e gli amici non sono precisamente i movimenti integralisti e i governi “laici” rispettivamente. La separazione tra amici e nemici è legata a scelte tattiche e strategiche che pongono linee di demarcazione di tutt’altro tipo. Anzi, l’impressione è che di fatto la politica americana nel Medio Oriente abbia favorito l’espansione di movimenti e governi integralisti. Non è chiaro se ciò sia solo una reazione alla crescente pressione americana, cioè un effetto collaterale indesiderato, o se corrisponda a precisi interessi tendenti a far salire la tensione politica, per lucrare sui vantaggi che ne derivano (p. es., l’aumento del costo del petrolio). Il fatto è che una politica orientata all’espansione di un sistema non sempre è distinguibile da un certo modo di condurre gli affari, poiché il sistema americano è fondato sulla stretta correlazione tra strumenti politici e finanziari, e non segue una logica basata su identità culturali e religiose. In questa logica, non vi sono scontri di civiltà, ma conflitti-convergenze di interessi.

   

Tesi conclusiva

   

È quindi possibile interpretare la ripresa del “religioso” in Occidente e nel mondo islamico come una reazione sistemica locale al ridimensionamento reale del politico come regolatore di squilibri e tensioni di vario tipo, che, data la natura competitiva e tendenzialmente esclusiva delle forme religiose, differenziatesi per motivi storico-politici, viene opportunisticamente interpretato come scontro di civiltà. Tale interpretazione non è l’unica possibile, dovendosi tener conto anche dell’interesse che i poteri locali possono avere nel sostenere, o comunque non contrastare apertamente, movimenti che si appellano alla religione.

   

[Febbraio 2006]

   

 

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