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TOBIA. FIABA ALCHEMICA

Dario Chioli

 

Nota introduttiva

Sommario

Capitolo primo. Dove s’inizia il racconto e si prende a narrare di Irene e di come si mutò in cascata.
Capitolo secondo. Dove Tobia vede le ombre perché ha gli occhi chiusi, ma poi li apre e incontra Raffaele.
Capitolo terzo. Dove Tobia incontra San Giorgio che gli parla del Drago e di Ireneo.
Capitolo quarto. Dove compare Ermete Trismegisto.
Capitolo quinto. Dove Tobia viene invitato al Palazzo d’Inverno.
Capitolo sesto. Dove il suo Compagno conduce Tobia dall’Avo Antico, Re del mondo, nel Palazzo d’Inverno.
Capitolo settimo. Dove compare Baldassarre Mago.
Capitolo ottavo. Dove Tobia incontra un amico antipatico e poi di nuovo Raffaele.
Capitolo nono. Dove Tobia incontra l’Uomo dei Cespugli.
Capitolo decimo. Dove ha luogo il sogno di Irene.
Capitolo undicesimo. Dove appaiono Archeos ed il Medico tradito.
Capitolo dodicesimo. Dove Ireneo si trova tutt’a un tratto su una montagna e gli appare una Sfinge alata.
Capitolo tredicesimo. Dove Ireneo riflette e sente una voce parlare dentro di sé.
Capitolo quattordicesimo. Dove Ireneo giunge di fronte alla porta di piombo e incontra il nano della pesantezza.
Capitolo quindicesimo. Dove si sogna e si parla di Crono.
Capitolo sedicesimo. Dove Ireneo sogna di angeli che gli narrano dell’albero della sua anima e, risvegliatosi, ode la parola di Crono.
Capitolo diciassettesimo. Dove Ireneo passa nel regno di Zeus e incontra l’Unicorno.
Capitolo diciottesimo. Dove Ireneo incontra Ares ed entra nella grotta di ferro.
Capitolo diciannovesimo. Dove Tobia incontra per la terza volta Raffaele.
Capitolo ventesimo. Dove si parla dell’amuleto di Inanna.
Capitolo ventunesimo. Dove Tobia ragiona con se stesso del padre suo che ha visto in sogno e di altre cose.
Capitolo ventiduesimo. Dove Tobia entra nel regno del Sole e gli appaiono Samaele e Michele.
Capitolo ventitreesimo. Dove si tratta di angeli e di Eros e torna a mostrarsi Ermete.
Capitolo ventiquattresimo. Dove a Ireneo appare Afrodite, preceduta da una visione e dalle sue ancelle.
Capitolo venticinquesimo. Dove si descrivono gli effetti del dipartirsi di Afrodite e compare Gabriele.
Capitolo ventiseiesimo. Dove si parla dell’impazienza di Ireneo.
Capitolo ventisettesimo. Dove Ireneo passa nel regno di Ermete e lo incontra per la terza volta.
Capitolo ventottesimo. Dove si rendono chiare alcune cose oscure.
Capitolo ventinovesimo. Dove compaiono l’Uomo degli Alberi e l’Alchimista.
Capitolo trentesimo. Dove vengono attraversate le regioni della Luna e si conclude il racconto.

 

 

CAPITOLO PRIMO

Dove s’inizia il racconto e si prende a narrare di Irene e di come si mutò in cascata

 

Tobia aveva sette anni, suo padre molti di più. Erano in viaggio, era un viaggio assai lungo. L’automobile in fretta se ne andava. E mentre andava, una storia, a Tobia, suo padre raccontava.

«Sai chi era Irene? Era una bambina allegra, così allegra che rideva e scherzava in continuazione. Tutto per lei era bello e buono, caldo come il sole, fresco come la neve, limpido come la rugiada, tenero come un gattino. E lei era bella, molto bella, gli occhi chiari e luminosi, i piedini leggeri. La voce sua era una brezza e un trillo, il suo respiro come l’eco dei sogni.

Ma un giorno le capitò un guaio. Successe cioè che scoprì il dolore. Un piccolo dolore: si punse un dito. Una cosa da niente: la spina di una rosa. Ma non le era mai successo e fece la faccia preoccupata per la prima volta nella sua vita.

E accadde che proprio allora si vide in uno specchio e seppe che faccia faceva chi era punto dalle spine. Pensò che c’era di meglio, e ritornò allegra.

Ma quando uscì per strada vide tanta gente, quella solita per la verità, ma adesso avevano tutti qualcosa di strano. Ci pensò un bel po’, che potesse essere, poi capì: erano tutti scuri in volto, come s’era vista lei nello specchio. Poverini! Forse non sapevano che erano solo spine di rosa e bastava rasserenare il viso, o forse non sapevano estrarle, magari ce le avevano in un piede.

E così pensando, prese ad andare da tutti quelli che passavano e a chiedergli dove s’erano punti, e perché non levavano la spina e non se la pigliavano più serenamente. Ma non capivano. Lei insisteva, insisteva, ma le ridevano in faccia. Ed era duro quel riso, non era il suo ridere dolce, la faccia che fa chi sente il profumo dei mughetti o i grilli; era un ridere triste, che non dava piacere. E Irene non comprendeva. Che si siano seduti su un cactus? si diceva, e poi glielo chiedeva, e voleva che si facessero aiutare.

E successe che un giorno qualcuno si offese delle sue insistenze, e per questo la insultò e schiaffeggiò. E, stupefatta, Irene scoprì il male e pianse. E tutti le parvero allora, a somiglianza di lei, esseri schiaffeggiati, figli del dolore e pieni d’amarezza. E cercava, per consolarsi, qualcuno che avesse lo sguardo come il sole, come il mattino o la primavera. Ma tutti coloro che passavano avevano un marchio di violenza sul volto, e i profumi per essi non profumavano, gli usignoli nella notte non cantavano, la luna non rideva, l’acqua non dissetava.

E Irene, che non aveva mai conosciuto il dolore, quella volta lo prese sul serio. Gli altri erano più concilianti, si adattavano di più, ma lei lo prese molto, molto sul serio. E le sue lacrime le scendevano per il volto, le scavavano solchi profondi. Molti le si avvicinavano per consolarla, ma nessuno aveva la faccia come il sole, e tutti invece quel segno di dolore.

E lei piangeva, e ogni volto scuro che vedeva le dava nuove lacrime; e pianse così a lungo che il suo esile corpo si consumò e restò di lei solo la cascata delle lacrime, quella che appunto ancor oggi chiamano la Cascata di Irene. Il rumoreggiare delle acque, in effetti, continua i suoi singhiozzi. Ed è ancora lì che corre, adesso, sempre uguale».

«È una storia bella e triste, papà. Secondo me, comunque, adesso Irene è una fata, una bella fata, come la zia Ester quando fa le sue torte. Si sarà ormai stufata di piangere, e se la cascata c’è ancora è solo perché in definitiva è bella e serve a bere».

Tobia aveva sette anni, suo padre molti di più. Erano in viaggio, era un viaggio troppo lungo.

Irene li guardò dal centro del Mondo Vero.
Irene li chiamò, dal suo incanto erano mossi.
La morte li cercò dal centro di un muro nero.
La morte li raccolse, adorna di fiori rossi.

 

 

CAPITOLO SECONDO

Dove Tobia vede le ombre perché ha gli occhi chiusi, ma poi li apre e incontra Raffaele

 

Come è scuro qui, pensò Tobia, guarda che ombre. Ma è poi così scuro? Scemo, ho gli occhi chiusi! Ah, che bel sole! Le farfalle! Signore, hai una mela? Grazie. Che buona. Che gente allegra c’è qui, altro che ombre! Se però chiudo gli occhi... To’, non li posso più chiudere, ed il buffo è che non me ne importa proprio niente. E poi prima era tutto così strano. E mica bello. Quella là che viene e mi fa: Vieni, piccino! Brutta scema! Piccino a me che ho sette anni e vado a scuola! Pretendeva di somigliare alla mamma, e c’era, sì, qualcosa, ma la mia mamma è luminosa e fa le torte appena un poco meno buone di quelle della zia Ester. E la mia mamma è in quel bosco laggiù, e non è quella stupida matta. E io le ho detto: Guarda che non sono il piccino tuo, e sono andato via; ma l’ho vista che era come se mi avesse abbracciato lo stesso, e non c’era niente... O forse un’ombra? Adesso non vedo più le ombre, quindi non saprei... Ma era matta...

«O cieca».

«Eh! E chi sei tu? Sembri il mio maestro, ma sei più grosso, e hai la barba bionda e lui ce l’ha grigia».

«Mi chiamo Raffaele».

«Io Tobia. Dici che era cieca; ma se era cieca, come faceva a sapere che c’era qualcuno, cioè io?»

«Immaginava, forse».

«E tu, quando immagini, prendi in mano le cose immaginate? Cioè, per esempio, pensi ad un cavallo e allora ti pare di carezzarlo? E poi però non c’è e tu lo accarezzi lo stesso?»

«No, io no, ma lei forse sì».

«Che matta».

«Cieca».

«E va be’, ma che c’entra. È vero che era scuro ed allo scuro ci si sbaglia».

«Era scuro?»

«Mah. Per la verità avevo gli occhi chiusi. Vuoi dire che me la sono sognata, quella mamma falsa?»

«No, io non voglio dire niente. Però adesso non la vedi più, no?»

«No, e meno male».

«Di dove vieni?»

«Vado nel bosco laggiù, dalla mamma».

«E chi t’ha detto che è là?»

«Mah, non so. Però non è là la Cascata di Irene?»

«Come fai a saperlo?»

«Sento da qua il rumore».

«Che orecchie!»

«Non cominciare anche tu, signor Raffaele, a dire che ce l’ho da elefante!»

«No, per carità. E poi qui gli elefanti sono molto apprezzati».

«Preferisco comunque essere un bambino. Cioè: se fossi un elefante, preferirei essere un elefante; però sono un bambino. Uffa».

«Logico. Ma da dove vieni?»

«Vado dalla mamma nel bosco».

«Sì, me l’hai già detto dove vai; ma io t’ho chiesto da dove vieni».

«Come sarebbe a dire?»

«Il posto dov’eri prima di adesso».

«Con quella là matta e orba».

«E prima ancora?»

«Ah. Già, dov’ero? Tu lo sai dov’ero?»

«Tu no?»

«Aspetta. Sì che lo so. Stavo guardando Irene la fata. Lei non mi vedeva, ma io volevo chiederle una torta. Però lei è scappata verso quel bosco laggiù, e io allora le son venuto dietro. Va più forte lei, però; infatti non l’ho ancora raggiunta».

«Sei sicuro di trovarla?»

«Come no! È amica della mia mamma e di Ester».

«Allora va’».

«E sì che vado. Ciao, signor Raffaele».

 

 

CAPITOLO TERZO

Dove Tobia incontra San Giorgio che gli parla del Drago e di Ireneo

 

Che tipo buffo, pensò Tobia. E curioso. Forse anche lui cercava Irene. Così adesso sa dov’è. Basta che non si mangi la mia torta, almeno non tutta... Che bel sentiero questo, che piacere passarci, lungo lungo ma così fresco, l’erba è dolce, profumata... Ciao, signore! Perché non mi ha risposto ed è scappato?

«Aveva paura di te».

«Di me?! Lui, quello là grande e grosso, di me che ho sette anni e sono piccolo?»

«A parte il fatto che le dimensioni non sono così importanti e che per esempio i cobra sono piccoli però in genere gli uomini ne hanno paura, comunque tu non sei piccolo».

«Come no? Ho sette anni».

«Tu non hai sette anni. Ne hai cinquecentomila settecento dodici».

«Sei matto, più citrullo d’un cetriolo, completamente partito di cervello! Io ho sette anni. E poi tu chi sei?»

«Ho tanti nomi. Uno dei tanti è San Giorgio, ma ce n’erano molti altri, prima. E sono cinquecentomila settecento dodici anni che ammazzo il Drago».

«E che c’entro io con questo Drago? E come fa ad avere la mia età, se è la mia, cosa che non credo?»

«È che proprio tu sei il Drago».

«Io?! e perché? e poi mi vuoi ammazzare? Guarda che chiamo papà, perlomeno se lo trovo, perché chissà dov’è andato a finire...»

«È che tu volevi venire qua a tutti i costi; allora ti sei ricordato di essere il Drago e ti sei mangiato papà. Io però l’ho salvato e ti ho ammazzato. E tu adesso sei qua e lui anche. Però è nascosto».

«Come sarebbe, che m’hai ammazzato?»

«Ti spiego. Ogni anno viene qua un Drago, e si porta su qualcuno che s’è mangiato. Io però lo ammazzo e tiro fuori dalla sua pancia la vittima, che in tal modo finisce per guadagnarci, perché si riposa qui, in questo bel paese. E tu ti sei mangiato tuo papà perché cercavi Irene, e l’hai costretto a venire quassù con te. E hai proprio l’aspetto del Drago, altro che sette anni! Per questo l’altro è scappato appena t’ha visto. Però ci ha rimesso, perché lui il Drago non l’aveva neanche morso ma se lo mordeva era meglio, perché poi lo salvavano, lo curavano e gli davano torte finché gli pareva. Invece è scappato e chissà dove diavolo è andato a ficcarsi. Sbatteva persino gli occhi; e tu sai che chi sta davvero qui non vuole più chiuderli mai».

«Non può chiuderli».

«Vorresti chiuderli?»

«Be’, no».

«Vedi? Invece lui non era convinto, aveva troppa fifa e perciò era troppo prudente; mentre qua ci viene e ci sta un sacco di gente distratta come tuo padre, che al Drago ne ha fatte, quasi senz’accorgersene, di tutti i colori, finché quello li ha mangiati. E io allora l’ho ammazzato, come ho ammazzato te».

«E adesso mi ammazzi di nuovo? È un po’ complicato!»

«No, adesso non più. Prima, sì, t’ho ammazzato, per toglierti dalle grinfie papà e permettergli di andare dove voleva lui, invece che da Irene dove vuoi andare tu. Sono cinquecentomila settecento dodici anni che mi dai da fare».

«Ma io proprio non ricordo tutto questo tempo che sarebbe passato».

«Vedi, è che ogni anno qualcuno diventa il Drago e poi si fa ammazzare, e ammazzato che è entra qua. Allora, è chiaro, non è più esattamente il Drago, ma non è neppure quello di prima. Insomma, è uno che, se gli altri lo vedono com’è, gli piglia paura. E quelli che lui ammazza in realtà gli dovrebbero gratitudine, perché se no qua non verrebbero; ma non sempre lo capiscono al volo. E tu hai capito, adesso?»

«Quasi. Ma il Drago c’è o non c’è? E se c’è, chi è?»

«C’è chi mette la faccia dentro la Cascata di Irene e beve: quello allora diventa il Drago. Poi io l’ammazzo e lui smette di essere il Drago, e diventa lo sposo di Irene. Diventa Ireneo, il Signore della Pace.

«Ma allora chi sono io?»

«Tu eri Tobia, poi sei diventato il Drago, e adesso sei anche Ireneo».

«Che pasticcio!»

«Buono come la torta che volevi».

«E la torta, appunto, dov’è?»

«Devi andare più in là, se vuoi mangiarla».

«Allora vado. Ciao, signor San Giorgio».

 

 

CAPITOLO QUARTO

Dove compare Ermete Trismegisto

 

Non ci si capisce più niente, pensò. Adesso non so neanche più come mi chiamo. Drago però mi piace, ed anche Ireneo, che strano nome. E poi anche Tobia, che è il mio nome. Però lo sono anche gli altri. Una torta di nomi: così diceva pressappoco San Giorgio. E io sapevo delle torte di cioccolato, di nocciole, di prugne, e di tante altre; ma di torte di nomi è la prima volta che sento parlare.

«È che hai pensato troppo forte».

«Perché?»

«Hai fatto bene però. I pensieri troppo forti causano le cose, cioè le fanno, creano. E tu volevi assolutamente Irene. Allora la storia di prima s’è interrotta perché non serviva più a nessuno: era finita.

E pensa che ce ne sono che ti compiangono e dicono: Povero Tobia!»

«Io non sono povero! E poi mi chiamo Ireneo. Oppure anche Drago, e Tobia solo se mi va, e non Povero».

«Ma sì, ma sì. Ma dimmi, come hai fatto a venire qui?»

«Non so; se c’era una porta, forse ho girato la maniglia e s’è aperta. In questo sentiero, infatti, anche qui sono entrato per dove si entrava. Però non c’era né porta né maniglia».

«Troppo chiaro. Ma come hai fatto tu, a sette anni, ad essere un Drago?»

«Forse come hai fatto tu a non esserlo».

«Io non c’entro; io sono Ermete».

«Chi?»

«Ermete Trismegisto».

«Signor Trismegisto, tu sei un Drago?»

«Anche un Drago, sì».

«E cos’altro?»

«La tua anima».

«La mia anima?»

«La tua anima, sì, che ha cinquecentomila settecento dodici anni».

«E perché stai lì, allora, se io sono qui?»

«Perché devi ancora mangiare la torta della Fata Irene».

«E senti, se lo sai, dimmi adesso come mi chiamo, dato che non lo so; o dimmi almeno, se no, quale sarà il mio nome dopo».

«Tobia per quelli che ti sei portato dietro, cioè papà; Ireneo per il mondo che ha nostalgia di te; Drago verso te stesso. E un nome segreto, tre volte segreto, che tu solo saprai: questo sarà quello vero».

«Che semplicità!»

«Sembra complicato. Quando uno incomincia a conoscere, vedere ed assaggiare l’acqua della Cascata di Irene, tutto si complica; ma poi finisce per semplificarsi e ne viene una convinzione senza dubbi».

«Sarà. Ma tu, signor Trismegisto, che ci fai qui?»

«Esamino i viandanti».

«E poi gli dai il voto?»

«No, se lo danno da soli, e chi se ne dà uno brutto non mi vede neppure e vaga a lungo nel bosco, oppure scappa via, si perde. Gli altri mi vedono chi meglio chi peggio, chi in belle vesti chi in brutte. Tu come mi vedi?»

«Ti vedo come un bel signore vestito di bianco, con la barba lunga, un ramo di ulivo in una mano e un tralcio di vite nell’altra. I tuoi occhi sono luminosi, il tuo sguardo acuto. Forse non gli si cela nulla».

«Per questo forse il tuo cammino sarà abbreviato. Vai dunque, ché mi pare che neppure il Formatore del mondo potrebbe distoglierti; va’ da Irene».

«Perché t’importa tanto quel forse

«Chi ancora non ha visto Irene e vuol vederla, dovrebbe proprio dire sempre forse. Altrimenti, o l’ha già veduta o non la vedrà mai. Tu non puoi infatti sapere se qualcosa mi si celi o meno: chiarezza del tuo cuore è dire forse».

«Ma Irene l’ho vista già, di dietro e di profilo».

«Ma i suoi occhi non li hai visti, no?»

«Be’, no».

«Va’ dunque».

 

 

CAPITOLO QUINTO

Dove Tobia viene invitato al Palazzo d’Inverno

 

Ora chi incontrerò, si chiese. Era così stupefatto di tutti quegli incontri e quei nomi. Ma gli piaceva camminare in quel posto; stanchezza non ne avvertiva, e si sentiva in pace e libero.

«Vieni al Palazzo d’Inverno!»

«Inverno? Non ne voglio sapere; sto bene qui. E poi chi è che parla?»

«Io».

«E tu chi sei? E sei verde o sei bianco?»

«Qui sono verde, là sono bianco».

«E in altri posti sei di altri colori?»

«Certamente».

«Che faccia tosta».

«Non me ne avrò a male per questo. Ma vieni con me».

«E perché?»

«Perché il Re ti vuol vedere; e molti sono con lui».

«E che vogliono da me? C’è anche Irene?»

«No, Irene è nel bosco, ma ci andrai poi».

«Perché non subito?»

«Perché solo il Re può darti il vestito dello sposo Ireneo».

«E se ci vado senza?»

«L’illusione ti coprirà e tornerai nel regno delle ombre».

«Dove c’era quella là matta e orba?»

«Sì».

«Vengo con te; però poi vado da Irene. È bello il vestito? e com’è?»

«Stanno preparando la stoffa. Tu stesso indicherai come farlo».

«Io? Mai fatto niente di simile».

«Ma lo sai fare di certo».

«Se lo dici tu...»

 

 

CAPITOLO SESTO

Dove il suo Compagno conduce Tobia dall’Avo Antico, Re del mondo, nel Palazzo d’Inverno

 

Camminarono per un po’, e il suo Compagno cantava con voce forte e dolce, e tutte le cose attorno sembravano fatte di quel canto, e in quel canto muoversi e vibrare all’unisono; e forse anzi le cose erano esse stesse il canto, ed il ruolo del Compagno era di mostrarle e guidare nel loro essere. Impossibile dire se, di per sé, le cose esistessero o meno. Ovunque Tobia guardava, lì il Compagno cantava.

E finì per cantare anche Tobia. E quando iniziò a cantare, gli rispose un mondo senza pari. Il Compagno era sparito, perché il Compagno era la luce stessa dei suoi occhi. E sparito era il verde bosco, mentre erano apparsi i cristalli di luce che distruggono le menti create. E nell’infinito splendore del Palazzo d’Inverno i suoi occhi, che non potevano chiudersi, a malapena resistettero.

«Ecco perché quello là scappava! Non perché io fossi il Drago, ma per terrore di questa luce».

«Nessuno la vede che non possa reggerla. Ma in un certo senso, per quanto riguarda quell’altro, hai ragione: si fugge dalle copie per paura dell’originale. Una paura codarda e pigra. Ma da questa codardia e pigrizia Io ho tuttavia veduto trarre il mondo».

«Chi sei tu?»

«Io sono il Primo. E se lo credi, l’Ultimo. E senz’altro il Perenne, l’Avo Antico, il Signore e Re del mondo. E ho sete di giustizia. E la mia sete ha termine, termine che non è di questo mondo. Da sempre Io ho sete e da sempre la placo. E il tempo è la mia sete, e l’eternità è il nettare che la placa. E Io, ebbro da sempre, ordino il Canto e dirigo i Cantori. Tu hai cantato, sei venuto al Palazzo d’Inverno dove giacciono i semi di tutte le imprese e di tutti gli esseri, e qui Io ti concederò ciò che cerchi, poiché nessuno, se ne è indegno, può entrare. Non aver timore».

«Perché, le cose grandi si temono?»

«Le temono i meschini. Ed infatti, proprio coi meschini Io alimento la mia sete, ed essi sentono questa sete, e ne soffrono. Ma non può essere altrimenti. Loro Avo, il Nonno di loro, se vuoi, Io sono, come pure il tuo, e duro da sempre. Di me, Uno ha sete e Lo Stesso beve. C’è l’Uno e l’Altro, e son Lo Stesso; ed i meschini, che non hanno affinità con il nettare, perciò hanno sete, ed avranno ancora sete. Sono la mia sete».

«Ma che ci possono fare, se sono così come sono?»

«Io Solo sono così come sono, in Me Stesso e non certo nel modo in cui mi vedi tu; ma gli altri, nella misura in cui consistono, possono tanto aver sete quanto bere».

«E chi beve, è meglio?»

«È meglio chi beve quando ha sete; dopo, ma molto più in là, viene l’ebbro; e per ultimo chi rifiuta il vino. Parlo del mio vino».

«Ma sempre chi ha sete trova da bere?»

«Tu che dici?»

«Io, sempre ho trovato da bere, o qualcuno me n’ha dato, prima o poi. Gli altri però non so».

«Gli altri, gli altri! Migliaia e migliaia di altri sono la tua anima! E solo prima di costoro ve ne fu uno che avesse davvero un’anima come l’hai tu ora! Cinquecentomila settecento dodici anni dall’ultimo tuo Avo, la cui lingua giammai udisti, seppur la celi nel cuore.

Meschina idea ha dell’anima chi l’affiderebbe così semplicemente ad un imbecille o ad un aborto! La stessa tua anima, da sola, per millenni e millenni, fu generata da innumerevoli antenati. Questo è il Palazzo degli Dei, infatti, e qui vige il tempo degli Dei; e questa sorta di tempo sminuzza gli uomini in minuta polvere. Non però l’anima. Le anime, Numeri Divini, molto più a lungo si pascono di corpi e di esperienze, e di mondi, e di tutto ciò che è sopra e sotto questo Palazzo; e questo si chiama: Gli Dei che nascono.

E proprio come un uomo in una biblioteca legge antichi e nuovi volumi, così le anime apprendono dalle innumerevoli esistenze degli esseri la nota di canto che loro si confà. In tal modo, senza fine, il mio Canto si compie. Felice colui che è un libro sacro, la cui nota entra nel canto; colui che è l’ultimo libro, e il Drago che infine brucia l’anima nel fuoco del desiderio. Di questi potrà veramente esser detto che possiede un’anima. Ma sia chiaro che ciò che egli ottiene è in gran parte eredità di altri: in lui, innumerevoli canovacci vengono condensati in un unico breve, perfetto poema; e il suo principale merito è avere ascoltato ciò che si compiva, ed averlo così non rimandato ma compiuto. Non tutti potrebbero farlo perché, se potessero, non tutti lo farebbero.

E dicono sulla terra che alcuni potettero e non compirono; ma in realtà di ciò Io rido, poiché questi ribelli, ribelli secondo loro, se non videro, certo, nessuno che fosse da loro servito, pur tuttavia, pieni di oblio, di Me immemori, essi compirono Me! Dall’inizio alla fine essi mi compiono; illuminano la mia anima. E questi spiriti, di cui gli uomini hanno paura, non sono che il fuoco della mia sete. Ed altri spiriti, che gli uomini venerano, sono il nettare di cui Io mi disseto. E Io in tal modo sono Me Stesso. E, nel centro di Me Stesso, scaglio le anime verso l’Inconoscibile».

«Com’è che io, a sette anni, comprendo tutto ciò?»

«Non vedi che sei cresciuto?»

«Già, dev’essere».

«Gli istanti, qui, non sono quelli a cui eri abituato; cresci con ritmo insolito, molto insolito».

«Vedo bene, ché in poche ore sono cresciuto in altezza e in anni».

«Sei però rimasto un bambino, e questo ti giova. Credi alle fate, e questo pure giova».

«Ma in verità codeste fate, a cui ho sempre creduto, chi sono esattamente?»

«Il destino della tua anima, questo è la tua fata; e se vedi altre anime, vedrai altre fate. Sogni altrove, ma note di canto qui. Irene è l’accordo di Ireneo oppure, se vuoi, l’anima tua gemella. È come tu la cerchi, perché è lo specchio fatato, lo specchio in cui trovi il tuo essere, non la tua sola figura. È molteplice finché sei molteplice, ma quando, solo e libero, sorgi dall’errore, ti si fa incontro, e non c’è dubbio che è come unicamente dev’essere».

«Lasciami dunque andare da Irene».

«Molti anni ti ha atteso; le sue lacrime hanno fecondato molti luoghi. Ma, prima di ripartire in cerca di lei, dimmi: qual è il segno che qui ti ha condotto».

«Tu non lo sai?»

«No».

«Forse è successo che gli Dei stessi pensavano di essere vecchi, e allora io ho voluto mostrare che Dio è un fanciullo. Cercava la torta della fata Irene, e ha spezzato per questo la storia del mio corpo. Da allora sono Ireneo, e lui è il Drago che s’è fatto uccidere per il suo gioco; ma è pure Tobia, perché è Tobia in primo luogo che voleva la torta; e Tobia sono pure io. Sicché nel gioco io stesso sono Dio».

«È vero, ma devi ancora giocare. Per ora sei Ireneo».

«Mandami da Irene, allora».

«Il tuo vestito: ti serve quello, prima, il vestito da sposo. E di che lo intesseremo? Con quali esperienze ti presenterai, tu ed i tuoi sette anni di vita?»

«Più di mezzo milione, prego. E poi c’è il racconto di mio padre, un poema compiuto che Irene dovrebbe gradire. E nessun merito, certo, tranne il desiderio che attrasse il Dio».

«Eros dunque intesserà la veste, anzi sarà la veste egli stesso; e travestirsi così non gli spiacerà, visto che il tuo gioco è proprio uguale al suo. E una volta che egli si sia intessuto col tuo racconto, Irene certo non rifiuterà di vederti».

«Il racconto però l’inventò mio padre».

«Anch’egli ha la sua Irene».

«E non gli spiace d’esser morto per colpa mia?»

«Morto, e per colpa tua? Perché il fardello del corpo che muore è levato? Che assurdità! La sua vicenda è ordinata con la tua; non per niente è tuo padre e ti ha raccontato la storia».

«È strano che dopo averla raccontata non abbia più avuto la possibilità di dir nulla».

«Aveva concluso la sua parte come meglio non poteva. Il desiderio che ti aveva ispirato era violento».

«Potente è il racconto!»

«E raccontando si arriva fino in cielo o, nel caso tuo, da Irene. E il destino ti segue, perché tu stesso sei il tuo proprio destino, se appena conosci un vero racconto da raccontare nella notte alla luce delle stelle: magico è tale racconto. E Io Stesso, in tal modo, mi diletto di affascinare il mondo nella mia magia».

«E c’è qualcosa, oltre?»

«Prima c’è Irene, di cui occuparti; ma ti serve il vestito. Torna dunque verso il bosco: Eros sarà là ad attenderti, quando ci arriverai. E sia sempre la tua anima quella del bambino Tobia, perché quella è la tua forma di sposo».

«Tobia, Drago, Ireneo...»

«Te stesso soltanto. Ireneo per via di Irene, Drago per quel che t’ha condotto, Tobia per ciò che è stato. Tutti i nomi e nessuno. Ermete, Eros... tutti i nomi e nessuno».

 

 

CAPITOLO SETTIMO

Dove compare Baldassarre Mago

 

Com’ero grande, là nel Palazzo, altro che sette anni! Che sia vero che ne ho più di mezzo milione? Però proprio non me ne ricordo. E com’ero grosso! Come papà, o quasi. Ma adesso sono di nuovo piccolo, e mi piaccio così. Non è tanto bello essere grandi: quei discorsi complicati per parlare poi in conclusione solo di Irene e delle sue torte! E quel signore tutto luce era un po’ terribile... Non che ne avessi paura, anzi, era meraviglioso! Ma tanto strano. E io stesso, ragionavo in un modo così poco normale... Lui diceva che era mio nonno – quanti che pretendono di essere miei parenti ci sono da queste parti! – e io non avevo niente in contrario. E sì che mio nonno è diverso, e fuma la pipa... E diceva di aver sete e bere: questo è ovvio, mica c’è da esser nonni per capirlo. E non ho ben compreso se preferiva mangiare uomini oppure bere nettare. Me, comunque, non mi ha mangiato, perciò era buono! Da tutto quel che diceva della sofferenza, però, quasi quasi penso che sia lui che ha preso a schiaffi Irene, che poi è diventata fiume e cascata per quello, e però fa le torte. E se fa le torte come la zia Ester non è poi un gran male, schiaffo più schiaffo meno. Ma tutte quelle cose sul Drago e sul mio vestito... E poi che memoria che mi è venuta, quelle cose strane me le ricordo tutte, proprio tutte, non come a scuola, dove volevano che tenessi a mente tante storie che però proprio non ricordo.

«T’insegnavano le storie delle stelle?»

«No, se no me ne sarei ricordato».

«Allora hai fatto bene a scordare. Chi non insegna storie sulle stelle, non vale la pena sentirlo; è proprio inutile che parli».

«Ma tu chi sei? Sembri uno proprio sulle nuvole».

«Sono Baldassarre il Mago. E sono sulle nuvole. Qualcuno dice di me che facevo l’astronomo, poi un giorno non ho più voluto usare il telescopio e le tabelle e son venuto qua. M’ero proprio stufato di vedere le stelle così da lontano».

«E adesso che fai?»

«Curo le stelle, appunto; le coccolo, le semino e le concimo e poi anche le trapianto dove servono».

«Che bel lavoro. E fai solo quello?»

«Come sarebbe, solo quello

«Cioè, per esempio, non mangi mai lamponi?»

«Be’, c’è la Stella del Lampone, sì, ma proprio non me la sono mai mangiata. Non ci ho mai pensato».

«Pensaci, allora. È buona».

«Ma adesso l’ho trapiantata in un avvocato».

«Come sarebbe a dire?»

«C’era questo avvocato un po’ scemo ed io allora gli ho messo dentro il cuore la Stella del Lampone, e adesso ha smesso di fare l’avvocato e mangia solo lamponi».

«Che fortunato. E poi che farà?»

«Suppongo che farà indigestione».

«E poi?»

«O muore e viene quassù oppure torna a fare l’avvocato. È un tipo testardo».

«Che strano. Comunque, se ti rende la stella, fammela vedere, se puoi. Mi piacciono i lamponi, proprio».

«Per adesso però ti do un’altra stella, questa».

«Com’è luminosa!»

«È la Stella del Palazzo d’Inverno. Quando vuoi essere grande, pensaci. E quando vuoi essere piccolo, pensaci anche. E tutto quello che vuoi essere, insomma, pensaci».

«E così lo divento?»

«Sì, lo diventi».

«E se volessi essere Baldassarre Mago?»

«Saresti Baldassarre Mago, però solo per un poco, perché c’è Irene che ti aspetta».

«E tu come faresti?»

«Come faccio adesso. Saremmo due che però sarebbero uno. È facile. Perlomeno, qui è facile».

«E non te ne avresti a male?»

«Proprio per niente».

«Meno male, perché è proprio bello piantare stelle. E la Stella del Palazzo d’Inverno dove la metto adesso?»

«Qui sul cuore, ecco».

«Non c’è più! O meglio, in qualche modo c’è ancora, è dentro. Com’è che metti stelle dentro il cuore della gente?»

«Dentro il cuore? Non è proprio così. Io le pianto nel cielo, tra le nuvole. Sei tu piuttosto che hai messo il tuo cuore in cielo».

«E come ho fatto?»

«Hai bevuto dalla Cascata di Irene».

«E l’avvocato dei lamponi anche lui ci ha bevuto?»

«Un paio di sorsi, sì».

«Mi sembra d’aver dentro tante cose e una sola».

«È tutta la canzone del mondo, con tutte le sue note».

«Qui dentro?»

«Sì, è il suono della Cascata. E anche il Libro Magico che io consulto».

«Hai un libro magico?!»

«Sì, certo, o che Mago sarei?»

«E dove ce l’hai?»

«Qui in testa».

«Ah, non è un vero libro».

«Come sarebbe, non è un vero libro? Gli altri non sono veri libri. Questo è il Libro, quello proprio vero. Io lo sfoglio e lo risfoglio e ci trovo tutto quello che mi serve».

«Ti sfogli il cervello?»

«In un certo senso è il cervello che sfoglia me. Ed io, Baldassarre Mago, mi faccio sfogliare con magnanimità. Mica son pauroso di perderci la reputazione. All’inizio quassù cercavano di esaurirmi, di leggermi da cima a fondo. E m’han messo apposta uno nel cervello perché legga tutto quel che c’è scritto. Però lui legge e io invento, e così non si finisce mai. Sono inesauribile. Allora mi han messo qui. Da principio sembravo buffo, non avevano mai visto niente di simile. Poi, però, siccome non han potuto farsi un’opinione, mi hanno lasciato in pace».

«E com’è che sai tante cose?»

«Perché non ho mai desiderato di saperne poche. Io ho molta pazienza».

«E gli altri no?»

«Gli altri fanno altre cose, e io mi occupo delle stelle».

«E tutte le metti dentro la gente?»

«Finché c’è gente disposta. Ma le stelle sono molte di più. Alcune è proprio molto tempo che non le uso. La tua, per esempio, era più di mezzo milione d’anni che stava lì».

«E che faceva lì?»

«S’illuminava sempre di più. Perché all’inizio era solo un’ombra, ma poi è cresciuta in luce e forma. Adesso era pronta, proprio come dev’essere una stella».

«Ma come faceva ad essere un’ombra?»

«È che prima ce n’era un’altra, di Stella del Palazzo d’Inverno. Poi qualcuno l’ha presa, e ha lasciato in cambio il suo pensiero e il suo desiderio passati. E questa traccia abbandonata nel mio giardino è il seme da cui è cresciuta la stella tua».

«E io anche lascerò un seme?»

«L’hai già lasciato. Naturalmente è difficile vederlo subito. È molto piccolo, ha solo sette anni. Per un seme di stella è molto poco».

«Sai, è proprio interessante questa storia».

«Sì, ma adesso va’ da Irene».

«Già, hai ragione. Ciao, Baldassarre».

 

 

CAPITOLO OTTAVO

Dove Tobia incontra un amico antipatico e poi di nuovo Raffaele

 

Non ho mica capito del tutto, io, quando è che ho piantato la stella nuova. E se ne andrà avanti per un altro mezzo milione d’anni? E poi sarà luminosa come questa qui che mi ha messo dentro? A proposito, dal momento che posso farlo, potrei provare ad essere qualcosa. Ma che cosa?

«Per esempio Tobia».

«Come sarebbe?»

«Potrebbe essere tutto come se non fosse stato. Allora tu arriveresti a casa dalla mamma e papà leggerebbe il giornale e la zia Ester ti preparerebbe la sua torta».

«E non sarei qui ma là?»

«Già. E non correresti tutti questi pericoli: mamma e papà ti proteggerebbero».

«Ma io non ho corso proprio nessun pericolo».

«Lo dici tu. Era tutta gente molto pericolosa quella che hai incontrato. E ne incontrerai di peggio ancora».

«Mi sembra che tu sia troppo pauroso. E poi chi sei?»

«Un tuo amico».

«Mah, io non ti ho mai visto».

«Eppure è proprio perché ti sono amico che sono così triste e preoccupato per te».

«E allora mi sei anche antipatico, e Irene non ti vorrebbe vedere, perciò non venire con me».

«Tuttavia, se vuoi, puoi tornare dalla mamma. Starà in pensiero, a non vederti».

«La mia mamma è nel bosco».

«Chi ti ha detto una cosa simile?»

«Non c’era bisogno che me la dicessero, la so».

«Eppure è a casa, che aspetta che tu e papà torniate con la macchina. Dovresti andarci».

«E poi posso tornare qui?»

«Be’, no: o qui o là. Ma là è più bello e si rischia meno».

«Non sono d’accordo. E poi la mamma è nel bosco e non dove dici tu. Io credo che vuoi rubarmi la mia stella. Va’ via, o mi tramuto in un grossissimo spaventoso Drago!»

 

* * *

 

«Hai fatto bene a trattarlo così. In questo modo è andato via. In realtà non gli va giù che qualcuno veda Irene. È che Irene lui non lo vuol vedere, come hai giustamente detto tu, ed allora lui vorrebbe che non vedesse neppure altri».

«Sì, però mi ha detto che la mamma non è nel bosco».

«C’è, c’è. È più lì di quel che non sia altrove».

«Ah, bene. Ma allora quello mentiva?»

«Non proprio. È che uno è in più di un posto, in genere. I pazzi sono l’esempio più chiaro: hanno il corpo da una parte e il cervello da un’altra».

«Ma la mamma non è mica pazza».

«No, no. Però il cuore suo è più nel bosco che non dove ti ha detto quell’antipatico».

«Da Baldassarre c’è stata?»

«Tu ci sei stato. E questo basta anche a lei. Tu devi incontrare Irene, e questo solo è veramente importante».

«Mi par proprio di sì. Ma tu chi sei?»

«Un tuo amico».

«Anche l’altro ha detto così; che amici contraddittori».

«Credi a chi vuoi. Ma penso che crederai a me».

«Certo, sei così bello. L’altro era quasi un’ombra».

«Col tempo ha perduto smalto».

«Prima era più bello?»

«Una volta era molto bello. Poi ha tentato di rubare le stelle di Baldassarre Mago, ma quello gli ha raccontato una storia, una lunga storia, che dura ancora adesso, sicché l’ha completamente invischiato e confuso e non sa neanche lui dove andrà a finire. Infatti non sa la fine della storia».

«E Baldassarre Mago la conosce?»

«Nessuno è in grado di dirlo. Forse l’Avo del Palazzo. Ma forse anche l’Avo del Palazzo è una storia di Baldassarre Mago. Lui è molto vecchio; nessuno ha mai capito niente della sua età. Forse tutto quello che hai visto l’ha fatto lui, e forse ha fatto anche se stesso. Non si può dire. Nessuno come lui conosce le stelle».

«E le stelle lo conoscono?»

«Le stelle? Le stelle cantano, forse anche lo conoscono. Ma lui solo lo sa, se lo conoscono o meno».

«Che pasticcio».

«Ma buono come la torta della fata Irene. Pilucchi di qua, pilucchi di là, e alla fine ti accorgi di aver vissuto. Mica a tutti gli capita».

«Senti, a proposito, la sai la strada per il bosco di Irene? Continuo ad incontrare tanta gente tranne lei».

«È questa la strada, proprio questa. E se incontri qualcuno, è che devi assolutamente incontrarlo. Non preoccuparti: chi ha una stella che lo guida, non si perde. Al massimo, lì per lì non capisce qualcosa, ma alla fine si capisce. È assolutamente ovvio che si capisce».

«Se lo dici tu. Be’, ciao. Ah! A ben pensarci, sai che somigli a Raffaele?»

«Sono Raffaele».

«Ma non hai più la barba, e sei molto più bello».

«La barba mi serve per nascondere i segreti. Splendo di più e son senza perché tu ci vedi meglio».

«E poi migliori ancora?»

«Forse».

«Allora spero di rivederti».

«Va’, adesso».

«Ciao, Raffaele».

 

 

CAPITOLO NONO

Dove Tobia incontra l’Uomo dei Cespugli

 

Guarda come cambia la gente: prima hanno la barba e poi se la tagliano. Comunque, se la prossima volta è ancora più bello, sarà veramente meraviglioso. Chissà poi se anche lui può essere grande o piccolo secondo che gli vada a genio... e quel Baldassarre... e quell’altro che si diceva mio amico ed ha avuto paura ed è scappato... Forse però è andato via a motivo di Raffaele. Ma chi c’è lì? Chi è che lascia i suoi piedi in mezzo al sentiero?

«L’Uomo dei Cespugli mentre dorme al sole».

«È per quello che hai i piedi verdi! E come sono luccicanti! Hai tanto caldo, che sudi così?»

«Ignorante che sei! Io vado in giro a spargere acqua sui cespugli bassi. A questo fine dormo sotto il sole, così mentre dormo sudo tanta acqua di prima qualità e annaffio i cespugli».

«Ed annaffi solo le piante basse?»

«Per quelle alte c’è un altro, ma tu non riesci a vederlo: sei troppo piccolo».

«Piccolo io? Ma se sono un Drago!»

«Poche storie. Se ti taglio per il mezzo, son sicuro che il tuo tronco non ha più di sette anelli; lo sento all’odore».

«Io non ho un tronco! io ho un corpo! O almeno così son sempre stato abituato a considerare la cosa».

«Corpo o tronco è lo stesso dal mio punto di vista. Tutte copie più o meno mal fatte del Grande Albero».

«E cos’è il Grande Albero?»

«È un albero grosso».

«E cosa c’è di speciale in questo?»

«È il Più Grosso».

«Più grosso quanto?»

«Più grosso così».

«Così come? Non hai neanche allargato le braccia...»

«È inutile, tanto sarebbe sempre molto più grosso».

«Io ci starei dentro?»

«E perché credi che dovrebbe volere te dentro di sé?»

«Per esempio io dentro ho una stella».

«Quello è diverso».

«E questo Più Grosso è anche il più vecchio?»

«Certamente».

«E non muore mai?»

«Scemo che sei! Qui nessuno muore, tanto meno gli alberi».

«Però crescono...»

«Perché no? Crescono finché gli va di crescere. E se non gli va, non crescono».

«E quello gli andava, di crescere, vero?»

«Gli andava sì, e poi era il Primo. E lui è diventato così grosso che gli altri non pensano nemmeno di poterlo raggiungere, e così non ci provano, e così per fortuna qui c’è ancora spazio».

«E com’è grosso il più grosso cespuglio?»

«Suppongo come un cespuglio grosso».

«E lo puoi riconoscere?»

«E perché mai? L’Albero Più Grosso è una cosa, ma non sono mica qui per stilare graduatorie tra i cespugli».

«Il posto da dove vengo io è pieno di graduatorie».

«Si vede che è un Posto Scemo».

«È la Terra».

«Anche qui è la Terra, e non è piena di graduatorie!»

«Ma non ci sono mica due Terre!»

«A parte il fatto che non puoi essere sicuro tu, a sette anni, che non ci siano due Terre, tuttavia effettivamente non ci sono due Terre. Questa è la Terra; la tua non è la Terra, è un Posto Scemo».

«Eppure mi ricordo quanto spesso papà, mamma, zia Ester, il maestro mi dicevano che dovevo stare, come loro, con i piedi per terra».

«Questo è decisivo: così infatti dite voi esseri umani quando sognate».

«Tu non sogni? E non sei un essere umano?»

«Mi diresti un essere umano?»

«Forse».

«Già, forse. Forse sono un essere umano, però d’una specie particolare. Quanto ai sogni, io sogno, sì: sogno che bagno i cespugli, e infatti li bagno. Voi umani comuni invece siete capaci di sognare, tanto per dire, una violetta o una fragola, ma al risveglio trovare un melone o un tassobarbasso. Che confusione».

«È che non sappiamo cosa cercare e cosa sognare. È facile per te che dormi lì coi piedi per il sentiero. Ma io vado a scuola, mi lavo i denti e devo fare tante, tante altre cose».

«Dovevi, mi pare».

«Adesso non devo più? Oh che bello! Però poi divento sporco e ignorante».

«Qui nessuno è sporco e ignorante».

«Nessuno proprio?»

«Nessuno».

«Che bello. Ma da che parte si va per la Cascata di Irene?»

«Ehm. È lei che mi dà la mia acqua. Si va per di là. Salutala da parte mia, se la trovi».

«D’accordo. Ciao».

 

 

CAPITOLO DECIMO

Dove ha luogo il sogno di Irene

 

Insomma, uno cammina cammina e continua a trovare solo cose che non sono quella che cerca, ma quella che cerca non la trova. Non potrebbe succedere il contrario? È pur vero che qui è così bello, voli e voli d’uccelli si susseguono in continuazione, e ovunque guardo si stendono macchie di fiori variopinti e filari d’alberi dalle dolci ombre. Però non c’è Irene.

«Mettiti giù, dormi e sognala».

«Tu chi sei? Non ti vedo. E come posso dormire, se non posso chiudere gli occhi?»

«Qui si sogna ad occhi aperti. Mettiti giù e dormi il tuo sogno».

«Ma chi è che parla?»

«Una Voce che ti dice di ascoltarla».

«E va bene, tanto non ci perdo nulla».

«Dormi dunque, e sogna il tuo sogno, affiorante dalle aurore di migliaia d’anni, sogna il tuo lungo sogno nel tempo degli Dei.

Dalla Cascata or viene
entro il tuo sogno Irene».

«È dolce la Voce, e persuaderebbe ognuno, se pur non avesse sonno. E somiglia a quella di Baldassarre Mago, o di Ermete».

«Comune è questa Voce ai Signori della Notte. Ascoltala».

Notte profonda, notte profondissima:
il tempo scioglie la vita tristissima.

Un dì eri chino sull’acqua di un ruscello:
vedesti un volto, la visione fuggì.

Per lungo tempo ti nutristi di quello,
finché la tua paura di vivere morì.

Se muore la paura, gli Dei certo t’ascoltano:
Irene di te è sicura, i suoi occhi ti guardano.

 

* * *

 

«È più bello, Inanna, di quel che m’hai detto».

«Non potevo dirti quanto per te era bello».

«Sogna?»

«Sogna di te».

«Come è venuto qui?»

«Con un raggiro pari al tuo».

«Non sarà forse il mio raggiro?»

«Può essere. Ha avuto nostalgia, una inarrestabile nostalgia, una nostalgia di molte vite».

«Venire al mondo solo per fuggire è il destino di alcuni. In essi celate eredità si compiono; nascono arcani congiungimenti; e viene stracciata ogni volta la tela dell’errore. La loro esistenza non ha fama di uomini eppure, di quelli che restano, misero è, al cospetto di codesti evasi, lo spirito».

«Infatti, coloro che tal sete di fuga non hanno, nella loro ignoranza credono e proclamano cose assurde, soffrendo a causa di inezie o quando, addirittura, dovrebbero gioire, come in occasione del dipartirsi dei fuggitivi. Poiché un Dio che nasce trascina quassù tutti coloro che incontra nel suo viaggio, e allora succedono cose vaghe e strane ed ancora una volta, perlopiù, gli uomini si lamentano a sproposito».

«Sulle rose del mondo molte volte si son feriti. Il dolore li ha oscurati, la paura li ha consunti, l’incomprensione li ha confusi. Ma non così Ireneo. O Ireneo, bello e dolce Ireneo, dormi, e sogna, come un tempo Endimione, accarezzato dalle labbra di miele di Selene!

O dolce amico, ascolta le mie parole:
dall’inizio del tempo ti attendevo,
e attendevi tu me, ma lo scordasti:
un gorgo acuto divise il nostro mare.

Mi celasti la Luna, ti celai il Sole:
di dolore e d’amore, obliata, fremevo!
Nel tuo lungo cammino infine mi trovasti,
e il tuo caro sembiante a me incredula appare!

Dormi, Ireneo. In seguito mangerai le mie torte».

«Si sta svegliando».

«Andiamocene dunque, sorella Inanna. Sortiamo dalla sua visione».

 

 

CAPITOLO UNDICESIMO

Dove appaiono Archeos e il Medico tradito

 

Bello era il sogno, e molto strano. E io mi sento mezzo bambino e mezz’uomo, e forse ancora qualcos’altro. È la mia stella, che è stata toccata? Può darsi; nuove lucentezze infatti mi rivela, e ora intuisco come sia che molti passano così gran parte del loro tempo abbracciati. E pure mi pare che generalmente errino, sviando dal cammino vero. Ma Irene dov’è? Un’esile realtà già perduta? Le torte non m’importano più tanto, mi accorgo, ora mi importa lei. Non ricordo bene il suo volto, ma la mia nostalgia di esso è nata e cresciuta a dismisura, e le cose per me vivono ora in un tempo nuovo. E la voce di chi era? Ma non è questo il problema. Ho la sensazione di dover fare qualcosa – non so cosa – per raggiungere Irene; e che per questa cosa il bambino ora dorma. Quanti esseri dunque in me giacciono, se ora si presenta questo, ora quell’altro? Chi mi vedesse agire o parlare, o vivere, mi prenderebbe per pazzo e mi volterebbe, disgustato, le spalle. Eppure so che commetterebbe un imperdonabile errore poiché, ben lungi dall’essere matto, sono invece degno di ricevere onori.

«Vero, ne sei degno. E degno di te è riconoscerlo. Se infatti non lo riconoscessi, dimentico di te stesso, dormiresti ancora a lungo».

«Chi sei?»

«Sono un Uomo Antico. Non vedi il mio corpo possente e nudo, i lunghi capelli e la cinta di verdi smeraldi? Non vedi la forza dei miei lombi e il fuoco dei miei occhi? Non senti il tuono della mia voce? La roccia del mio cuore cela una spada di possente lama, e io fui libero, tra i primi del mondo ad esserlo. Il mio nome è Archeos, o perlomeno questo è un nome adatto».

«Molto strano il tuo abbigliamento; e mi sorprende il contrasto tra la tua nudità completa e l’impareggiabile splendore dei tuoi gioielli, tutti verdi smeraldi congiunti in legami d’argento con arte meravigliosa».

«Questo è il modo antico di considerare l’uomo. Allora egli viveva specchiandosi nel mondo come nella sua stessa anima, e nulla gli era celato, la sua nobiltà era indiscussa, somma la sua sapienza; e la bellezza del suo corpo era una gloria per gli esseri, sicché veniva accostata solo alle cose più belle. E tale accostamento veniva attuato con splendida arte. Poi decaddero gli esseri umani, e vagarono nei paesi della morte, e i loro corpi si sformarono per il crogiuolo crepitante degli spiriti. Obesi, ciechi, storpi in più di un senso invasero la Terra, e io, pieno di disgusto, con molti altri, me ne andai. Venni qui per sentieri che poi furono sconvolti, e giammai morii, ché giammai divenni mortale».

«E che fai ora? Quale ruolo ti sei assunto in queste strane regioni?»

«Io reggo il mondo con la forza del ricordo. Ricordo com’era un tempo, e la mia memoria è una tela possente che contrasta la storia. Le mie mani scuotono nel presente i semi maestosi del passato; la spada lucente del mio cuore infligge ferite di libertà a coloro che si scuotono. Sicché, in verità, io sono colui che distrugge il destino».

«Cosa intendi? e perché? Non è forse un intento vano, opporsi alla storia? O forse è, il tuo, un sogno?»

«Puoi dirlo, certamente, un sogno. Ma quale sarà la realtà nel paese dove i sogni si compiono? Gli esseri umani credono ora a molte cose che non hanno fondamento, e con ciò costruiscono cose periture; ma il sogno degli esseri antichi ha segnato per sempre i caratteri del cosmo. Gettarono le grandi acque sulla Terra, e grandi immagini nella mente più riposta degli esseri. Le une e le altre ancora sussistono, e la loro linfa sorregge a vita le deturpate province della bellezza.

In un’epoca precisa del loro inganno, gli uomini appresero la sottomissione al destino. Questa fu una grande rete che penetrò nei meandri più occulti degli spiriti. La splendida libertà non fu più creduta, e tale errore fu perpetuato. E quella che una volta era l’arte di imprimere con gli ausilii degli astri la propria volontà nella vita, divenne bieca servitù ai segni morti di un’arte perduta. Molti neppure più sentirono il bisogno di opporsi, ma soggiacquero alle opinioni grottesche e vuote che li incatenano ancora oggi nei regni delle ombre. Perché nessuno, che non fosse almeno un poco libero in vita, poté acquisire libertà in seguito. Il sacro rito che libera infatti necessita del corpo, questo corpo che, ricco di meriti, onoro da sempre con gemme impareggiabili».

«Per quanto la mia vita sia stata assai breve, ho sentito qualche volta parlare di astrologia, perché è di questo che tu parli, mi pare. Chi ne rideva, chi ne faceva conto».

«Questa è solo un’infima appendice del problema. Che alcuno si valga di povere suppellettili dell’immaginazione può fin essere utile. Ma il problema sorse molto prima, molto tempo addietro, quando si cessò di creare e si preferì immaginare. Venne il sonno nel mondo e allora gli esseri soggiacquero alla notte e alle fiere e al vento tempestoso, e agli uragani del mare e al fuoco. Il loro corpo sacro si svilì, essi fuggirono dalla Terra che è in mezzo al mondo e non la conobbero più. Qualcuno vi rimase ancora per secoli, poi venne qui, perché là non andava più nessuno. E nessuno, infatti, ora sa nulla di ciò. Tuttavia, le incorruttibili voci degli Esseri Antichi ancora combattono, nelle radici degli alberi degli uomini, una spaventosa battaglia contro la storia, contro il tempo, contro la morte e il disfarsi degli esseri muti. Le nostre voci, voci di fuoco e d’acqua, tessono racconti di epoche perdute, intralciando senza fine le generazioni dell’ombra. Purissime voci cantano purissime canzoni antiche e alcuni, sia pure pochi, sentono tali canzoni e le approvano, e finché qualcuno le approva, noi cantiamo e il cosmo perdura».

«E come fu che ebbe inizio la decadenza?»

«Di minuzia in minuzia, finché mancò memoria delle verità primordiali. Allora alcuni vollero fare più che non potessero, e confusero se stessi e altri, e di errore in errore venne al mondo la morte. Un debole racconto fu così inaugurato, e si susseguirono pessimi narratori. E sempre accadde che chi tornava all’antico non veniva compreso, mentre inetti bastardi del caos pretendevano poi la sua eredità. Così crebbero molte vergogne nel cosmo, quando gli esseri umani abdicarono alla propria regale libertà. E a tal proposito ascolta quel che dice ora questi, che viene apposta in tua presenza».

«Sei bianco in volto, e iroso è lo sguardo che posi su Ireneo, su questo Tobia cresciuto da poco e forse non per sempre. Nel cercare Irene odo di molte cose che suonano dure e vere, e in fondo belle come i fiori e il sole rilucente; ma difficile è fermarle nel pensiero, ancora inetto per la vita che fu condotta. Non essere troppo severo con me, tu bianco uomo adirato».

«Non è a te che va quest’ira, anzi, a te va il mio augurio. Né troppo devi credere a quel che vedi. Qui non ci sono esseri semplici, che sentano i sentimenti che ti manifestano e basta. Sono e non sono. Il loro ruolo e il loro essere, pur uniti, son divisi. La nostra pace è intatta, seppure è forte l’ira. Vedici dalla sponda dell’eterno, se vuoi conoscere la nostra natura. Volto e angelo io sono di Uno che venne al mondo per guarire, e guarì molti ed ebbe buoni medici al suo seguito. Poi, però, maledetti stolti corruppero la verità e nel nome suo pronunciarono menzogne. Il racconto mio fu ciò nonostante tessuto, ma i mentitori dovranno rispondere dei loro inganni volgari. Molti a me simili, similmente ti direbbero; e se ascolti l’Uomo Antico, cose analoghe ti dirà. Possente è la sua volontà. Archeos l’Antico generò i padri di Melchissedec. Io stesso fui della sua stirpe, e la mia stirpe perdura celata e non è quella che vien creduta. Trattieni queste parole, che sono chiamate, per sempre, Chiave d’esatta giustizia».

«Che pensate, o Antichi, del Drago e del mezzo milione d’anni?»

«Questo è il soggetto per un canto. Seguici nel suo complesso enigma».

 

Scendemmo negli abissi del dolore
e fu spezzata la complessa terra.
Ed iniziò una guerra.

Batteva dentro il petto l’uragano
e trascinava noi dentro il passato
con ritmo disperato.

Quale perduto ardore che ritorna,
avemmo noi la vita e parentela
del Drago che si svela.

Corre tal Bestia nel mezzo del tempo
e si nutre di stelle e di visioni
e emette forti suoni.

E i suoni suoi sono parole alate
che uniscono le epoche del mondo
in un nodo profondo.

E questo nodo serrano le mani
di uomini che furono viventi
e son tuttora ardenti.

Hanno una storia che non è conclusa
e perciò vogliono con furiosa sete
dirompere la rete.

Perciò cogliemmo noi la loro furia,
un divorante Drago divenendo
e il tempo ardendo.

Tal rogo ci mostrò una Porta Rossa
e il Drago ne morì. Fu nostra stella
resa candida e bella.

Così la nostra guerra fu condotta
dentro una vita da molti più vivi
che dentro un mare i rivi,

e in un solo momento fu dissolta
per migliaia di esseri la sorte
che conduce alla morte.

Così da sempre è Sire della Pace
quel che risponde a molto antiche stelle
e da terra le svelle,

e delle storie del sapere antico
molto si giova, ché non ha timore
di porre al vaglio il cuore.

Allor conduce per le antiche sale
del Castello dei Sogni la sua mente
che per amor consente

a discioglier gli enigmi che travolsero
gli Avi, vivendoli dentro la corrente
eterna del presente.

Dopo che così ebbero cantato, gli Antichi della stirpe di Melchissedec disparvero in un turbinio glorioso di smeraldo. Rimase un verde acuto negli occhi e nel cuore di Ireneo, molto, molto a lungo. Poi egli si incamminò con pensosa grazia, come uno il cui cuore abbia intravisto una nuova epoca che s’appressa.

 

 

CAPITOLO DODICESIMO

Dove Ireneo si trova tutt’a un tratto su una montagna e gli appare una Sfinge alata

 

Che strano... viene da pensare che i verdi prati del mondo non siano che un ricordo dei parenti di Archeos coi loro bagliori di smeraldo. Forse i nostri stessi occhi sono intessuti dalle storie antiche e, infossato nel cuore, un abisso profondo ci ricollega alle origini. Ma quali origini? Non sono le origini stesse un racconto e un canto tramandato? Tempo, passato, futuro non son forse nient’altro che l’orchestra che segue la voce dell’interprete? Il bambino che adesso dorme giocava nel presente con le cose che si vedono, e forse il suo sguardo è più magico che non sembrasse. Il suo pensare è un’ora privilegiata: ricordo luminescenze d’oro attorno al pozzo della fantasia. Se un attimo di più il bimbo rimanesse tale, cavalieri antichi con le loro armature d’oro sorgerebbero dall’orlo per davvero, e il mondo conoscerebbe ancora una volta la potenza del pensiero.

Ma queste cose chi le ha insegnate a Tobia? A Tobia che è vissuto sette anni, lo guidavano altri ed altri pensavano per lui, ed egli è tuttavia qui come il più serio degli adulti, mentre molti di essi, ridicoli maestri d’inezie, giacciono ancora nell’abbraccio difficile delle superfici...

Sono, penso, coloro che furono un giorno a sorridere in me fornendomi le armi leggere della riflessione. Ma la volontà, la pesante volontà, la pietra d’angolo della volontà la pose tuttavia un bambino! E quest’angolo fu tale che ebbe più lati che non paresse, e Tobia bambino attraversò nessi temporali indiscernibili e guadagnò molta storia per la sua anima. E ogni incontro di questa strada spezzò una sfera del suo destino e illuminò paesi sepolti, così che dal ventre del suo spirito effimere ombre fuggono, e s’immortala la luce del passato. Così mutato in Ireneo, volgo ora il mio immenso desiderio alla volta di Irene, per questo sentiero che, tutto a un tratto, è fatto di pietra e sale verso l’alto, onde m’inerpico, invero, con qualche fatica.

Ma donde son nate, così all’improvviso, in mezzo alla piana regione, queste rocce? E questi abissi che circondano il sentiero chi li pose, ché non li vidi prima? E chi volle levare di colpo la terra al mio cammino? Ecco, adesso non vi è più strada! O Ireneo! Solo sul vuoto, sul pennone di una nave che vaga abbandonata, su un’oscura montagna sorta dall’inferno, che farai ora, e quale sfera di nuovo, con che incontro, infrangerai? E chi è, mio Dio, il possessore di questi occhi che d’improvviso mi fissano?

«Fermati un attimo. Non vedi che sei stanco? Il bambino è fuggito: sei quasi vecchio. Le gambe ti pesano, la salita era dura, pauroso il vuoto».

«O essere strano! Rossi sono i tuoi occhi, la tua testa è di donna, il tuo corpo è quello di un leone alato. Che vuoi da me tu, che non ho mai veduto né sentito, con così prodigioso sembiante?»

«Il mio nome è Sfinge. E pongo a tutti quanti qui vengono domande».

«Chiedi allora, purché te ne vada subito dopo».

«Non temere l’aspetto, temi la sostanza. L’aspetto è un mero simbolo. Mi crearono i Padroni della Sapienza. Leone era l’anima tua, donna è la meta che insegui, le ali sono del bimbo e i rossi occhi sono i miei. E se rispondi saranno anche i tuoi, e passerà tutto l’orrore. Se invece taci, sarai tu a passare verso l’orrore e la morte. Ma non potresti comunque più fuggire».

«Dunque domanda, se mi tocca ciò».

«La cosa più strana, che turba sempre con la sua stranezza, che è d’oro soltanto quando rimane strana, o se no divora se stessa, qual è?»

«Penso sia la verità».

«E quella cosa che colpisce e tramuta, e che viene prima di essa, ne è quasi madre e certamente è il padre, che cos’è?»

«Credo sia lo stupore».

«E quella cosa onde madre e padre vengono a risiedere sulla porta della Terra, onde le superfici trasudano abissi e le cose collimano in segrete coincidenze, sai dirmi cos’è?»

«Questo è il racconto del buon narratore».

«E qual buon narratore porrebbe me, a tuo avviso, qui sull’orlo di un paradiso senza fine, a tentare il cuore dei paurosi quando più non possono fuggire?»

«Di quelli che ho incontrati, l’Avo del Palazzo potrebbe fare ciò».

«E chi ti ha dato orgoglio per capire, forza per contrapporti e violenza contro la stanchezza che ti serra gli occhi?»

«Certo lo splendido uomo che ha nome Archeos e che è forte più della magia più forte».

«E l’anello della sua grazia, onde quello ti ha voluto salutare, chi te l’ha dato?»

«San Giorgio nella mia morte agognata».

«E saggezza per rispondere?»

«Ermete, che mi diede approvazione. La sua immagine venerabile illumina la mia memoria».

«E i tuoi occhi che reggono i miei occhi?»

«Il Compagno, che è la luce dei miei occhi».

«E il riso di cui ridi delle mie arti?»

«Un uomo verde che prendeva il sole».

«E la morte con cui ridi della mia vita?»

«Un amico che volle tentarmi e in tal modo mi saggiò».

«E il ricordo con cui ricordi contro di me?»

«Raffaele, che mi condusse fuori dal ventre della terra».

«E chi è che ti attrasse in questi luoghi e, celandoti sotto un manto bizzarro, mi celò così la tua sapienza?»

«Baldassarre Mago».

 

* * *

 

Ireneo rimase solo, e i suoi occhi vedevano lontano. Molti luoghi perciò smisero di esistere.

 

 

CAPITOLO TREDICESIMO

Dove Ireneo riflette e sente una voce parlare dentro di sé

 

Ora non c’è più, ma che freddo inumano ho sofferto! Come soffiava, quel vento silenzioso! E non dimenticherò mai il volto della Sfinge, la sua contorta bellezza. Molti secoli le parlavano dietro gli occhi, e di me certo tutto vedeva, tranne la stella di Baldassarre Mago. Tutti questi esseri che incontro, in effetti, pur sapienti, mi accorgo tuttavia che sempre ignorano qualcosa. E quella cosa è in genere molto importante, per quel che li riguarda: è la mia libertà da essi. Persino l’Avo del Palazzo non lo sapeva perché ero andato da lui e mi ero messo a cantare. Ho dovuto dargli io la spiegazione, anche se non so bene come ho fatto a conoscerla; e può darsi, a ben pensarci, che la sua stessa storia sia fatta poi solo di spiegazioni e mezze verità che altri gli hanno dato. E può anche darsi che lo sappia benissimo, e che sia però così potente che ciò non lo tocchi granché. Forse è proprio in ragione delle mezze verità che ha sempre sete, e perciò beve, perché se ha sete può tuttavia bere, e così va avanti la sua storia e gli va benissimo. Le nostre vicende s’intersecano solo di sfuggita, e ne viene del bene a entrambi, ma nessun legame, e niente che obblighi a cambiare racconto. Lui dà le sue spiegazioni, e le sue spiegazioni forse non sono del tutto precise, ma sono così estese che perlopiù van bene anche per gli altri, perché tanto questi altri, mentre lo interrogano, finiscono sempre per saperne meno di lui. Come capita a quegli storici che conoscono il passato meno dei poeti. Le cattive fonti, infatti, se ne fa uso un essere di grande intelligenza, si fanno sorgenti della verità, mentre le buone fonti, utilizzate da menti irrilevanti, si disseccano e causano solo noia, perché nessun buon narratore ne dice più la storia e perciò esse smettono di zampillare.

Adesso tuttavia bisogna che mi rimetta in cammino. E se la Sfinge è sparita, non per questo è sparita la montagna. Seguirò questo sentiero e vedrò dove mi porta. Ora il mio cuore s’è fatto più leggero, perché i miei passi seguono le mie visioni, e le visioni portano il mio cuore lontano molto più in fretta di prima. Questo intendeva la Sfinge, nel suo parlare di occhi e di ali. E in effetti, siccome la Sfinge è sparita ma il monte che s’è portato dietro c’è ancora, devo per forza dedurne che il monte era quello che lei stessa vedeva e che, avendo ora gli occhi suoi, vedo pur io.

«La montagna è l’uomo. E si sale e poi si scende. E nello scendere la si penetra come un amante e si scovano segreti in grotte note a pochi, e molte ricchezze e molti esseri vivi. E in particolare puoi trovare quelli che estraggono e trattano i metalli. Questi non li puoi però vedere con facilità, perché sono estremamente diafani e veloci, e si celano nelle ombre delle cose e nei sussurri del respiro che tu stesso respiri. Difficilissimo afferrarne i contorni e la vera natura. E sebbene tu abbia già le ali di Tobia per volare loro incontro, devi però saperli fermare, se vuoi fissarli in volto e sapere in qual misura ti somiglino. Poiché essi tutti ti somigliano, ma ognuno accentua qualche tuo carattere; e in questo gioco di specchi come in un’avventura potrai riconoscere la nobiltà della tua forma.

Ebbero molti nomi, questi esseri, e sempre li si trovò negli stessi paesi ove stava il Drago, poiché sono della sua stessa natura, essendo nati dal suo sangue, sparso allorché il Drago fu ucciso dagli eroi. C’erano però anche prima, come frutti del suo stesso pensiero, e il Drago fu portato a morte per il veleno acuto della metallica loro spada, perché il suo proprio pensiero portava necessariamente a tal sorte. E quando il Drago morì, essi furono liberi di vagare a loro piacimento; e tu li puoi ora incontrare e, se vuoi, riconoscere come storie del tuo passato, anche di quel passato che non fu parte della memoria di Tobia.

Scorgi e supera, Ireneo, i sette mondi che, Drago, gettasti dalla bocca furente di fuoco fino nel seno stesso del cielo! Colui che bene conosce ha creato per sé molte cose che prima non c’erano, sicché queste lo accolgono allorché egli si pone in viaggio; e se la sua meta è buona, le cose create da lui lo assisteranno. Vi fu chi se ne fece un trono, e chi un amante, e chi una melodia o una luce, ma al di là di questo tutti i conoscitori conobbero i sette mondi da essi gettati dentro l’esistenza. Giunti poi che furono al termine loro, forse si volsero, e quel che videro nessuno può dire con certezza. Sicuro è che non furono, da allora, veduti mai più».

Qualcuno, pensò Ireneo, qualcuno dentro il mio stesso capo ha parlato, e io l’ho udito. Così già disse Baldassarre Mago, che qui in questa terra un pungolo ti viene apposto dentro il tuo stesso intelletto. Che non sia egli uno di coloro che già percorsero il cammino? Questo spiegherebbe come nessuno di lui comprenda l’effettiva natura. O forse ancora, come diceva Raffaele, Baldassarre Mago ha fatto anche se stesso con il suo raccontare, e in questo ruolo forse non è il medesimo che pare. È forse una storia che un tempo qualcuno narrò di se stesso, così lunga che tuttora dura, e forse non ha fine. Qualcuno che se ne andò altrove da molto si volse per un istante e gettò un canto sul mondo. E si dischiusero le sue parole, e centomila anime presero natura, e noi le vediamo nelle loro vesti visibili e ne sappiamo soltanto quel che fu scritto quale parte che a noi s’addice. Non vi è ad ogni modo alternativa, e bisogna proseguire il cammino. Stella della mia anima, splendi ancora più abbagliante, ché molto più semplice era il sentiero che Tobia intraprese! Il bambino ora dorme, e cose di lui più vecchie vengono supposte. Possa egli ancora risvegliarsi, e mangiarsi la torta della fata Irene!

 

 

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

Dove Ireneo giunge di fronte alla porta di piombo e incontra il nano della pesantezza

 

«Cosa fa ora? Nella tua magica sfera che vedi, Inanna? Dillo, presto, a Irene che freme d’impazienza».

«Ecco, pari a me nel coraggio, sorellina, Ireneo cammina verso la notte. Sette regni sul suo cammino e sette veli sui suoi occhi. E la potenza della leggenda dentro il suo cuore. Per essa, davanti ai sette portali Inanna si spogliò dei suoi ornamenti, e quando il regno della morte conobbe la sua nudità Babilonia tremò per la grandezza! Felice infatti colui che, nudo, zittisce i nemici; che, senz’armi, li vincola coi soli suoi occhi! E perché questo fosse, io deposi quel che mi legava il corpo, e in tal modo conobbi il mio amato una seconda volta, dopo averlo perduto. Ora, qui celata nel ventre del passato, io vedo qualcuno che ripete le mie gesta, ed invero riconosco che non è un uomo di quelli soliti, ma uno strano essere simile a bambino quale tu sola, Irene, potevi attrarre.

Ireneo sta scendendo per il ripido sentiero, ecco ora vedo uno spiazzo: strani segni lo distinguono. Su una pietra nera, squadrata alla perfezione, egli si siede e aspetta. Rari ciuffi d’erba tremano a un vento leggero; il luogo è pietroso, grigio nel complesso. Ed ecco vedo che, dissimulata tra le rocce, in una rientranza celata dai cespugli, c’è una grande porta. Ed è una porta di piombo. Le mie vicende, mi pare, similmente sono ancor oggi percorse: prove attendono chi incontra questa sorta di porte, prove di cui non c’è l’eguale nel mondo».

 

* * *

 

«Perché ti sei seduto sul seggio della morte?»

«Qui mi sono seduto per riposare, non certo per morire. Sono infatti già morto».

«Quella che conosci non è la vera morte, la morte degli uomini fatti piombo dalla desolazione. Tal morte è qui in questo luogo. Con che ardire ci vieni senza che alcunché vi ti trascini?»

«Dove sono andato, lì sto. Ma non sapevo che luogo era questo. Quanto a te, potevi ben avvertirmi, se non mi era permesso di sedere qui».

«Non è questo il punto. È che adesso devi venire con me nella caverna di Crono, poiché il piombo che sta lì ha fame di te, ti ama, ti soffre, ti vuole, ed assolutamente non puoi più andartene».

«Tutto ciò mi pare eccessivo. Io devo scendere a valle e non interromperò la mia strada per te. Infatti non sembri neppure vero; sei solo un’ombra gigantesca, un po’ strana, con qualche tratto che mi somiglia, ma infine nient’affatto convincente. Perciò non mi condurrai da nessuna parte».

«Bada a quel che dici! Morte, pietra, oblio è la sorte di chi cammina per venire qui. Nessuno da tempo può fuggire. Non ti accorgi che non puoi più alzarti?»

«Sì, è vero, mi è diventato a un tratto impossibile. Ma nello stesso momento in cui questo mi è successo, ho anche veduto che tu non sei che un nanerottolo».

«Un nanerottolo che ti blocca lì!»

«Ma non mi trascinerai dentro».

«Come puoi dirlo?»

«Perché ben m’accorgo che hai un solo potere: quello di pesare molto, moltissimo. O sulla mia mente, e perciò parevi così grande; o sul mio istinto, e perciò mi paio così greve. O incomparabile pagliaccio troppo serio, il tuo potere è ridicolo come la tua forma. E benché io ancora possa errare e in parte soggiacere ad inganni, non però mi spaventerò di te; canterò invece su di te una strofa:

Plumbeo signore,
solo dolore
è il tuo potere.

Però ho capito,
e il mio volere
non s’è smarrito.

Vattene via, dunque, o la mia risata senza paragone, senza una seconda che le si pareggi, risata fredda e senza scampo, mi libererà comunque dal tuo impaccio! Il tuo nome è Piombo e Pesantezza, e sei la tetra zavorra del tempo, onde il Tempio è tuttavia costruito! Di coloro che soffrono, sei l’insulto nascosto del compiacimento; di coloro che fingono, sei la spezie della loro insipienza; ma di me, portatore della stella, cui migliaia di esseri del passato allegarono compiti, di me non sei se non la tremula luce che tuttavia mi spinge a camminare ancora! Là dove non c’è porta, vedremo una porta che non c’era ed entreremo; ma la tua fredda dimora non onoreremo della nostra visita. Vattene, seppur riesci tu stesso a muoverti!»

 

* * *

 

Ma non vi era più né nano né caverna. Solo un uccello, che prima volava a mezz’aria, era ora caduto e giaceva a terra. Suo colore era quello del piombo e della pietra. Ireneo lo spinse con un piede e lo guardò; e vedutolo bene sorrise e quello svanì.

Allora Tobia si svegliò per un poco e prese a correre su e giù per il monte, e l’aria era colma di profumi e il vento era dolce. E una Cicogna gli portò, da chissà quali lontananze, un paniere. E dentro vi era un involto e la Cicogna gli disse:

«Mangia una fetta della torta che la fata Irene ha fatto per te con le sue mani».

Così fece Tobia. Piangendo di gioia la divorò (com’era buona!) ed alla fine, sazio, si pose a dormire, certo d’incontrare dei bellissimi sogni.

 

 

CAPITOLO QUINDICESIMO

Dove si sogna e si parla di Crono

 

«Che fa ora, dolce sorella Inanna?»

«Dorme, Irene. E nel suo sogno si schiudono gli abissi tra le stelle e gli appaiono, l’un con l’altro scambievolmente confondendosi, dapprima un vecchio, poi un vecchio che si tramuta in giovane, e infine un giovane che sorride con grazia assennata. E ben riconosco nella mutevole figura il vecchio dio della terra, il silenzioso, il lungimirante, il paziente Crono, colui che a lungo guidò il mondo e quando questo si svilì lo legò con catene di pesante piombo, affinché i soli eroi potessero ritrovare il suo oro antico, ma gli altri non altro che contraffazioni. E fu da allora che molto spesso fu detto il nome suo Chrono, cioè Tempo. Egli è vecchio per la potenza; vecchio e giovane perché confonde gli uomini e li pasce, siccome bestie da cortile, con le sue sementi, che sono illusione e morte e pietra. Ma per i suoi pari che di tali granaglie non si contentano egli è un giovane amico, fedelissimo e attento, mai avaro di un necessario aiuto. Fu dio della terra dopo esserlo stato del cielo, e il suo ricordo di esso è la notte, che culla la terra nel suo riposo e getta sogni di mondi lontani nella mente degli esseri. Ed è un dio di possente magia. Ora egli si compiace di Ireneo che ha passato indenne la sua prova, poiché nulla egli ama tanto come che si distruggano gli incubi che lui stesso genera a salvaguardia della propria sapienza. Chi infatti può distruggerli è degno di attingere; e lungi dall’essergli nemico, Crono si fa con lui generoso, apprestandogli nella propria casa un seggio di potenza e un sogno di conoscenza che gli servano a superare le difficoltà che verranno».

«E sogno e seggio quali sono? E come superasti tu stessa la prima porta verso gli inferi paesi, allorché cercasti il divino Tammuz?»

«La prima porta si supera col proprio passato, con la spada ardente del proprio essere, con la magia che in noi stessi dapprima si svelò. E prodotto di questa prima vittoria è un pensiero, un pensiero che prende il cuore e lo assume in regioni di potenza. E questo pensiero si fa parola sulle labbra e dice: Son sorto dagli abissi del dolore. Lì ero sprofondato e di lì risorsi. Chi ora può fermare il vento? Perché vento possente è la natura di colui che è divenuto amico di Crono. La mia prima veste cadde come arsa dal fuoco del mio amore per Tammuz; ma la mia seconda veste cadde strappata dal vento della mia passione per Tammuz!»

«Il signore delle lentezze è dunque al medesimo tempo il signore delle passioni?»

«Sì, il suo essere infatti è violento, e genera terrore. Di fronte a lui dolore e amore si ritraggono spauriti, allorché il suo silenzio di secoli infrange, per una causa che gli è propria, il livello stesso delle parole! Di fronte a lui le cose non dette e non vissute sono quasi più vive delle altre, poiché non rispetta alcuna norma, e ciò che vuol che sia costringe a esistere!»

«E che dice, questo terribile, questo troppo forte, al piccolo Tobia che divorò con amore infinito la mia torta? Lo vede egli, o non vede che Ireneo?»

«Lo vede, sì, e sacra gli è la giovinezza. Tutto ciò che non è disperso egli ama, e tanto più la giovinezza che dà buoni frutti. Nella sua impenetrabile giustizia, è per tutti i giusti un sogno puro che non si potrà dimenticare. Egli tace, poiché è parco di voce e di pensiero, ma i suoi occhi incontrano quelli del tuo amato, e la sua fiamma brucia come piombo fuso, e il peso della pietà per se stesso è in Ireneo dissolto. Ed ora il dio della terra ancora lo fissa; ma già la sua memoria è lontana. E la sua mutevole immagine si scioglie, concorde alla sua più profonda natura, in un turbinio di stelle, che subito spaiono nelle lontanissime regioni del cielo. Ora colui che tu attendi, sorellina, dorme con gran pace, e il suo cuore è aperto verso le costellazioni».

 

 

CAPITOLO SEDICESIMO

Dove Ireneo sogna di angeli che gli narrano dell’albero della sua anima e, risvegliatosi, ode la parola di Crono

 

Un grande peso su te si è posato
mentre tu non volevi che dormire:
un antico dio ti ha infine insegnato
la prima cosa che tu devi dire.

Per quella forza che qui ti guidò
t’ascoltarono in molti e contemplarono
come il destino tuo manifestò
quel che da sempre i saggi raccontarono.

La bella storia s’anche si ripete
nessuno fugge dal sentirla ancora;
qui con il vecchio il nuovo non compete
come nei luoghi che il tempo divora.

Chiaro non hai chi raccontò la storia
e cerchi ancora il primevo antenato;
ma per conoscer tutto la tua gloria
dovrà compenetrar pure il non nato.

Tuttavia sappi che dal grande tuo albero, nella foresta di cui sei signore, molti uccelli che stavano impietrati nelle poderose strutture del legno hanno ora preso il volo, violenti come la morte; e invero, Tobia Ireneo, sposo d’Irene, Erede di un mondo che presto verrà fatto, ti sei reso libero di molte migliaia d’anni. Di coloro che furono un tempo, molti ora arsero del tuo fuoco ed ebbero per merito tuo libertà di spiccare il volo. E tu sei ora più libero, e non hai d’altra parte perduto quel che essi possedevano, poiché il signore della terra te l’ha reso con più abbondante misura. Quel che ti è servito una volta, del resto, era a ciò destinato e non ad altro; e coloro che cercarono in te la luce né ti odiano né ti amano ma, raggiunto il loro fine, fuggono, e la loro fuga è per te a un tempo riuscita e liberazione. Poiché quel che conduce a vittoria è anche lo stesso che generò il conflitto; e il conflitto ha da esser generato, e poi superato; e in tal superamento, destini che col tuo s’incrociarono trovano talvolta soluzione. E molti ti condussero, ma dovrai restare solo; e solo che sarai restato, allora saprai accorgerti di come gli esseri sono congiunti. In quel momento conoscerai anche il cammino inaudito verso l’abisso. Ma per questo ci vuol finezza incredibile, ed equilibrio senza incertezze, e gioia immutevole e qualcosa ancora come un fuoco che arde se stesso: la morte di tutte le parole, che si mostrano vuote, e così insignificanti da perdersi in un oblio senza più luogo. Fuori da tutto quel che sei – e non ci sarà nulla al di fuori – giacerà il tutto. E non ci sarà perciò nulla di questo tutto. Perché le cose, tutte le cose, cambiano più volte di nome nel tuo cammino; ma i nomi stessi, tutti i nomi, devono morire sulla porta dell’abisso.

 

* * *

 

Ho sognato angeli, molti angeli, pensò Tobia. Ve n’erano molte schiere e danzavano, e poi a un tratto si son fermati ed è venuto lo strano signore. E aveva una faccia seria eppure molto soddisfatta, perlomeno per un istante perché subito dopo è stato come non fosse più qui ma altrove, e infatti è sparito. Come uno che cammini, venga a casa tua, chieda un bicchier d’acqua; e tu giri gli occhi un attimo e ha già bevuto, il bicchiere è lì e lui non c’è più. Che strano. Ed è come se il bicchiere d’acqua me l’avesse dato lui. Che sguardo sorprendente! E che strano, ancora, che occhi così ardenti ti diano questa pace piena di forza: la forza di un sasso. Dura, compatta, costante. E poi lui non c’era e son tornati gli angeli e han cantato quel motivo per Ireneo; ma anche Tobia l’ha sentito perché, se voglio esser sincero, da un po’ Ireneo e Tobia si capiscono abbastanza, e sono anche più che fratelli e ammiccano l’un l’altro, e si cambiano di posto, se gli va a genio. E per quanto Tobia avesse sette anni all’inizio di questo viaggio, quest’incontro con lo strano signore e gli angeli basterebbe da solo ad avvicinarlo ad Ireneo. E anche Ireneo, del resto, ne è uscito più libero di pensieri, meno angosciato. È più grave, ma più sicuro, e Tobia lo intende molto bene. Diceva di se stesso l’Avo del Palazzo che uno aveva sete e lo stesso beveva, e così pare sia destinato a fare pur io: un gioco delle parti per imbrogliare le carte e capirci solo io. Così dev’essere infatti, se voglio raggiungere Irene. Se altri comprendessero troppo bene, vorrebbero forse impedirmelo, per invidia o per paura, e sarebbe tutto più difficile. E lo spettro della plumbea tristezza, che mi cercò per distruggermi, a ben pensarci, non era forse di natura simile all’umana? Non era forse un inganno per tempi immemorabili ordito tra gli stessi uomini, fatto delle loro emozioni, delle loro paure e delle piccole idee per cui si presumono grandi? Ecco dunque che è opportuno celare qualcosa e far attenzione a se stessi, avendo cura che i sentimenti si smarriscano nel labirinto ironico della volontà, affinché non prendano la guida della mente e non la inducano in folli vaneggiamenti.

«Sappi che Crono stesso esprime un labirinto che va dalla terra al cielo. Lì le impurità si perdono e ciò che è vero, solidale coi muri del Tempio, perdura, mentre i soffi vacui permangono nel vacuo fin quando, ormai stanchi, si smorzano e languono e muoiono. Allora il labirinto è un Tempio sacro nel silenzio della Notte, e l’Officiante giunge ed accende il fuoco del Sacrificio».

«Chi sei tu, che scaturito dal sogno rispondi ai miei pensieri?»

«Una parola lasciata dal silenzioso Crono. Una parola per te, che ti dice questo: Te stesso ara. E sull’ara offri al Cielo le tue primizie. Io ascolto e vedo. E questa parola che io sono ha nome Aratro».

«Il tuo discorso è strano».

 

* * *

 

Ma non risonò più alcuna voce. Ireneo riprese a discendere la montagna, e molti uccelli s’inseguivano sopra il suo capo, ed egli era contento. Ma sempre, dentro il suo cuore, era viva l’attesa d’Irene.

 

 

CAPITOLO DICIASSETTESIMO

Dove Ireneo passa nel regno di Zeus e incontra l’Unicorno

 

È un po’ che scendo e non è più successo nulla. Ecco ora però un banco di nebbia, suoni di corno escono dal suo ventre. Che posso fare se non entrarvi? E ormai il banco si è già in fretta così diffuso che non saprei più uscirne in ogni modo. Ma viene avanti qualcuno...

«Chi è là?»

«I padroni di questo luogo sono qua. E non lasciano passare nessuno se non gli aggrada. Donde vieni?»

«Da sopra».

«Non amiamo i sogni che ne vengono. Pertanto dovrai entrare per la porta di stagno, e risiedere lì finché non cessino i sogni».

«Io debbo una sola cosa, cioè andare avanti».

«Pure ti porremo un enigma, e se non lo saprai sciogliere entrerai per la porta di stagno tra i fantasmi di coloro che non sognano più».

 

* * *

 

Strano modo di porre enigmi: sono spariti tutti. E sì che sembravano così reali ed erano armati alla foggia antica e di aspetto assai imponente. Ma che vedo ora? un Unicorno?! E corre verso di me, mentre dei cacciatori lo inseguono... il mio bianco Unicorno!

«Che fate voi e perché cercate la morte di una così bella bestia?»

«Alcuni di noi posero a un viandante enigmi sul potere. Ma il libero Unicorno attraversò questo luogo e il viandante seppe perciò rispondere. Esso è infatti l’unica chiave per i nostri enigmi, e perciò lo cacciamo, ché una volta ucciso lui nessuno più ci sfuggirà».

«Tuttavia non penso che lo prenderete. Le vostre armi ben veggo che son di duttile stagno e nulla possono contro la sua violenza. E voi lo inseguite, sì, ma mi accorgo che per lui non siete che fantasmi. Ed è dunque questa la soluzione che l’Unicorno indica: il vostro tracotante imperio non è che esile cosa, e sono i sogni a tesserlo. Per sé non reggerebbe un istante; e dunque un sogno nuovo può anche distruggerlo. E questo sogno si chiama ora Silenzio e Aratro e il suo cammino è diritto come il corno di quest’essere. Bianco è l’Unicorno, come la retta composizione di tutti i colori. Egli è amore del mondo: uomini e animali lo seguono, piante e pietre lo assistono e gioiscono di lui, e tutte le cose dell’universo si dispiegano nella melodia del suo cuore. E questo Unicorno è anche detto Signore dell’anima e innanzi a lui cedono di schianto tutti i legami e s’infrangono tutte le armi. Poiché egli ha un solo scopo e lo scopo suo è di tutti gli altri più grande; ed è un sogno per gli stessi sogni ma balza nelle foreste delle anime degli esseri con selvaggia irruenza; e il suo nome è altresì Signore del mondo e centro sacro della vita. E ovunque egli sorge, lì nessun potere lo contrasta».

 

* * *

 

Di nuovo non c’è nessuno. Solo l’Unicorno è rimasto e mi guarda, e teneri e profondi sono i suoi occhi, ed anche parla...

«Dov’è la fanciulla, la mirabile fanciulla sul cui grembo riposare? Verranno i cacciatori e mi uccideranno tra le braccia della vergine, ma questo sarà solo l’inizio. E quando già mi avranno dimenticato, sicuri della mia morte, io tuttavia seguiterò a vivere, poiché il sonno mio avrà preso il mio essere, e il mio essere durerà nelle regioni del sogno. Un simulacro porteranno via i nemici, mentre il libero potere arderà con fiamme d’amore senza fine nel cuore della fanciulla. E questa vergine indifesa cui credettero strappare il più caro amico, è in realtà l’aspetto sotto cui si cela la divina Giustizia, il cui nome e folgorante ardore è Zeus. E questo Unicorno che tu vedi, candido come neve, è stato e sarà parimenti il Cigno che Leda amò. E il nome e la passione di lei restarono per motivo di Zeus, così come nel mondo, fuor del meschino illudersi di coloro che si reputano potenti, permane la Giustizia. Molti che vollero ucciderla furono stroncati nelle trappole del sogno. Sappi infatti che l’Unicorno cacciato è egli stesso cacciatore. E giacciono ora quelli che mi cercavano, incatenati con novello inganno, sicuri a spartirsi le mie false membra. Zeus con la folgore talora li scuote, perché ricordino la propria fragilità, ma essi seguitano a combattere finte battaglie, per dominarsi l’un l’altro e per dominare me! Cercano il mio corno per ragioni meschine e non sanno che questo mio unico corno, qualora lo trovassero, sarebbe per loro il fulmine del cielo! Poiché io stesso sono il Signore di questi luoghi e di tutti, Zeus il padre e Zeus l’amante, e lego con catene di duttile stagno coloro che voglio perdere; ma a quelli che continuano la vecchia strada dei sapienti in verità non posso e non voglio mentire».

 

* * *

 

«Ora il suo nome potrebbe ben essere Libero e solo, poiché ha conosciuto l’Unicorno e ha ottenuto da lui la possente decisione dell’eroe e il disprezzo del potere. Ora, sorellina, il suo cammino fa ben sperare, giacché i doni di Giove sono incomparabili».

«E, Inanna, l’albero nella foresta della sua anima ha perso ancora molti uccelli? Disciolti, furono in tanti a volar via?»

«Tantissimi, Irene, perché innumerevoli sono i caduti a motivo di quello che credettero il proprio dominio, mentre non era che una battuta di caccia rivolta contro il proprio stesso cuore. Quand’io gettai via la seconda veste, Tammuz udì da lontano il possente fragore dei fantasmi distrutti! Il tuo amato è ora due volte più libero di prima. Ma mandagli ancora un po’ della tua torta».

«Sì, certo. Come potrei scordarmene?»

 

* * *

 

E un Cigno volò da Ireneo con un secondo involto, e qui c’era una fetta di torta più grossa dell’altra, e Tobia sorrise e gridò al cielo:

«Irene mi ama ogni volta di più!»

Ed era certo un’opinione simile alla verità, sennonché già dal principio grande era stato verso di lui l’amore di Irene.

 

 

CAPITOLO DICIOTTESIMO

Dove Ireneo incontra Ares ed entra nella grotta di ferro

 

Dopo che è andata via la nebbia, ora fa freddo, e che freddo! Umide sono le pietre, l’aria è gelida e tira un vento violento.

«Se hai freddo, riscaldati. Entro la grotta di ferro troverai legna e una lanterna onde trarre il fuoco. Accendilo; verrà utile anche a me».

«Va bene, ho bisogno di scaldarmi. Sarò anche morto, ma il freddo lo sento, adesso. E poi, chi è morto e chi è vivo?»

«Hai ragione. E infatti questo freddo è il freddo dei cosiddetti vivi. Ma entriamo».

«Ecco, l’ho veduta la tua lanterna. Dammi paglia. Bene, ecco, sorge il fuoco, il legno prende ad ardere scoppiettante!»

«E anche le pareti di questa grotta di ferro in fretta si riscaldano».

«Bene, bene. Brutto è il freddo di fuori, ho bisogno di calore. Bello e ardente è il sogno che mi ha condotto, e le parole sulla mia bocca sono sorelle al fuoco e non amano affatto ciò che è gelido».

«Guarda, la grotta s’è chiusa, e non c’è nessuna porta».

«Che importa? Non ho ancora desiderio di uscire; prima devo scaldarmi un po’».

«Ma non senti come roventi sono le pareti di ferro?»

«Rovente è l’anima degli amanti, al pari di queste pareti».

«E i tuoi piedi non ardono sul crudo ferro rovente?»

«Ardono d’impazienza, al pari del fratello ferro».

«E non temi che il tuo corpo bruci?»

«Dopo che son scappato dal freddo, come potrei temere questo? Vi è forse un corpo che bruci, in questi luoghi? E un sogno posseggo, che arde più della tua casa:

S’incontrarono un giorno il Drago e l’Unicorno, e dove essi stavano sorse una bianca fiamma. E io presi in mano quella bianca fiamma, e non mi bruciai affatto. Ed essa corse per il mio corpo e suscitò in me la figura di un Ariete. E io conobbi in questo una natura celeste, poiché aveva una stella sulla fronte del colore dell’acciaio. Che può dunque farmi la tua grotta di ferro? Non vedi la stella d’acciaio di colui che va libero?»

«Ora sì. Ora che l’hai scoperta la vedo. Bene. Pochi vanno via indenni da qui poiché, spauriti dai pericoli passati, perlopiù si rifiutano d’entrare e muoiono di freddo, oppure, entrati, li prende il panico e muoiono dal caldo. E così è chiaro che tornano indietro per una nuova nascita, poiché che altro è la morte dei morti se non la cosiddetta vita? E io, Re della Guerra, Ares violento, non conosco da lungo tempo compagni di me degni, e sempre più m’adiro per questi fumi indegni di uomini arsi dal mio fuoco.

Ma bene ne verrà, a te che qui sei entrato, estraneo al genere dei paurosi, pesante come si conviene per la saggezza, e leggero come pure bisogna per la libertà. Io infatti non ho pazienza, e faccio le cose in fretta, e faccio a pezzi tutti coloro su cui la mia spada non s’infrange. E la mia spada è di fuoco, ed è il fuoco che purifica il mondo. E la Guerra. E la morte degli esseri meschini. Qui non passano esseri finti, esseri vuoti, esseri colmi d’idiozia, esseri vili. Quanti deboli eruditi sono qui precipitati, respinti nell’ombra! E quanti ignobili mascalzoni! E quanti che si ritenevano degni della miglior sorte!

Ma tu non fuggi il potere del ferro, non temi la guerra e il fuoco. Questo ti condurrà innanzi al Sacrificio, nel regno del Sole. E tu getterai nel fuoco questa gemma che io ti do, rossa e bianca, il cui nome è Figlia del Fuoco. Allora entrerai indenne anche in quel più gran rogo. Uscirne è poi affar tuo. Ora va’, e mentre t’allontani cantami una canzone perch’io non voglia dimenticarmi di te. Infatti la mia memoria è grande, e la ricanterò nell’antica foresta presso il tuo albero, onde fuggiranno al suo suono tutti coloro che debbono sentirla. In tal modo, il mio fuoco servirà anche a renderti più leggero».

«Sia così. E tu cantala in quel luogo, Ares, e distruggi quanto più puoi dei miei legami!

Gelida par l’entrata;
pur arde la tua caverna
quei che timor governa,
mentre non può l’inganno
niente con quei che vanno
in cerca dell’amata.

Ares l’amore fa come va in guerra:
il fuoco suo disserra
e fa bella la terra!

E se sue membra al fianco le distende,
l’amante sua risplende
del fuoco che le accende!

Così sia Ares contento
di cantar questo, liberando al vento
dalla magica maglia
quei che legò paura di battaglia!»

 

* * *

 

E non vi fu più nulla di quel che c’era prima. E Ireneo sedette, in preda a una luminosa eccitazione.

 

 

CAPITOLO DICIANNOVESIMO

Dove Tobia incontra per la terza volta Raffaele

 

«Come va, Tobia?»

«Chi di nuovo mi parla, in questa giornata già così intensa? Quali enigmi ancora viene a pormi... Oh, che splendore! Ma chi sei tu?»

«Ancora e sempre Raffaele».

«Non so che dire. Ti vidi bello, ti rividi più bello, ti vedo bellissimo. Donde hai preso quest’aspetto, questa luminosa adamantina natura?»

«Tra il fuoco e la luce sei tu. Hai preso il fuoco e non ti sei bruciato: ora mi vedi con gli occhi del fuoco. Un tempo mi celai in anfratti di ombre; ma ora per te è più semplice vedermi. Il tuo destino fu un balsamo per la tua vista, ora vedi cose che prima non potevi guardare, mentre altre, se ci badi, più non potresti invece vederle, perché non vorresti. Figure e figure e ancora figure costruiscono la tua Immagine, perché devi costruire di te stesso una forma che nello specchio dell’abisso infine risplenda. E figure vanno e figure vengono, simboli e leggende, e alla fine tu sarai qualcosa che non era. Questo è il mio augurio, perché nessuno, che non crei una forma nuova, perdura di fronte all’abisso. Una nota tua, una nota nuova perché il mondo canti! O con che diritto e che chiave te ne andresti?»

«Raffaele, quante parole strane e misteriose ho sentito fin qui! Più non so neppure parlarne, perché quasi troppe sono le vicende. Quel che di me contò la breve storia sa forse l’inizio e la fine; ma neppure del mezzo che vivo io sono appieno cosciente. Quante leggendarie forme, e angeli, e Dei! È tutto così confuso!»

«Confusa è ogni cosa di fronte al grande abisso, e più confuso ciò che gli è più vicino. Infatti il mediocre ha perso colore e pare perciò costante e facile a comprendersi; ma tale impressione è un inganno ed è frutto della morte: molti sono i nomi per chi non li ha scordati. E giusto è che paiano strani, poiché tu cerchi Irene e non le altre cose che incontri: esse non sono il tuo fine ultimo, non ti sono del tutto proprie, e quindi sembrano straniere a quel che sei. Ma racconti di altri sono inclusi nella tua storia: non volerli cacciare, perché sarebbe fatica vana, e invece ascoltali, ché ne apprenderai molte cose e non ti annoierai, mentre coloro che di te presero ausilio, finito il racconto, non ti turberanno più. Ogni uomo certo è una stella, ma difficile è per lui vedersi nel suo solitario splendore».

«Ma com’è possibile ch’altri narrino a mezzo mio la propria vicenda, e a mezzo mio passino altrove?»

«L’uomo è un mare. Gli animali, le piante, tutti gli esseri sono mari. E colui che ha nel cuore la stella di Baldassarre Mago è Signore del mare. Ma non per questo rifiuta o distrugge le onde; più semplicemente, egli è sia prima che dopo le onde stesse, e non soggiace loro. Finisce il mare ed egli perdura. E da lui si recano molti, e ne prendono doni e consigli, ed egli donando si arricchisce, e arricchendosi perde molte parti del suo dominio, e allorché tutto ha perduto a favore di altri allora diviene il Più Ricco, il Re senza terra, senza mare, senza cielo, che chiama l’abisso e l’abisso si apre. E questa porta che si apre oltre le cose conosciute dagli stessi Dei è detta l’Orizzonte dell’Eternità. E nella stessa terra dei cosiddetti vivi, molti che pure avevano un corpo di carne vi pervennero, e gli Dei medesimi ricordano il proprio stupore, e quanto provarono sgomento, di fronte a coloro che passarono senza vederli, con diritto cammino, fin oltre tale Orizzonte».

«E fu di questi Baldassarre Mago?»

«Se qualcuno va e torna, non è possibile seguirlo».

«E costoro che vado incontrando, coi loro enigmi e trabocchetti, chi sono?»

«Di là dai nomi e di là da tutto il sembiante, non sono altro che te stesso. E tu scendi nel fondo di te stesso, e il fondo degli esseri tutti collima con l’abisso, ma prima di tal limite molte regioni vengono trapassate. Sette regni e sette mari, dissero perlopiù; ma quale che sia il numero, tutto nel complesso di essi si trova. Le cose che stanno nel mondo anche lì risiedono, e invero il mondo stesso non risiede altrove».

«E chi va più in giù?»

«Rimane nel racconto la stella. Ma egli esce dalla storia e passa oltre l’Orizzonte».

«E quegli animali e piante, e altri esseri, di cui hai detto che son mari al pari dell’uomo, possono fare questo?»

«Son coinvolti nelle storie degli uomini; i loro destini si intrecciano. Massacratori di esseri vivi non reggeranno a nessuna prova; saranno sopraffatti dall’ombra ancor prima di iniziare il cammino. Chi senza motivo stronca la vita di un uomo o di un animale o di una pianta, o persino distrugge una cosa inanimata per puro amore della distruzione, questi stringe le reti su se stesso. Tuttavia è una cosa incauta giudicare senza necessità, perché spesso l’autore non è quel che pare, e il gesto è diverso da come sembra. Tutto quel che può dirsi è che gli esseri, tutti gli esseri, sono nel loro insieme in un rapporto di simpatia e di solidarietà, e che le azioni rivolte verso il mondo hanno altresì effetto su se stessi».

«E che sai di coloro che muoiono perché un essere amato li ha lasciati?»

«Molti sono i destini. Ma per lungo tempo essi si riposano. E vi son di quelli i cui destini intrecciati, l’un per l’altro spirati, uomini e altri esseri, non si son sciolti che entro l’abisso, forse».

«Molti esseri amerebbero l’uomo, se l’uomo li amasse, vero?»

«E anche morrebbero per lui».

«E lui morrebbe per loro».

«Non diversa fu la fine di Irene. Pianse per il dolore degli esseri, di tutti gli esseri, e per questo morì e divenne fata, poiché le fate sono esseri gentili e nessuno le odia, se non colui il cui cuore è di ghiaccio, il cui sguardo è totalmente offuscato dall’ombra. Costui, peraltro, non potrà mai vederle».

«Conosci questa gemma bianca e rossa, gemma che Ares mi diede?»

«È la gemma antica del suo valore. Tienla stretta fin davanti allo splendore del Sole. Lì vedrai prima o poi Michele, il mio fratello del Sole, il Signore del cielo, che altri dissero Apollo, il Signore di vita e distruzione, il fautore d’ogni sviluppo, il luminoso senza pari».

«Più di te?»

«Più di me come mi vedi ora. Se ti apparissi allora, simile a me».

«E quando lo vedrò, che farò della gemma bianca e rossa?»

«Quel che Ares ti disse: l’userai per il Sacrificio che lì si compie».

«E non avrò enigmi da sciogliere?»

«Simile a Michele, si presenterà Samaele, il sole del mezzodì ardente, della febbre, della distruzione. Quello sarà l’enigma: ricordare te stesso. Ma ora devi proseguire. Prima però accogli nelle tue mani il paniere che quell’Aquila ti reca: è il terzo pezzo della torta di Irene. Mangia, Tobia! La sorella di Inanna ti vuol rinforzare, affinché per debolezza tu non debba sfuggirle proprio verso la fine».

«Chi è Inanna?»

«È colei che danzò questa strada che tu percorri. La danzò e la fece, e infine la concluse con perfetta arte. E tutto questo per il suo amato Tammuz che la morte le aveva strappato. Lo inseguì e cantò una storia che lo liberò dalla morte. E questa storia rimase nel fondo dell’umana memoria».

«Cara mi è tal danzatrice, se la sua danza nutre la mia anima».

«Così è. Seguendo la sua storia, Irene fece la torta di cui ti cibi. E sono sorelle che non si separano: se vedrai l’una, vedrai l’altra. Molti nomi per il gioco di una sola vicenda».

 

 

CAPITOLO VENTESIMO

Dove si parla dell’amuleto di Inanna

 

Un amuleto dal seno di Inanna,
un amuleto nero e bianco per te.
Nero per l’ombra, bianco per la luce,
ché l’ombra non ti nasconda,
ché la luce non ti distrugga,
ché la vita non perisca,
ché la morte non ti conosca.

Tu che sei sceso negli antichi regni,
prendi il mio talismano per vedere,
prendi il mio cinto sacro per sentire,
prendi il mio scettro per poter capire.

Va lontano il tuo cammino,
e tu non sei che un bambino.
Irene per te molto mi pregò,
e Inanna sua sorella l’ascoltò.

Ricorda, Ireneo, ricordati d’Irene:
chi l’ha scordata certo qui non viene,
ch’ella è il segreto che porta Tobia
per questa strada che un tempo fu mia.

«Quest’amuleto, sorella, dove l’hai posto?»

«L’ho posto alla radice del suo sesso, ché non devii dal sentiero intrapreso. Perché gli ardori di Samaele sono forti, ma gli amuleti della Luna lo snervano poiché gli ricordano la compagna sua Lilith, sicché la sua violenza ricade, almeno in parte, su lui stesso. Così le sue arti saranno infrante, e il vergine bambino non sarà sconvolto con troppa violenza. Riuscirà in tal modo a controllare il fuoco, che sorgerà donde non s’attende».

«Bene hai fatto, sorella Inanna. Troppi si son già perduti per cose inattese. Tuttavia Ireneo è più forte di molti».

«Baldassarre Mago insiste però di non rischiare, quando si può evitarlo».

«Certo, infatti solo gli idioti cercano inutili sofferenze».

«Ora Tobia dorme».

«Ne ha certo bisogno. La mia torta e il tuo amuleto gli suggeriscano buoni sogni».

 

 

CAPITOLO VENTUNESIMO

Dove Tobia ragiona con se stesso del padre suo che ha visto in sogno e di altre cose

 

Ho visto papà nel sogno, e non mi guardava: era intento a seguire un suonatore di flauto. Però aveva sul capo una gemma bianca e rossa, come quella di Ares, e forse non la vedeva. Bello era il suono, e bello il suonatore; ma era una melodia che richiamava altri luoghi, poiché opaco era il mondo dove stavano, e tracce di luminosa nostalgia lo segnavano di tanto in tanto. E qualcuno sbucò dal nulla alle spalle di mio padre e mi gridò, senza che lui se ne accorgesse, con voce forte di cristallo: Il tuo destino è il suo! E seppi di tenere tra le mie mani la sorte sua. Grande fu il mio stupore, e entro il sogno sognai quel che fu un tempo, e fu una cosa strana rivedere il passato sotto nuova luce, e vedere correre gli esseri accanto agli Dei senza scorgerli, rimandando l’apertura dei propri poveri occhi di generazione in generazione.

«Vedono le ombre che anche tu vedevi, e gli esseri veri non li sanno scorgere».

«Vero, ma poi apersi gli occhi, io».

«Ma credevi alle fate, essi non più».

«E chi li distolse da una così bella credenza?»

«L’inettitudine ch’essi chiamano scienza. Vanno in guisa di ciechi e pretendono di essere sapienti solo perché le loro macchine funzionano. Specialisti di piccoli enigmi, non più d’uno a testa, apparentano la propria abilità di buoni enigmisti, peraltro relativa, con quella di coloro che diedero al mondo la sua natura. Si fanno beffe dei vecchi miti, o se ne fanno di nuovi e più poveri, che non hanno risonanza nel cuore loro, e in tal modo, nudi di ogni sapienza, perituri al modo delle effimere, periscono, dopo aver distrutto tutte le strade verso l’abisso».

«Temono forse ciò che li farebbe vivere?»

«Sicuramente. E più passa il tempo più grande sarebbe il loro sconvolgimento, se se ne accorgessero. Un giorno gli esseri frequentavano gli Dei, poi per invidia se ne allontanarono; infine li nascosero in cielo e per lunghi periodi di tempo li scordarono, ma ancora a volte volgevano verso di essi. Ora alcuni, se potessero, vorrebbero addirittura interrompere la strada, e altri, come tremanti cuccioli, si nascondono al loro seguito».

«E mio padre fu forse di questi?»

«No, ma preferì generare nelle generazioni che periscono, proprio come loro. Sempre così si porta chi troppo crede la vecchiaia e la morte: a un certo punto i vecchi sogni vengono scacciati da nuove illusioni, il tempo antico è distrutto a favore del tempo moderno, e questo tempo è sempre uguale e si chiama volontà di restare. L’angoscia allora sconvolge il petto dei viventi e, un’ora appena prima di afferrare la propria stella, la paura stravolge i loro intenti, s’incarna nel loro sesso ed essi accrescono le generazioni. Di qui seguono per loro nuovi contrattempi che chiamano, con l’ausilio delle masse che così pure si comportano, doveri e obblighi e esempi da mostrare. In tal modo i loro calcoli colgono il segno e, prima che l’angoscia possa costringerli su un’altra strada, essi lasciano il corpo tra le lacrime che i parenti, con la scusa del loro dipartirsi, versano per se stessi. In tal modo, a un occhio esperto è manifesto il ridicolo, eppure essi non vollero mai accorgersene, e a loro volta piansero in precedenza molte compiaciute lacrime per i propri dolori insensati, mascherandole con nobili sentimenti».

«Duro è quel che tu dici».

«Non più duro di quel che tu pensi, giacché io sono una voce che ti appartiene».

«E questo io celo nel cuore? O infinita amarezza! Cessi io presto il cammino, e incontri una buona volta colei che mirai di sfuggita! Soffierà via da me tutto quel che è stato, e quel mondo ch’è più antico del tempo verrà restaurato!»

 

 

CAPITOLO VENTIDUESIMO

Dove Tobia entra nel regno del Sole e gli appaiono Samaele e Michele

 

La voce non parla più. Rimettiamoci in cammino, Tobia, si addensano molte nuvole rosse laggiù, e il sentiero è ancora più ripido. Dietro quel dirupo rifulge una gran luce, e to’, guarda, proprio lì porta il sentiero. Che meraviglia! Sembra la casa del Sole. I miei occhi però soffrono, perché non possono chiudersi; un calore intenso mi pervade e mi brucia.

Ma ecco che questa luce verdognola, meno intensa di quell’altra, dà sollievo ai miei occhi. Fresche nebbie azzurrine, all’improvviso d’intorno, contengono gli effetti dell’ardore entro un limite piacevole.

«Avvicinati, Tobia, e getta sul mio braciere la gemma bianca e rossa!»

«Chi ha parlato? Tu? Sei tu che irradii questo verde alone... E come hai fatto ad apparire dietro le mie spalle?»

«Ti ho visto arrivare e son venuto pure io, per accoglierti ed indicarti il braciere su cui posare la tua gemma».

«È questo il Sacrificio?»

«Questo è un sacrificio, sì».

«A che e per chi?»

«Te lo mostrerò per immagini e ti convincerai che è un buon sacrificio. Ma cos’è questa nuvola grigia che si sprigiona dai tuoi lombi?»

«Non ne so nulla. Che nuvola?»

«Non importa... ho avuto come un’impressione che mi suscita singolari ricordi. S’inizi tuttavia ciò che è ordinato!»

 

* * *

 

Che succede? cos’è questo? Un calore mi fa avvampare, un languido abisso si scioglie per tutte le mie vene, le nebbie azzurre e verdi entrano per i miei occhi, per le nari, il sesso, gli orifizi tutti del corpo. Nulla più vedo, se non confuse immagini prive di senso. E ora, oh bellezza! oh splendide! Chi sono costoro che sui mutevoli loro corpi attirano i miei occhi offuscati? che affascinano le mie ossa, celebrano la morte d’ogni mio ricordo, avvolgono le membra del mio corpo in voluttuose spirali, e costei, l’azzurra, la smeraldina, la ibrida, la negra, mutevole bellezza che mi scuote, sbianca il cuor mio e scioglie ciò che fui e che sono, sugge i miei nervi e s’intromette tra le viscere mie, e possiede i tendini delle mie caviglie, i noduli delle mie ginocchia, l’abisso invisibile delle mie arterie, questo specchio che danza bevendo in sé la mia immagine, che guida le mie stesse mani, la gola mia, circonda la stella del mio petto... L’intero mondo mi esplode in fuoco nel petto! O ossa mie, generate da una cattiva madre che non comunicò al midollo quest’ardore, danzate ora, oltre i vertici della vita e della morte, la sarabanda di quest’essere che fu un bimbo e un uomo, ed ora beve se stesso nell’intimo paradosso di un abbandono che lo consuma!

 

* * *

 

«Lilith, come sei sorta dal groviglio della mia magia? Chi per entro una grigia nube ti portò qui, carne oscura del mio cuore? E perché mi vieni a distrarre nel mentre che compio un’opera magistrale? E pure, non può non godere Samaele al vederti, anche se giungi nel preciso momento in cui stava gettando l’uomo in pasto alle tue immaginate sembianze.

Ma quale fuoco scosse proprio ora l’uomo che giaceva allacciato alla tua ombra?»

 

* * *

 

Ares il bianco ed Ares il rosso! e una donna della sua guerra! Per un attimo l’inganno allentò i freni, e la negra distruzione fu trasmutata in rossa vita. Ed ora sei tu che giaci in pasto all’ombra, o astuto, o maligno Samaele. Un fuoco, ch’era di natura avversa al tuo inganno, un fuoco generato dall’Oro, dal rosso Oro, sconvolse la base del mio generare e correndo per le spezzate ossa ricompose dietro i miei occhi il Sole radiante dello sguardo. E il tuo morto mondo fu incastonato entro una gemma ch’è bianca ed è rossa, lasciando in sua vece spazi che colmò questa luce d’oro. E la Luna giacque nel caloroso amplesso del Sole, il pensiero fecondò il sentimento, e l’ardore giacque sotto i miei piedi come terriccio del verace sentiero. O Sole, Sole del mondo! Su tal sentiero è ora nato il tuo fuoco vero e sacro. Ecco per te la gemma bianca e rossa, la Figlia del Fuoco, che trattiene la tenebra e la brucia. Giovi ancor essa al tuo perenne ardore! Splendi, tu, Oro della mia anima!

Ma che va ora sussurrando Samaele quasi all’orecchio d’un’invisibile figura?»

 

* * *

 

«Ecco, Lilith, Samaele ti dona questa preziosa gemma. Adòrnatene. Per essa fu consumato un uomo».

 

* * *

 

«Samaele, che dici? Tu non l’hai; la gemma di Ares bruciò, per accrescere la luce!»

«Non badargli, Ireneo. Egli ha visto ciò che voleva vedere; e si pasce, chiuso nelle spire di un amuleto più forte di lui, di tutti i sogni che distruggono il sapere».

«Tu sei certo Michele, di cui Raffaele mi parlò, annunziandomene lo splendore».

«E poiché ti ricordasti di te stesso l’annunzio fu veridico. Altrimenti un morbido abbandono ti avrebbe consumato, e saresti ora sostanza delle verdazzurre nebbie. Ti fu somministrato un veleno ma non moristi; non avere più timore di tal veleno. Sesso e fuoco sono tal veleno, perché il sesso incatena e distrugge il sapere di chi non sa vederne il luogo proprio, che ne è altresì la meta. E due parrebbero le mete di tal cosa: una è il generare mediante impermanenti gioie impermanenti esseri; l’altra è d’essere un’infocata chiave che conduce a questo luogo e compie l’amplesso del Sole con la Luna, amplesso che genererà un uomo nuovo alla fine del sentiero. Questa è comunque la chiave di volta dell’edifizio del Tempio; molti si persero anche in seguito ma moltissimi non poterono neppure mai giungere qui. Qui è dell’amplesso l’inizio, che si chiama risveglio del Sole. Innamorato, esso abbraccia la Luna. E questo inizio è Apollo, il Padrone dei Dardi Luminosi onde illumina, in guisa di gioielli senza pari, la corteggiata Luna. E la Luna è la tua mente, e il Sole è il cuore tuo».

«Non c’è più Samaele».

«Compiuta la rivelazione, in questo luogo egli non ha più luce per apparire».

«E cosa fu che, per mia buona sorte, lo distrasse?»

«Ciò che sorse in te gli scagliò contro il suo inganno, e bevve le sue stesse menzogne. Perché egli non sa con sicurezza che c’è qualcuno più forte di lui, non si rende conto della propria debolezza. Infatti, rispetto ai tempi in cui riluceva come la Prima Stella, e da quando ha iniziato a ordire finzioni sulla trama della mente degli esseri, è molto decaduto. Tutti gli inganni che non gli sono riusciti l’hanno legato, sagomato, modulato, e ha perso luce e guadagnato una forma cui un tempo sfuggiva per la sua grandezza. E si narra per questi luoghi che un giorno verrà egli così delimitato, così impastoiato nelle proprie reti, che si ritroverà a consumare se stesso in un’apoteosi di morte. Allora ingannerà tutti quelli che potrà ingannare e desidererà, a causa di quelli che ne resteranno liberi, quel che egli stesso suggeriva loro, e inizierà una guerra per la sua vergogna, preso per vile orgoglio nei lacci della propria potenza svilita. Colui che nel tempo all’inizio dei tempi volle tutto finirà per desiderare il niente e rimarrà, di un essere che nessuno poteva fermare, la forma pietrificata che, squadrata a blocchi, servirà a edificare la Città Celeste».

«E qual è ora il destino del padre mio, che ho lasciato indietro in qualche luogo che ignoro?»

«Fu assunto nella fiamma che ti sorse dentro. Si fece infatti magico il suono del flautista ed egli fu tratto qui».

«E che fa ora?»

«Vive il sogno che tu stesso gli hai donato, e gira attorno all’albero della tua anima, onde ha assistito alla fuga d’innumerevoli uccelli. Gli parve tal fuga una bella storia, e a poco a poco ricorda la vicenda di Irene. E sta spiando l’arrivo di lei in una vasta cavità del tronco, e dolce gli è l’attesa».

«E quando arriverà, lui che farà?»

«Sarà invitato alle nozze. Molti canteranno, celebrandole, e lui sarà tra quelli».

«E poi?»

«Il canto che lui canterà sarà il ricordo di se stesso, e altre vicende s’intesseranno sulla sua, finché verrà il giorno delle nozze anche per lui».

«E mia madre, che sta con Irene eppure anche in terra, inutilmente attendendo il nostro ritorno?»

«Quando verrà il giorno suo, questa storia la trascinerà, poiché è una magica storia, e lei canterà se stessa e la memoria delle proprie radici. E anche con la vicenda di lei s’intesseranno molteplici altri destini, e lei pure forse celebrerà le sue nozze».

«Forse?»

«Certezze assolute non ve n’è. Forse ve ne sono nell’abisso. Forse ne ha qualcuna Baldassarre Mago. Forse. E comunque non è indifferente, a proposito della madre, l’esito della vicenda del figlio, o di quella degli altri congiunti. Né per alcuno è in effetti indifferente la vicenda di alcun altro, e come essa finisce, perché spesso si trova aiuto presso quelli che reputavamo stranieri».

«E gli altri esseri che conobbi e amai?»

«Vi sono alcuni che vengono attratti dalle storie qui cantate. Altri ne vengono solo toccati. Alcuni poi non possono più udirle, e altri le respingono. Apollo agli uni dissolve le cateratte degli occhi, agli altri lancia bagliori nostalgici, ai terzi volge solo la sua compassione, ai quarti riserva le insidie dei suoi dardi distruttori, il mezzodì opprimente e suggente di Samaele».

«E com’è che questi mi è apparso di color verde, al pari di Archeos e degli Antichi Re?»

«Un giorno la Luce del Mattino volle uscire da se stessa e penetrare da signore nell’abisso. Molte storie furono da ciò originate, ed essa ne fu tratta in basso e scese di rango sempre più. Ora è nel complesso del rango degli Antichi Re, sennonché quelli crescono e lei scende; il verde loro ha acquistato splendore, mentre lo splendore suo s’è fatto verdognolo decadendo.

E narrano alcuni che l’inizio di questo fu così:

Samaele gridò all’abisso Apriti! E quello s’aprì, ma un possente vento gli strappò di fronte la Stella del Mattino, ed egli non poté più gridare e si chinò a cercare quel che aveva perduto. E un Drago uscì dietro il vento e precedendo Samaele ne ingoiò la preziosa stella, e volò per molti paesi, via da lui fin nella terra degli uomini. E lì Archeos e la sua stirpe lo uccisero e s’impadronirono della stella, e Samaele vide tutto ma non poté riottenerla, poiché Archeos era stirpe dell’abisso. E da allora Samaele circondò gli uomini della sua nefasta magia, ma non può distruggerli tutti perché non può più gridare sull’abisso, e il suo splendore è grande ancora ma è legato in un nodo sacro e compie ciò che non vuole. Si manifesta in molti modi, con gran dispiego di colori ed emozioni ma, come hai visto, può essere ingannato da quegli stessi che voleva ingannare.

Molte cose Samaele non sa. E quante volte Lilith gli rubò splendore! E Lilith non è che una delle maschere di Inanna. Infatti molti racconti genera l’abisso sul prato dell’universo, come fiori che nessun essere è in grado di distinguere compiutamente, neanche Samaele. Di molti sente il profumo, ma di altri lo confonde o lo ignora, e molti spiriti penetrano in lui per questa via, e lo pervadono a sua insaputa».

«Che farò adesso? Brucia il Sole luminoso dietro i miei occhi».

«Andrai innanzi. Quel che s’è acceso illuminerà la notte».

 

 

CAPITOLO VENTITREESIMO

Dove si tratta di angeli e di Eros e torna a mostrarsi Ermete

 

Così Michele è andato via, e un Gufo mi ha portato la quarta fetta della torta di Irene e mi ha gridato nel suo strano linguaggio una domanda: Chi è come Dio? E questa domanda è il nome di Michele, e turba il mio ventre e le mie ossa, e il Sole mio se ne sconvolge e così m’accorgo che non è ben fermo e che esige dell’altro per non fuggir via. Ed anche m’accorgo che sono passato oltre la metà del cammino e che non vi è più un Tobia che si contrapponga ad Ireneo: solo il Signore della Pace rimane, ma non è ancora se stesso. Pareva Ireneo una fantasia di Tobia, ma ora mi accorgo che fu piuttosto Tobia un’immagine gettata nel mondo da Ireneo; fu un gioco che verrà giocato ancora, la somma di tutti i legami della vita. Poi Raffaele, il cui nome è Medicina di Dio, dischiuse gli occhi all’essere che si celava sotto il nome di Tobia, e questi fu posto innanzi alla parola che è il nome di Michele, e si trovò all’inizio della sua solitudine. La gran parte degli uccelli è fuggita dall’albero dell’anima mia; delle migliaia e migliaia di anni, poche me ne restano di cui liberarmi. E ora uno senza nome, che dicono diverrà Ireneo, se ne va solo e gli pare che non l’aiuti alcuno. E chi è come Dio, che non ha bisogno di nessuno?

 

* * *

 

«Come può dire che nessuno l’aiuta? Non l’abbiamo finora aiutato e sostenuto, o Inanna?»

«Sì certo, ma è iniziata la sua quinta prova, che è nel nome di Gabriele, la Forza di Dio. Ha bisogno di questo, ora, e di nient’altro. E non possiamo noi, sorellina, dargli questo».

«E neppure possiamo ancora tessere la sua veste di sposo».

«Infatti bisogna attendere che avanzi nel cammino. Eros per ora non si moverebbe volentieri dal Palazzo d’Inverno: l’Avo gli piace, pur se lui, così giovane, ne è tuttavia senz’altro più antico. Ma ama guardare nel Palazzo nascere e morire i mondi, come a un figlio d’uomo piace osservare la corsa dei treni. E ben sai che non si possono preparare le nozze senza Eros: troppo commettono questo abuso gli uomini, ma qui non verrebbe tollerato».

«Chi non lo tollererebbe?»

«Quel che noi siamo e le belle storie che abbiamo raccontato. Non fuggisti tu forse dal mondo proprio a causa di quella che ti parve l’assenza di Eros?»

«Credo fosse per questo, sì».

«Ed io per amore cercai Tammuz fin oltre le sette porte del regno dei morti. E del resto gli uomini stessi non possono realmente celebrare nozze senza Eros, ma solo possono, con l’ausilio di qualche prete ignorante, fingere di celebrarle».

 

* * *

 

«Come mi vedi ora?»

«Con una faccia in su e una in giù. E hai un volto sul davanti e uno dietro le spalle».

«Ne ho anche uno in mezzo. Uno su e davanti, uno giù e dietro, e uno in mezzo. Per questo son detto Tre Volte il Grandissimo».

«Hai anche una verga in mano, alata, e due serpi vi montano a baciarsi».

«È perché ora iniziano il regno d’Afrodite e il mio. Presto, credo, mi rivedrai. Ma ricordati di cercare, sotto i quattro volti degli elementi del mondo, il volto quinto che li oltrepassa ed include, e che unisce il sopra e il sotto, il dietro e il davanti. Infatti, quando questi si uniscono, le ali prendono ad innalzare l’uomo; ma se stanno separati non vi è forza per volare. E in questo lungo tuo viaggio hai ancora bisogno di ali, Ireneo. E io vorrei vederti ancora una volta, perché tu possa superare il mio enigma».

«Più venerabile ancora dell’altra volta tu sei, ma anche pari più giovane».

«Hai forse bisogno di travestimenti che t’impressionino? Io muto come voglio. Va’, ora, e ricordati dei volti di Ermes. Mi chiamarono per essi anche Giano, il Bifronte, e guardo i misteri del sopra e del sotto, e le Porte dell’Occidente e le Porte dell’Oriente, e i transiti dei molteplici cieli».

«Ma qual è la regione che s’apre ora ai miei occhi?»

«Quella di Afrodite. Possenti miti narrarono di lei, ma non furono con ciò fedeli abbastanza ai suoi pregi. Va’ da lei, adesso, tra le rocce ricolme di rame ove sorge il suo regno».

 

 

CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO

Dove ad Ireneo appare Afrodite, preceduta da una visione e dalle sue ancelle

 

Per un po’ ho camminato e poi, ecco, son sortito qui, e un uomo e una donna erano congiunti sotto i miei occhi, e si baciavano con molto ardore. Ma il loro fuoco non è quello che mi mostrò Samaele: dolci sono i loro gesti, pieni di tenerezza, e li circonda un velo invisibile attraverso cui non si può passare. Di qui li posso vedere; se però avanzo, si celano ai miei occhi. Ed essi non vedono me né nessun altro, ma stanno congiunti di continuo, rinfrescati da una timida brezza che scompiglia i loro riccioli, e riscaldati dalla terra stessa, dal rame ivi celato, che getta su senza fine effluvi che turbano anche il mio sangue. Ma ben so che quel che potrei fare io non sarebbe pari a quel che vedo, perché tali immagini non son pareggiate dai fatti.

«Pure, non sono Dei, e potresti fare altrettanto tu stesso con me, anziché nascondere quel che provi».

«Di dove sei giunta, così bella? Di fronte a te certo non posso nascondermi, sei troppo pari ai miei sogni. Ma non potrebbe, quest’amante, compiere le gesta ch’egli stesso si finse. Prima che il ricordo mio compia se stesso, tutto questo cesserà, lo sento; e prima che il sogno possa venire gettato nell’intimo del mio stesso essere, e divenga natura il desiderio dei molti anni ch’entro mi spinsero a questi luoghi, prima di questo nessun incontro è il mio. E se con arti a te pari tu mi legassi per un’ora, a questo incontro tuttavia io non apparterrei. Infinita è per te la mia ammirazione, ma amarti non sarebbe ancora se non l’arte che genera un istoriato simulacro, e non l’incontro che cerco fuor del labirinto dell’anima».

«Pure, non sono molto per te quei due giovinetti abbracciati? Se è il tuo stesso aspetto che ti ferma, io te lo posso mutare: ricche sono le mie arti e bello è il mio pensiero. Ancella di Venere io sono, eppure ti vorrei trattenere, perché mi attraggono, o cantore, le storie che rechi con te».

«Molto, è vero, sono per me questi due amanti. E per molti che in me ancora dal loro passato si agitano sono gli anni forse in cui dispersero il meglio, sicché li rimpiansero senza poter sperare di tornarvi. E tu mi daresti questo, lo so, ma il mio cammino va ancora oltre».

«Pure, guarda: altre tre ancelle sono qui venute. Se non ascolti me, ascolta loro. Hanno nel viso, nel corpo e nello spirito tutto quel che desideri da donna».

«Non lo nego di certo: in questi quattro esseri si celò tutto il segreto dei miei sogni, che ora mi viene qui mostrato in questi quattro volti, che dilacerano la mia resistenza e scuotono la mia volontà. Ma lasciatemi uscire dal magico cerchio, ché mi istruì Ermete che cercassi quel che è nel mezzo e non l’apparenza vostra!»

 

* * *

 

Sono improvvisamente svanite: il nome d’Ermete le ha spente. Erano pur belle, e di gioia malinconica ricolme. Erano giovinezza e bellezza, e sogno e dolcezza. E ora sono rimasti solo gli amanti nel loro impareggiabile connubio: le cose stesse respirano i loro pensieri. E chi ora, da essi e non fuori di essi, sorge con meravigliata pace?

«Pronunziasti il nome di Ermete nel regno mio, nel regno di Afrodite. E bene facesti, ché senza intelletto l’amore è un vago illudersi e una piccola morte. Non per odio verso di te, però, qui si scorgono tentazioni così belle, ma solo perché è consono alla mia natura che, dovendoti tentare a tuo vantaggio, perlomeno lo faccia con grazia. Non scuote il mio cuore che tu superi la prova, né l’avresti scosso cedendo; scuote piuttosto il mio cuore come un cenno di amicizia il tuo ricordo del divino Ermete. Il dì stesso ch’io sorsi dal mare egli cantò per me, e componemmo insieme la bella storia di Ermafrodito».

«Ti porto, se vuoi, anche segni di Ares e di Zeus, del vecchio Crono e di Apollo».

«E reca dunque anche i miei, e infila al collo questa collana di perle ch’io trassi con me dalla spuma di Oceano».

«Le tue perle... ma che succede? Le ho poste, sì, intorno al collo, ma sono svanite!»

«Esse sono ora dentro di te: la mia collana è il diadema di raggi della tua stella. E molti esseri sono fuggiti, a veder tale diadema, dall’albero nel bosco della tua anima. E le fanciulle che hai qui veduto danzano ora attorno a quest’albero, attendendo l’ora in cui canteranno un memorabile imeneo alle nozze tue e di Irene. Poiché qui non vi era nulla che ti fosse nemico e, se anche avessi fallito nella prova, avresti perlomeno incontrato una buona illusione, una gradevole magia».

«Infatti di quelli che ho incontrato pari la più benigna, se pur più distante sembra il tuo cuore».

«È la mia pace a rendermi estranea, ma mi animo durante gli imenei. Allora nessuno mi è pari per i doni che reco! E poi sappi che proprio questa stessa pace protegge il mio regno, perché induce in inganno gli esseri indegni e costituisce la principale ragione del loro smarrirsi. Essi infatti attendono forme irreali, che scaturiscono da ibridi sogni, e non pensano a cercare qualcosa che mi somigli. Vai ora, e ricordati di Afrodite, madre anch’essa della tua memoria».

 

 

CAPITOLO VENTICINQUESIMO

Dove si descrivono gli effetti del dipartirsi di Afrodite e compare Gabriele

 

«Cielo, che male! Se mai un uomo è stato abbattuto dal bello, così gli accadde come è accaduto a me. Questa terribile serenità, ardente come il sale sulle piaghe, serenità che ferisce gli occhi, allarga a violenza le pupille e penetra nel cervello: cecità e dolore è questo. E non sentivo sinché non se n’è andata, perché prima i dolori dell’uomo erano fuggiti, e sono tornati ora a recuperare gli spazi abbandonati. E per un attimo, quando tutto quel che vedevo s’è sciolto nel nulla, ho creduto di morire ancora. Era duro, infinitamente duro tornare a questo sentiero di pietre. E non fu il vedere le sue ancelle e i fantasmi dell’amore il difficile, ma questo, essere aggrediti mentre il cuore era in pace e i sensi chiari, e il desiderio di procedere gioioso e vivace. E per questo invocavo il ritorno di Afrodite, o delle ancelle sue.

O Ermete, perché non mi dicesti che il quinto volto non era semplicemente quello di Afrodite? Sconvolto, fui preso da delirio e dolore; le mie giunture cedettero, e coprivo gli occhi con le mani ma il Sole del passato attraversava le mani, e le mani stesse vedevano, vedevano le braccia, il corpo tutto vedeva il bagliore dei sogni! Afrodite dischiuse il recinto loro, e se ne andavano liberi, e contro di me cozzavano e s’infrangevano.

Tempestato da miriadi di sogni, non ne vedevo però alcuno distintamente, e sopportavo ognuno di loro come una pietra spigolosa gettata contro il più intimo centro del mio cuore. E nel più intimo centro del mio cuore, sorto da questo sangue d’efferata tortura, nacque un quinto volto che in me dispiegò il potere di Venere! E io caddi in un delirio più acuto ancora, quando occhi che non supponevo esistessero sorsero nel torturato abisso del mio petto. E ogni perla che ivi stava pulsava come un cuore trafitto, e conobbi così come le esperienze sono composte nella mia storia in unità di uomo.

E quest’unità di uomo si chiama Colui che è mille volte trafitto. E in costui si pone il potere generativo di Venere, che ne è la vergine madre che lo nasconde nell’ombra. E questo segreto spezza l’apparenza in ardenti sofferenze. E queste sofferenze hanno un bianco volto, simile a quello del discendente di Archeos, del Medico che fu tradito, e terribile è il dolore del suo petto. O Dio, come può essere che un mistero di bellezza celi una tale guerra? Dodici perle erano nella collana di Venere, meravigliose perle, ed erano dodici cuori, dodici volti, dodici parole, dodici astri, e tutti grondavano sangue! E le ancelle dell’amore, il cui nome comune era Venere, celavano questo nel misterioso abisso della loro giovinezza!»

«Era l’altra faccia del Palazzo d’Inverno: avevi una faccia, la faccia degli Dei; ora hai quella degli esseri che muoiono. Ancora una te ne manca, la tua propria, e per questo hai bisogno di Irene. Tuttavia hai percorso già una buona parte del cammino verso di lei».

«E tu chi sei, meraviglioso Uomo che col tuo solo apparire già lenisci il dolore che mi scuote?»

«Il mio nome, quale tu lo attendevi, è Gabriele. Io annunzio e fecondo e porto ausilio. E quel che nasce in queste regioni e da queste regioni sorge io assisto e coadiuvo. Perché la mia natura è Forza di Dio, e congiungo il secolo e l’abisso; e questo congiungimento è struggente dolore e nostalgia, poiché è questo l’inizio della vicenda del tutto, quando Uno spasimò per il Secondo, e Questi prese ad essere, e ci fu un Terzo a congiungerli. E con ciò fu gettata una passione, e un luogo per il suo risiedere, e questo luogo fu detto universo, e la passione vi stette come lo spirito suo. E un luogo fu fatto entro questo stesso spirito, e qui sedettero i Tre, e il mondo fu edificato secondo la loro immagine. E per il processo di tale edificazione nacquero vicende alte e vicende basse, splendori e ombre, e lo stesso cammino per cui tu cammini.

E quando, su questo cammino, gli esseri si incontrano con la Madre del Mondo, che Venere ha nome e molti altri con quello, e incontrandosi con lei scoprono quel che si cela nella memoria sua, e tale memoria essi pure acquisiscono, allora io, Gabriele, li soccorro, perché hanno bisogno di aiuto, o l’enormità dei ricordi schianterebbe loro il cervello e il cuore!

E così pure, quando un dio nasce nel mondo, io porto la Pace che ne vela l’aspetto nel petto di colei che lo genera, perché il suo corpo e lo spirito suo non si schiantino! Io annunzio, e annunziando pacifico, e pacificando unifico. E questa unione è potenza e forza, e Archeos l’Antico per primo così mi conobbe, perché egli passò di qui molto, molto tempo fa».

«Ma se è così, come fu che lo incontrai già agli inizi del mio cammino? Non avrebbe egli dovuto raggiungere l’abisso?»

«L’abisso, Ireneo, è ovunque, e Archeos può mostrarsi e non mostrarsi. E se si mostra, può esser lui ma può anche essere solo la storia che lui raccontò. Molte strade corrono per questi spazi, e a volte sono vere e a volte sono ingannevoli. A volte, poi, sono semplicemente diverse da come sembrano a te. Ma tenere i fili, tutti i fili, neppur Gabriele potrebbe! Tentò di farlo colui che già incontrasti, Samaele; ma ben hai visto come si sia smarrito. Per quanto tu qui oda racconti molteplici, e per quanto buona tu avessi e ti sia divenuta la memoria, tuttavia non può il tuo intelletto ancora contenere tutta l’immensa vastità delle connessioni. Nel Luogo oltre l’Orizzonte, nel Luogo che non è un luogo, entro l’eternità, che genera la storia al modo che la Madre dell’universo genera la dolorosa passione del Sofferente, e che getta fiori sul mondo, e mondi interi rinchiude in esili fiori, in tale abisso, forse, è possibile sapere. Ma qui il mio ruolo è soprattutto di mostrarti quel che forse da solo non vedresti, cioè questo zolfo che, generato dal rame, sta in forma di minuscolo segno sulla fronte tua».

«Brucia il mio Sole acceso, proprio dietro questo segno che mi mostri. Ho paura che il mio capo prenda fuoco».

«Non temere quel che non devi. Tu invero stai già bruciando, ma è un fuoco che bruciando ricrea. È il fuoco di Efesto, che Venere ebbe per sua sorte in sposo».

«Pure, ricorda in parte il fuoco di Samaele».

«Infatti il fuoco è il medesimo; ma è ciò che brucia che cambia. Tu non sei Samaele, e non ti perderai nel finto amplesso di Lilith. Prosegui, invece, e calmerai il fuoco finalmente, all’ora tua, nelle acque di Irene. Lo zolfo incontrerà il mercurio, il Sole abbraccerà la Luna, e infine anche tu potrai guardare negli occhi colei che ti attende. E ti attende da molto: va’, Ireneo».

 

 

CAPITOLO VENTISEIESIMO

Dove si parla dell’impazienza di Ireneo

 

«Che fa ora, dolce sorella Inanna?»

«Sempre più simile mi pare al mio amato Tammuz. Va pensoso, tentando di comprendere quel che gli accade. Molti sono ormai i luoghi del suo spirito lasciati vuoti dalla sua libertà, e le cose future, quasi non più incognite, si smuovono e premono in lui. Le passioni danzano alla soglia della sua coscienza la danza della propria metamorfosi, ed egli vorrebbe assistervi, ma ancora non può: quel che ha dentro non sa ancora guardare».

«Ha portato, la Colomba, la quinta fetta della mia torta?»

«Sì certo. Ireneo l’ha gustata quasi di fretta, poiché ormai è impaziente, vorrebbe vedere te. Ed avverte una certa stanchezza, ché in breve spazio di tempo conobbe gioie e dolori e tentazioni tali da stroncare centinaia d’uomini. E tutto ciò senza poter neppure compiangere se stesso, poiché sin dall’incontro con il vecchio Crono egli non può più farlo: piombo fuso ha chiuso per sempre questa porta, e il luogo stesso che dietro essa si celava è bruciato. Perché ben sai, Irene, che molti regni svaniscono per non più mostrarsi mai, su questa strada.

Per questo stesso motivo, dunque, mal sopporta ormai Ireneo gli indugi, e che gli manchi ancora una dose di sapienza. Il violento Unicorno, nei regni di Giove, gli ha tolto la voluttà dei contrasti e dei conflitti oziosi. Pur tuttavia, queste che lo attendono ancora non sono inutili tappe, ma inevitabili conclusioni. Molti vi sfuggirono per eccesso di fiducia; e narrano che vi siano luoghi dove stanno coloro che si sono convinti d’essere immortali ma che non conoscono la fine della strada. E giacciono, si dice, in balìa di questa loro illusione ad attendere inconsapevolmente l’arrivo della morte».

«Triste davvero è tale sorte; meglio non procedere neppure che finire così. Ma come hanno potuto ingannarsi a tal punto?»

«È che non hanno capito che le anime che si sono fermate divengono pesanti, e che la loro pesantezza aumenta sempre, finché non le porta a morte».

«E non sentono tale pesantezza?»

«Sentono ma non capiscono, perché piacevole è l’appesantirsi dell’anima. Essa infatti, tosto che di qua si fa greve, di là pone le fondamenta di una nuova esistenza. E venire a esistere è uno struggente piacere, seppur piacevole non è poi sempre quel che segue».

«E come accade ciò, che essi generino nuove forme?»

«Coloro che non furono da essi liberati li portano a ciò. Quei mondi che non vollero o non poterono dispietrare dall’albero antico della loro anima ancora una volta manifestano l’ardore del loro rimpianto, foggiando nel presente forme adatte a riporvi ancora una volta le proprie speranze di libertà».

«In un certo senso, dunque, ognuno ha entro se stesso i propri nemici?»

«Non i propri nemici, bensì le prove che deve superare se vuole porre lo sguardo nell’abisso. Se poi non vuole, accetta la propria servitù».

«Non così sei tu, Ireneo! Ma affrettati, neanch’io ho più voglia di aspettare».

 

 

CAPITOLO VENTISETTESIMO

Dove Ireneo passa nel regno di Ermete e lo incontra per la terza volta

 

Come arde questo fuoco! Mi pare di capire, ora, l’agire di quei Draghi di cui si disse che, soggetti a violente collere, vanno in giro gettando fuoco dalla bocca. Forse anch’essi sentono questo insopportabile bruciore, e tentano di spegnerlo nell’acqua ma l’acqua svapora a tal fiamma, ed essi non possono uscire da tale sofferenza. Spero bene però che almeno l’acqua di Irene, nel mio caso, sia in grado di porre rimedio.

Ma ora che succede? Non capisco bene dove eppure, me ne accorgo, muta qualcosa, il calore diminuisce, anzi viene soffocato del tutto... Che? Mi muto in serpente? Io? Io, Ireneo, divengo un serpe? E non uno bensì mille! Ogni muscolo un groviglio di serpi, una disciolta gamma di passioni che spengono il bruciore. Quest’unità di Ireneo si scioglie e ogni suo atomo è una sensazione che per sé vive e si conclude, e ha forma di guizzante serpentina, e muta pelle e si tramuta di continuo e, convivendo mille bestie nel serraglio del mio essere, io assisto a una danza che non ha paragone.

E i pensieri, i ricercati pensieri, i nobili pensieri a cui affidavo il cammino – o sommo ridicolo! – essi pure son nasse che pescano serpi, e l’immondo groviglio mi spezza la mente. E c’era un mondo sotto e uno sopra; ora se ne stanno confusi e giocano in guisa di mimi scimmiottantisi l’un l’altro. O baldracche! O mercatanti dell’anima gli sporchi pensieri, gl’infidi rettili, i vili! Sono aperte le porte che proteggevano la casa della mente dalle estranee lordure, lordure la cui umidità è così intensa che attenuano il fuoco e un gran piacere, in sostanza, mi procurano.

È ben nobile il Drago che non diviene questo, e si limita a gettare il suo fuoco e ad uccidere i suoi nemici. Intensa voluttà, una bocca con voce sazia e avvincente mi dice che tutto, tutto di me sarà questo, un piacere, una perpetua voluttà, generazioni di passioni soddisfatte, serpi da serpi fino a riempire il mondo. Quale ridicolaggine il pensiero, mi dice, ecco la testa di Medusa, diverrai la sua stessa chioma, e non avrai più il compito ridicolo di costruire un umano pensiero, tutti i pensieri saran pensati da colei che ora ha aperto le porte per liberarmi, dice, dal peso increscioso.

Qual profonda tentazione, quale risposta alla terrena stanchezza, al dolore, alla piccola saggezza che mente, all’ignobile burocrazia dell’anima. O orrore e orgoglio di morire! Di fronte ai becchini della gioia, ai vili persecutori del corpo e del piacere, ridere di loro fino a creparne, in magiche dissoluzioni che guizzeranno nel mondo a invischiarli, tradirli e impietrarli con l’inimmaginabile, con l’inattesa sventura che è il viso di Medusa. O vendetta di molte sofferte vite! Contro l’ignorante presunzione ignorare più a fondo, fino a trascinare la menzogna stessa in una più acuta che la terrifichi, la stronchi. I massacratori della bellezza, gli uomini, stroncati dall’orrore dei propri assassinii. Concedi, dice questa splendida bocca, il tuo fervido intelletto in sacrificio per la morte degli uomini, dei ruinatori della natura del mondo. O tentazione, profondo potere di quella bocca!

L’essere mio è sconvolto, eppure anche è imperioso il fuoco che brucia, e lo zolfo, che arde e subito è spento, e riarde ed è spento di nuovo, ché un orribile gioco si compie. Non ho più uno spirito od un corpo: solo nidi di serpi e grovigli di indomite passioni. E hanno nascosto l’albero della mia anima: rettili mi escono dagli occhi e, pieni d’ardore subito placato, afferrano in frigidi amplessi i rettili che escono dalle stelle! Tutto quel che mi sta attorno ha perso le sue sembianze, e solo più vedo ingegnosi intrecci di codesti serpenti.

E però anche vedo che questi serpenti hanno due nature, sì, molti che innanzi non vedevo ora li vedo, e stanno immobili e sono la gran massa, più assai di coloro che si muovono. Sfumature, soffi, brezza, penombre, alberi, pietre altro non sono che costoro, che immobili giacciono nel seno stesso del movimento. E poi, se ne muove in realtà qualcuno? Ora mi pare piuttosto che non le cose, i serpenti, si muovano, ma che il movimento stesso, in guisa d’un grande essere, seco li porti nelle fogge più varie. Questi serpenti non sono insomma altro che le squame di un Drago, e Medusa è i suoi occhi. Esso pensa con gli occhi e ciò che vede è fatto movimento, e per questo esso impietra gli uomini vani che, a motivo della propria vuotezza che nulla può sospingere, non possono più muoversi. E son fatti pietra, dunque, perché così li vedono gli occhi di Medusa, i pur privi di inganno: li pietrifica il vero.

Io però ben m’accorgo che ora ne son libero, e tutte queste serpi lungi da me son guizzate, e la figura opaca del Sire che ne consiste, del Drago, ora si staglia quasi chiara nella penombra attorno a me. E dentro me c’è un vuoto nero che mi attrae, e una figura luminosa ne sorge, ed è un uomo armato e getta contro i miei occhi una tagliente lama, e non vedo più che dolore!

Chi m’ha accecato? E chi, dopo avermela sottratta, mi ridona ora,benevolo, la vista? E non c’è più l’uomo armato, ma una donna dal volto severo, armata d’inflessibile durezza e d’uno scudo, lega su questo con la mano di marmorea forza la testa dagli occhi freddi di Medusa. Ella mi getta un solo sguardo, che non è simile agli sguardi umani, e so che il nome suo è Minerva. Mentre i miei occhi a poco a poco risanano, la massa opaca del Drago viene sciogliendosi in una vaga ombra e io vedo, inattesa, nella mano mia, la stessa lama che mi fu gettata contro gli occhi.

«Questo è il cammino del Cinabro, Ireneo! Per qui si va verso le regioni lunari».

«Ermete!»

«Ermete sì, o Mercurio, o in altro aspetto anche Ermatene, o Minerva. Molteplici intelligenze fanno capo a me, le loro correnti tutte a me risalgono. Così pure le serpi amorose della mia insegna non due sono ma, come ora vedesti, infinite. E il caduceo è l’arma che individua ciò che esse sono di là dalle parvenze; e questo caduceo tu hai ora conosciuto e hai veduto il suo volto, che è quello di Minerva, di colei che sorge dal capo di Zeus, dal nero abisso della sua mente, insondabile, vuoto eppure inarrestabile, che nessun potere può fermare, la Sapienza che tu, fatto Unicorno, forte contro le illusioni, hai ora evocato dalle onde fervide e mutevolissime della mia magia. Hai viaggiato sul Mercurio; hai passato il mare d’Argento Vivo delle connessioni intime; hai guardato le radici del tuo albero e sopportato la furia del vento fin sulla sua chioma, grazie al potere di Crono. Ora, vedi, il tuo fuoco più non brucia. Ancora il tuo Sole spasima per la Luna; ma lo zolfo di ciò che hai creato ha contrastato efficace e ucciso con la sua violenza il Drago del mondo onde sorse, e s’è confuso con le sue spoglie. E così ora vola, egli ch’era fisso, a causa del volatile, che ora è fisso a sua volta. Il liquido Mercurio che mai non si ferma è stato da te, tramite me, fermato».

«O Ermete, che vuol dire ciò? Chi volava e chi s’è fermato?»

«Puoi vederla se vuoi in questo modo: l’essere umano è, analogamente agli altri esseri seppure in modo singolare, un incrocio tra molte strade, un lago ove confluiscono molteplici fiumi. Perlopiù gli uomini chiamano se stessi col nome di questa o quell’onda, che appartiene a uno dei tanti fiumi; ma difficilmente arrivano a considerare il lago. La loro coscienza, infatti, qui annegherebbe. Chi però ha potuto rafforzare la propria coscienza, egli l’ha per altro verso resa leggera, sicché galleggia sulle acque e non perde le proprie forze neppure a nuotare nel centro stesso del lago. Proprio per questo tu, pur vedendo te stesso come un groviglio tremendo di isolate nature, hai tuttavia potuto anche guardare, come colui che si china verso le onde senza timore alcuno, il vero volto complessivo che si chiama Medusa, che è anche la magia con cui io, Ermete, passo al vaglio i viandanti.

E la leggerezza dell’anima, Ireneo, è altresì la forza e visione sua, ed è zolfo, di natura del fuoco, scintilla del Sole della notte. E il lago che raccoglie i molteplici fiumi e in cui si radica l’albero della tua anima, Ireneo, questo è il mio mercurio, l’argento vivo generato dalla Luna dell’aurora. E l’atto con cui quegli che un giorno fu chiamato Pèrseo accecò i tuoi occhi fu anche quello in cui lo zolfo uscì di prepotenza dal tuo essere e decapitò la Medusa. E il suo uscire fu la tua cecità. E il suo riuscire nell’impresa fu la rinascita dei tuoi occhi poiché, libero da Medusa, il potere del Drago ad essi si comunicò, e lui disparve e coi suoi occhi ora vedi. Ed è qui attuato in parte quel che fu mostrato all’inizio, poiché il Drago è in certo modo sempre il medesimo che fu ucciso da San Giorgio, e il tuo cammino, Ireneo, porta non già a un tempo nuovo, ma all’inizio stesso del tuo incamminarti».

«Oscurità sono le tue parole. Pure, comprendo quel che hai detto del lago, ché infatti il risanare dei miei occhi s’accompagnò alla sensazione come d’un liquido balsamo che penetrasse le mie membra. E questo balsamo aveva nome Sangue di Serpente o Sangue di Drago. Ed ebbi sentimento di molti rettili, già fatti pietra ed ora disciolti in tali balsamiche acque; e un silenzioso amplesso in me si compì tra il corpo e la coscienza. E dalla tenebra scura di un’orgia senza limiti emerse il divino potere di una visione rinnovata. Ebbi allora tra le mani quella spada, e quella spada era invero il mio corpo, e ora sento che con essa stroncherò le radici di me stesso e, tolto all’immobile mia natura, me ne andrò libero fuor della comprensione degli esseri».

«Non puoi farlo ancora; e non tu lo farai. Ma guarda: corpo e coscienza in te sono uniti; sono essi il Cinabro purissimo. E ora esàltati, Ireneo, ché possano il Sole e la Luna abbracciarsi nel Palazzo di Cinabro del tuo essere! Sii tu un Tempio che ospita gli Dei, il giaciglio senza tempo del loro congiungimento. E per questo devi ancora andare innanzi, Ireneo; ma già il termine del sentiero è prossimo».

«Dimmi però, prima che io torni in cammino, donde nacque questa stessa vicenda di serpenti, e del lago, e del Cinabro di cui ora tu mi parli».

«Nacque dalle spume di Oceano. Quando Afrodite sorse, io la cantai e lei rispose e insieme, congiunti in un’unica figura, ardemmo, fondendo due sapienze senza pari. E fu quella la nostra forma amante, Ermafrodito. E il rame della sua generazione a contatto del mio mercurio liberò uno zolfo che con questo si combinò. Perciò ti apparvi sia prima di Venere sia dopo, perché ella ti desse quel che mi vuole concedere, e poi per prenderlo io stesso a tuo vantaggio. Giovane e vecchio è Ermes, e viene prima e dopo. E così Apollo, il Sole del giorno, splendette dapprima dietro i tuoi occhi; e tra di essi, generato dal rame di Venere, che è il Sole della notte, s’impresse il segno sulfureo; e a me venne da tal segno lo zolfo, e col mercurio da me generato si fuse, generando il Cinabro del tuo essere. E io sono anche la Luna del giorno, la possente Minerva che governa la sapienza. Va’ ora verso la Luna della notte, ove il tuo tempo verrà finalmente reso uno nell’istante eterno della tua libertà».

 

 

CAPITOLO VENTOTTESIMO

Dove si rendono chiare alcune cose oscure

 

«La sesta fetta della tua torta, Irene, gli fu portata dall’Ibis. Egli però quasi non la guardava mentre la mangiava, perché era troppo preso dal desiderio di comprendere. E il suo desiderio di comprendere è per lui tutt’uno col desiderio di te. Pochi uccelli, comunque, e quasi invisibili, restano ancora impietrati nell’albero della sua anima. E ben presto, spero, anche questi voleranno via».

«Come sono oscuri i discorsi di Mercurio!»

«Quasi neppure gli Dei arrivano a comprenderli. Egli è un viandante che per tutti i luoghi ha viaggiato, e nessuno gli è pari in sapienza. Nei sette regni non vi è alcuno che conosca tanti racconti quanti ne conosce lui. E molte storie anche ha narrato su se stesso e, come Baldassarre Mago, ha confuso tutti sulla sua vera natura: protegge i ladri e al tempo stesso libera dalla morte; è l’intelletto divino e al contempo l’abile mercante. Come suo vessillo porta in mano la contraddizione; e ciò nonostante ha ali per volare».

«Com’è ora la stella nel petto del mio amato Ireneo?»

«Molto splendente. Brilla nel Monte di Cinabro come un fuoco nella notte. Più luminoso è il Sole, che riluce nel capo d’Ireneo; ma essa è più intensa, più stabile, più reale. E il diadema di Venere ulteriormente l’abbellisce. Generosa fu infatti Afrodite: dapprima con la presenza sua incoronò la stella, e poi con la sua assenza fece trarre dal rame di Ireneo lo zolfo del suo potere. Ella è infatti la Madre del Mondo e al tempo medesimo la Vergine Celeste. E per la verità ha anche un terzo aspetto di Amante, che appare nella storia di Ermafrodito e in molte altre storie: chi non ha infatti mai sentito dire delle sue molte unioni coi differenti Dei e coi loro poteri?»

«Ma perché tutto questo ragionare di poteri e di metalli?»

«Fu, nella stirpe ancor celata nell’albero, la memoria di un Alchimista a determinare questo aspetto del nostro raccontare. Egli da molto attende di poter volare, soluti i nostri dubbi, come un libero spirito fuor dalla prigione dell’albero. E freme ora colui nella speranza di poter finalmente coniare il suo oro sacro».

«E sul Monte di Cinabro, dunque, al mio amatissimo, a quel che fu e sarà Tobia, che accade ora, Inanna?»

«Bagliori rossi segnano il tramonto del dì della sua prova: un gran giorno attende di rendersi manifesto. Il Sole freme possente; possente scalpita l’Unicorno. Ireneo affretta i suoi passi, con rabbiosa impazienza. Gravoso gli è il cammino, le ultime catene sono le più pesanti; ma muggisce come il Toro di Zeus il suo desiderio per te. Se potesse – e non gli fa disonore – farebbe per questo a pezzi gli Dei. Davvero, Irene, non vorrò incontrarlo, quando infine ti vedrà!»

«Scherzi, Inanna! In te vedrà la madre che lo generò. Pertanto di certo non vorrà farti del male. Se tuttavia lo sapesse ora, potrebbe sembrargli un altro inganno».

«Già. Però non è così. E fin dall’inizio non intendeva forse che la madre sua stava nel bosco con Irene? Ora, di quel che egli è davvero, io davvero sono la Madre. Proprio io raccontai per prima la storia della sua avventura. E la mia natura è vasta e comprende molti aspetti che non appaiono: Inanna è anche la Madre per coloro che seguirono la sua strada. Ed è ora forse lo stesso Ireneo, del resto, quale se lo raffigurarono gli uomini?»

«Davvero no: essi piangono quel che per lui sarà fonte di gioia».

«E così pure essi non comprendono neanche quel che loro stessi fanno. In ogni gesto che compiono si celano gli Dei, ma essi preferiscono credere al valore della propria meschina agitazione. Ciò nonostante, in ogni padre Zeus agisce, e Crono. E in ogni madre la Dea agisce, che è Venere, Luna, Inanna».

«Che pasticcio di nomi, direbbe Tobia».

«Certo, un pasticcio, con qualche imperfezione anche: una storia perfetta non ha parole. Ben lo sa Crono, eppure egli stesso qualche volta racconta. Ma ora puoi, penso, mandare un messaggero al Palazzo d’Inverno, ché venga infine quel pigro di Eros ad aiutarci per la veste dello sposo».

«Hai ragione. E tu, Ireneo, ti prego, molto ti prego, ricordati di Irene. Dolce è la Luna, ma la sua magia è la più forte per l’uomo, e tu sei quasi solo. E se qualcuno t’aiuta ancora, tu certo lo ignori, poiché sei troppo preso dalla tua giusta impazienza. Ricordati di me, amatissimo, ricordati».

 

 

CAPITOLO VENTINOVESIMO

Dove compaiono l’Uomo degli Alberi e l’Alchimista

 

«Ancora tu, verde giardiniere? Come stanno i tuoi cespugli? E com’è che li hai abbandonati per venire qui?»

«Quello non ero io: era mio fratello. Io sono l’Uomo degli Alberi».

«Quello che non potevo vedere?»

«Sì, proprio. Allora la tua misura era quella del cespuglio e quindi non mi vedevi. Ora invece è tutt’altra cosa, e son venuto a innaffiare il tuo albero».

«Eppure insisto che sono un uomo, non un albero!»

«Insisti quanto vuoi, tanto l’albero dell’anima tua io lo innaffio comunque. La sesta fetta della torta d’Irene va accompagnata con una botte della mia acqua. Che è poi la sua acqua. Perché io ne ingozzo tantissima, poi salgo sugli alberi e così facendo mi spremo e pertanto li annaffio. Ma alla Cascata della Pace l’acqua non manca mai».

«E ti diverti?»

«Assolutamente sì».

«E come farai ad innaffiarmi nel modo che hai descritto? Non sono così alto da poterci salire!»

«Faccio così».

 

* * *

 

O Dio, dov’è finito? M’è entrato dentro anche lui. In verità sono proprio una zucca vuota e vasta assai, se può entrarmi dentro anche il grande e grosso Uomo degli Alberi. Ed è strano che mi pare ch’egli stia effettivamente salendo. Ma dove? E come? Ed ecco, io salgo su con lui e nel medesimo tempo qui raccolgo la fresca acqua che ridona le forze. E salgo in alto, molto in alto, sino alla Luna forse; e salgo col sentir lui che sale. E a mano a mano che sale, ciascuna parte del mio albero si scuote da un suo proprio torpore e prende a conoscere di esistere. E mi pare che io stesso incominci ad essere solo ora che salgo. Deliziosa è la frescura che scende per i rami e per il tronco. E in qualche cavo ripostiglio dell’albero alcuni mi par che bevano, bevano senza tregua.

 

* * *

 

«L’Elisir di Giovinezza! O Uomo Verde, chi sei?»

«Colui che ti porta quel che cercavi. Son giunto per ricordarti ogni cosa che perdesti, Alchimista».

«E donde sei venuto?»

«Qualcuno m’ingiunse di venire. Il Signore della tua Pace imperiosamente me lo comandò. Forse neppure se ne rese conto, ma la sua collera, poiché io tardavo, mi parve spaventosa. Venni qui trafelato, colmo come un otre della tua giovinezza, e ne ho portata forse fin troppa».

«Difficilmente può esser di troppo ciò che fu atteso per generazioni e generazioni. Ma dimmi, o Verde, che debbo fare, adesso?»

«Non volevi il tuo Oro, a coronare la memoria della tua rinata giovinezza?»

«Certamente».

«E allora guarda attorno: che vedi?»

«Rami e foglie».

«Guarda meglio».

«Forse un’ombra, un uomo che cammina».

«Sei tu stesso che cammini e al contempo è anche un altro. Seguilo, se vuoi l’Oro: cammina con lui, sii lui. Tu sei l’ultimo che l’accompagna; gli altri, bevuta la mia acqua, son volati via. Tu sei l’ultimo, Alchimista: molta parte generasti della sua vicenda, e lo accompagni sino alla fine. Ciò che non fu da te solo raggiunto, àbbilo in lui».

«E lui chi è?»

«È Ireneo, colui che qui mi mandò senza saperlo».

«Sarà così dunque; ma in qual modo il mio cammino sarà il suo?»

«Attendi a tramutare quest’albero in lucente Oro. Ora sai come fare, perché hai visto e ascoltato, e hai bevuto della rugiada del mattino. Poiché il mio corpo proprio questo gronda e dove vado io va il mattino, l’ultimo imperituro mattino. Infatti del mattino io sono il Dioscuro, come il fratello mio è Dioscuro della sera, e governiamo le stagioni e i ritmi. Segui dunque quel che lo spirito tuo ti suggerisce, ché vedermi fu un dono che accordò con armonia perenne il tuo respiro al respiro del mondo. Sorgi, o Chimico, dalle sedi di pietra, e appresta l’Oro che deve circuire l’argentea Luna e farla sua! E siccome fu detto che Oro non sorge se già non ve n’è una parte, tu troverai tal parte nel centro di quest’albero, ove Febo mutò il piombo di Crono in germe dorato. Se poi la Luna muterà lo stagno delle regioni di Zeus in un germe d’Argento, sappi prendere anche questo, o Chimico, procurandoti gli elementi della tua libertà».

«E quando tutto si compirà e ai miei occhi si mostrerà il doppio prodigio dell’Ermafrodito, quando l’Androgine aprirà gli occhi, che sarà di me?»

«La tua sarà allora un’altra storia, che includerà in perfetta sintonia la storia di Ireneo: saran due racconti tessuti insieme in una mirabile trama. Molti sono i luoghi del tempo, e molto strani. E verso i confini dell’abisso, la mia stessa memoria si disperde».

«Ma ottenesti tu l’Androgine? Lo vedesti e sai cosa vien dopo?»

«La mia storia è diversa. Altri forse, dopo di me, ti guideranno. Ma ora attendi al tuo Oro».

 

* * *

 

«Sei risbucato fuori, finalmente! Mi hai ben bene innaffiato, lo ammetto! Ma con chi ti sei indugiato, lassù nel mezzo dell’albero mio?»

«L’Uomo degli Alberi ha parlato con l’Anima dell’Albero e l’ha convinta a tessere magie in tuo aiuto».

«Ha dunque il mio albero un’anima che tesse magie? E perché finora non l’ha fatto?»

«Dormiva. Un dì andò presso al risveglio, grande fu lo sforzo, ma un banale errore la rigettò per molto nel ventre del sonno. Ma ora infine s’è risvegliata, ha bevuto della mia acqua e ora svolge il suo ruolo. Adesso siete in due e siete lo stesso».

«Come l’Avo del Palazzo?»

«Sì. E se uno muore, l’altro ridà vita; se uno dorme, l’altro lo risveglia; se uno ha sete, l’altro lo disseta. Quando infatti curiamo le piante, io e mio fratello lo facciamo per bene: è per questo che Irene ci dà l’acqua di cui abbiamo bisogno. Lei conosce, nella sua memoria, ciò che noi siamo».

«Chi viene, per di là?»

«San Giorgio. Ogni tanto viene da queste parti».

«Com’è bello! E ora indossa l’armatura, ma il corpo suo è quello di Archeos, gli occhi sono i suoi occhi e l’armatura stessa è di verdi smeraldi composta. E par che senta avvicinarsi una battaglia, poiché innalza la sua lancia risplendente! E non cavalca un puledro o un destriero, ma il bianco Unicorno che scalpita!»

«Quest’è l’opera del Chimico. Coraggio, Ireneo, un Drago, un Drago che non vedesti ancora s’appressa».

«E son quattro, con questo».

«Ma sono il medesimo. Un bambino sconfisse il Drago del bambino; un uomo sconfisse i Draghi degli uomini; forse un sapiente, o un dio, sconfiggerà il Drago degli Dei».

 

* * *

 

«I miei occhi sono attratti da San Giorgio. Ha uno scudo, e ivi figgo lo sguardo. E tale scudo ha nome Cinabro, e il Sole è celato nella mano che lo tiene. Lampi rossi scaturiscono dagli occhi del divino Unicorno, e tali occhi mi guardano e mi trapassano il petto, e la mia stella ne sorge, e io con lei sorgo dal mio stesso petto e volo, volo, Dioscuro del Verde!»

«Vai, Ireneo, la tua strada passa per tale volo, poiché dalla propria anima l’uomo volò verso l’anima del mondo. E molte insidie costellano il cammino del cielo: stelle nere vorrebbero divorare le lucenti stelle delle anime. Ti assista dunque la fortuna, Ireneo: possa infine incontrarti la bellissima Irene!»

 

 

CAPITOLO TRENTESIMO

Dove vengono attraversate le regioni della Luna e si conclude il racconto

 

Volò Ireneo, attratto in una spirale, attorno all’albero della propria anima. Volò e volò finché raggiunse le regioni della Luna. Sorse allora nell’aria un Palazzo d’Argento, e molte stelle gli facevano corona. E dietro di sé come davanti a sé era tutto nuovo, e i suoi occhi fissavano innumerevoli figure sconosciute. E nessuno lo guardava, ma ogni figura volgeva a occupazioni sue proprie, ed erano fredde tutte nel viso e nel cuore, bellissime e pallide come i morenti. E si diresse allora Ireneo verso l’entrata del Palazzo, ed era più lontano che non paresse ma infine con fatica vi arrivò e bussò, più forte che poté, nell’enorme portone argentato. La gran porta si aprì nel silenzio più completo, ed egli si trovò in un atrio deserto. E d’un tratto i muri del castello svanirono e non rimase che l’atrio in cui egli stava, aperto da tutti i lati, e regioni meravigliose apparivano nelle quattro direzioni. Esseri d’incomparabile bellezza le popolavano, e tutti accennavano a lui lietamente, ed Ireneo ne era sorpreso e sconvolto, e li guardava indeciso sul da farsi.

E vide una botola al centro dell’atrio, e allora le si appressò. E quando afferrò la maniglia d’argento e la tirò a sé, il mondo esplose e fu distrutto.

 

* * *

 

Cadde Ireneo per insondabili abissi d’argento. Creature di diamante se lo passavano l’un l’altra, e ancora veniva cadendo; e la bocca del passato che ha nome Aratro lo inghiottiva; e la bocca del futuro che ha nome Silenzio lo inghiottiva.

E seppe che sulla maniglia d’argento era scritto il nome di Irene, e incominciò così a rallentare nella sua caduta, e nessuno più lo divorava. E, stanchissimo, si fermò, posandosi su un seggio di diamante. E la luce delle pietre feriva i suoi occhi che non potevano chiudersi, terribile era la sofferenza e l’essere suo era lacerato, calpestato, distrutto. E Ireneo cercò di ricordare.

E ricordò quel che cadendo aveva veduto, cicli del tempo, maree ed eredità susseguentisi, e quel che ebbe per esito l’uomo, e i figli lunari, i signori delle stirpi, e anime, anime, anime.

E il seggio di diamante si animò, e un gelido ardore bruciò Ireneo. E scorse la testa di un Drago protendersi e le sue fauci spalancarsi e un caos infinito di materia precipitarsi su di lui da quella bocca. Tutto quello che contiene il mondo, distorto e spezzato, piombava su di lui.

Ed egli dormì per la stanchezza. E nel sogno vide un Cavaliere possente montare su un bianco Unicorno. E il Cavaliere e l’Unicorno si gettarono di furia contro il Drago, e ferirono la Luna d’argento del suo capo. E fu allora che il mondo esplose di nuovo e Ireneo si risvegliò in una completa tenebra.

 

* * *

 

Non c’era nulla, niente che gli occhi vedessero, né terreno né spazio. E da quel nulla d’un tratto guizzò fuori, come da una piega della tenebra, la stella del suo petto. E Ireneo la riconobbe e grande fu il suo stupore.

E dodici mondi apparvero a far corona alla stella, dodici mondi di stelle del divino Zodiaco. E Ireneo conobbe che tali mondi di stelle cantavano la canzone del Drago che già aveva sentito dalla bocca dagli Antichi. E si vide sparire dal luogo dove stava e divenire tutt’uno con la stella. E conobbe la ragione del proprio nome e chi fosse realmente il Signore della Pace.

E venne ancora Ireneo portato, come in un sogno, in una splendida sala. D’oro e d’argento erano le sue pareti. E sortì Apollo dalla figura di un uomo, ed egli seppe che quella figura era Ireneo; e nel folto di un bosco che meravigliosamente si sovrappose alla sala apparve Diana. E Apollo e Diana si appressarono l’un l’altra, deposero le armi loro e si abbracciarono. E Ireneo conobbe che tutto ciò avveniva dentro lui stesso, e un fuoco d’oro lo prese, e un fuoco d’argento lo prese. E usciva e entrava in un bosco ch’era un palazzo, in un palazzo ch’era un bosco, finché si trovò proprio di fronte a Febo e Diana intrecciati. Ed essi alzarono lo sguardo su di lui, e il loro sguardo era uno solo. E così strano era, questo sguardo, che il mondo esplose una terza volta.

 

* * *

 

E vide in sogno se stesso su un Trono di Cinabro, e a fianco a fianco sedevano Irene ed Ireneo: Irene era la Luna ed Ireneo il Sole.

 

* * *

 

Ma proprio allora Tobia si risvegliò, mentre una Rondine gli portava la settima fetta di torta. E la gustò ben bene, pezzettino per pezzettino: non c’era nulla di paragonabile a quella fetta.

E mentre Tobia mangiava, un albero d’oro crebbe di fronte a lui, e nel tronco si fece una porta e fu aperta, e ne uscì un sonatore di flauto con meravigliose melodie. E le quattro ancelle di Venere corsero vicino a lui ed iniziarono a danzare e cantare; e uscì dall’albero il padre di Tobia e cantò egli pure. E molti si aggiunsero che prima non si vedevano, e tutti cantavano secondo la loro natura, e la loro natura era accordata alle altre. Pure, essi non si vedevano l’un l’altro: diversa era la loro storia, e ognuno cantava per la propria anima.

Nel frattempo Tobia finì di mangiare la sua torta, quindi si guardò attorno, ma non provò stupore poiché sentiva che quello era il suo mondo. Si sdraiò allora in terra e per la prima volta poté chiudere gli occhi e dormire come di solito dormono gli uomini.

E sognò che una Vergine bellissima correva nel bosco della sua anima inseguendo un cervo. Ed era armata di frecce e la precedevano mute di cani feroci. Ed era pallida come la Luna e dura come il tempo della distruzione. E il cervo era stremato, ferito, e non poteva fuggire. Ma sorse dal fitto del bosco il mirabile fantasma di un flautista. Nudo era egli e giovane di un’eterna giovinezza. E suonò danzando una canzone del passato, e spade d’oro e d’argento sorsero tra i suoi capelli, e un fiume di vento protesse il cervo e trascinò via i cani in spazi lontani. E Diana fu disarmata; e disarmata fu meravigliata; e meravigliata giacque innamorata del cervo che aveva cacciato, e gli si avvicinò e volle baciarlo. E le spade del flautista si stesero a ventaglio intorno a loro e spezzarono i vincoli del tempo: e Selene guardava Endimione, dormiente nella grotta del suo potere. E allora cantò. E il suo canto che scuote l’abisso fu l’eco del venire di Eros.

E un turbine che sorse dal sogno svegliò Tobia. E vide egli venire qualcuno che gli parve la madre, e fu Inanna. E Inanna gli pose la destra sugli occhi e rimase lì a lungo, e con la sinistra intesseva di magici segni la veste di sposo. E fu in fretta compiuta, con l’arte dell’invisibile Eros.

 

* * *

 

«Questa veste è Ireneo e tu devi indossarla. La tessé il tuo sogno, Eros ne fu convinto ed ora, celato in essa, giace il suo potere. Indosserai dunque il tuo stesso nome come veste di sposo. E sia il tuo nome il compimento di te stesso. Un Alchimista che imparò a suonare tessé il sogno con cui l’ottenesti».

«Sia pure, ma dov’è Irene?»

«Vestiti e la potrai vedere».

* * *

 

E Tobia si vestì, e per un attimo si rivide sul Monte di Cinabro, e non c’era nessuno. Poi però sentì allegria e si mise a danzare. E danzava vorticosamente, ma ferma era la pace sua. E conobbe il suo nome: e Irene sorse presso di lui. E si mutarono in delfini nel mare di lei. E si mutarono in trama e ordito nel vestito di lui. E si mutarono in Sole e Luna nei paesi della memoria. E tutte le cose state si volsero alla danza e si convertirono nei labirinti di una veste d’acqua.

E un Terzo sorse da loro, e il suo volto non aveva volto. Ed era uno che giungeva da lontano, da oltre l’Orizzonte. Ed essi non furono più, se non come figura di questo Terzo.

E questo Terzo che da loro era nato non ebbe mai un nome né tra le stelle né tra gli uomini.

E ammiccò a lui Baldassarre Mago con un cenno d’intesa nel suo racconto potente.

E lanciò un grido e il tempo fu dissolto a ritroso.

E la lancia delle sue parole fu scagliata verso l’abisso e l’abisso s’aprì.

E nel medesimo istante in cui Tobia si schiantò nel muro, la bocca dell’abisso bevve il racconto suo e l’occhio dell’abisso contemplò l’Immagine sua.

E una stella senza più splendore uscì dal suo petto, e Baldassarre Mago la colse e la pose nella propria memoria, che è la strada verso l’abisso, a suggello della via che un essere aveva percorso.

E non fu più in nessun luogo veduto alcuno che rispondesse al nome e alla figura di Tobia. Tuttavia Baldassarre Mago ne piantò il ricordo nel proprio giardino, e tramandò il racconto che io vi ho raccontato.

 

1982

© Dario Chioli

 

 

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Nota introduttiva

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