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MORIRE

Dario Chioli

 

Comunemente parlando, nessuno ne sa nulla di preciso. Non ci bastano certo, su tali questioni, i brillanti sillogismi dei filosofi.

Nessuno è mai tornato dalla morte, si dice, ma intendiamoci: è vero che nessuno è mai tornato, se definiamo che la morte è una situazione da cui non si torna. Se a coloro - migliaia e migliaia in tutti i tempi - che, emersi da un coma, dicono di aver vissuto l'esperienza della morte, rispondiamo che quella non era morte, allora non c'è soluzione.

Ma perché dobbiamo rispondere per forza così?

La morte non è uno stato definito. Si ferma il cuore, e si può vivere ancora. Si ferma il cervello, e si può vivere ancora. Si può talvolta ritornare in vita integri, o menomati, e non si può in realtà dire di preciso per quanto tempo dopo la morte clinica questo può ancora accadere. Tutte le professate certezze in merito sembrano delle forzature, magari nate dalla volontà di poter operare espianti o trapianti altrimenti eticamente impossibili.

A un certo punto il corpo è decomposto, allora è morto, ma non c'è un momento preciso in cui questo avviene, è un processo continuo.

E se è un processo continuo, fino a un certo punto, che non è determinabile con precisione, dovrebbe essere reversibile.

Una sterminata letteratura ha raccolto le testimonianze di chi ha visitato il proprio aldilà. Forse abbiamo conosciuto direttamente qualcuno di questi testimoni.

Le loro testimonianze concordano con le credenze professate.

L'aldilà di un buddhista è buddhista, quello d'un cristiano è cristiano, e così via.

Molti vedono parenti, amici, cancelli che non possono varcare perché non è la loro ora.

Taluni sperimentano angoscia, altri gioia, la maggior parte uno stato intermedio.

Le forme sono quelle dell'abitudine, le facce quelle della tua razza, le forme sono la proiezione delle memorie e della mente.

Ma se il cervello fosse del tutto distrutto, dice lo scettico, queste esperienze si manifesterebbero?

Tuttavia parecchi hanno visto e descritto, quando erano in coma, scene accadute fuori della loro portata visiva.

Si sono visti mentre i chirurghi li operavano, da sopra, e han potuto descrivere la scena.

O, in coma, dalla sala operatoria chiusa, hanno visto scene accadute nei corridoi.

Ha una spiegazione questo, che coincida con i modelli scettici?

È tutto falso?

E giriamo il discorso dall'altra parte: se per ipotesi l'esperienza di morte fosse davvero stata vissuta da una componente dell'essere che dalla morte non viene distrutta, quale dovrebbe esserne la prova?

Una prova fisica per provare qualcosa di non fisico?

Non è possibile.

Nessuno scettico sa proporre una dimostrazione che davvero accetterebbe come prova.

Bisognerebbe che specificasse prima, cosa sarebbe una prova.

O se no, ammettere che è impossibile la prova.

Ma che sia impossibile la prova della cosa, non vuol dire che sia impossibile la cosa.

Migliaia d'anni, forse milioni, quasi tutti credono in qualche forma di sopravvivenza.

La percezione, fin dove può giungere, per taluni lo conferma.

La prova assoluta non c'è perché il meno - il corporeo - non può provare il più - l'incorporeo.

Per agire nel corpo l'incorporeo ha bisogno di un supporto corporeo. Perciò si potrà sempre dire che era quella la causa, il supporto.

E allora?

Allora può esserci la credibilità personale. Un santo può essere più credibile di un accademico.

Ha più tradizione, più esperienza.

E quanti che avvertono la presenza in casa dei propri defunti.

Tutto illusione?

Non c'è prova no, ma neppure c'è del contrario.

Il corporeo non può dimostrare l'inesistenza dell'incorporeo.

Per i moderni scettici, bisognerebbe fare tabula rasa di tutte le credenze ed esperienze del passato e costruire sulla base di quattro principi razionalisti.

Ma chi sono loro, per contestare le percezioni di tanti altri? Quali prove hanno per negare le loro speranze? Un principio, un'idea, non più.

Menti senza ricchezza, dovremmo accettarne la visione del mondo?

 

[11.12.1998]

 

 

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