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Sommario del sito

L'IO E IL SÉ

UN'ANALISI INTROSPETTIVA

Ezio F.

   

Sommario: 

Scopo della ricerca di sé - Idee fondamentali - Due rappresentazioni opposte - Strumenti - Io e sé 1 - "Senso della realtà" e senso comune - Io e non-io - Io e sé 2 - L'io e il mondo - Io e sé 3 - Sviluppi possibili - Percezione di sé e ricerca del sé - L’io come centro

   

Scopo della ricerca di sé

La ricerca del sé serve ad allontanare l'attenzione dai fenomeni esterni.

In pratica, ciò significa la riduzione e – come ultima possibilità – l’estinzione delle forze in realtà psichiche ma immaginate esterne che catturano l’attenzione dell’io dando forma al mondo.

Benché fondamentalmente non ci sia niente da capire – perché l’ "io" c’è già, non è oggetto di comprensione e comunque rimane identico a se stesso – l’analisi di certi rapporti, nella misura in cui esplicita un nuovo punto di vista, può sia pure in misura variabile modificare la percezione di sé. Infatti l’ "io", proprio perché c’è già, è implicito, e può emergere come sé solo attraverso il riconoscimento di ciò che non è io, e questo è l’oggetto, nome o idea.

Nel rapporto tra se stessi e il mondo, quest’ultimo appare come una serie di condizionamenti e di limitazioni, che sono un insieme di forze. In questo insieme sta la "realtà" del mondo, vista come esterna, perché sfugge alla nostra volontà e al nostro controllo. La relazione col "mondo" diventa predominante, la propria "posizione" nel mondo essenziale, il sé si perde e ne resta un riflesso, l’io-nel-mondo, una persistenza condizionata e sempre incompleta.

Ciò genera delle idee, che a loro volta alimentano questa percezione. Attraverso queste idee operano forze che spingono a fare qualcosa, a "diventare qualcuno" ecc., quasi che il nostro essere sia incompleto. Le forme irreali dell’immaginazione producono progetti, un’idea personale del futuro, un sistema di relazioni tra le diverse parti del proprio immaginario, definito come "personalità" ecc. Ne risulta ciò che chiamiamo "mondo", una forma mentale collettiva percepita quindi come reale, in sé sussistente. In quanto effettivamente condizionante, è reale. In quanto forma immaginaria, può essere vista come irreale. Di tutto ciò si è poco consapevoli, e anche qualora emerga una consapevolezza, essa resta per lo più a livello intellettivo. Infatti, per superare tutto ciò bisognerebbe cambiare la propria forma di vita, e per farlo si deve prima cambiare la propria forma mentis, che di solito non ne vuol sapere.

Riflettendo su ciò che si è emerge un diverso punto di vista, per cui l’ "io" è centrale, e merita più attenzione; se si rafforza l’attenzione verso l’ "io", diminuisce quella verso il mondo, e la forma mentis si adegua, perché è determinata dall’orientamento dell’attenzione.

Può essere che in tal modo possa emergere qualche intuizione che porta lontano, ma sicuramente si costituisce uno spazio interno che ci difende dall'esterno, altrimenti la ricerca è solo mente che insegue se stessa.

La definizione di questo "spazio separato" è l’obiettivo della ricerca, o un risultato intermedio, o la premessa di ulteriori sviluppi. Uno spazio separato diminuisce l’influenza di forze percepite come estranee e negative, ed è perciò stesso utile e desiderabile.

Benché lo scopo della ricerca – come ogni scopo – sia essenzialmente pratico, la ricerca di sé è una forma di conoscenza, basata su una serie di acquisizioni intellettive. Questo processo si basa su alcuni assunti fondamentali: la centralità del soggetto; l’identità tra le forme del mondo e le forme mentali; la separazione tra l’ io e gli oggetti; la natura fondamentale dell’io, ipotetica ma reale, che chiamiamo ; il riconoscimento che il senso della realtà è solo un fenomeno, per quanto radicato possa essere, e non deve essere percepito come un limite insuperabile. Gli assunti veramente essenziali sono la centralità dell’io e la relatività del senso della realtà.

Qualsiasi idea, per quanto possa sembrare assurda da un certo punto di vista, può essere compresa e realizzata da un altro punto di vista. La storia delle ideologie politiche e delle religioni lo dimostra a sufficienza. È considerato normale che uno sia un tifoso o un partigiano di qualche idea politica o religiosa.

È nella norma che uno "sia" un banchiere, un medico, ecc ecc. L'insieme di tutte le possibili rappresentazioni e percezioni-di-sé è illimitata. Tra tutte le possibili idee su di sé, c'è quella per cui non si è nulla di quello che si pensa di essere: semplicemente, nessuna identificazione è vera, è vera solo l'identificazione nella non-identificazione. È possibile riconoscersi come indipendenti dalla propria esperienza. Se si pensa così, della stessa esperienza o mondo si può pensare ciò che si vuole.

Si può pensare di essere trascendenti il mondo, eterni, immortali ecc. la convinzione di ciò non è più assurda del credersi un tifoso di una squadra di calcio.

Che uno diventi un tifoso e non un immortale è solo conseguenza di un abito mentale indotto dall'ambiente. In fondo, non è neppure essenziale che quanto ora detto sia "vero", è importante che possa essere credibile, che quindi sia credibile, e che qualcuno ci creda.

Gli stimoli culturali e ambientali definiscono la strada che uno percorre, e se uno comprende a fondo l'informalità dell'io cioè tutte e quindi nessuna idea di sé regge allora comprende, proprio per questo, che la natura profonda dell'io è informale, cioè può essere raffigurata senza forma o con la forma che si vuole.

La varietà degli esiti personali dovrebbe, secondo un sensato punto di vista, significare che le vicende personali, per quanto possano sembrare importanti, non sono la cosa più importante. L’essenziale non è nel fenomeno, è nel fatto che il fenomeno appare a qualcuno. Se non c’è nessuno non c’è neanche il fenomeno. Bisogna cercare la natura di questo qualcuno o soggetto che dir si voglia.

   

Idee fondamentali

La riflessione può condurre ai seguenti principi:

Con "io" si può intendere sia un "io nel mondo" cioè situato, qualificato e relativo, sia qualcosa di separato e sempre identico, un centro. Le due cose coesistono, ma il primo non può essere pensato senza il secondo. Non c’è un io senza centro. Quindi "io" indica un centro, è il centro.

L’io coesiste con fenomeni psichici vari, come sensazioni, rappresentazioni o idee, che nell’insieme sembrano avere un senso e una struttura, cioè sono in relazione tra di loro.

La struttura mentale è la struttura del mondo. Il mondo senza forma mentis è un caos inconcepibile.

In realtà i "mondi" sono tanti: fisico, psichico, delle relazioni umane, dell’economia ecc. Ciascuno di essi rivela una logica propria. Quindi si dovrebbe parlarne al plurale.

I vari "mondi" e le percezioni che ne abbiamo sono la stessa cosa. Si parla di "mondo" al singolare perché la rappresentazione che ne abbiamo è intersoggettiva, cioè comune.

Tali strutture sono fatte di oggetti regolati da schemi (di rappresentazione, di azione, di relazione), che sono nomi e immagini in relazione tra loro.

Il pensiero di questi oggetti e delle loro relazioni, che coincide con questi oggetti e relazioni, è il pensiero oggettivo e si manifesta come conoscenza di qualcosa.

Nessun oggetto è l’io , ma non c’è oggetto senza l’io

Infatti il mondo deve apparire a qualcuno, quel "qualcuno" è l’io.

Poiché è la condizione necessaria perché il mondo si manifesti, l’io è la sorgente della realtà del mondo. Ciò implica che l’io è realtà. Non va confuso con la personalità, la vita ecc.

L’io si riconosce per separazione da ciò che non è io, cioè dall’oggetto.

Se si considera che ogni aspetto della personalità e la stessa idea di "io" sono oggetti, se ne deduce logicamente che l’io fondamentale è senza forma (ovvero è concettualmente indefinibile), ma non è vuoto, perché è realtà.

Dal punto di vista oggettivo, c’è differenza tra vero e falso. Il mondo è il campo del pensiero oggettivo. Ma ciò non vale per se stessi.

Benché tutte queste considerazioni siano state formulate nelle forme del pensiero oggettivo, esse esprimono un punto di vista non oggettivo. Infatti vi è un livello di comprensione per il quale essere, rappresentazione e percezione coincidono. Noi siamo in ogni istante come percepiamo noi stessi, e siamo quello. Si deve intendere: il nostro essere è conoscenza che siamo, e quello che siamo è conoscenza di come siamo. La prima affermazione è come dire che l’io non ha forma, la seconda che la sua forma è la forma percepita. Poiché l’io è fondamentalmente aformale, la sua forma apparente è provvisoria e contingente: è fenomeno e può essere cambiata, per quanto possa essere radicata. La forma vera, però, è l’assenza di forma.

Non è possibile raffigurarsi l’io, se non attraverso delle rappresentazioni, che sono conoscenze, sia pure parziali, ovvero forme provvisorie.

Queste rappresentazioni sono implicite o esplicite. Sono implicite finché non sono riconosciute come a noi presenti e attive. È implicito che "noi" ci figuriamo nello spazio e nel tempo, ma può essere reso esplicito a noi stessi. In questo modo la forma è portata nella coscienza come autoimmagine.

Finché ciò che è implicito resta tale, le stesse forme della "realtà" saranno implicite: la loro origine è ignota. Questo perché non c’è differenza tra la percezione dell’io e della realtà. Esse quindi potranno operare incontrastate, e l’io apparirà come esse hanno stabilito. Ma se sono rese esplicite, allora sarà chiaro come operano, e sarà chiaro che l’io non è il loro prodotto, ma al contrario, esse non possono operare, se non sullo sfondo dell’io sempre identico al sé.

Bisogna quindi concepire che l’io che conosciamo è il riflesso di ciò cui non possiamo arrivare direttamente, e viceversa questa concezione si ottiene riflettendo sulla rappresentazione che a noi stessi si pone spontaneamente, perché solo attraverso la riflessione può concretamente apparire l’idea del sé, dell’io fondamentale.

   

Due rappresentazioni opposte

Nella misura in cui ci rappresentiamo come parte del mondo, pensiamo di assumere forme più o meno variabili. Perciò identifichiamo l’io nella personalità, o lo consideriamo inconcepibile senza personalità. Alcune di queste forme sono costanti, e forse non appaiono se non attraverso uno studio specifico, p.es. attraverso la psicologia, la metafisica ecc. Questi aspetti uniscono la forma variabile al sé.

Se invece si considera, sia pure in via astratta, la possibilità della separazione tra l’io e i suoi aspetti, cioè della non-forma reale sottostante a ogni rappresentazione o fenomeno, allora si concepisce la stessa possibilità del sé.

In realtà, il sé è realizzato attualmente, ma l’attenzione del soggetto è rivolta altrove. L’attenzione del soggetto "trasferisce" realtà all’esterno e il mondo appare concreto, in quanto sembra contenere forze e influenze che sono solo le rappresentazioni prodotte dalle forme cognitive.

Non c’è differenza tra queste forme e le forme apparenti dell’io.

Le forme apparenti dell’io vengono riflesse nella coscienza e quindi l’io appare a se stesso, come una immagine di sé. Io, sé, immagine di sé e coscienza sono in fondo indistinguibili.

La prima rappresentazione – identificare l'io nella personalità – porta all’azione, ma lascia l’io nell’ombra. Si crede di realizzare qualcosa, ma si realizzano solo pensieri, desideri, progetti ecc. cioè forze operanti sull’io, scambiate per quello. Tuttavia, tale rappresentazione è quella attraverso cui si interagisce con l’ambiente, cioè ha un carattere funzionale. Non ha senso considerarla "vera" in senso assoluto, cioè a prescindere da tale funzionalità. Perciò può essere abbandonata, se l’attenzione non è rivolta verso l’esterno.

La seconda rappresentazione – separare l'io e i suoi aspetti – apre la strada verso il sé, verso l’indeterminato, verso la possibilità di dargli la forma che si vuole. Abbandonato il pensiero oggettivo, appare la realtà nascosta.

   

Strumenti

Ora, quali sono gli strumenti attraverso cui cercare l’io? Uno può essere l’introspezione diretta, che passa attraverso l’evocazione di immagini di sé. Solo che le immagini di sé non sono l’io: i risultati che si ottengono sono parziali, sembrano fornire ciò che non si è. Inoltre, c’è da figurarsi che l’introspezione sia soggettiva, che si cerchi ciò che si voleva cercare o che c’era già (come pregiudizio), ecc…Insomma, l’introspezione fornisce il non-sé, e fa emergere l’io per distinzione dal non-sé.

Un altro strumento può essere il "linguaggio dell’io". È un procedimento più oggettivo, che evidenzia spunti interessanti. Per es. evidenzia un’idea di persistenza, attraverso espressioni nelle quali l’io è proiettato nel futuro o nel passato. Realtà del futuro e permanenza del passato sono strettamente connesse con l’idea comune dell’io.

Tuttavia, è chiaro che il termine "io" può avere significati di tutt’altro genere, in relazione a situazioni locali, personali ecc. In effetti, "io" è nello stesso tempo pronome personale e termine relativo a un’idea generale, che generalmente implica persistenza, individualità ecc. In qualche modo queste idee rimandano a una "percezione di sé" che va postulata se non altro per ragioni logiche, perché altrimenti non si vede come il linguaggio comune possa esprimere un’idea di sé.

Per quanto questa rappresentazione possa non essere ovvia né condivisibile, può diventare accettabile e naturale se si pensa all’io non come un contenuto, ma come persistenza percepita come identica. Definirei come "sé" questo carattere "essenziale" dell’io, stante il fatto che tale "sé" è un’intuizione, e che potrebbe non avere se non una lontana parentela con l’ âtman vedantico o con qualsiasi percezione soggettiva del "sé".

   

Io e sé – 1

Non è concepibile un oggetto conosciuto senza lo strumento cognitivo. Il carattere dello strumento dà forma a ciò che si conosce. La distinzione tra oggetto e conoscenza dell’oggetto non è così chiara come potrebbe sembrare se non si indaga. Inoltre, un oggetto rimanda a un soggetto. Dal punto di vista del soggetto, se c’è un centro è nel soggetto. Come fa l’io a immaginarsi un "centro" esterno? Può formularne l’idea, ma il "centro" non può non essere l’io. "Io" è il termine che indica il centro, per definizione. "Io" esprime l’intuizione di essere il centro. Non è un sapere acquisito. "Io" è l’intuizione di essere il centro. Se il centro c’è ed è uno, l’io è il sé. A meno che non siamo in due. Però si dice "io" , non "noi" , o "noi due". Se si usa la prima persona singolare è perché si pensa di essere singoli, perché si percepisce così.

Date queste premesse, ci si potrebbe chiedere perché distinguere tra l’io e il sé. La risposta che darei in prima istanza è che con il termine "sé" si vuole esprimere il vero centro, il nucleo o fondamento dell’io, riconoscendo che l’io sia una cosa complessa, mescolata a elementi superficiali quali la personalità ecc, o relativa a situazioni o figure particolari e contingenti, mentre il sé sia la sua natura profonda, il suo fondamento originario, o un centro attorno al quale l’io si muove, rimanendone sempre distinto.

A mio avviso, la seconda ipotesi, che il sé sia un centro attorno a cui l'io si muove – benché lecita – non è corretta. Perché?

   

"Senso della realtà" e senso comune

Se noi riflettiamo sul nostro modo di pensare, cioè se operiamo per introspezione indiretta sulle idee che ci si presentano, sul modo di agire, sulle cose che ci influenzano, possiamo pervenire ad alcuni risultati. Si scopre che abbiamo molte idee costanti, pregiudizi latenti, cui diamo grande rilievo.

Quando uno ascolta l'esposizione di un'idea, o ne percepisce una propria, ha una reazione che consiste nel confrontare quell'idea con un elenco di idee, nel quale ognuna di esse è etichettata come "sì", "no", "forse", "non so", "non interessa" ecc. La base comune di tale catalogo è il cosiddetto "senso comune". È appena il caso di rilevare che il senso comune cambia, e comunque non ha mai impedito le follie collettive.

"Senso della realtà" e "senso comune" sono convenzioni condizionanti, anche se possiamo riconoscere che vi sono delle "ragioni" alla loro base. Ma ciò significa solo riconoscere una causalità del senso comune, mentre la sua "realtà" non è altro che il suo potere condizionante, che però gli è concesso dal soggetto, dal sé. Fino a un certo punto, i limiti sono quelli che uno si pone. Il "senso comune" non è un limite invalicabile.

Non solo, ma si scopre che operiamo attraverso schemi a priori, di cui non siamo sempre consapevoli.

Le nostre relazioni con gli altri si conformano a certe regole, di cui le leggi sono solo una parte.

Si ha a che fare con megaschemi quali lo Stato, l’Economia, le Religioni, la Scienza, la Tecnica ecc.

Queste cose sono l’io? Direi di no… con "io" non si intende niente di tutto ciò.

Non solo, ma nemmeno la stessa personalità è l’io. Semmai, è una particolare forma assunta dall’io individuale, un suo rivestimento, per quanto piuttosto stabile.

La stessa memoria non è "io".

Quello che si pensa non è "io".

Non è "io" la propria attività ecc.

Infatti si dice "la mia memoria", "la mia attività", "il pensiero del tale" ecc. proprio perché si distingue tra l’io e tutte queste cose.

   

Io e non-io

In pratica, finché sono attivi uno schema o un insieme di schemi funzionali, si è coinvolti in processi incontrollati, che appaiono come una corrente, che spingono o tirano in tutte le direzioni. Lo stesso succede se uno si riconosce in uno schema di pensiero, come una ideologia, o in una attività di qualsiasi tipo: a guidarlo sono le forze che operano attraverso lo schema. Non è neppure uno schema personale. Di personale c'è solo la memoria, che tra l'altro alimenta il passato-che-non-passa, cioè un'allucinazione collettiva tanto amata dagli storici.

Finché uno convive con una simile rappresentazione si considererà all'interno di una situazione più o meno soddisfacente, anzi sarà dentro i vari aspetti del "mondo". Questo appare reale in sé, il che vuol dire semplicemente che gli schemi hanno in mano la situazione, apparendo come forze esterne. È uno stato ipnotico non riconosciuto come tale, per il semplice fatto che le cose si riconoscono per contrasto, e perché ci siamo "dentro" tutti – o quasi.

Ma se uno riesce, sia pure in forma embrionale o ipotetica, ad accorgersi che gli schemi sono schemi e che le sue idee sono idee e che i suoi progetti sono sogni e che il suo futuro non c'è se non c'è lui, allora gli deve pure saltare in testa che "lui" non è nessuno degli schemi, che questi non sono nemmeno suoi, e che ciò che gli appare come realtà non è altro che il condensato degli schemi.

Questi non ne vogliono sapere di essere quello che sono – perché, finché sono percepiti come la "realtà", si alimentano di energia psichica e fisica, sia a livello individuale che collettivo – e quindi attivano costantemente il "senso della realtà" che serve ai loro scopi. Quindi oppongono una resistenza a qualsiasi tentativo di disattivarli.

Dunque ci troviamo di fronte a due elementi essenziali: l’io, che non è un po’ di cose ma c’è, perché altrimenti non ci siamo e non si capisce come mai abbiamo delle idee (a meno che le idee non vaghino per conto loro, ma allora non si capisce la strana idea che siano di qualcuno), e tutto il resto – cioè la nostra attività mentale e pratica, tutte le idee, e gli stessi fenomeni, nonché le forme a priori della conoscenza. Ma sì, mettiamoci anche quelle. In effetti si riconoscono, sia pure per analisi indiretta, quindi non sono "io". Infatti enuncerei il principio euristico per cui tutto ciò che viene riconosciuto come oggetto non è l’io, in quanto l’io è il soggetto centro della percezione e quindi non può essere oggetto. Tutto ciò che ha un nome e una forma non è l’io, compresa l’idea "io".

Dunque l’io si riconosce per negazione del non-io, cioè è una figura vuota che acquista plasticità e consistenza aformale attraverso la riflessione su tutto ciò che può considerare separato da sé. Ora, ciò che è separato dall’io è l’oggetto, il materiale su cui opera la struttura mentale.

   

Io e sé – 2

Tuttavia, un io così apparentemente astratto non è l’io del senso comune, perché nel linguaggio comune "io" si riferisce anzitutto a ciò che è propriamente individuale, oltre a ciò che è comune. Ora, non si può realisticamente separare l’io dalla propria individualità. Ma, se riflettiamo sull’individualità, possiamo accettare che l’individualità altro non sia che un insieme aggregato e coordinato di idee sensazioni emozioni percezioni storia personale ecc. ecc., vale a dire non sia altro che una struttura organizzata di oggetti, anche se non si è solitamente consapevoli di ciò. L’unico tratto comune dell’individualità è il sentirsi "uno e distinto dagli altri" e dal resto, vale a dire che l’individualità non è… individuale, o, meglio, non è personale; è un fatto comune.

Ora io proporrei di definire il sé come ciò che l’analisi dell’io rivela come non oggettivabile nello stesso io, vale a dire che il sé non è nessuno degli aspetti definibili. Benché tale definizione sia soggettiva, e possa essere inadeguata, tuttavia ha il merito di dare rilievo a ciò che di non personale e non contingente vi è nell’io. Ma che cosa, di fatto, vi può essere di necessario nell’io? La risposta più semplice potrebbe essere: tutto ciò che c’era prima che si costituisse la storia personale e il mondo apparisse.

Ciò può essere chiarito – su un piano solo intellettivo – se si riconosce cosa sia il "mondo". Sostanzialmente, questo può essere definito come un condensato originato da strutture cognitive, percettive, affettive che possono essere riconosciute nelle varie situazioni che il soggetto può esperire, cioè è un insieme organizzato di idee-forza.

   

L’ io e il mondo

Nel corso dell’esistenza il soggetto si immagina di continuo all’interno di determinate situazioni. Nell’ambito di tali situazioni, ricopre delle funzioni, assume delle figure, crede di "identificarsi" in certi ruoli; insomma attiva continuamente degli schemi ricorrenti rappresentativi, percettivi, emotivi, ideativi ecc. ecc., vale a dire: è esso stesso tramite inconsapevole di forze che, non essendo riconosciute come istanze autonome, vengono scambiate addirittura per volontà, progetti personali, scopo della vita, generando un insieme di idee fisse che vengono definite realtà o mondo e che appaiono effettivamente reali benché in ultima analisi non siano altro che funzioni mentali persistenti o lentamente variabili. Questi schemi consolidati lasciano un residuo, il mondo è solo questo residuo. O, meglio, è l’idea che ne abbiamo. Le reazioni del soggetto alle varie situazioni sono esse stesse autonome, e largamente autonoma è la stessa produzione di idee.

Peraltro, chi o cosa si "identifica" con qualcosa? Se l’io ha una "natura propria" l’identificazione è solo il prevalere, nella coscienza, di un’immagine o di una funzione. L’identificazione è un fenomeno, come fenomeno è tutto ciò che si pensa. Se l’io non ha forma, l’identificazione è solo l’acquisizione contingente di una forma: un fenomeno eventualmente così importante da essere scambiato per l’io, qualora assuma la guida della personalità, ma fondamentalmente contingente.

Si potrebbe invece pensare che il soggetto sia fondamentalmente una substantia invariante che coesiste in ogni istante con una attività che gli appare come propria: attività che consiste nell’associare e dissociare di continuo immagini ecc. mediante una coordinazione vissuta che raffigura lo stesso soggetto all’interno di situazioni ecc. e che coesiste con l’io – anzi col sé. Il soggetto si figura come un attore in una scena che senza di lui non può apparire, perché egli stesso l’ha allestita, pur senza saperlo.

Ma, si potrebbe pensare, se disattiviamo gli schemi, cosa resta? Appunto, si può pensare che resti il sé, e che l’io – a prescindere dai contenuti personalizzanti e dalle forze immaginate esterne – altro non sia che la percezione del sé. Insomma, il sé si ottiene per sottrazione dall’io degli schemi operanti e delle loro conseguenze.

Perciò l'io può essere rappresentato come non-mondo, e il mondo stesso liquidato come illusione. L'io percepito o immaginato come estraneo al mondo, cioè come indipendente dalla rappresentazione, è l'immagine intermedia che conduce verso il sé. È l'io informale, senza contenuto, originario, prima che si consolidasse l'idea del mondo. Non importa che questa immagine sia "vera" o "reale", importa che abbia sufficiente potere di attrazione in quanto figura dell'io non-raffigurabile.

Non c'è nulla di strano nella possibilità che questo "io" abbia capacità di attrazione: succede normalmente che attenzione e energia psichica vengano attratte da cose vuote. Se si vuole, c'è sempre un punto di vista per il quale una certa idea è vuota, e secondo il quale chi crede in quell'idea è un illuso. Può quindi esserci un punto di vista per cui tutto è vuoto, eccetto l'io.

È come se il soggetto rifiutasse di riconoscersi nell'esperienza o in qualche "futuro" e si situasse in un'idea "separata" dal mondo e da ogni relazione. In questo modo cerca di rappresentarsi come intuizione di sé, come conoscenza senza oggetto, e senza soggetto. La riflessione suggerisce che il sé così approssimato sia solo un'immagine, e anche l'intuizione è la stessa: il sé non è rappresentabile, e si può pensare che ciò avvenga perché l'io non può vedersi se non nei riflessi. Si può pensare che l'introspezione riveli gli aspetti, più o meno pertinenti al sé, e che ognuno di questi aspetti pur avendo una sorta di validità non sia il sé.

   

Io e sé – 3

Ma allora, perché distinguere? Per tre motivi: primo, come già detto, nel termine "io" del senso comune vi è pur sempre qualcosa di personale; secondo, l’io originario non è facilmente identificabile, ammesso lo sia; ma c’è un terzo motivo, forse quello fondamentale.

Se l’io è il centro esperienziale, esso non può percepire se stesso direttamente. Questa stessa idea di "se stesso" richiede attenzione. Esprime un’immagine, un "doppio" di sé. Tuttavia, io darei per indiscutibile che siamo "uno" e non due, e infatti si dice "io" e non "noi". Dunque il "se stesso" deriva da un riflesso dell’io. Dove sta il riflesso? Nella stessa coscienza, o forse nella rappresentazione di sé che continuamente ci accompagna. Tale rappresentazione è funzionale, nel senso che ci pone in relazione cosciente con gli altri e col mondo. L’io riflesso è ciò che noi percepiamo come io. Il linguaggio dell’io, le autoimmagini che possiamo trovare nell’introspezione, nella riflessione, nella psicologia ecc. possono essere solo costruite su riflessi. Cioè esprimono l’intuizione di un io secondario. L’io primario sarebbe il sé, l’io l’autoimmagine.

Si potrebbe immaginare il sé come un ologramma che viene proiettato, e nella proiezione compare la sua immagine riflessa, quello che viene detto "io". Altrimenti, l’io lascia un'eco – una traccia continua, che viene raccolta e interpretata come "qualcosa" di persistente e sempre identico – e questa risonanza persistente può venire riconosciuta come l’io vero, il sé; meglio, si immagina che tale risonanza derivi da qualcosa a cui non si può arrivare – perché la sorgente è lo stesso io, che non raggiunge se stesso – e che appare come un Lui, un polo all’infinito, il sostrato, la realtà ultima ecc.

Qualunque sia l’intuizione corretta, la loro unificazione porta a riconoscere che l’io e il sé sono l’uno il riflesso dell’altro. Non è veramente possibile distinguere l’io dal riflesso, perché le due istanze coesistono. Infatti ogni cosa è rappresentata attraverso idee, e non è possibile distinguere l’io dalle idee sull’io. Non ci può essere una consapevolezza dell’io senza riflessi, e non c’è io senza tale consapevolezza.

La non-conoscenza dell’io lascia libero corso a pulsioni e fantasie varie, e così il sé – che non è nel mondo – cade sotto l’influenza di tali forze, cioè, nel linguaggio del mito, si incarna – assume una forma nello spazio e nel tempo. Più esattamente, tale forma si sovrappone al sé. Il senso di imperfezione e insoddisfazione spinge l’io individualizzato a cercare una "realizzazione" attraverso il mondo, cioè uno si figura di "dover essere" qualcosa di diverso dall’immagine di sé, e di "dover fare" o diventare qualcosa. Ciò alimenta le forze che danno consistenza al mondo, finché l’individuo diventa loro strumento senza rendersene conto. Questa allucinazione viene, ridicolmente, riconosciuta come la "realtà". Essa nasconde il sé, che persiste attraverso il riflesso dell’io, e riempie apparentemente di contenuto lo stesso io. Tale contenuto è una successione ricorrente di figure, il cui riprodursi è il samsâra, essendo ogni contenuto esperibile solo grazie al corpo cioè attraverso la rappresentazione e la sensazione. L’insoddisfazione fa di continuo precipitare l’individuo nel samsâra, a meno che l’individuo non comprenda la vacuità delle forze che lo spingono ad agire, e che hanno sede in lui stesso. Talvolta ciò elimina la loro influenza e interrompe o riduce il ciclo vitale, lasciando solo il sé.

In effetti, tutto ciò ha senso solo per chi si pone la questione, e la soluzione se c'è è tale solo per chi la formula.

Tuttavia qualsiasi formulazione cade, perché è valida solo mentre viene intuita, anche se non posso certo escludere che da qualcuno, date certe circostanze, le formule siano percepite come vere.

   

Sviluppi possibili

Ma il sé, è un intelligibile? In realtà no, a meno che non venga separato dall'io. Allora è superiore all'io, non è propriamente parte dell'io, è il suo fondamento ecc. Ma un'idea del genere è uno sviluppo. O uno strumento. È l'obiettivo segreto, la trascendenza della vita nella vita, che si costruisce più o meno inconsapevolmente nella ricerca, e che assume dimensione e consistenza, perché la continua ricerca rivolge l'attenzione verso l'immagine-di-sé senza forma, l'imperscrutabile sé che è io, che non rimanda ad altro, conoscenza di sé e di nient'altro, prima che ogni cosa fosse, e senza cui il mondo non può apparire: infatti è dal sé che promana la luce che fa emergere il mondo, altrimenti sommerso e inconscio, nel campo della coscienza.

La trascendenza non può essere che nell'io, anche se solo in potenza. C'è in potenza già nella frase "la mia esperienza" e nella stessa parola "mondo", perché tali idee esprimono la loro distinzione dall’io. Questi termini suggeriscono una intuizione latente, una immagine archetipica, un potenziale cognitivo che aspetta solo il momento opportuno per emergere: l'io che si percepisce come distinto dall'esperienza fenomenica è privo di relazioni per sua natura intima, non è personalità ecc. ecc.; è ciò che si è ritirato dal mondo per fargli spazio, e che quindi tende a riprendersi lo spazio perduto.

Il mondo diventa un usurpatore, invade il campo della coscienza che dovrebbe essere il sé e null'altro. È come se una percezione, raccolta riflessa nella coscienza, determinasse una rappresentazione, una convinzione, anche se non ancora una certezza assoluta; infatti non è necessaria la certezza assoluta, la forza dell'idea sta nel suo potere fascinatore, come se un'idea, staccatasi dallo sfondo, emergesse grazie alla propria forza di attrazione.

   

Percezione di sé e ricerca del sé

Come è possibile percepire se stessi?

Solo attraverso un riflesso.

Il riflesso è persistente, e si forma una immagine di sé persistente.

Tale rappresentazione fondamentale tuttavia non è mai percepibile in totale isolamento, se non per introspezione, come io separato da tutto il resto.

Questo rimanda all'idea del sé, l'io indifferenziato.

Questo io indifferenziato può essere riconosciuto come io, nel senso che tutto il resto è contingente e transitorio.

Quindi questa idea del sé viene a formarsi come contrasto da ciò che è considerato non-sé.

Questa percezione è il suo fondamento, perché è la forma fondante la sua persistenza nel tempo. È attraverso questa autoimmagine di separazione che l'io si proietta nel tempo, giungendo a formulare la distinzione tra passato e futuro. Viceversa, la rappresentazione come persistenza produce la separazione dal mondo fenomenico. Queste autoimmagini sono solo rappresentazioni, non possono esserci senza un riflesso.

Si può immaginare che il sé è l'io originario, non ciò che emerge attraverso un riflesso; ma paradossalmente per poter immaginare il sé, come nome vuoto, ci vuole il riflesso, quindi lo stessa ricerca del sé è concepibile solo come serie di immagini riflesse, portate alla coscienza attraverso l'introspezione. In un certo senso è come se si formasse un'immagine sdoppiata in un "io originario" irraggiungibile e una immagine o serie di immagini del sé, che ovviamente non possono coincidere, e la tensione che ne nasce è la spinta alla stessa ricerca.

Tuttavia, la conoscenza della non-conoscenza che così si sviluppa ha la sua ragione nella percezione di sé, che non rimanda ad altro.

Tutta la questione della ricerca del sé è una dilatazione che, a partire dalla percezione di sé, attraverso le forme del pensiero introspettivo, ritorna alla percezione di sé, che dissolve intuizioni e rappresentazioni. Ma questo movimento continuo attira energia, e quindi crea un'immagine di sé che va ben oltre la percezione di sé.

Però, la percezione di sé avviene in due modi distinti. In ogni istante, nella fase di coscienza, uno "percepisce" di essere. Tale percezione non è analizzabile, e non è persistente: si può scivolare nell'incoscienza. Tuttavia, senza tale "percezione" non ci possono essere questioni o risposte. Ma l'io è questo? La coscienza è tutto l'io?

La risposta sembra essere negativa, anche perché possiamo parlare di coscienza solo in relazione all'inconscio, e questo fa pensare che l’io non sia la sola coscienza. O è una "coscienza" superiore a quella dello stato di veglia, o più fondamentale. Questo rimanda a una seconda percezione di sé, di portata più vasta, che però è impossibile senza la prima, mentre la prima non può essere compresa senza la seconda. Infatti la "percezione istantanea"... dura... e quindi non è istantanea, e ciò che dura deve pur essere una serie di istanti. Non c’è differenza tra il sé e la percezione di sé.

   

L’io come centro

Ci sono diversi livelli cognitivi: formulazione (mediante segni), rappresentazione (che può essere descritta) o idea, intuizione e percezione. In riferimento a se stessi, la differenza tra idea, intuizione e percezione si riduce; al limite, è nulla. Per es. essere una certa figura sociale è nello stesso tempo idea, percezione, intuizione. Infatti si dice "Il tale è un medico" ecc. quasi come se la funzione del medico fosse il suo "essere". Con ciò si riconosce che l'io nell'aspetto della personalità non si distingue dal ruolo.

Ma uno non svanisce se si prescinde dal ruolo, e da altri aspetti. Questa è solo un'idea perché di fatto funzioni, schemi mentali, ecc. continuano a operare ma è anche una intuizione della propria natura intima, e non è possibile distinguere coscientemente l'intuizione della propria natura intima da tale natura intima. In un certo senso, l'io è ciò che la persona si rappresenta. Ma concretamente la "natura intima" non appare in isolamento; è piuttosto un'idea astratta, una intuizione di sé che non è io empirico cioè, non corrisponde alla varietà e compresenza nell'io di elementi eterogenei e non è neppure il sé perché per lo stesso motivo non è conoscibile. Quindi il sé appare come un Lui, e l'io appare come qualcosa di separato. Che il sé sia l'io, se non si impone in modo spontaneo, può solo essere compreso intuitivamente e intellettivamente, pur mantenendosi in pratica la distanza. Ma si può vedere la cosa sotto diversi aspetti.

Intanto, l'idea del "centro". Il "centro" fuori dell'io è un nonsenso. Uno non può immaginarsi il centro esterno all'io se non come formulazione astratta. L'idea del centro è un tentativo di cogliere, all'interno di se stessi, e non nelle situazioni che ci rappresentiamo, "qualcosa" di stabile e persistente, un riferimento costante. "Centro" può significare solo questo. Può darsi non significhi nulla; ma se significa qualcosa, il centro è nell'io, e l'io stesso non ha senso senza il "centro".

Distinguere tra l'io e il "centro" è sensato nella misura in cui il "centro" non è visibile non è mai oggetto e quindi è inafferrabile, ma questo perché non si può vedere direttamente se stessi se non attraverso riflessi e immagini; meglio: attraverso idee che vengono intese come tali a meno che "spontaneamente" non accada qualcosa che si imponga come la vera natura dell'io. Se non accade, bisogna appoggiarsi ai ragionamenti.

Inoltre: in modo implicito, si riconosce in se stessi qualcosa di persistente e consistente. Non ha nessun senso fare progetti, pensare al futuro ecc. se non vi è la certezza della propria persistenza. La stessa percezione del mondo è possibile solo se c'è lo spettatore. L'obiezione per cui tutto ciò è prodotto di schemi mentali ecc. è inconsistente: quello che conta è la percezione, più o meno conscia, che si è, ed è inutile cercarne il significato o la spiegazione.

Queste ricerche ecc. presuppongono qualcuno che cerchi, a meno che non si voglia sostenere che percezioni pensieri ecc. non stiano da qualche parte, per conto loro, a fare non si sa bene cosa. Di nuovo, si torna al centro.

Ancora in un altro modo, basta osservare le differenze tra le singole vicende individuali. La singola "storia" è contingente, è casuale: poteva andare come è andata, o diversamente. Il fondamento se c'è non è la storia personale. Tuttavia, se non c'è, non si capisce che senso dovrebbe avere la singola storia personale. Sarebbe solo una serie di fenomeni. Ciò vale anche per la storia non individuale. Non ha senso, se non come storia dell'umanità. Se non c'è l'umanità, non c'è la storia.

    

[13/11/2006]

   

 

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