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SUL SIGNIFICATO DELLA RICERCA DEL SÉ

Ezio F.

   

   

Il sé non si “trova” con la ricerca; la ricerca evidenzia ciò che non lo è, in particolare: le false immagini, la presunta unità-del-tutto, e soprattutto la resistenza che si oppone all’esclusiva presenza dell’uno, detta altresì ego o mente, che è il senso della realtà. Il senso della realtà è la sintesi intellettiva dell’insieme dei fenomeni e delle idee, la cui forza deriva dalla imprevedibilità del divenire e, paradossalmente, dalla sua prevedibilità: perché entrambi rivelano all’io che non c’è solo lui. Il sé non è ciò che appare significativo, non è il senso dell’esperienza, per quanto possa essere profondo e sentito. Il sé non è sensazione, è e non è la condizione per cui una sensazione è riferibile a me. Il sé è unità, ciò che rimane dell’io tolte tutte le affezioni esterne e interne. Ma questa è una formulazione, dietro alla quale vi è una certezza, dietro la quale vi è l’idea senza smentita, che è ancora pensiero, dietro la quale vi è il sé, che è la percezione del sé. Questa è la descrizione che riesco a dare. La funzione del pensiero non può rappresentare il sé, lo può solo indicare attraverso un nome, l’uno, perché l’unità è ciò che di essenziale riesce a conoscere del sé. Il nome è il punto di passaggio tra l’uno senza contenuto e non figurabile – se non come uno – e la funzione mentale.

Si può essere tentati dall’idea che all’unità originaria si arrivi a forza di intuizioni. Il fatto è che l’unità originaria non è un’intuizione e non è neppure una percezione. “Uno” non rimanda ad altro, è inutile cercare cosa sia – non è un oggetto. Tuttavia, è possibile intuire chiaramente, attraverso il pensiero, la necessità di una istanza unificatrice della conoscenza, senza la quale la conoscenza è impossibile. Sentiamo Kant:

« L’Io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni…ogni molteplice... della intuizione ha una relazione necessaria con l’Io penso. Ma questa rappresentazione è un atto della spontaneità, cioè non può esser considerata come appartenente alla sensibilità. Io la chiamo appercezione pura… o anche appercezione originaria, poiché è appunto quella autocoscienza che, in quanto produce la rappresentazione Io penso, – che deve poter accompagnare tutte le altre, ed è in ogni coscienza una e identica, – non può più essere accompagnata da nessun’altra… le molteplici rappresentazioni che sono date in una certa intuizione, non sarebbero tutte insieme mie rappresentazioni, se tutte insieme non appartenessero ad una autocoscienza; cioè, in quanto mie rappresentazioni... debbono necessariamente sottostare alla condizione in cui soltanto possono coesistere in una universale autocoscienza ».

[ Immanuel Kant, Dottrina trascendentale degli elementi, Parte II: Logica trascendentale, I Analitica trascendentale, Libro I, Cap. II, Sez. II, § 16, trad. di Giovanni Gentile e Giuseppe Lombardo-Radice riveduta da Vittorio Mathieu, Laterza, Bari, 1972 ]

Dunque il pensiero giunge a comprendere la necessità dell’unità, ma come condizione necessaria dello stesso pensiero e dell’esperienza; è l’intuizione che non vi può essere la varietà senza l’unità. Ma il pensiero può, attraverso il suo processo, solo riconoscere l’uno a partire dal molteplice; come dire, si spiega il molteplice attraverso l’uno. Solo che questo non spiega l’uno, e neppure lo identifica in quanto tale, anche se ne delimita molto bene la funzione fondante della possibilità della rappresentazione riferita a un soggetto cosciente. Poiché tale descrizione è formalmente perfetta, il pensiero indagatore può passare all’analisi dei dettagli – cioè al riconoscimento delle funzioni mentali.

Il fatto è che all’uno non ci si può arrivare veramente: infatti l’unità della rappresentazione veramente non ha luogo, e nemmeno l’esperienza è unità, se non vi è l’io, ma il sé non è deducibile per sua stessa natura. Il sé non è un principio direttamente operativo, la sua azione si esaurisce nella percezione. L’unificazione avviene attraverso delle forme inconsce che possono essere ricostruite mediante processi ipotetico-deduttivi confermati o smentiti dall’esperienza stessa o da ragionamenti o da ciò che uno “sente”, e che non sono sotto il controllo del sé. Si unifica se c’è o se si trova una forma universale. Il sé non è una forma, non è neppure coscienza – anche se non ha senso parlare del “sé” di un essere inconscio, a meno che non si voglia con ciò intendere una sua presunta “natura propria”. Non c’è nessuna unificazione del molteplice, c’è solo uno schema per il quale i molti radunati in un concetto sono compresi in totalità che, per via del concetto, sono intese come unità. Però è vero che la rappresentazione deve apparire a qualcuno, il che rimanda ad una unità di riferimento, appunto il sé.

“Io penso” ecc. è oggetto in qualsiasi ragionamento che lo qualifichi in qualsiasi modo. In effetti “io penso” non è il sé, perché deve essere chiaro che il pensiero non è il sé. Il sé è una corretta “focalizzazione” dell’io, è la percezione chiara della distinzione tra io e ciò che non è io. In questa percezione, io è una unità distinta; tutto il resto è psichismo e fenomeno e non è io. Il pensiero non è l’io – è un’attività spontanea, che correttamente intesa definisce come l’io opera con ciò che non è io. Il pensiero è organizzazione spontanea della “realtà esterna” ed esso stesso è esterno: l’io non pensa affatto, esperisce il pensiero. Ma nel sé non vi è pensiero. Allo stesso modo non è sé tutto ciò che si sa o si crede di sapere. “Io sono” è invece una formulazione più corretta, ma non raggiunge il senso dell’io non-duale, indivisibile. È una percezione raffigurata, e quindi è ancora solo pensiero.

Certo, l’unificazione “pensata” rimanda ad altro… ma non al sé: perché il sé come uno è un pensato; siamo cioè noi che lo riconosciamo come uno – infatti questa immagine del sé soddisfa. Una cosa è l’integrazione del molteplice, altro è il sé. L’integrazione porta alla realtà, alla forma del senso della realtà, al radicamento dell’esistente in un oggetto. Che l’unificazione converga all’uno è atto del pensiero. Può essere vero: può essere benissimo che l’intuizione, per cui l’uno è il centro di ogni unificazione, sia vera. In effetti, si percepisce che la continuità dell’io è un fattore unificante. Ma la continuità dell’io non è l’io. Non c’è nel centro dell’io la continuità. Tale qualificazione è esterna all’io – deriva dall’organizzazione dell’esperienza. Sono le forme cognitive a dirci come l’io è, ma l’io non rivela nulla di ciò, se non l’unità – la formula cui il pensiero giunge. Insomma, la funzione unificatrice dell’io deve essere riconosciuta nel pensiero: è una forma del pensiero.

Ciò può essere visto anche per introspezione. Il cercatore intuisce che nel sé vi deve essere convergenza tra essere e intuizione e può correttamente formulare che il sé è essere-conoscenza, in quanto comprende che io sono e io mi conosco sono la stessa cosa, cioè sono uno. Ma questa comprensione non gli svela l’io: benché essa sia l’io, il cercatore comprende che il pensiero non afferra la convergenza; deve rappresentarla come un limite oltre il conscio. Perché? Perché cerca l’unificazione, non potendo cercare l’uno, che c’è già. Al pensiero l’uno appare come natura dell’io, se appare, o come scontato – una nozione, so che sono uno – o come un risultato diverso da quello che si attendeva. Il sé è banale; non è banale che sia in opposizione alla realtà e al pensiero. Questo scopre il cercatore, solo a questo serve la ricerca.

Ciò che caratterizza il sé è il suo aspetto paradossale, di unità dissolvente il non-sé. Per questo il pensiero cosciente lo nasconde così bene, che il sé – cioè l’io stesso – viene sostituito da una massa organizzata di elementi che sono la realtà la vita il mondo e – peggio – il “senso” della vita ecc., dato che le fantasie su queste cose assumono dimensioni incredibili.

Sebbene l’uno debba essere correttamente riferito all’io, come se fosse la sua propria rappresentazione fondamentale, tuttavia può oltrepassare il finito. Questo perché l’uno è indifferenziato, non contiene informazione. Il pensiero – che è uno strumento fuori controllo – può costruire sull’uno le fantasticherie più incredibili. Ma può essere usato per un’operazione di altro tipo, la dissolvenza della realtà. La realtà è esterna all’uno, è non-sé, è il limite del sé. Se il pensiero riesce a immaginare che la realtà è un limite prodotto dal sé, la realtà stessa è in pericolo. Non c’è barriera che tenga: è facile constatare come la “realtà” sia qualcosa di molto soggettivo. Nell’opposizione tra il pensiero e il sé, generalmente è il primo a prevalere. Ma può essere che prevalga il secondo. Se, superate le resistenze, il sé diventasse la “realtà” – cioè se il contenuto psichico fosse dissolto – tutto il sapere diverrebbe irreale. Il sé diventa cosmico, allucinazione suprema eppure realtà – perché la realtà è tale solo se riferita a un io: senza il pensiero, la realtà non è concepibile, e non s’è mai visto un pensiero senza l’io.

Il sé può essere descritto come una “corretta” focalizzazione dell’io, vale a dire, una modalità della percezione che distingue correttamente tra la parte costante, unità distinta, dell’io e le qualificazioni variabili, cioè la massa psichica: oggetti sensazioni fenomeni... tutto ciò che ha nome e forma, cioè tutto ciò che è oggettivabile. Queste cose sono esperibili solo grazie all’unità dell’io, che non è intaccata dai fenomeni, cioè dalla qualità della coscienza. In effetti la stessa coscienza ordinaria è tale per via dell’unità del sé. Il sé quindi può essere qualificato come un osservatore costante, senza il quale non vi è osservazione possibile.

    

[ ottobre  2006]

   

 

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