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Roberto Rossi Testa

QUADERNETTO DI TRADUZIONI

II. da Alfred Tennyson
(1809-1892)

   

John Everett Millais. Ritratto di Alfred Tennyson (da: http://www.victorianartinbritain.co.uk/millais_tennyson.htm)

Ritratto di Tennyson eseguito da John Everett Millais, tratto da:  http://www.victorianartinbritain.co.uk/millais_tennyson.htm

Sommario

 Traduzione italiana

English Text

I MANGIATORI DI LOTO

THE LOTOS-EATERS

IL SIRE LANCILLOTTO E LA REGINA GINEVRA
UN FRAMMENTO

SIR LAUNCELOT AND QUEEN GUINEVERE
A FRAGMENT
VIGILIA DI SANT'AGNESE

ST. AGNES' EVE

S. SIMEONE STILITAST. SIMEON STYLITES

   

   

I MANGIATORI DI LOTO

   

"Coraggio!" disse, ed indicò la terra,
"Quest'onda presto ci trarrà sul lido."
Nel pomeriggio giunsero a una terra
In cui sembrava sempre pomeriggio.
Lungo la costa l'aria era svenevole,
Spirando come chi fatica in sogno.
Sopra la valle c'era luna piena:
E qual fumo che scende un rivo esiguo
Pareva giù dal sasso a tratto a tratto scorrere.
Terra d'acque! scendevan come fumo,
Sottili manti d'erba, a tarde stille;
O sgorgavan tra ondose luci ed ombre,
Scuotendo veli torpidi di schiuma.
Vedevano un rio chiaro al mare scorrere
Dall'interno: tre cime in lontananza,
D'annose nevi tre silenti guglie,
Rosse al tramonto: e il pino ombroso, rorido,
Più in alto abbarbicato della foresta folta.
L'incantato tramonto s'attardava
Là nel rosso Occidente: si vedeva
Addentrarsi fra i cretti la valletta,
E in fondo un giallo con intorno palme,
E clivi e prati d'agile galanga.
Terra in cui tutto sembra sempre uguale!
Ed alla nave con le facce pallide,
Pallide e oscure a quella rosea fiamma,
Tristi e con gli occhi miti si strinsero i Lotofagi.
Recavan rami, con i fiori e i frutti,
Di quell'arcana pianta, e ne donarono
A ciascuno; ma chi ne riceveva,
E l'assaggiava, a lui l'onda corrente
Lontano assai pareva lamentarsi
In lidi alieni; e se parlava aveva
Voce sottile, come dalla tomba:
Pareva addormentato, benché sveglio,
E il battere del cuore gli era agli orecchi musica.
Si sedettero sulla gialla sabbia,
In mezzo a sole e luna sulla spiaggia;
E dolce era sognar la Madrepatria,
Figli, consorte e schiava; ma sembrava
Sempre più faticoso il remo e il pelago,
E andar per campi sterili di schiuma.
Ed uno disse: "Più non torneremo";
E tutti a un tempo: "L'isola natale
È lungi dietro l'onda; non vagheremo più".

   

CANTO CORALE

I

"Dolce musica qui cade più soffice
Di petali da rose sopra l'erba,
Di rugiade notturne in acque ferme
Tra fosche mura in un passaggio lucido;
Più gentile si posa sullo spirito,
Che stanche ciglia su degli occhi stanchi;
E un dolce sonno strappa a cieli santi.
Qui giù c'è muschio fresco,
E l'edera vi striscia,
E i fiori persi piangon dentro il gorgo,
E il papavero pende, all'erto ciglio, torpido."

II

"Perché ci opprime questa pesantezza,
E un acuto malessere ci strema,
Mentre tutto ha un riposo da stanchezza?
Tutto ha un riposo: perché mai penare
Soltanto noi, innanzi a tutto i primi,
E trar perpetui lai,
Sospinti da un dolore verso l'altro:
E non piegar le ali,
E cessar dal vagare,
Né lustrar gli occhi in sacri e blandi balsami;
Né ascoltare lo spirito più intimo:
"Solo la quiete è gioia!"
Di tutto somma e cima, perché penar sol noi?"

III

"Ecco! nel folto bosco
Il vento trae la foglia fuor dal boccio
Sopra il suo ramo, ed essa
Là si fa grande e verde, e spensierata
La nutre a giorno il sole
E a notte la rugiada; ed ingiallita
Cade e vien giù per l'aria.
Ecco! addolcita dalla luce estiva
La mela tutto-succo, stramatura,
Cade d'autunno in una notte muta.
Per tutti i giorni che gli sono dati
Cresce il fiore al suo posto,
Cresce, e sfiorisce, e cade, e non ha duolo,
Fisso in ferace suolo."

IV

"Odioso è il blu del cielo,
Alto sul mare blu.
Morte è fine di vita; ma perché
Dovrebbe esser la vita solo affanno?
Lasciateci star soli. Il tempo è rapido:
La nostra bocca in un istante è muta.
Lasciateci star soli. Cosa dura?
Ogni cosa, strappata a noi, diventa
Dell'orrendo Passato una parcella.
Lasciateci star soli. Che piacere
Nel contrastare il male? C'è mai pace
Nello scalare le rampanti onde?
Tutto ha riposo, e cresce per la tomba
In silenzio; matura, cade, e ha termine:
Dateci morte oscura, o lunga quiete e sogni."

V

"Quanto soave al chioccolar dell'acque
Con gli occhi semichiusi
Sembrare addormentati, quasi in sogno!
Sognar, come la luce d'ambra eterna
Ai cespi della mirra sulla cima;
Udir scambiate voci mormorate;
Mangiando ogni dì Loto
Guardare gli arabeschi della sabbia
E i curvi ghirigori della schiuma;
Dare i cuori e gli spiriti all'influsso
Della melancolia che rende miti;
Pensare e astrarsi e viver, nel ricordo,
Coi cari volti della nostra infanzia
Finiti sotto l'erba,
Un po' di terra bianca, chiusa in un'urna bronzea!"

VI

"È caro ricordare il matrimonio,
L'ultimo abbraccio delle spose, e il pianto:
Però tutto ha sofferto il cambiamento:
Certo il nostro camino adesso è spento:
I figli eredi: il nostro aspetto è strano:
Verremmo come spettri, guastafeste.
O i prìncipi dell'isola arroganti
Ci han mangiato gli averi, e i bardi cantano
Della guerra di Troia e delle gesta
Come fossero storie, a loro innanzi.
C'è confusione là nell'isoletta?
Che rimanga così ciò che è spezzato.
Riconciliarsi i Numi è duro assai:
È duro un'altra volta fare ordine.
C'è confusione peggio che la morte,
Dolore su dolor, pena su pena,
Affanno lungo ad un respiro anziano,
Troppo per cuori esausti dalla guerra,
Per occhi resi foschi dal rintracciar la rotta."

VII

"Ma sopra letti d'amaranto e moli
Che dolce (mentre zefiri ci cullano)
Con gli occhi semiaperti,
Sotto un ciel cupo e santo,
Guardare il chiaro fiume scorrer lento
Dalla collina porpora -
Sentire umidi echi
Di grotta in grotta fra le viti fitte -
Veder cascate d'acque smeraldine
Per le trecce d'acanto più divine!
Solo vedere e udire da lungi il mare splendido,
Distesi sotto un pino, quanta dolcezza già."

VIII

"Il Loto sboccia sotto i picchi nudi:
Il Loto soffia in ogni curva baia:
Il vento spira sempre lieve e amabile:
In ogni vana grotta ed ermo viottolo
Ai colli aulenti è sparso del Loto il giallo polline.
Assai di moto e azione abbiamo avuto,
Sbattuti a dritta e a manca, quando ruggiva il flutto
Dove il mostro in rivolta schiumosi getti alzava.
Giuriamo un giuramento, e fermi rispettiamolo,
Nella Terra del Loto di vivere e sedere
Sui colli come Numi, degli uomini incuranti.
Essi stan presso al nettare, e i fulmini si abbattono
Molto sotto di loro, e si avvolgon le nubi
Alle magioni d'oro, cinte da un mondo fulgido:
Dove occulti sorridon, contemplando macerie,
Pèste e fame e disastri, fieri baratri urlanti,
Torri in fiamme e battaglie, navi a picco ed oranti.
Eppure essi sorridono: han scoperto che un canto
Di pena su svapora, una saga d'errore,
Un racconto insensato, benché il testo sia forte;
Cantato da una razza di usi al male che arano,
Spargono il seme e mieton con diuturna fatica,
Mettendo via ogni anno un po' di vino e grano;
Finché muoiono e soffrono - alcuni, si sussurra -
Nell'Orco eterne ambasce, e ai Campi Elisi gli altri
Posano alfin le membra su letti d'asfodeli.
Sicuro, è ben più dolce dormire sulla spiaggia
Della fatica al remo, in mezzo all'onde e al vento;
Requie, fratelli nauti, non vagheremo più."

   

   

IL SIRE LANCILLOTTO E LA REGINA GINEVRA
UN FRAMMENTO

   

Come anime che libran gioia e pena
Con lacrime e sorrisi ancor dal cielo
Sopra il piano la giovin Primavera
Venne recando d'acquasole un velo.
In un vapore cristallino ovunque
Isole blu ridenti il ciel gremivano,
E lungi, in fondo a boschi ignoti prima,
Rinverdiva dei frassini la cima
A un po' d'aria salùbre.
Spesso il fanello fischiettava un canto:
Sovente il tordo sibilava forte:
A volte il falco, roteando intanto,
Zittiva i boschi per timor di morte:
Tra prode erbose con possente suono
Il fiume quasi giallo zigzagava,
E i bocci dei castagni che cascavano
A disporsi a ventaglio incominciavano
Sopra il ferace suolo.
Allora, nella gioventù dell'anno,
La Regina Ginevra e Lancillotto
Cavalcavano dove ha covo il daino,
E chiaro e lieto risuonava il trotto.
Pareva lei primaveril fattura:
Seta verde la veste che indossava,
Da un fermaglio dorato abbottonata;
Verde il vezzo di piume che portava,
E d'oro la chiusura.
Ora su un feston d'edera imbrogliato,
Ora presso a un ruscello gorgogliante,
Su muschio alla violetta inframmezzato
Procedeva il suo mulo bianco-latte:
E lei sfiorava i piani ora più lieve
Di quella il cui corsiero arcano sfaglia
Di notte a strane voci, quando all'aria
Va un suono per la lucida boscaglia
Di briglie e sonagliere.
Lei tra ombra e sole andava come freccia,
E lieti venti sopra lei giocando
I ricci le soffiavan dalla treccia:
Pareva così amabile, portando
Le briglie in punta delle dita svelte,
Che un uomo avrebbe dato ogni altro agio,
Ogni felicità, nome e palagio,
Per perdere il suo cuore con un bacio
A quelle labbra eccelse.

   

   

VIGILIA DI SANT'AGNESE

 

La neve sopra il tetto del convento
Sotto la luna splende:
Sale in vapore il fiato: al cielo presto
Possa anche l'alma tendere!
Le torri del convento spandon ombra
Giù sul suolo innevato,
Che insieme striscia all'incipiente ora
Che mi porta all'Amato:
Rendimi Tu di spirito illibata
Come un cielo d'inverno,
O il primo fior-di-neve dell'annata
Che nel mio seno serbo.
Come son sporchi questi veli candidi
In quel fulgore là;
E questo cero, a quell'argento avanti,
Che luce scialba dà;
Così si mostra l'anima all'Agnello,
Il mio spirito a Te;
Tale è il mio star qui in terra, appetto a quello
In cui spero per me.
Spalanca i cieli, O Sire! e assai distante,
Per tutto il firmamento,
Tirami a Te, tua sposa, astro fiammante,
In bianco paramento.
Egli mi innalza alle dorate porte;
Bagliori vanno e vengono;
Del cielo s'apron le stellate volte,
E luci ne discendono
Sempre più dense ed ecco! oltre il portale
Che a un tratto è spalancato
C'è in mia attesa lo Sposo Celestiale,
Per trarmi dal peccato.
Tutti i sabati dell'Eternità,
Sabato aperto e ascoso -
Luce su un mare di lucidità -
La sposa col suo Sposo!

   

 

S. SIMEONE STILITA

 

Sebbene sia il più misero degli uomini,
Una scabbiosa crosta di peccato,
Di cielo e terra indegno, buono appena
Per legioni di dèmoni blasfemi,
Non smetto di aggrapparmi a una speranza
Di santità, ed invoco fra i singhozzi,
Tempestando di preghi il Paradiso:
"Pietà, Signore, e strappami alla colpa".

Questo mi valga, questo non sia vano,
Dio giusto e atroce e forte: che trent'anni,
Da sovrumani affanni triplicati,
In fame e sete, e infreddature e acciacchi,
E tossi, e fitte, e febbri, e doglie e crampi,
Un segno a mezzo fra le nubi e l'erba,
Su quest'alta colonna ho sopportato
La pioggia e il vento, e sole e neve e grandine;
Ed avevo sperato che anzitempo
Tu mi avresti chiamato alla tua pace,
Dando a quest'ossa rotte alle intemperie
La paga santa, palma e veste bianca.

Comprendimi, Signore: non rifiato,
Non sussurro, né mormoro lamenti.
Una pena più grande mille volte
Sarebbe mille volte meno grave
Di questa massa plumbea di peccato
Che il mio spirito abbatte innanzi a te.
Sai che in principio sopportavo meglio,
Perché ero forte ed integro di corpo;
E sebbene i miei denti, ora caduti,
Battessero dal freddo, e la mia barba
Brillasse di ghiaccioli nella luna,
Oltre il grido dei gufi alzavo i salmi,
E a volte, accanto a me, vedevo un angelo,
Mentre cantavo, stare ad osservarmi.
Adesso sono debole, finito;
E sia così, lo spero; mezzo sordo
A stento sento il popolo ronzare
Ai piedi del pilastro, e quasi cieco
A stento riconosco i noti campi;
Ed ho le cosce macere per l'umido;
E tuttavia non smetto di implorare,
Finché mi regga il collo il capo stanco
Ed io non cada in pezzi dalla pietra:
"Pietà, pietà: cancella il mio peccato".

Se a me non salvi l'anima, Gesù,
Chi sarà salvo? chi sarà salvato?
Chi fatto santo, se fallisco io?
Mostrami chi ha sofferto più di me.
Non muoiono una sola volta i martiri?
Nell'olio, o lapidati, o in croce, o al rogo,
O segati alla vita in due tronconi;
Ma una vita di morte invece io
Per anni interi ed oggi muoio qui.
Se avessi visto un modo, dànne atto,
(E vi ho pensato, con accanimento)
Più atroce e lento d'umiliarmi il corpo,
Vaso di colpa che disprezzo e odio,
Mio Signore, non mi sarei ritratto.
Ché a questa penitenza del pilastro
Non solo ho resistito: quando stavo
Nel bianco monastero della valle,
Per molte settimane intorno ai fianchi
Portai la fune che tirava su
Dal pozzo i secchi, stretta a più non posso;
E non ne dissi ad altri, finché l'ulcera,
Smangiandomi la pelle, denunciò
La mia segreta ammenda, sì che molto
Stupirono i fratelli. E assai di più,
Di cui tu Dio sai tutto, ho sopportato.

Per tre inverni d'ascesa spirituale
Io vissi là, su quel lontano monte.
Stavo, la gamba destra avvinta a un masso,
In un chiuso di pietra, senza tetto;
Sovente avvolto di fluttuante nebbia,
Due volte fulminato, e non sorbendo
Talvolta che vapore, e non mangiando
Che le offerte di quelli che venivano
Per toccare il mio corpo, e ne guarivano:
Dissero allora che ero un taumaturgo,
Fama di me che è salda fra gli uomini,
Zoppìe curavo, e il cancro e la paralisi.

O Dio, tu sai se fosse vero o falso.
Pietà, pietà! ricopri il mio peccato.

Poi, per stare più solo insieme a te,
Rimasi per tre anni su un pilastro
Di sei cubiti, e tre su uno di dodici;
E sei anni su un altro che si alzava
A venti; e sono infine da vent'anni,
Da vent'anni sfibranti, sopra questo,
Alto quaranta cubiti dal suolo.

Penso d'aver sofferto tutto questo
- Od altrimenti sogno - e così a lungo,
Per quanto il tempo possa calcolare
A quella luce e a questa meridiana
Di angoscia incoronata.                                   
                                    Anche se è dubbio,
Perché i diavoli vengono e mi dicono:
"Bùttati, Simeone: lungamente,
Per tanto hai già subìto!" e poi mi cianciano
Di pene che non posso aver patito,
Con fole confondendomi; e sovente,
Forse per mesi, cado in bui deliqui,
Che inghiottono la Terra e il Cielo e il Tempo.
Ma Dio rifletti, mentre tu ed i santi
Godete in Paradiso, e in terra gli uomini
Stanno in comode case, al focolare,
Con donne, e buoni cibi, e vesti calde,
E persino le bestie hanno le stalle,
Io dall'alba al tramonto della luce
Compio milleduecento metanìe,
Alla Vergine Madre, a Cristo e ai santi;
O dopo un breve sonno, a notte, veglio:
Le stelle brillan fredde; e zuppo e rigido
Sono di guazza e scricchiolante gelo.
Ho una pelle di capra sulle spalle,
E un collare di ferro che mi scortica;
Fra braccia frali e scarne alzo la croce,
E combatto con te fino alla morte:
Pietà, pietà! detergi le mie colpe.

O Signore, tu sai che uomo sia;
Pieno di colpe, concepito e nato
Nella colpa: che è loro, e non è mia,
Che stia lungi da me. Son da riprendere,
Se quelli vengon qui per venerarmi?
Mi pensano un qualcosa. E che mai sono?
Mi prendono gli stolti per un santo,
E mi portano in dono frutta e fiori:
Ed io, in verità (dàmmene atto)
Ho tutto sopportato, come e più
Di molti di quei giusti e benedetti,
Santi in martirologi e calendari.

È male, brava gente, a me inchinarsi.
Che avrò compiuto, poi, per meritarlo?
Io sono un peccatore, più di voi.
Può darsi che abbia fatto dei miracoli,
Curato zoppi e storpi; ma con questo?
Può darsi che neppure uno dei santi
Tribolasse al mio pari; ma con ciò?
E senza vanto; ché guardate a me,
E all'atto stesso v'inchinate a Dio.
Parli, se c'è un malato in mezzo a voi.
Penso si sappia che la mia espiazione
In cielo ha peso: dica quel che vuole.
Io lo posso guarire. Emano un fluido.

E tornan sani, dicono. Ma senti!
Gridan: "San Simeone lo Stilita".
In me Dio miete, se è così. Mio spirito,
In te Dio miete il suo raccolto. E dunque,
Posso operar miracoli e dannarmi?
Non è detto d'alcuno. E furon santi.
Altro non può accadere che sia santo;
Santificato. Gridan: "Guarda un santo!".
E voci basse mi fan santo in alto.
San Simeone, forza! La crisalide
Rompe in ali splendenti, e la speranza
Avanti a morte accresce, quel Dio che
Le menzioni di crimine ha cassato
Dai miei mortali archivi.                           
                             O figli miei,
Io, Simeone del pilastro, detto
Stilita fra la gente; io, Simeone,
Vigile sul pilone fino all'ultimo;
E il cui cervello cuoce il solleone,
E le cui rade ciglia in ore mute
Stranamente s'imbiancano di brina,
Dal mio nido di pena ora proclamo
Che Iscariota e Pilato accanto a me
Sembran due Serafini. Sto sui tizzi,
Vaso di colpa che un inferno sotto
Ha spinto a traboccare. Tutti i diavoli
Mi han preso per la manica, e assalito.
Li colpii con la croce; e ritornavano.
Come scimmioni in letto mi schiacciavano:
Spegnevano la luce a cui leggevo:
Tra il libro e me vedevo i loro ceffi;
Con nitriti e grugniti sconvolgevano
La mia preghiera. Eppure ciò è passato,
Ovviato in questo modo. Sferze e spine
Vi umilino le carni, come a me.
Colpite fitto, a lungo. E se è possibile
Fate tutta Quaresima, e pregate.
Con passi stanchi da quei pozzi in fiamme
Che ancora ho negli orecchi, e con gran pena,
E a stento mi salvai. Ma niente elogi:
Solo per sua bontà Dio trovò giusto,
Fra le potenze e i prìncipi del mondo,
Fare di me un esempio a tutti gli uomini,
Da pochi raggiungibile. E non dico
Se non che verrà un tempo - ed è già qua,
Già calpesta le soglie della vita -
Io dico che è alle porte un tempo in cui
Mi potrete adorare senza biasimo;
Ché lascerò i miei resti in questa terra,
E voi potrete edificare un tempio
E accender lumi profumati ad essi,
Quando sarò fra i santi nella gloria.

Mentre parlavo è corsa in me in un fremito
Una fitta di pena, e al suo passaggio,
Quasi rannuvolasse, un fitto velo
Mi ha reso foschi gli occhi duri e grevi.
La fine! E che? Una forma, un'ombra, un lampo.
È l'angelo che porta la corona?
Vieni, fratello santo. Il viso tuo
Di luce riconosco. Ho atteso a lungo;
Il capo ho pronto. Che! Ti neghi, adesso?
No, qua, vien qua. Così l'afferro. Cristo!
È andato; è qua di nuovo; la corona!
È fatta apposta, è destinata a me,
E ne stillan rugiade celestiali,
Dolci! d'olio, di balsamo e d'incenso.
Fate che non m'inganni, o santi: credo
D'essere intatto, e puro, e adatto al Cielo.

Dite, se fra di voi laggiù c'è un prete,
Un uomo del Signore, si avvicini,
Ed appoggi una scala alla colonna,
Ed ascendendo alla mia casa aerea
Venga a donarmi il santo Sacramento;
Ché lo Spirito Santo mi ha avvertito,
E predìco che a un quarto a mezzanotte
Oggi morrò.                            
                             Ma questa pazza gente
Tu assisti, o Dio; che prenda norma, esempio:
E alla tua luce fàlle tu da guida.

   

[ Traduzioni pubblicate sul n. 45 di novembre 1991 della rivista Poesia ]

   


   

THE LOTOS-EATERS

 

‘Courage!’ he said, and pointed toward the land,
‘This mounting wave will roll us shoreward soon.’
In the afternoon they came unto a land
In which it seemed always afternoon.
All round the coast the languid air did swoon,
Breathing like one that hath a weary dream.
Full-faced above the valley stood the moon;
And like a downward smoke, the slender stream
Along the cliff to fall and pause and fall did seem.
A land of streams! some, like a downward smoke,
Slow-dropping veils of thinnest lawn, did go;
And some thro’ wavering lights and shadows broke,
Rolling a slumbrous sheet of foam below.
They saw the gleaming river seaward flow
From the inner land: far off, three mountain-tops,
Three silent pinnacles of aged snow,
Stood sunset-flush’d: and, dew’d with showery drops,
Up-clomb the shadowy pine above the woven copse.
The charmed sunset linger’d low adown
In the red West: thro’ mountain clefts the dale
Was seen far inland, and the yellow down
Border’d with palm, and many a winding vale
And meadow, set with slender galingale;
A land where all things always seem’d the same!
And round about the keel with faces pale,
Dark faces pale against that rosy flame,
The mild-eyed melancholy Lotos-eaters came.
Branches they bore of that enchanted stem,
Laden with flower and fruit, whereof they gave
To each, but who so did receive of them,
And taste, to him the gushing of the wave
Far far away did seem to mourn and rave
On alien shores; and if his fellow spake,
His voice was thin, as voices from the grave;
And deep-asleep he seem’d, yet all awake,
And music in his ears his beating heart did make.
They sat them down upon the yellow sand,
Between the sun and moon upon the shore;
And sweet it was to dream of Fatherland,
Of child, and wife, and slave; but evermore
Most weary seem’d the sea, weary the oar,
Weary the wandering fields of barren foam.
Then some one said, ‘We will return no more;’
And all at once they sang, ‘Our island home
Is far beyond the wave; we will no longer roam.’

  

CHORIC SONG

I.

There is sweet music here that softer falls
Than petals from blown roses on the grass,
Or night-dews on still waters between walls
Of shadowy granite, in a gleaming pass;
Music that gentlier on the spirit lies,
Than tir’d eyelids upon tir’d eyes;
Music that brings sweet sleep down from the blissful skies.
Here are cool mosses deep,
And thro’ the moss the ivies creep,
And in the stream the long-leaved flowers weep,
And from the craggy ledge the poppy hangs in sleep.

II.

Why are we weigh’d upon with heaviness,
And utterly consumed with sharp distress,
While all things else have rest from weariness?
All things have rest: why should we toil alone,
We only toil, who are the first of things,
And make perpetual moan,
Still from one sorrow to another thrown:
Nor ever fold our wings,
And cease from wanderings,
Nor steep our brows in slumber’s holy balm;
Nor harken what the inner spirit sings,
‘There is no joy but calm!’
Why should we only toil, the roof and crown of things?

III.

Lo! in the middle of the wood,
The folded leaf is woo’d from out the bud
With winds upon the branch, and there
Grows green and broad, and takes no care,
Sun-steep’d at noon, and in the moon
Nightly dew-fed; and turning yellow
Falls, and floats adown the air.
Lo! sweeten’d with the summer light,
The full-juiced apple, waxing over-mellow,
Drops in a silent autumn night.
All its allotted length of days,
The flower ripens in its place,
Ripens and fades, and falls, and hath no toil,
Fast-rooted in the fruitful soil.

IV.

Hateful is the dark-blue sky,
Vaulted o’er the dark-blue sea.
Death is the end of life; ah, why
Should life all labour be?
Let us alone. Time driveth onward fast,
And in a little while our lips are dumb.
Let us alone. What is it that will last?
All things are taken from us, and become
Portions and parcels of the dreadful Past.
Let us alone. What pleasure can we have
To war with evil? Is there any peace
In ever climbing up the climbing wave?
All things have rest, and ripen toward the grave
In silence; ripen, fall and cease:
Give us long rest or death, dark death, or dreamful ease.

V.

How sweet it were, hearing the downward stream,
With half-shut eyes ever to seem
Falling asleep in a half-dream!
To dream and dream, like yonder amber light,
Which will not leave the myrrh-bush on the height;
To hear each other’s whisper’d speech;
Eating the Lotos day by day,
To watch the crisping ripples on the beach,
And tender curving lines of creamy spray;
To lend our hearts and spirits wholly
To the influence of mild-minded melancholy;
To muse and brood and live again in memory,
With those old faces of our infancy
Heap’d over with a mound of grass,
Two handfuls of white dust, shut in an urn of brass!

VI.

Dear is the memory of our wedded lives,
And dear the last embraces of our wives
And their warm tears: but all hath suffer’d change:
For surely now our household hearths are cold:
Our sons inherit us: our looks are strange:
And we should come like ghosts to trouble joy.
Or else the island princes over-bold
Have eat our substance, and the minstrel sings
Before them of the ten years’ war in Troy,
And our great deeds, as half-forgotten things.
Is there confusion in the little isle?
Let what is broken so remain.
The Gods are hard to reconcile:
’Tis hard to settle order once again.
There is confusion worse than death,
Trouble on trouble, pain on pain,
Long labour unto aged breath,
Sore task to hearts worn out by many wars
And eyes grown dim with gazing on the pilot-stars.

VII.

But, propt on beds of amaranth and moly,
How sweet (while warm airs lull us, blowing lowly)
With half-dropt eyelid still,
Beneath a heaven dark and holy,
To watch the long bright river drawing slowly
His waters from the purple hill-
To hear the dewy echoes calling
From cave to cave thro’ the thick-twined vine-
To watch the emerald-colour’d water falling
Thro’ many a wov’n acanthus-wreath divine!
Only to hear and see the far-off sparkling brine,
Only to hear were sweet, stretch’d out beneath the pine.

VIII.

The Lotos blooms below the barren peak:
The Lotos blows by every winding creek:
All day the wind breathes low with mellower tone:
Thro’ every hollow cave and alley lone
Round and round the spicy downs the yellow lotos-dust is blown.
We have had enough of action, and of motion we,
Roll’d to starboard, roll’d to larboard, when the surge was seething free,
Where the wallowing monster spouted his foam-fountains in the sea.
Let us swear an oath, and keep it with an equal mind,
In the hollow Lotos-land to live and lie reclined
On the hills like Gods together, careless of mankind.
For they lie beside their nectar, and the bolts are hurl’d
Far below them in the valleys, and the clouds are lightly curl’d
Round their golden houses, girdled with the gleaming world:
Where they smile in secret, looking over wasted lands,
Blight and famine, plague and earthquake, roaring deeps and fiery sands,
Clanging fights, and flaming towns, and sinking ships, and praying hands.
But they smile, they find a music centred in a doleful song
Steaming up, a lamentation and an ancient tale of wrong,
Like a tale of little meaning tho’ the words are strong;
Chanted from an ill-used race of men that cleave the soil,
Sow the seed, and reap the harvest with enduring toil,
Storing yearly little dues of wheat, and wine and oil;
Till they perish and they suffer-some, ’tis whisper’d-down in hell
Suffer endless anguish, others in Elysian valleys dwell,
Resting weary limbs at last on beds of asphodel.
Surely, surely, slumber is more sweet than toil, the shore
Than labour in the deep mid-ocean, wind and wave and oar;
Oh rest ye, brother mariners, we will not wander more.

 

 

SIR LAUNCELOT AND QUEEN GUINEVERE
A FRAGMENT

 

Like souls that balance joy and pain,
With tears and smiles from heaven again
The maiden Spring upon the plain
Came in a sun-lit fall of rain.
In crystal vapour everywhere
Blue isles of heaven laugh'd between,
And far, in forest-deeps unseen,
The topmost elm-tree gather'd green
From draughts of balmy air.

Sometimes the linnet piped his song:
Sometimes the throstle whistled strong:
Sometimes the sparhawk, wheel'd along,
Hush'd all the groves from fear of wrong:
By grassy capes with fuller sound
In curves the yellowing river ran,
And drooping chestnut-buds began
To spread into the perfect fan,
Above the teeming ground.

Then, in the boyhood of the year,
Sir Launcelot and Queen Guinevere
Rode thro' the coverts of the deer,
With blissful treble ringing clear.
She seem'd a part of joyous Spring:
A gown of grass-green silk she wore,
Buckled with golden clasps before;
A light-green tuft of plumes she bore
Closed in a golden ring.

Now on some twisted ivy-net,
Now by some tinkling rivulet,
In mosses mixt with violet
Her cream-white mule his pastern set:
And fleeter now she skimm'd the plains
Than she whose elfin prancer springs
By night to eery warblings,
When all the glimmering moorland rings
With jingling bridle-reins.

As she fled fast thro' sun and shade,
The happy winds upon her play'd,
Blowing the ringlet from the braid:
She look'd so lovely, as she sway'd
The rein with dainty finger-tips,
A man had given all other bliss,
And all his worldly worth for this,
To waste his whole heart in one kiss
Upon her perfect lips.

 

 

ST. AGNES' EVE

 

Deep on the convent-roof the snows
Are sparkling to the moon:
My breath to heaven like vapour goes:
May my soul follow soon!
The shadows of the convent-towers
Slant down the snowy sward,
Still creeping with the creeping hours
That lead me to my Lord:
Make Thou my spirit pure and clear
As are the frosty skies,
Or this first snowdrop of the year
That in my bosom lies.
 
As these white robes are soil'd and dark,
To yonder shining ground;
As this pale taper's earthly spark,
To yonder argent round;
So shows my soul before the Lamb,
My spirit before Thee;
So in mine earthly house I am,
To that I hope to be.
Break up the heavens, O Lord! and far,
Thro' all yon starlight keen,
Draw me, thy bride, a glittering star,
In raiment white and clean.
 
He lifts me to the golden doors;
The flashes come and go;
All heaven bursts her starry floors,
And strows her lights below,
And deepens on and up! the gates
Roll back, and far within
For me the Heavenly Bridegroom waits,
To make me pure of sin.
The sabbaths of Eternity,
One sabbath deep and wide-
A light upon the shining sea-
The Bridegroom with his bride!

 

 

ST. SIMEON STYLITES

 

Altho’ I be the basest of mankind,
From scalp to sole one slough and crust of sin,
Unfit for earth, unfit for heaven, scarce meet
For troops of devils, mad with blasphemy,
I will not cease to grasp the hope I hold
Of saintdom, and to clamour, mourn and sob,
Battering the gates of heaven with storms of prayer,
Have mercy, Lord, and take away my sin.

Let this avail, just, dreadful, mighty God,
This not be all in vain, that thrice ten years,
Thrice multiplied by superhuman pangs,
In hungers and in thirsts, fevers and cold,
In coughs, aches, stitches, ulcerous throes and cramps,
A sign betwixt the meadow and the cloud,
Patient on this tall pillar I have borne
Rain, wind, frost, heat, hail, damp, and sleet, and snow;
And I had hoped that ere this period closed
Thou wouldst have caught me up into thy rest,
Denying not these weather-beaten limbs
The meed of saints, the white robe and the palm.

O take the meaning, Lord: I do not breathe,
Not whisper, any murmur of complaint.
Pain heap’d ten-hundred-fold to this, were still
Less burthen, by ten-hundred-fold, to bear,
Than were those lead-like tons of sin, that crush’d
My spirit flat before thee.

                                                                   O Lord, Lord,
Thou knowest I bore this better at the first,
For I was strong and hale of body then;
And tho’ my teeth, which now are dropt away,
Would chatter with the cold, and all my beard
Was tagg’d with icy fringes in the moon,
I drown’d the whoopings of the owl with sound
Of pious hymns and psalms, and sometimes saw
An angel stand and watch me, as I sang.
Now am I feeble grown; my end draws nigh;
I hope my end draws nigh: half deaf I am,
So that I scarce can hear the people hum
About the column’s base, and almost blind,
And scarce can recognise the fields I know;
And both my thighs are rotted with the dew;
Yet cease I not to clamour and to cry,
While my stiff spine can hold my weary head,
Till all my limbs drop piecemeal from the stone,
Have mercy, mercy: take away my sin.

O Jesus, if thou wilt not save my soul,
Who may be saved? who is it may be saved?
Who may be made a saint, if I fail here?
Show me the man hath suffer’d more than I.
For did not all thy martyrs die one death?
For either they were stoned, or crucified,
Or burn’d in fire, or boil’d in oil, or sawn
In twain beneath the ribs; but I die here
To-day, and whole years long, a life of death.
Bear witness, if I could have found a way
(And heedfully I sifted all my thought)
More slowly-painful to subdue this home
Of sin, my flesh, which I despise and hate,
I had not stinted practice, O my God.

For not alone this pillar-punishment,
Not this alone I bore: but while I lived
In the white convent down the valley there,
For many weeks about my loins I wore
The rope that haled the buckets from the well,
Twisted as tight as I could knot the noose;
And spake not of it to a single soul,
Until the ulcer, eating thro’ my skin,
Betray’d my secret penance, so that all
My brethren marvell’d greatly. More than this
I bore, whereof, O God, thou knowest all.

Three winters, that my soul might grow to thee,
I lived up there on yonder mountain side.
My right leg chain’d into the crag, I lay
Pent in a roofless close of ragged stones;
Inswathed sometimes in wandering mist, and twice
Black’d with thy branding thunder, and sometimes
Sucking the damps for drink, and eating not,
Except the spare chance-gift of those that came
To touch my body and be heal’d, and live:
And they say then that I work’d miracles,
Whereof my fame is loud amongst mankind,
Cured lameness, palsies, cancers. Thou, O God,
Knowest alone whether this was or no.
Have mercy, mercy! cover all my sin.

Then, that I might be more alone with thee,
Three years I lived upon a pillar, high
Six cubits, and three years on one of twelve;
And twice three years I crouch’d on one that rose
Twenty by measure; last of all, I grew
Twice ten long weary weary years to this,
That numbers forty cubits from the soil.

I think that I have borne as much as this-
Or else I dream-and for so long a time,
If I may measure time by yon slow light,
And this high dial, which my sorrow crowns-
So much-even so.                                      

                               And yet I know not well,
For that the evil ones come here, and say,
‘Fall down, O Simeon: thou hast suffer’d long
For ages and for ages!’ then they prate
Of penances I cannot have gone thro’,
Perplexing me with lies; and oft I fall,
Maybe for months, in such blind lethargies
That Heaven, and Earth, and Time are choked.

                                                                                      But yet
Bethink thee, Lord, while thou and all the saints
Enjoy themselves in heaven, and men on earth
House in the shade of comfortable roofs,
Sit with their wives by fires, eat wholesome food,
And wear warm clothes, and even beasts have stalls,
I, ’tween the spring and downfall of the light,
Bow down one thousand and two hundred times,
To Christ, the Virgin Mother, and the saints;
Or in the night, after a little sleep,
I wake: the chill stars sparkle; I am wet
With drenching dews, or stiff with crackling frost.
I wear an undress’d goatskin on my back;
A grazing iron collar grinds my neck;
And in my weak, lean arms I lift the cross,
And strive and wrestle with thee till I die:
O mercy, mercy! wash away my sin.

O Lord, thou knowest what a man I am;
A sinful man, conceived and born in sin:
’Tis their own doing; this is none of mine;
Lay it not to me. Am I to blame for this,
That here come those that worship me? Ha! ha!
They think that I am somewhat. What am I?
The silly people take me for a saint,
And bring me offerings of fruit and flowers:
And I, in truth (thou wilt bear witness here)
Have all in all endured as much, and more
Than many just and holy men, whose names
Are register’d and calendar’d for saints.

Good people, you do ill to kneel to me.
What is it I can have done to merit this?
I am a sinner viler than you all.
It may be I have wrought some miracles,
And cured some halt and maim’d; but what of that?
It may be, no one, even among the saints,
May match his pains with mine; but what of that?
Yet do not rise; for you may look on me,
And in your looking you may kneel to God.
Speak! is there any of you halt or maim’d?
I think you know I have some power with Heaven
From my long penance: let him speak his wish.

Yes, I can heal him. Power goes forth from me.
They say that they are heal’d. Ah, hark! they shout
‘St. Simeon Stylites.’ Why, if so,
God reaps a harvest in me. O my soul,
God reaps a harvest in thee. If this be,
Can I work miracles and not be saved?
This is not told of any. They were saints.
It cannot be but that I shall be saved;
Yea, crown’d a saint. They shout, ‘Behold a saint!’
And lower voices saint me from above.
Courage, St. Simeon! This dull chrysalis
Cracks into shining wings, and hope ere death
Spreads more and more and more, that God hath now
Sponged and made blank of crimeful record all
My mortal archives.                                  

                                O my sons, my sons,
I, Simeon of the pillar, by surname
Stylites, among men; I, Simeon,
The watcher on the column till the end;
I, Simeon, whose brain the sunshine bakes;
I, whose bald brows in silent hours become
Unnaturally hoar with rime, do now
From my high nest of penance here proclaim
That Pontius and Iscariot by my side
Show’d like fair seraphs. On the coals I lay,
A vessel full of sin: all hell beneath
Made me boil over. Devils pluck’d my sleeve,
Abaddon and Asmodeus caught at me.
I smote them with the cross; they swarm’d again.
In bed like monstrous apes they crush’d my chest:
They flapp’d my light out as I read: I saw
Their faces grow between me and my book;
With colt-like whinny and with hoggish whine
They burst my prayer. Yet this way was left,
And by this way I ’scaped them. Mortify
Your flesh, like me, with scourges and with thorns;
Smite, shrink not, spare not. If it may be, fast
Whole Lents, and pray. I hardly, with slow steps,
With slow, faint steps, and much exceeding pain,
Have scrambled past those pits of fire, that still
Sing in mine ears. But yield not me the praise:
God only thro’ his bounty hath thought fit,
Among the powers and princes of this world,
To make me an example to mankind,
Which few can reach to. Yet I do not say
But that a time may come-yea, even now,
Now, now, his footsteps smite the threshold stairs
Of life-I say, that time is at the doors
When you may worship me without reproach;
For I will leave my relics in your land,
And you may carve a shrine about my dust,
And burn a fragrant lamp before my bones,
When I am gather’d to the glorious saints.

While I spake then, a sting of shrewdest pain
Ran shrivelling thro’ me, and a cloudlike change,
In passing, with a grosser film made thick
These heavy, horny eyes. The end! the end!
Surely the end! What’s here? a shape, a shade,
A flash of light. Is that the angel there
That holds a crown? Come, blessed brother, come.
I know thy glittering face. I waited long;
My brows are ready. What! deny it now?
Nay, draw, draw, draw nigh. So I clutch it. Christ!
’Tis gone: ’tis here again; the crown! the crown!
So now ’tis fitted on and grows to me,
And from it melt the dews of Paradise,
Sweet! sweet! spikenard, and balm, and frankincense.
Ah! let me not be fool’d, sweet saints: I trust
That I am whole, and clean, and meet for Heaven.

Speak, if there be a priest, a man of God,
Among you there, and let him presently
Approach, and lean a ladder on the shaft,
And climbing up into my airy home,
Deliver me the blessed sacrament;
For by the warning of the Holy Ghost,
I prophesy that I shall die to-night,
A quarter before twelve.                                  
                                 But thou, O Lord,
Aid all this foolish people; let them take
Example, pattern: lead them to thy light.

   

    

 

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