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DANTE E MAOMETTO

 

Armando Troni

 

da:

Armando Troni, I colloqui col tempo, I Quaderni de La Sinossi, Palermo, 1935

Armando Troni

 

Nota introduttiva. Di Armando Troni non so se non quello che si ricava dall'analisi de «I colloqui col tempo». In questo libro è riportato il ritratto sopra riprodotto e lo si definisce "infaticabile studioso dei vari campi della scienza classica e moderna, letteraria, giuridica, economica e sociale" (Jean Moruzi) nonché - nel 1935 - "un giovane scrittore che novera ormai molti buoni successi" (Ugo De Maria). Viene inoltre elencata la serie di giornali su cui  gli articoli furono in precedenza pubblicati, e si specifica che era prevista per il 1936 l'edizione internazionale del libro, con traduzioni in molte lingue.

In Internet poco o niente ho trovato su di lui, salvo la menzione di un paio di altre pubblicazioni:

  • Le grandi opere del Regime Fascista in Sicilia. La ferrovia Alcamo-Trapani, 1937
  • Palestina, La Sinossi, Palermo, 1937

Un internauta gentilmente mi ha poi inviato copia fotografica del volumetto:

  • Lotte, La Grafica, Palermo, 1930.

È costituito di 14 fogli scritti solo sulla destra, datato «aprile 1930 anno VIII», stampato nella Tipografia Lo Re Salvatore, via Divisi 90, Palermo, e dedicato «alla cara memoria di mio zio Cesare». L'edizione è elegante, con fregi, capilettera, cornici e una foto dell'autore fuori testo, ma il contenuto per la verità – si tratta di un poemetto sulla morte – è stilisticamente un po' greve.

Sarò grato a chi mi darà ulteriori notizie.

Ho trascritto il testo lasciandolo quasi del tutto uguale all'originale. Le modifiche consistono in qualche correzione ortografica e di trascrizione; e in poco altro che si è indicato in nota.

Dario Chioli

   

Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
com'io vidi un, così non si pertugia,
rotto dal mento infin dove si trulla:
tra le gambe pendean le minugia;
la corata pareva e 'l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia.
Mentre che tutto in lui veder m'attacco,
guardommi, e con le man s'aperse il petto,
dicendo: «Or vedi com'io mi dilacco!
vedi come storpiato è Maometto!
Dinanzi a me sen va piangendo Alì,
fesso nel volto dal mento al ciuffetto.
(1)

Così Dante (Inf. XXVIII) concia il povero Maometto (2) ponendolo nella nona bolgia coi seminatori di scismi.

Da rigettarsi la ipotesi avanzata da alcuni critici e studiosi della Comedia, i quali affermano che nel Medio Evo era diffusa la leggenda che Maometto avesse appartenuto alla Chiesa Cristiana e avesse aspirato ad essere eletto Papa.

Questo non è che uno dei tentativi, ed il più infelice, fatto dai critici per spiegare perché mai Dante avesse dannato Maometto condannandolo a quella orrenda tortura.

Si potrebbe dimostrare - e lo faremo in seguito - che mai come allora (parliamo dei tempi di Dante) gli studi sull'Islam furono in auge.

A parte la funzione unificatrice del Corano, che creò la lingua nazionale del popolo islamico così come doveva la Comedia fare assurgere a dignità di lingua il dialetto fiorentino, è innegabile che la predicazione di Maometto e la religione da lui creata riuscirono ad allontanare dalla idolatria i popoli dell'Islam avvicinandoli al vero Dio, uno, misericordioso e compassionevole, come può leggersi all'inizio di ogni sura del Corano. Certo il castigo fu crudele e non nascondiamo che avremmo meglio ascoltato da Maometto, squarciato cinquanta volte in un'ora dalla spada del demone, i versi di disperato dolore che Dante fa invece ripetere al trovatore provenzale Bertram De Born:

Or vedi la pena molesta
tu che, spirando, vai veggendo i morti:
vedi s'alcuna è grande come questa!

(Inf. XXVIII, 130-132)

ed invero è inspiegabile tanta crudeltà nel Vate Alighieri, che pur con tutta la luce del suo intelletto non seppe completamente isolarsi dal suo tempo, restando pur sempre il medioevale intollerante e vendicativo.

Il «giovin garzone dei banu-`Abd-al-Muttalib che parla del Cielo» (così i Quraysh chiamavano Maometto) restò incrollabile nella sua missione alla quale non fu trascinato da sete di gloria o di denaro, come è stato insinuato da qualche critico leggero, bensì egli, come il Cristo nel Carmelo, nelle solitarie lunghe meditazioni sul monte Hirâ, nell'astinenza e nella rinunzia, ingigantì la propria fede e ne fece più che una missione, un apostolato.

Dopo la conversione di Hamzah i Quraysh tralasciarono la guerra e cercarono di distogliere Maometto dalla sua idea. «Se tu vuoi diventare ricco - parla `Utbah - noi raccoglieremo tanti denari finché tu diventerai il più ricco fra noi; se tu miri ad acquistare onori, ti nomineremo il nostro più anziano e non prenderemo alcuna decisione senza consultarti».

Maometto rifiutò, ecco quindi che non agiva né per cupidigia né per ambizione, del resto tutta la sua vita, per chi ben la conosca, sta a dimostrarcelo.

Siamo quindi d'accordo col Caetani, nell'affermare - contrariamente al giudizio di Dante - la buona fede del Profeta, il quale si riteneva così realmente all'unisono con il Cristianesimo nella sua riforma religiosa che considerò l'Etiopia cristiana come l'asilo migliore per mantenere le pecorelle smarrite in grembo alla fede islamica.

Maometto era quindi convinto che non vi fosse differenza essenziale tra l'Islam e il Cristianesimo. Troppo vicini restano adunque nella nostra mente il Poeta ed il Profeta esiliati.

L'itinerario della Comedia, troppo noto perché sia il caso di ricordarlo, non è che il viaggio compiuto da Maometto (per Dante come per Maometto i cieli sono sette come sette sono i piani della materia), in sogno magari, come, contro la opinione dei tradizionalisti, sostiene la critica ufficiale.

   

VIAGGIO DI MAOMETTO

Maometto è svegliato dal sonno e condotto da una ignota guida (in Dante, Virgilio) sopra un monte aspro ed erto (in Dante, la selva selvaggia ed aspra e forte) alla cui vista rimane sgomento (Dante: che nel pensier rinnova la paura). Da là vede sei specie di peccatori al tormento; i primi cinque appartengono al purgatorio, il sesto e la Geenna che segue all'Inferno, più oltre si trova un luogo delizioso dove sono quelli che morirono nella fede dell'Islam, poi gli amici di Dio, i martiri e i Santi.

Troppo evidente è qui la similitudine, perché sia il caso di far citazioni. Sono nominati tre guerrieri amici di Maometto morti in battaglia.

In alto levando gli occhi, sotto il trono di Dio vede aggruppati Abramo, Gesù e Mosè (narratore del viaggio figura lo stesso Maometto). Un terribile supplizio è riservato agli adulteri: un forno ardente a guisa di tubo largo in fondo e stretto in cima, dove uomini e donne nudi sono lanciati e riassorbiti dalle fiamme; altro grave tormento è riservato agli usurai immersi in un fiume di sangue dal quale qualcuno cerca invano di uscire perché è respinto violentemente.

Nell'ascensione in cielo (mi`râj), come scrivono i tradizionalisti, un orribile guardiano che prepara strumenti di tortura impedisce a Maometto e all'angelo Gabriele l'entrata. Ma una voce che viene dall'alto lo mette a dovere, e Maometto e Gabriele passano. Qui siamo addirittura nel canto VIII dell'Inferno quando Dante e Virgilio, nell'entrare nella città di Dite, ne vengono impediti dai demoni prima e dalle tre furie infernali poi (canto IX). La voce che viene dall'alto non è che l'Angelo:

...dinanzi ad un che al passo
passava Stige con le piante asciutte.
Dal volto rimovea quell'aere grasso
...
Ben m'accors'io ch'egli era dal Ciel messo
e volsimi al Maestro...

(Inf. IX, 80-82, 85-86)

Una vecchia allettatrice cerca di sviare Maometto che, come abbiamo già detto, per virtù della voce che viene dal cielo, ha ripreso il suo viaggio. La vecchia allettatrice, in Dante la ritroviamo in una delle tre furie; anzi in Medusa, che rappresenta, come la stessa critica afferma, i piaceri mondani che rendono l'uomo insensibile agli avvertimenti del cielo (Enrico Bianchi). Maometto prosegue il suo viaggio attraverso settantamila casse funebri infuocate che coprono le settanta città degli oceani di fuoco. (Il numero sette simbolico che ritorna).

Vede gli assassini accoltellati dal demone risuscitare per tornare al supplizio e questa (ci si passino le interruzioni frequenti) non è che la pena che nella Comedia Dante infliggerà al Profeta Maometto, come si rileva dai versi citati. Maometto colla sua guida sale al Cielo velocemente su di una strana bestia, Burâq, il cavallo alato con volto di gentildonna coronata, passa i sette cieli dei pianeti, nel sesto cielo vede i Cherubini (posti da Dante nel 2° tenendo presente però che la numerazione dei cieli nel viaggio di Maometto è fatta in senso contrario). All'entrata del Paradiso sta Abramo (pei Cristiani sta Pietro) ed intorno a Lui una moltitudine di spiriti con la faccia bianchissima, un'altra con la faccia scura ma questi tuffandosi successivamente in tre ruscelli diventano con la faccia bianca.

La similitudine della Comedia è evidente. L'immersione nel fiume Lete che dà l'oblio delle cattive azioni non è che la immersione nei tre ruscelli che trasformano in bianche le facce nere, cancellano cioè le colpe.

Maometto poi è rapito al trono di Dio e non può dire quel che vide.

In questo silenzio non è che da rilevare un senso di profonda venerazione, poiché non difettava certo agli orientali la fantasia che consentisse loro di illustrare le grandezze e gli splendori magari materiali del trono di Dio. Per chi conosca l'itinerario della Comedia e ne abbia ben compreso l'intimo senso, non può non risaltare la grande simiglianza di contenuto, non solamente formale ma anche in sede di figurazione allegorica, che la narrazione del viaggio del Poeta presenta con quella molto precedente del Profeta. Non ci resta. quindi che accettare in proposito la dotta tesi del Prof. Asín, (3) in aggiunta alla quale si potrà solo rilevare che alcuni riscontri evidenti da noi passati sotto silenzio, come quello della terra veduta dall'alto dei cieli, Dio circondato dai cori di Angeli, la luce sempre maggiore di cielo in cielo, son cose che la leggenda mussulmana trovava nei classici e nella Bibbia; mentre i fiumi non sono che quelli della Genesi.

Or tenendo presente che Maometto morì nel 632 e che Dante nacque più di seicento anni dopo, è esclusa a priori qualsiasi eventualità di ispirazione e d'altro canto, a coloro che affermano che l'esatto itinerario del viaggio non si trova (ed è vero) in nessuna sura del Corano e che fu invece ricostruito dai seguaci e dagli studiosi, potremmo in primo luogo osservare che dalle modificazioni ed aggiunzioni postume non restarono immuni neppure i Santi Evangeli, e d'altro canto è poco presumibile che gli studiosi del Corano conoscessero... il dialetto fiorentino e che pensassero a ricostruire il viaggio del Profeta sui versi d'un poeta occidentale, senza pensare poi che, anche se postuma a Maometto, la ricostruzione del viaggio ha sulla Comedia una precedenza di almeno trecento anni!

   

IL GIUDIZIO DI DANTE

Non certo la comune triste sorte dell'esilio, la buona fede del Profeta, servirono ad avvicinare Maometto al cuore del Vate Alighieri.

Sul giudizio di Dante, scartata la ipotesi di Maometto che avesse tentato d'essere eletto Papa, ipotesi che abbiamo dimostrata assurda e che avrà fatto sorridere più di un islamista, non ne restano da considerare che due: o Dante vide Maometto come un distruttore dell'equilibrio sociale, di quell'equilibrio la cui stabilità era considerata nel Medio Evo come sacra pur senza esser magari compresa, o Dante considerò Maometto (e a questa conclusione si dovrebbe arrivare seguendo il Ricci) come un seminatore di scisma, inteso questo non come una frattura del perfetto equilibrio, ma come una tentata minorazione del potere temporale e spirituale della Chiesa Cattolica. E diciamo tentata perché non possiamo supporre che Dante ammettesse la possibilità del raggiungimento di una tale minorazione.

L'accusa sarebbe quindi solo contro coloro:

…stolti
che furon come spade alle Scritture
in render torti li diritti volti.

(Par. XIII, 127-129)

Noi siamo veramente per la prima ipotesi anche perché non possiamo ammettere che Dante, ritenuto - ben a ragione - un sapiente del secolo, ignorasse che Maometto, pur se disse che il Paradiso è all'ombra delle spade, era realmente convinto in buona fede, come abbiamo già detto, della fratellanza delle due religioni.

In appoggio alla nostra tesi ed a difesa di Maometto, dobbiamo rilevare che specialmente nelle dottrine dei Sufi e nei loro scritti bisogna ricercare - come ben a ragione hanno affermato gli studiosi - l'insegnamento esoterico della religione dell'Islam.

Il Sufi alla concezione di Dio quale puro essere aggiunge l'idea di Dio quale perfettamente bello.

Questo, che è alla base di ogni misticismo, è ciò che spiega la esterna apparenza di sensualità e le accuse mosse contro i poemi arabi e persiani. Per noi l'aspirazione del mistico Sufì che anela alla unione intima con il divino e ne descrive le perfezioni con il linguaggio adoperato dall'amante per descrivere le perfezioni dell'amata, non è dissimile da quella del mistico o della santa cristiana che anela di consumarsi e di ardere nel fuoco del divino amore. Il concetto ispiratore del poeta persiano che canta gli amori di Yûsuf e di Zuleykhâ o dell'usignolo e della rosa è il medesimo che ispirò gli autori della cantica di Salomone e dettò frasi mistiche ed ardenti a Santa Teresa, a Santa Caterina da Siena, a Jacopone da Todi, a San Francesco. Così le Peri, le Vergini del paradiso Maomettano, che ivi aspettano i fedeli seguaci di Allâh, sono le perfezioni acquistate dall'anima nel suo pellegrinaggio terreno, che le si uniranno nella beatitudine dei godimenti celesti. La dottrina Maomettana riconosce nel salvatore il Verbo di Dio nato nel seno della Vergine Maryam (Maria) ma nega la morte di lui sulla croce dicendo che egli fu sostituito da un uomo:

«e per avere essi detto: noi uccidemmo il Messia, Gesù figlio di Maria, l'apostolo di Dio, mentre non l'hanno ucciso né l'hanno crocifisso, bensì fu vista da loro una somiglianza». (4)

(Corano, Sura delle Donne, 157)

Ecco dunque che tale dottrina è nella sua essenza simile alla concezione gnostica dell’Uomo Gesù.

A questo punto crediamo di aver sufficientemente dimostrata la nostra tesi e concludiamo prospettando la sola soluzione che possa a nostro modesto avviso giustificare, se non spiegare, il giudizio di Dante, soluzione alla quale la critica si affaccia ora, forse per la prima volta, ma che non riuscirà tanto oscura quando si pensi che dal 632 anno della morte di Maometto al 1265 anno della nascita di Dante abbiamo un luminoso periodo di stridente separazione politica tra l'Occidente e l'Islam, ma un enorme incremento degli studi Islamici.

Questo periodo, che comincia precisamente il 1066 e termina nel 1291 e che ci ricorda i cavalieri templari ed il grande Riccardo Cuor dì Leone, porta un nome indimenticabile nella storia del mondo: le crociate. Quando si pensi al carattere vendicativo dei medioevali e a quello di Dante in particolare e si tenga presente quale poteva essere lo stato d'animo degli occidentali verso i mussulmani dopo 200 anni di non sempre vittoriose battaglie, si potrà molto più facilmente spiegare la ragione di un giudizio la cui severità non potrà mai ricercarsi su fondamenti esoterici e su concezioni religiose.

Questa, è a nostro avviso dunque, la causa per la quale Dante abbia dannato all'inferno sottoponendolo alla atroce tortura, il corpo del Capo spirituale dell'Islam, nel cui nome esaltati guerrieri combattevano ferocemente, lieti di conquistare morendo per la difesa della fede l'eterno godimento del Paradiso delle Urì.

   


Note

(1) N.d.C. - Inferno XXVIII, 22-33. Il Troni aveva riportato solo i versi 23-26, omettendo gli altri, probabilmente in ragione della loro estrema volgarità. Tuttavia senza di essi il testo non si capisce bene, per cui li ho aggiunti. Essendo poi il testo pochissimo chiaro al lettore comune per la presenza di molti termini disusati o tecnici, provvedo a darne qui di seguito una versione esplicativa in italiano moderno:

«Certo non si buca una botte (veggia), che perda dal pezzo mediano del fondo anteriore (mezzule) o dalla parte (a forma di falce di luna) tra il mezzule e l'orlo (lulla), tanto quanto uno che io vidi, spaccato dal mento fino a dove si scoreggia (si trulla): tra le gambe pendevano le budella (minugia); erano visibili (pareva) le interiora (la corata) e lo sporco sacco dello stomaco che trasforma in merda ciò che si trangugia. Mentre mi dedicavo tutto ad osservarlo, mi guardò e s'aprì il petto con le mani dicendo: «Or vedi come io mi squarcio! Vedi com'è storpiato Maometto! Dinanzi a me se ne va piangendo Alì, spaccato dal mento fino all'attacco dei capelli (ciuffetto) [...]».

Come commenta Carlo Steiner, «Qui la pietà è ben morta!».

Si noti che taluni esegeti islamici, per non sentirsi costretti da questi versi a respingere Dante, hanno sostenuto senza molte probabilità di essere presi sul serio che non siano suoi ma siano stati aggiunti posteriormente. Sarebbe certo meglio che così fosse, ma non è probabile.

(2) Nota di Armando Troni - «Muhammad» non fu il vero nome del Profeta ma un nome assunto o dato (vedi: Leone Caetani, Annali dell'Islam, vol. I, pag. 151), fu in verità un cognome, un appellativo, secondo un uso molto comune in Oriente, ove ogni uomo, cambiando di stato, di occupazione o di dimora, muta quasi sempre anche il nome. Maometto (Hisân pag. 117 = Halab I, 181) fu chiamato invece al-Amîn, il sicuro e questo appellativo è più certo di quello di Muhammad (il rassegnato).

N.d.C. - Si noti anche quanto dice Sergio Noja, Maometto Profeta dell'Islàm, Ed. Esperienze, Cuneo, 1974, ried. Mondadori, 1985, cap. VI: «Il nome che gli fu imposto, Muhammad (il lodato), è stato oggetto di qualche dubbio se fosse il nome originale, dato il suo significato che può far pensare ad un'apologia. [...] Un'indubbia testimonianza di verità è il soprannome di Amîn (il fido), che fu imposto al giovane Maometto secondo il costume ancor oggi vivo presso gli Arabi, che fanno del soprannome il vero, o almeno il principale, mezzo d'identificazione d'una persona. Certamente essere chiamato "il fido" in un ambiente di commercianti depone a suo favore».

(3) N.d.C. - Della celebre opera di Miguel Asín Palacios (1871-1944) La escatología musulmana en la Divina Comedia (1919) si veda la ben curata traduzione italiana di Roberto Rossi Testa e Younis Tawfik: Dante e l'Islam, 2 volumi, Nuova Pratiche Editrice, Parma, 1994, con introduzione di Carlo Ossola. Sul mi`râj, si veda inoltre la trad. it. di Roberto Rossi Testa del Liber Scalae Machometi (versione latina del XIII secolo di un originale arabo perduto): Il Libro della Scala di Maometto, SE, Milano, 1991, con note al testo e postfazione di Carlo Saccone.

(4) N.d.C. - Questo passo, vera crux interpretum, è così tradotto da Luigi Bonelli (Il Corano, Hoepli, Milano, 1976, 1.a ed.  1929): "bensì la cosa fu resa dubbia ad essi". Il Bonelli poi commenta in nota: "Il passo è ancora oscuro; secondo i commentatori, le sembianze di Gesù sarebbero state trasportate su un altro individuo, che così sarebbe stato crocifisso invece di lui. È certo che Maometto non ammise la crocifissione, bensì l'Ascensione; sembra però sotto forma di corpo terrestre e non già di corpo trasfigurato".

Alessandro Bausani (Il Corano, Sansoni, Firenze, 1961) traduce "bensì qualcuno fu reso ai loro occhi simile a Lui" e commenta: "Si tratta come ognun vede della nota dottrina dei doceti e di altri gnostici. Gli esegeti musulmani forniscono persino il nome del sosia di Gesù, che sarebbe stato un certo Sergio. Il Corano nega la crocifissione (e, sembra, la morte, in generale, di Gesù), ma ammette l'ascensione".

Hamza Roberto Piccardo (Il Corano, Newton Compton, Roma, 1996, 1.a ed. Al Hikma, 1994) infine traduce "ma così parve loro" e commenta in nota: "«ma così parve loro!»: «shubbiha lahum»: qualche volta questa espressione è stata tradotta con: «gli è stato sostituito un sosia». Ma la forma coranica non permette questa precisione".

   

   

 

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