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DELL'UNITÀ DI DIO TRA GLI INDIANI

di

RÂJÂ RÂMMOHAN RÂY BAHÂDUR

   

A cura di Cesare Cantù – Revisione di Dario Chioli

 

Questo testo è tratto da: Sulle religioni. Documenti alla Storia Universale di Cesare Cantù, 3a edizione, Torino, 1841, pp. 450-472. Si sono corrette alcune voci eccessivamente antiquate e la trascrizione dei nomi indiani. Qualche nota aggiunta è messa in rosso tra parentesi quadre. 
Su Râmmohan Rây cfr. Félicien Challaye, Râmmohan Rây e il Brâhma-samâj.

   


[Premessa di Cesare Cantù]

Intorno a questo bramino, [*] venuto in Europa per ridurre d'accordo le opinioni dell'Oriente con l'Occidente, premetteremo il cenno che sulla propria vita egli medesimo scriveva ad un suo amico nel 1830.

«Io scendo da bramini d'alta sfera, dediti da tempi remotissimi ai doveri religiosi della loro schiatta, sino al mio quinto avolo per linea paterna, il quale, saranno centoquarant'anni, abbandonò gli esercizi spirituali per gli affari ed interessi del mondo. I suoi discendenti ne seguirono l'esempio, ed ottennero successi diversi, ora elevati ad onori, ora disgraziati, quando ricchi, e, quando in bisogno. Ma i miei parenti materni, essendo dell’ordine sacerdotale per professione e per nascita, ed appartenendo ad una famiglia che niun'altra conosceva a sé superiore, si sono consacrati unicamente sino a questo giorno alle osservanze religiose ed alla devozione, preferendo la pare e la tranquillità dello spirito ai sogni agitati dall'ambizione e a tutte le lusinghe della grandezza mondana.

Per desiderio di mio padre, io mi conformai agli usi della mia schiatta paterna e studiai le lingue persiana ed araba, indispensabili tutte due per quelli che s'addicono alla Corte dei principi maomettani dell'India; mentre che, per adattarmi pure agli usi dei miei parenti materni, mi applicai al sanscrito e alle opere di teologia scritte in questa antica lingua.

Ero sui sedici anni quando composi un'opera che metteva in dubbio la validità del sistema idolatrico degl'Indiani, e che cominciò a gettare qualche freddezza tra i miei prossimi parenti e me. Datomi allora a viaggiare, traversai differenti paesi, e nei confini dell'Indostan e fuori, animato da grand'avversione per la potenza britannica stabilita nell’India. Quando toccai i venti anni, mio padre mi chiamò e mi rese la sua grazia. Allora vidi la prima volta Europei, e cominciai a lagnarmi con essi, e divenni bastantemente istruito nelle leggi e nei governi loro. Trovandoli generalmente più intelligenti, più regolari e moderati dei nostri, abbandonai i pregiudizi che nutrivo contro di loro, e mi trovai disposto in loro favore, perché mi persuasi che, con la loro amministrazione, si arriverebbe più prontamente e più sicuramente a migliorare i miei compatrioti; ottenni la confidenza di molti di loro, che me la manifestarono in casi importanti. Le mie discussioni moltiplicate coi bramini intorno alla idolatria e alle superstizioni loro, la mia opposizione al costume di bruciarsi le vedove dopo la morte dei loro mariti, ravvivarono ed accrebbero contro di me le loro animosità; e mercé la influenza loro sulla mia famiglia, mio padre fu nuovamente obbligato a negarmi in palese il suo favore, quantunque continuasse segretamente a fornirmi danaro.

Morto mio padre, la mia arditezza si accrebbe. Profittando dell'arte tipografica recentemente stabilita nell'India, pubblicai vari scritti contro l'idolatria, nella mia lingua nativa ed in altre straniere. Queste pubblicazioni sollevarono tale risentimento contro di me, che fui infine abbandonato da tutti, eccetto che da due o tre amici scozzesi, a cui ho sempre conservato viva riconoscenza.

Quello che si manifestava in ogni mia controversia, non era una opposizione per la tradizione brahmanica, [**] ma una critica della sua corruzione, e mi sforzavo di mostrare, che l'idolatria dei bramini era contraria alla pratica degli avi loro, ed ai principi degli antichi libri e delle autorità cui essi professavano rispetto ed obbedienza. Malgrado la violenza dell'opposizione e della resistenza che incontrarono le mie opinioni, molte rispettabilissime persone, tra i miei parenti e gli estranei, cominciarono ad adottare i miei sentimenti.

Provai allora un vivo desiderio di visitare l'Europa, d'ottenere, per mezzo d'una osservazione personale, una conoscenza più profonda dei suoi costumi, delle consuetudini, della religione e delle istituzioni sue politiche. Differiva però di eseguire questo progetto sino a tanto che gli amici che partecipavano ai miei sentimenti si fossero accresciuti di numero e di forza. I miei voti essendosi infine realizzati, m’imbarcai in novembre 1830 per l'Inghilterra, dove giunsi in aprile 1831, incaricato dall'imperatore di Dehli di portare alle autorità le querele contro le usurpazioni dei suoi diritti commesse dalla Compagnia delle Indie orientali».

[*] Bramino, o bramano, o brahmano, dal sanscrito brâhmana, termine che designa l'appartenente alla classe più elevata della società indù, quella sacerdotale. Nel testo ho lasciato bramino in quanto italianizzazione di lunga data,  mentre ho corretto braminico in brahmanico.

[**]  Il Cantù anziché tradizione brahmanica scriveva bramismo, che però suonava troppo male.

   


VOLGARIZZAMENTO DI UN COMPENDIO DEL VEDÂNTA, O SOLUZIONE DI TUTTI I VEDA;

opera la più celebre e più meditata della teologia brahmanica, 
che stabilisce esser uno l’Ente supremo, e che egli solo è l’oggetto della propiziazione e del culto

Da Râmmohan Rây, Calcutta 1816, e Londra 1832 (*)

   

(*) A Translation of the Vedanta, the most celebrated and revered work of brahmanical theology; by Ram Mohun Roy, a learned brahmin.


   

PREFAZIONE

Ai credenti nel solo vero Dio

   

La più gran parte dei bramini e delle altre sette d'Indiani sono proprio nell'impossibilità di giustificare quest'idolatria che continuano a praticare. Quando questionano su tale soggetto, invece di dare argomenti ragionevoli in appoggio della loro condotta, essi dicono che basta di citare il costume dei loro avi come autorità positive. Alcuni tra loro si sono mal volti contro me, perché avevo abbandonata l'idolatria per il culto del vero ed eterno Dio. Per difendere la fede mia e dei nostri primi padri mi sono sforzato, da qualche tempo, a convincere i miei compatrioti della vera significazione dei nostri libri sacri, e a provare che la mia mutazione non merita il biasimo che alcune persone irriflessive sono state sì pronte a buttare sopra di me.

Il corpo compiuto della teologia indiana, delle leggi e della letteratura, è contenuto nei Veda, che si afferma essere contemporanei della creazione. Queste opere sono estremamente voluminose; ed essendo scritte nel più elevato e metaforico stile, sono, come si può ben supporre, in molti passi confusi e contraddittori in apparenza. Più di duemila anni fa, il gran Vyâsa, riflettendo sulla perpetua difficoltà che nasce da queste sorgenti, compose con molto discernimento un compendio completo di tutte; e conciliò pure i testi che parevano in contraddizione. Quest'opera chiamò Vedânta, [*] designazione composta di due parole sanscrite, che significa: La soluzione o la fine d'ogni Veda. Egli continuò ad essere rispettato nella più alta maniera da tutti gli Indiani; e in luogo degli argomenti troppo diffusi dei Veda, citano sempre lui, reputandolo d'altrettanta autorità. Ma avviluppato nelle spesse ombre della lingua sanscrita, e i bramini non permettendo che altri l’interpreti fuor di loro, oppure di toccare un libro qualunque di questa specie, il Vedânta, quantunque perpetuamente citato, è poco conosciuto, e per conseguenza la pratica di un piccolo numero d'Indiani va conforme ai suoi precetti.

[*] Con il titolo Vedânta si indicano qui i Brahmasûtra, 555 aforismi attribuiti a Bâdarâyana, poi identificato con Vyâsa. Ne esiste una versione in italiano: Brahmasûtra. Testo sanscrito, con introduzione, traduzione, commento e lessico a cura di Icilio Vecchiotti, Ubaldini, Roma, 1979. On line, all'indirizzo http://www.swami-krishnananda.org/bs_00.html, si possono leggere e scaricare i Brahmasûtra di Swami Sivananda, originale sanscrito e versione inglese, mentre all'indirizzo http://www.swami-krishnananda.org/brahma_00.html si può leggere e scaricare An Analysis of the Brahma Sutra di Swami Krishnananda. 

Per continuare la mia difesa, io, quanto me l'hanno permesso le mie facoltà, ho tradotta quest'opera sconosciuta sin qui, come pure un compendio che ne è stato fatto nelle lingue indostana [*] e bengalese; ed ho distribuito gratuitamente queste traduzioni ai miei compatrioti, per quanto le circostanze me l’hanno permesso. La traduzione presente è un tentativo di rendere lo stesso compendio in inglese, per cui spero provare ai miei amici europei, che le pratiche superstiziose che deformano la religione indiana non hanno nulla di comune con lo spirito puro dei suoi insegnamenti.

[*] Con lingua indostana (hindûstânî) si indica quella lingua che, scritta in caratteri sanscriti, viene detta hindî e, scritta in caratteri arabi e con forti influssi persiani , viene detta urdû.

Ho osservato, che negli scritti e nelle conversazioni molti Europei mostrano desiderio di velare ed addolcire le forme dell'idolatria indiana, e che sono propensi a far credere, che tutti gli oggetti del culto, siano considerati dagli adoratori come rappresentazioni emblematiche della suprema divinità. Se tal fosse realmente il caso, potrei essere forse condotto ad esaminare il soggetto; ma la verità è, che gli Indiani dei nostri giorni non considerano la cosa così, ma credono fermamente alla esistenza reale di Dio, e delle infinite divinità, che hanno in dominio una potenza intera ed indipendente; e per rendersi propizie esse, e non il vero Dio, si sono eretti templi e compite liturgie. Eppure non c'è dubbio, ed il mio solo scopo è di provarlo, che ciascun rito derivi dall'adorazione allegorica della vera divinità; ma oggi tutto questo è scordato, e agli occhi di un gran numero, è eresia il pur menzionarlo.

Spero non presumeranno che io abbia l'intenzione di stabilire la preferenza della mia fede su quella degli altri uomini. Il risultato della controversia sopra tale soggetto, comunque molteplice essa sia, non deve mai riuscire soddisfacente; perché la facoltà ragionevole che conduce gli uomini alla certezza nelle cose ch'essa può attendere, non produce alcun effetto, sulle questioni che sono fuori della sua comprensione. Io non posso se non affermare, che se il ragionamento e i precetti del senso comune menano per induzione alla credenza di un essere saggio, increato, che sostiene e governa quest'immenso universo, noi dobbiamo pure considerarlo come l'esistenza suprema la più potente, sorpassando di molto le nostre facoltà di comprendere e di descrivere. E quantunque gli uomini di spirito non coltivato, ed anche alcune persone istruite (ma in questo punto accecate dal pregiudizio) scelgano con premura, come oggetto di loro adorazione, qualche cosa che possano sempre vedere, e che pretendono sentire, l'assurdità di tale condotta non è per ciò diminuita d'un grado.

Le mie continue riflessioni sopra i riti sconvenienti, o piuttosto ingiuriosi, introdotti dalla pratica particolare dell'idolatria indiana, la quale, più che tutt’altro culto pagano, distrugge il legame della società, nello stesso tempo che m’ispirano compassione per i miei compatrioti, mi hanno spinto ad impiegare tutti gli sforzi possibili per svegliarli dal loro sonno d'errore; e, rendendoli famigliari con le loro scritture, farli meno incapaci di contemplare con vera devozione l'unità e l'onnipresenza del dio della natura.

Seguendo questa via, in cui sono diretto dalla mia coscienza e sincerità, mi sono esposto, io nato bramino, ai lamenti ed ai rimproveri pur anco di alcuni miei parenti, i cui pregiudizi sono potenti, ed il cui vantaggio temporale dipende dal sistema presente di religione. Ma io li sopporterò tranquillamente, fossero ancora di peggio; sperando che arriverà giorno ove saranno considerati con giustizia i miei umili sforzi; forse riconosciuti con gratitudine. In ogni caso, che che gli uomini possano dire, io non sarò privo di questa consolazione, che i miei motivi possano essere accetti da quest'Essere che riguarda in segreto, e ricompensa manifestamente.

   

* * *

   

COMPENDIO DEL VEDÂNTA

   

L'illustre Vyâsa (*), nella sua celebre opera, il Vedânta, [**] fa capire dapprima essere assolutamente necessario per il genere umano di acquistare la conoscenza dell'Essere supremo, che è il soggetto del discorso di tutti i Veda, del Vedânta, come pure d'altri sistemi di teologia. Ma trova, secondo i passi seguenti dei Veda, che questa ricerca sia ristretta in limiti strettissimi. «L'Essere supremo non è comprensibile per vista, o per altro organo dei sensi; non può essere manco concepito col mezzo della devozione o delle pratiche virtuose. Egli vede ogni cosa, quantunque non sia mai veduto; intende ogni cosa, quantunque non mai inteso. Non è né corto, né lungo; è inaccessibile alla facoltà intelligente; non può essere descritto da parola umana; è fuori dei limiti della spiegazione dei Veda o della concezione umana». Vyâsa pure, secondo risulta dai diversi argomenti coincidenti col Veda, trova che la conoscenza esatta e positiva dell'Essere supremo non sia nei limiti della comprensione umana, cioè che, quale e come che sia l'Essere supremo, non può essere definitivamente affermato; per ciò ha nel secondo testo spiegato l'Essere supremo dai suoi effetti e dalle sue opere, senza cercare di definire la sua essenza; nella stessa maniera che noi, i quali non conosciamo la vera natura del Sole, la spieghiamo come causa della successione dei giorni e delle epoche. «Colui da cui la nascita, la conservazione e l'annichilamento del mondo sono regolati, è l'Essere supremo».

(*) Il più grande dei filosofi e poeti indiani, Vyâsa raccolse e divise i Veda in cento libri o capitoli; perciò è comunemente chiamato Veda-Vyâsa, Il vocabolo Vyâsa è composto della preposizione disgiuntiva o intensiva vi e di as, dividere; onde significa quello che divide, che distribuisce.
[In genere, quando un occidentale parla di Veda, intende  i  quattro Veda: Rigveda, Yajurveda, Sâmaveda e Atharvaveda;  in questo caso s'intende invece l'insieme dei testi tradizionali vedici, quindi presumibilmente anche Upanishad e Sûtra. Allo stesso modo nella tradizione ebraica la Torà in senso stretto è il Pentateuco, mentre in senso più largo è tutta la Bibbia ebraica e talvolta anche il complesso delle tradizioni che la interpretano. 
Quanto a Vyâsa, è difficile risalire, di là dal mito, a dati storici precisi circa il rishi che portava tale nome, che sembra comunque indicare più una funzione che  un'identità personale, in quanto gli sono attribuite, oltre alla raccolta dei Veda, una quantità di altre opere di epoche assai diverse, dai Brahmasûtra alle Upanishad].

[**] Come detto sopra, con il titolo Vedânta si indicano qui i Brahmasûtra, che vengono peraltro, nel prosieguo, più parafrasati che tradotti.

Noi vediamo quest'universo variato, sorprendente, come pure la nascita, la conservazione e l'annichilamento delle sue differenti parti; e ne inferiamo naturalmente l'esistenza di un essere che regola e dirige tutto, e lo chiamiamo il Supremo; come, alla vista di un vaso, concludiamo che un abile artista lo ha formato. Il Veda, alla stessa maniera, dichiara l'Essere supremo: «Colui da cui procede l'universo, che è il sovrano dell'universo, è l’Essere Supremo» (Taittirîya).

Il Veda non è supposto un essere eterno, quantunque sia qualche volta onorato di questo epiteto; e la sua creazione per opera dell'Essere supremo è così dichiarata nello stesso Veda: «Tutti i testi e tutte le parti del Veda furono create»; e anche nel terzo aforisma del Vedânta, Dio è dichiarato essere la causa di tutti i Veda.

Lo spazio vuoto non è concepito come causa indipendente dal mondo, malgrado la seguente dichiarazione del Veda: «Il mondo procede dallo spazio vuoto», perché il Veda dichiara pure «Lo spazio vuoto è stato prodotto dall'Essere Supremo», e il Vedânta dice (*): «Come l'Essere Supremo è evidentemente nel Veda dato per causa dello spazio vuoto, dell'aria e del fuoco, nessuno di essi può essere supposto la causa indipendente dell'universo».

(*) Nel testo sanscrito citato, appartenente ai Veda, o al Vedânta, il vocabolo che il bramino Râmmohan Rây ha volgarizzato in inglese con God  (Dio) è Brahma: Non è dunque il Dio cristiano che deve intendersi per questa parola, ma il Dio supremo che è di tutti i luoghi e di tutti i tempi, e che ha ricevuto differenti nomi nei differenti linguaggi umani.
[Sembra di capire che il Cantù abbia tradotto God con Essere supremo. Ora, questo Brahma, che appare alcune volte nei Brahmasûtra (sempre e solo entro composti nella sua forma radicale), i commentatori perlopiù l'intendono effettivamente come il neutro Brahman, piuttosto che come il maschile Brahmâ, personificazione del creatore. Ma la scelta dell'un termine o dell'altro dipende comunque da cosa si vuol affermare].

Neppure l’aria è considerata come il sovrano dell'universo, quantunque il Veda dica in altro luogo: «Ogni creatura esistente è assorbita nell'aria»; perché il Veda afferma inoltre che «il soffio, la facoltà intellettuale, tutti i sensi interni ed esterni, lo spazio vuoto, l'aria, la luce, l'acqua e la terra estesa, procedono dall'Essere supremo». Il Vedânta dice pure: «Dio è designato dal testo seguente del Veda come un essere più esteso di tutta l'estensione dello spazio»; cioè: «Questo soffio è più grande dell'estensione dello spazio in tutte le direzioni», come si legge nel Veda, dopo il discorso riguardante il soffio comune.

La luce, di qualunque natura sia, non è tenuta per il sovrano signore dell'universo, secondo l'asserzione seguente del Veda: «La pura luce di tutte le luci è la sovrana di tutte le creature»; perché il Veda, dichiara inoltre che «il Sole e tutti gli altri (astri) imitano Dio, e tolgono da esso la loro luce». La stessa dichiarazione s'incontra nel Vedânta.

Non è la natura, che può essere designata dai seguenti testi del Veda, come causa indipendente del mondo, cioè: «L'uomo che ha conosciuto questa natura che è un Essere eterno, senza principio e senza fine, è libero dall'attacco della morte», perché il Veda afferma che «Nessun essere è uguale o superiore a Dio»; e il Veda dice: «Conosci Dio solo»; e il Vedânta si esprime così: «La natura non è il creatore del mondo, e non è rappresentata così dal Veda», perché dice espressamente: «Dio col suo sguardo ha creato l’universo. La natura è un essere insensibile, priva di vista o intelletto, e conseguentemente incapace di creare il mondo regolare».

Gli atomi non sono supposti causa del mondo, malgrado la seguente dichiarazione: «Questo (creatore) è l'essere il più sottile, il più tenue». Perché un atomo è una molecola insensibile; e dalla addotta autorità è provato che nessun essere privo di intelligenza può essere autore di un sistema combinato con tant'arte.

L'anima non può dai testi seguenti indursi come il sovrano signore dell'universo, cioè: «L'anima che è unita all'essere risplendente, gode della felicità. – Dio e l'anima entrano nel piccolo spazio vuoto del cuore»; perché il Veda dichiara ch'Egli (Dio) presiede nell'anima, come suo regolatore, e che «l'anima unita all'essere grazioso gode della felicità». Il Vedânta dice pure: « L'anima sensitiva non è detto che risieda nella terra, come un essere direttore e regolatore», perché nei due testi del Veda altrimenti si parla dell'Essere che governa la terra, cioè: «Egli (Dio) risiede nella facoltà dell'intendimento», ed «Egli, che risiede nell'anima, ecc.»

Né il Dio né la Dea della terra sono designati dal testo seguente come regolatori della terra: «Egli che risiede nella terra, e che è distinto dalla terra, e che la terra non conosce, ecc.» perché il Veda afferma che «questi (Dio solo) è il regolatore del senso interno, ed è l'Essere eterno», e la stessa cosa è affermata nel Vedânta.

Dal testo che comincia con la sentenza seguente: «Questi è il Sole», e da molti altri affermanti la dignità del Sole quest'ultimo non viene indicato per causa primordiale dell'universo, perché il Veda dichiara che: «Egli che risiede nel Sole (come suo signore) è distinto dal Sole»; ed il Vedânta fa la stessa dichiarazione.

Della stessa maniera nessun Dio celeste può, dalle diverse asserzioni dei Veda, riguardanti le loro rispettive divinità, argomentarsi per la causa indipendente dell'universo; perché il Veda afferma in differenti luoghi, che «tutti i Veda non provano se non l'unità dell'Essere supremo». Accordando che la divinità sia più che un solo essere, le affermazioni positive seguenti del Veda, relative all'unità di Dio, divengono false ed assurde: «Dio è per conseguenza Uno e senza secondo. Non c'è che l'Essere supremo il quale possieda la conoscenza universale. Egli che è senza alcuna figura, e che sorpassa i limiti della descrizione, è l'Essere supremo. Le appellazioni e le figure d'ogni specie sono innovazioni». E secondo l'autorità di molti altri testi, è evidente che ogni essere che ha figura, ed è suscettibile d'essere descritto, non può essere la causa eterna indipendente dell'universo.

I Veda non chiamano solo deità le rappresentazioni celesti, ma danno pure in molti casi l'epiteto divino allo spirito, agli elementi, allo spazio vuoto, all'animale quadrupede, agli schiavi, e ai fuggitivi (slaves and flymen); come: «l'Essere supremo è animale quadrupede in un luogo, e in un altro è pieno di gloria. Lo spirito (mind) è l'Essere supremo, egli deve essere adorato; Dio è la lettera Ka egualmente che la lettera Kha», e «Dio è sotto la forma di schiavo, e sotto quella di fuggitivo». Il Veda ha rappresentato allegoricamente Dio nella figura dell'universo, cioè: «il fuoco è la sua testa, il Sole e la luna sono i suoi due occhi, ecc.»

Il Veda chiama pure Dio lo spazio vuoto del cuore, e lo dichiara più piccolo di un grano d'orzo: ma dopo le citazioni precedenti, né alcuno degli dèi celesti, né alcuna creatura esistente può essere considerata come il signore supremo dell'universo, perché il terzo capitolo del Vedânta spiega così la ragione di queste secondarie asserzioni: «Da queste osservazioni del Veda che denotano lo spirito dell'Essere supremo, sparso ugualmente sopra tutte le creature, per mezzo della sua estensione, la sua onnipresenza è stabilita»: come dice il Veda: «Tutto ciò che esiste è per conseguenza Dio»; cioè: niente ha una vera esistenza eccetto Dio, «e tutto ciò che sentiamo con l'odorato, o che tocchiamo col tatto, è l’Essere supremo»; cioè: l'esistenza di ogni cosa qualunque che ci appare, riposa sull'esistenza di Dio.

È incontestabilmente evidente che alcuna di queste rappresentazioni metaforiche, che nasce dallo stile elevato in cui sono scritti tutti i Veda, non fu destinata ad essere considerata altrimenti che come pura allegoria. Se gli individui potessero essere riconosciuti come divinità separate, vi sarebbe una necessità di riconoscere molti creatori del mondo indipendenti, ciò che è direttamente contrario al senso comune e all'autorità ripetuta dal Veda. Il Vedânta dichiara pure: «Che l' Essere che è distinto dalla materia, e da quelli che sono contenuti nella materia, non è molteplice, perché è dichiarato in tutti i Veda essere un ente fuori d'ogni descrizione»; ed è di nuovo stabilito che «il Veda ha dichiarato l’Essere supremo una pura intelligenza»; e trovasi pure nel terzo capitolo, che «il Veda, avendo prima spiegato l’Essere supremo con differenti epiteti, comincia con la parola Atha, o adesso, [*] e dichiara che tutte le descrizioni che ho usate per descrivere l’Essere supremo sono scorrette», perché non può essere descritto con mezzo alcuno; ciò che è pure stabilito nei sacri commentari sul Veda.

[*] In realtà sono i Brahmasûtra ad iniziare con la parola Atha.

Il quartodecimo testo (aforisma) della seconda sezione del terzo capitolo del Vedânta s'esprime così: «È positivamente rappresentato dal Veda, che l’Essere supremo non porta né figura né forma»; e i testi seguenti del Veda affermano la stessa cosa, cioè: «che l'Essere vero esiste innanzi tutto».

«L'Essere supremo non ha piedi, ma si stende per tutto; non ha mani, tuttavia tiene ogni cosa; non ha occhi, e vede tutto ciò che è; non ha orecchie, ed ode ogni cosa.

«La sua esistenza non ha causa. È il più sottile degli esseri sottili ed il più grande degli esseri grandi: eppure in fatto non è né piccolo, né grande».

In risposta alle questioni seguenti: Come l'Essere supremo può supporsi distinto da tutte le nature esistenti, e sopra d'esse, e nello stesso tempo presente per tutto? Come è possibile che possa essere descritto con proprietà inconciliabili con la ragione, come vedente senza occhi, udente senza orecchi? a queste questioni il Vedânta, nel secondo capitolo, risponde: «In Dio risiedono tutte sorta di potenza e di splendore». E i passi seguenti del Veda fanno la stessa dichiarazione. «Dio è potentissimo, e per la sua supremazia è in possesso di ogni potere»; cioè: ciò che può essere impossibile per noi, non è impossibile per Dio, che è onnipotente, ed il solo regolatore dell'universo.

Alcuni dèi celesti, in differenti esempi, si sono dichiarati da se stessi verità indipendenti, e oggetti di culto; ma queste dichiarazioni erano accomodate ai loro pensieri astratti, o separati da loro stessi, essendo il loro essere interamente assorbito nella riflessione divina.

Il Vedânta dichiara che: «Questa esortazione d'Indra (Dio dell'atmosfera) riguardante la divinità, deve essere necessariamente conforme alle autorità del Veda»; cioè: «ogni essere avendo perduto qualunque contemplazione di se stesso in conseguenza della sua unione con la divina riflessione, può parlare come credesse d'essere l'ente supremo; come Brahmadeva (celebre bramino) che in sua conseguenza d’un tale oblio della personalità, dichiarò se stesso creatore del Sole, e Manu, il secondo essere dopo Brahma». [*] Perciò è libero a ciascuno degli dèi celesti e ad ogni individuo, di considerarsi da se stesso come dio in questo stato d'oblio della sua personalità e d'unità con la riflessione divina, come dice il Veda: «Voi siete questo Essere vero» (quando perdete tutta la contemplazione di voi stesso; e, «O Dio! io non sono niente altro che voi». I commentatori sacri hanno fatto la stessa osservazione, cioè: «Io non sono altra cosa che l'essere vero, e sono una pura intelligenza, piena di una eterna felicità, e sono per mia natura libero dagli affetti mondani». Ma in conseguenza di questa riflessione, nessuno d'essi può essere riconosciuto come causa dell'universo, o oggetto dell'adorazione.

[*] Come detto sopra, la voce Brahma viene dai commentatori dei Brahmasûtra perlopiù interpretata come forma del neutro Brahman. 

Dio è la causa efficiente dell'universo, come un vasaio l'è dei suoi vasi ed altri utensili di terra; e Dio è pure la causa materiale dell'universo, come la terra o l'argilla è causa materiale dei differenti utensili di terra; o pure, come una corda, presa per inavvertenza per un serpente, è causa materiale dell'esistenza del serpente, concepita per vera. In proposito dell'esistenza reale della corda, così si esprime il Vedânta: «Dio è la causa efficiente dell'universo, come sua causa materiale (come un ragno l'è della sua tela) come il Veda ha positivamente dichiarato: «che dalla conoscenza di Dio solo procede la conoscenza di ogni cosa esistente». Il Veda paragona pure la conoscenza che riguarda l'Essere supremo con una conoscenza della terra; e la conoscenza riguardante le differenti specie d'esseri esistenti nell'universo, con la conoscenza dei vasi ed utensili di terra: le quali dichiarazioni e comparazioni provano l'unità dell'Essere supremo e dell'universo; e per la dichiarazione seguente del Veda, cioè: «L’Essere supremo ha creato l'universo con la sua sola intenzione», è evidente che Dio è l’agente volontario di tutto ciò che può avere esistenza.

Come il Veda dice che l'Essere supremo ebbe la volontà (nell'epoca della creazione), di estender se stesso, è evidente che l'Essere supremo sia l'origine della materia, e delle sue diverse apparenze o forme, come la rifrazione dei raggi meridiani del Sole sopra i piani di sabbia è causa della apparenza di un mare esteso (del miraggio). Il Veda dice, che «tutte le figure e le loro appellazioni sono pure invenzioni, e che l'Essere supremo solo è la reale esistenza»; in conseguenza le cose che hanno figura e che portano un nome, non possono essere supposte causa dell'universo.

I testi seguenti del Veda, cioè: «Krishna (o Vishnu, il Dio della conservazione) è più grande di tutti gli dèi celesti a cui potesse applicarsi lo spirito. – Noi adoriamo tutti Mahâdeva (il gran dio, o il dio della distruzione). Adoriamo il Sole. – Io adoro il riveritissimo Varuna (dio del mare).[*] – Tu devi offrirmi un culto, dice l'Aria, ché sono la vita eterna ed universale. – Il potere intellettuale è Dio, che deve essere adorato; – e l'Udgîtha (una certa porzione del Veda) deve essere adorata»: questi testi, come pure molti altri della stessa natura, non sono comandamenti reali d'adorare od onorare le persone e le cose qui sopra menzionate; ma raccomandano a coloro che infelicemente sono incapaci d'adorare l'Essere supremo indivisibile, d'applicare la loro intelligenza a qualche cosa di visibile, piuttosto che lasciarla dimorare inerte. Il Vedânta stabilisce pure, come dichiarazione del Veda, che «coloro che adorano gli dèi celesti sono il nutrimento di tali dèi»; espressione allegorica, che significa solo, che sono di sollievo per gli dèi celesti, come il nutrimento per il genere umano; perché chi non ha fede nell'Essere supremo è reso suddito di questi dèi. Il Veda fa la stessa dichiarazione: «Chi adora un Dio qualunque, fuor dell'Essere supremo, e pensa che sia distinto da questo dio, e inferiore a lui, non conosce nulla, ed è considerato come un animale domestico di questo Dio». E il Vedânta conferma pure che: «Il culto autorizzato da tutti i Veda è di una sola natura, come le istruzioni per il culto di un solo Essere supremo trovansi invariabilmente in ciascuna parte del Veda; e gli epiteti: l'Essere supremo, l'Essere onnipresente ecc., implicano comunemente un Dio solo». I passi seguenti del Veda confermano che Dio sia il solo oggetto del culto, cioè: «Adora Dio solo. Conosci Dio solo; rigetta ogni altro discorso». E il Vedânta aggiunge: «Trovano nei Veda non esservi che l'Essere supremo che debba onorarsi di un culto; nessun altro, eccetto lui, deve essere adorato da uomo saggio».

[*] Varuna, per la verità, il cui nome sembra parente del greco Ouranos, è piuttosto il dio del cielo che non quello del mare.

Ben più, il Vedânta aggiunge; «Vyâsa è d'opinione che l'adorazione dell'Essere supremo sia richiesta dal genere umano come pure dagli dèi celesti, perché la possibilità di rassegnare se stesso a Dio è ugualmente osservata nel genere umano e nelle deità celesti».

Il Veda stabilisce pure che «Colui tra gli dèi celesti, tra i pii bramini, tra gli uomini in generale, che comprende l'Essere onnipotente e ha fede in lui, sarà assorbito nella sua essenza». Traggono da ciò la conclusione che gli dèi celesti ed il genere umano hanno un ugual dovere di compiere il culto divino; ed è provato inoltre dall'autorità seguente del Veda, che ogni uomo che adora l'Essere supremo è adorato da tutti gli dèi celesti, cioè: «Tutti gli dèi celesti onorano e adorano colui che applica la sua intelligenza all'Essere supremo».

Il Veda spiega dipoi il modo con cui dobbiamo adorare l'Essere supremo: «Dobbiamo avvicinare Dio, dobbiamo prestargli orecchio, dobbiamo pensare a lui». Il Vedânta spiega pure il soggetto in questo modo: «Le tre ultime istruzioni del testo sopraccitato possono ridursi alla prima: Dobbiamo avvicinare Dio». Le tre ultime sono comprese in realtà nella prima (come l'istruzione per raccogliere il fuoco nel culto del fuoco), perché non possiamo accostare Dio senza intendere qualcosa di lui o senza pensarvi, né senza fare i nostri sforzi per arrivare a Dio; e quest'ultima, cioè d'ingegnarci d'arrivare a Dio è richiesta sino a tanto che ci siamo a lui accostati. Con l'espressione prestare orecchio a Dio, s'intende «prestare orecchio alle sue parole», che stabiliscono la sua unità; e per questa noi dobbiamo pensare a lui, s'intende «pensare al contenuto della sua legge»; e per l'ultima, dobbiamo sforzarci di arrivare a lui, s'intende «sforzarci d'applicare la nostra intelligenza a quest'Essere vero, su cui riposa l’esistenza incommensurabile dell'universo, acciò che, mediante questo sforzo, possiamo accostarci a lui». Il Vedânta stabilisce «che la pratica costante della devozione sia necessaria, il Veda rappresentandola come tale»; e aggiunge pure: «Dobbiamo adorare Dio sino a tanto che ci accostiamo a lui, e allora pure non dimenticare la sua adorazione, trovandosi una tale autorità nel Veda».

Il Vedânta mostra che il principio morale è una parte dell'adorazione di Dio: «Comandare alle sue passioni, e ai suoi sensi esterni; praticare atti meritori, sono dichiarati dal Veda mezzi indispensabili per accostare a Dio l'intelligenza; devono essere in conseguenza l’oggetto d'ogni nostra cura, prima e dopo un tale accostamento all'Essere supremo» cioè: non dobbiamo avere indulgenza coi nostri cattivi istinti, ma dobbiamo sforzarci di avere un correttore assoluto sopra di essi. La confidenza e la rassegnazione personale nel solo Essere vero, con l'allontanamento delle considerazioni mondane, credonsi gli atti meritori a cui è fatta qui sopra allusione. L'adorazione dell' Essere supremo produce l’eterna beatitudine, come pure tutti i vantaggi desiderati, secondo dichiara il Vedânta: «È ferma opinione di Vyâsa che, per la devozione a Dio, sono prodotte tutte le desiderate conseguenze»; e ciò è spesso rappresentato così dal Veda: «Chi è desideroso della prosperità deve adorare l'Essere supremo. Chi conosce Dio aderisce interamente a Dio. – Le anime degli avi di chi adora il solo Essere vero, godono la libertà per il solo fatto della loro pura volontà. – Tutti gli dèi celesti adorano chi applica la sua intelligenza all'Essere supremo»; e «chi adora sinceramente l'Essere supremo, è esente da ogni trasmigrazione futura».

Un capocasa è pure atto all'adorazione di Dio, come un Jatî (*). Il Vedânta dice: «Un padrone di casa può essere autorizzato a compiere tutte le cerimonie attaccate alla religione (brahmanica), e la devozione a Dio: il modo del culto qui sopra osservato verso l'Essere supremo è per conseguenza richiesto da un padrone di casa che possiede principi morali». Ed il Veda dichiara che: «Gli dèi celesti e i padroni di casa di fede potente, e i Jatî di professione, sono uguali tra loro».

(*) Il più alto grado tra le quattro sette di bramini che, secondo i precetti religiosi, sono obbligati di deporre tutte considerazioni mondane e passare il tempo nella sola adorazione di Dio. [Il testo riporta jati, come sempre nel testo del Cantù senza segni diacritici, ed è assai poco chiaro, in quanto non trovo riscontro che vi sia un tipo speciale di brâhmana così chiamato. Ipotizzo pertanto che si parli qui di un asceta – jatî o yatî – sempreché non sia invece un errore in quanto si intenda parlare di jâti, che però è la casta].

È solo libero a coloro che hanno fede in Dio, di osservare, le regole e i riti prescritti dal Veda, applicabili alle differenti classi d'Indiani, e ai loro differenti ordini religiosi rispettivamente. Ma nel caso che i veri credenti trascurassero questi riti, non sono suscettibili d'alcun biasimo, come dice il Vedânta: «Prima di acquistare la vera conoscenza di Dio, è convenevole per l’uomo di sottomettersi alle leggi e regolamenti prescritti dal Veda per differenti classi, secondo le loro differenti professioni; perché il Veda dichiara, che il compimento di questa regola sia la causa della purificazione dello spirito, e della sua fede in Dio; e la paragona ad un cavallo da sella che aiuta un uomo a raggiungere la meta desiderata». Il Vedânta dice pure che «L’uomo acquista la vera conoscenza di Dio, anche senza osservare le regole e i riti prescritti dal Veda per ciascuna classe d'Indiani, come trovano nel Veda, che molte persone che hanno trascurato di compiere i riti e le cerimonie brahmaniche, in causa dell'attenzione perpetua data alla adorazione dell'Essere supremo, hanno acquistata la vera conoscenza della divinità».

Il Vedânta stabilisce ancora più chiaramente «trovarsi ugualmente nel Veda, che alcune persone, quantunque abbiano avuto fede intera nel solo Dio, però compirono il culto di Dio e le cerimonie prescritte dal Veda, e alcune altre le hanno neglette e puramente adorato Dio». I seguenti testi del Veda spiegano pienamente il soggetto: «Janaka (uno dei devoti celesti) ha compito lo Yajña o l'adorazione degli dèi celesti, per mezzo del fuoco, col dono d'una ragguardevole somma di danaro, come onorario per i santi bramini; [*] e molti veri e savi credenti non adorano mai il fuoco, né alcun dio celeste, per mezzo del fuoco».

[*] Cfr. Brihadâranyakopanishad, III, 1, 1.

Nondimeno è libero a chi mette fede nel solo Dio di compiere le prescritte cerimonie o trascurarle: il Vedânta preferisce il primo partito all'ultimo, perché il Veda dice, che il compimento delle cerimonie religiose conduce all'acquisto dell' Essere supremo.

Quantunque il Veda dica che «Chi abbia vera fede nell'Essere supremo presente per tutto, possa mangiare qualunque cosa» cioè non sia obbligato di investigare di che si componga il nutrimento, o chi lo prepari, pure il Vedânta limita così quest'autorità: «L'autorità del Veda menzionata qui sopra, per mangiare ogni sorta di alimenti, deve essere solo osservata nei tempi di carestia, perché trovano nel Veda che Câkrâyana (celebre bramino) abbia mangiato la vivanda cotta dai guardiani dell'elefante durante una carestia».  [*] Concludono che si stia all'autorità del Veda citata precedentemente, solo in tempo di bisogno.

[*] Ushasti Câkrâyana. Cfr. Chândogyopanishad, I, X-XI e Brahmasûtra, III.4. 28 (cfr. http://www.swami-krishnananda.org/bs_3/bs_3-4-07.html).

La devozione all'Essere supremo non è limitata ad un luogo sacro o ad una contrada consacrata, come dichiara il Vedânta: «In qualsiasi luogo, dove si trova in pace lo spirito, gli uomini possono adorare Dio; perché non s'incontra nel Veda nessuna autorità speciale per la scelta di un luogo particolare del culto» il quale s'esprime così: «L’uomo può adorare Dio in ogni luogo dove il suo spirito provi calma e tranquillità».

Non è d'alcuna conseguenza per chi ha vera fede in Dio, il morire mentre che il Sole è al nord, o al sud dell'equatore (*), come dice positivamente il Vedânta.

(*) I bramini credono, che chi muoia mentre il Sole sia al sud dell'equatore, non possa godere l’eterna beatitudine.

«Ogni persona che ha fede nel solo Dio, morendo anche quando il Sole sia al sud dell'equatore, la sua anima fuggirà dal corpo attraverso la vena chiamata Sushumnâ (vena che secondo suppongono i bramini, passa dall'ombelico per rendersi nel cervello), e s'accosterà all'Essere supremo». Il Veda pure assicura positivamente, che «Chi durante la vita è stato devoto all'Essere supremo, sarà (dopo morte) assorbito in lui, né sarà più d'allora in poi soggetto alla nascita, né alla morte, né alla riduzione, né all'aumento (del suo essere)».

Il Veda comincia e finisce con tre particolari e misteriosi epiteti di Dio: 1° OM; 2° TAT; 3° SAT. [*] Il primo significa: «Questo Essere che conserva, distrugge e crea!». Il secondo: «Questo Essere unico che non è né maschio né femmina!». Il terzo annunzia «L'Essere vero». I termini collettivi affermano semplicemente, che l'Essere unico, vero, incognito, è il creatore, il conservatore ed il distruttore dell’universo.

[*] Cfr. Shvetâshvataropanishad 1, 16 e 6, 1 nelle Upanishad antiche e medie a c. di Pio Filippani-Ronconi, Boringhieri, Torino, 1960; e Bhagavadgîtâ 17, 23.  

   

   

 

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