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DIALOGO SUI MONOTEISMI E ALCUNE CONNESSE QUESTIONI

Dario Chioli & Darth

   

   

Premessa di Darth, 2/5/2012

A distanza di un anno, confermo quanto, dal dialogo, si evince sulla sostanza della mia posizione; mi rammarico solo che, nel superarsi degli argomenti, abbia tralasciato di concludere quello che era, forse, il discorso principale: la questione del sacrificio di Isacco. Potessi tornare ad allora, divagherei di meno, a tutto vantaggio della definitiva risoluzione di quel tema.

Quanto allo stile, è da rilevare che patisce di tutti i limiti del discorso colloquiale e incalzato da sempre nuovi e pressanti argomenti. In altre condizioni avrei scritto in modo alquanto diverso.

Darth


 

Darth, 20/4/2011

Ho letto Si può essere buddhisti seguendo il Buddha? Molto ben scritto, del tutto corretto. Mi chiedo solo perché scrivere cose che non servono a chi le capisce, e non c'è speranza che siano capite da chi già non le ha capite... Uno strano anello, insomma.


Dario Chioli, 20/4/2011

Uno strano anello, hai ragione.

Tuttavia può capitare che ci sia qualcuno sul limite tra l'abitudine e la comprensione, qualcuno che magari sarà accompagnato dal nostro testo a entrare in un luogo che già presente, ma di cui forse da solo tarderebbe a prendere una più compiuta coscienza.

Intendiamoci: non esageriamo, possiamo solo dare una pennellata, far scivolare un timido suono o un silenzio acuto dentro la logorrea mentale.

E del resto, chi come me ha cominciato a scrivere nella prima adolescenza, ed è fuori da qualunque giro che dia potere o ricchezza, che lavora per vivere e mantenere la famiglia, ed è fondamentalmente estraneo a ogni ambiente spirituale tradizionale (la mia ricerca è nata con e nella poesia, e i vari ambienti tradizionali che ho incrociato pretendevano adesioni totali che contrastavano con la mia tendenza a indagare), che mai può fare se non seguitare nella sua predisposizione a scrivere?


Darth, 20/4/2011

«[...] del resto, chi come me ha cominciato a scrivere nella prima adolescenza, ed è fuori da qualunque giro che dia potere o ricchezza, che lavora per vivere e mantenere la famiglia, ed è fondamentalmente estraneo a ogni ambiente spirituale tradizionale (la mia ricerca è nata con e nella poesia, e i vari ambienti tradizionali che ho incrociato pretendevano adesioni totali che contrastavano con la mia tendenza a indagare), che mai può fare se non seguitare nella sua predisposizione a scrivere?»

Capisco, persino con una punta d’amarezza (se mi consenti un gioco di parole, sottolineata nel passo che ho sottolineato). La tua risposta era l’unica possibile. È pienamente umana; me ne avessi dato una “metafisica” o “teleologica” sarebbe suonata falsa. Siamo forzati alla comunicazione dalla nostra natura, che è umana. Proprio per tale ragione, come te, non ho resistito molto dentro un certo ambiente Tradizionale; per quanto, devo dire che il mio debito di riconoscenza verso questo rimane imperituro.

Presso tali ambienti – qui mi riferisco a quelli, pochissimi, che davvero sono abitati dallo Spirito – la ricerca della Sola Cosa Necessaria, assume, sovente, caratteristiche disumane. Credo che questo sia uno dei paradossi generati dai tempi che viviamo.

Come che sia, ho appena finito di gustarmi il lavoro di “taglio, shampoo e balsamo“ che hai fatto a Odifreddi. Notevolissima la chiusura, ironica e misericordiosa. Su un solo punto del tuo scritto avanzo delle vere riserve: il Sacrificio di Isacco (per la verità, molti passi del Vecchio Testamento lasciano trasecolati, e per questi non credo ci possa essere ermeneutica che tiene; ovviamente, fino a prova contraria). È ben vero che la parola Dio è un tantino più “carica ed esplosiva” rispetto alla smorta piattezza di quella degli odierni grandi fratelli, ma non può contraddire se stessa in termini di logos. La cosa strana è che tale problema si presenta solo per il Vecchio Testamento ed il Corano. Dì la verità, in soldoni: tu lo inviteresti a cena uno come Davide?


Dario Chioli, 20/4/2011

Quanto a invitare a cena Davide, probabilmente non è in genere auspicabile frequentare i potenti, perché, come diceva mia nonna, «sono i poveri a donare ai ricchi, non i ricchi a donare ai poveri». E se hai una bella moglie, è proprio meglio lasciar perdere...

Ad ogni modo, a me fa caso mai più problema Davide di Isacco. Concepisco che Dio metta alla prova fino al deserto spirituale, fino a chiederti un sacrificio insopportabile, se poi tutto ciò porta a un conseguimento più alto. È pensabile che in questo caso la sofferenza sia come il travaglio della partoriente.

Ma nel caso del marito di Betsabea, è più difficile spiegare.

La colpa di Davide si riversa sui suoi discendenti (il suo regno non durerà dopo Salomone), e quindi di colpa veramente si tratta, non è che si possa fare chissà che sofisticheria. Oltretutto la colpa di Davide è doppia, se vogliamo, perché non solo è adultero, ma se la prende anche con lo straniero Uria ittita, violando così le norme dell'ospitalità. Però c'è questa cosa della realtà messianica che attraversa il male, si avvale del male, infrange le norme. Ed è la linea Davide-Betsabea che porta a Cristo... Forse la risposta sta sempre in questo: che non possiamo trovare giustificazione al male se non crediamo a una prosecuzione della vita in altra forma. Se ci crediamo, potremmo chiederci – senza risposta – quale poté essere il destino post mortem di Uria. Non è detto che la risposta non possa essere qualcosa di affine alla tradizione indiana secondo cui chi è ucciso da un dio ottiene immediatamente la liberazione... si tratta, è chiaro, di ipotesi forse un po' tirate per i capelli (che saranno mai i capelli di un'ipotesi?), ma quel che pare certo è che le spiegazioni ordinarie non hanno posto per il Tremendum, quindi qualcos'altro bisogna escogitare.


Darth, 20/4/2011

Mi riprometto – appena trovo un po' di tempo – di inviarti un commento ai casi – diversissimi – di Davide e Isacco. Non si tratta di questioni di lana caprina; ma di pietre di paragone fondanti quello che credo si possa considerare l'elemento primario, il più radicale di tutti, della spiritualità: la sincerità.

Guarda che io non cosa pensare, esattamente, di questi problemi legati a testi come il Vecchio Testamento ed il Corano; una sola cosa ho certa: che la scappatoia della (quasi) inaccessibilità ermeneutica è logicamente inconsistente e moralmente ipocrita. Dunque, è da rigettare proprio in nome della premessa di base: la sincerità.

Ho discusso, in passato, di questi temi con personalità reputate depositarie di magistero. Sai una cosa? Non avevano piacere di parlarne veramente. E più erano incalzati, più le risposte si facevano rarefatte e "sublimi". Ma, soprattutto, quella sgradevolissima sensazione sospesa in aria del "dietro questo genere di domande sta sempre in agguato l'orgoglio".

A me questa cosa dell'orgoglio è, invece, sempre parsa uno straordinario strumento di controllo/potere/dominio; ossia del processo più mondano ed antispirituale che mi riesce di concepire.

Per chi cerca sicurezza e consolazioni, tutto ciò può anche andar bene; e mi spingo fino a dire che può persino fare bene. Ma il Dharma, o lo si chiami come si vuole, sta oltre quella estrema estensione dei giochi di società umani che sono, spesso, il cemento dei pilastri di certe intoccabili roccaforti Tradizionali.

Io credo di potere dimostrare che non può essere stato Dio a metter su lo Sturm und Drang di molti episodi biblici, soprattutto di quello di Isacco; e non, certamente, per le risibili obiezioni moralistiche avanzate dagli Odifreddi di turno. È una questione legata, piuttosto a certi criteri metafisici di base, e che può essere trattata senza poi troppa difficoltà in termini di semplice logica. Il caso di Davide, poi, in questa ottica è secondario a quello più generale evidenziato in Isacco. Ma se ho ragione, questo spalanca sotto i nostri piedi una specie di abisso; e molte delle categorie tramite le quali abbiamo accesso cognitivo – almeno sul piano culturale – al Sacro Monoteista, sarebbero da ricostruire.
Non che la cosa, in ultima analisi, faccia differenza, o crei chissà quale scompiglio. Alla fine, tanto, finanche dei baffi del Buddha non rimarrà neppure polvere.


Dario Chioli, 20/4/2011

La Bibbia e il Corano m'intrigano, l'avrai capito. Ripeto che a me non crea problemi soverchi il passo di Isacco, la situazione di Abramo è oltremodo incomune, e non mi stupisce siano incomuni le prove a cui è sottoposto. Invece Davide, o anche Giobbe (di nessun conto le sue mogli e i suoi figli?), non si mandano giù così facilmente, e non c'è una risposta accettabile nell'ambito del senso comune. Questo non toglie che possa esservi in altro ambito, magari a noi inaccessibile per nostre carenze, come dire, di quantità sinaptiche... o di sottigliezza percettiva...

Quanto alla storia dell'orgoglio, sono d'accordo con te; spesso pare proprio che questo insistere su di esso mascheri solo l'ignoranza, o un altro tipo di orgoglio oltremodo smisurato.

Avrai del resto forse constatato tu stesso quanto proprio gli esponenti "ufficiali" della tradizione siano spesso ignoranti. E come molti dei problemi del cristianesimo derivino dalla assurda pretesa che l'uomo comune affermi di credere a dogmi che non capisce, dogmi che nel migliore dei casi potrebbero valere come conseguimenti mistici, non certo come principi per l'uomo ordinario. Questa pretesa dimostra in effetti un certo grado di ottusità spirituale e di conformismo, che denunciano con evidenza uno stato di plurisecolare decadenza.
Tuttavia ciò non mi spinge tout court ad avversare l'istituzione (cristiana, islamica, buddhista...), che ha i suoi pregi; diciamo che mi sento ad essa molto "collaterale"...


Darth, 21/4/2011

Come disse quel tale (che poi fu processato per aver assassinato gli astanti a colpi di noia), sarò breve.

Credo di capire perché trovi scandaloso, diciamo semmai, il caso di Giobbe (quello di Davide è ancora di altra specie), e molto meno quello di Abramo. Giobbe pone il problema della sofferenza del giusto – da sempre arma di battaglia dello scettico e del tignoso – tema poi sviscerato da Dostoevskij per tramite dell'insuperabile Ivan Karamazov. Non conosco altro testo della letteratura mondiale che abbia analizzato il tema della presenza del male come I fratelli Karamazov. Analizzato, ma non risolto. In effetti, tale tema è irrisolvibile all'interno dell'ambito monoteistico. Ciò non vuol dire che lo sia di per sé. Infatti è risolvibile.

In ogni caso, gli argomenti proposti dall'apologetica monoteista sono davvero una manna per gli scettici colti come Odifreddi. Infatti sono indifendibili. E Giobbe, ma più ancora di lui i suoi zelanti ermeneuti, hanno seminato più miscredenti che credenti.

Invece, il caso del sacrificio di Isacco è indifendibile e basta. Non si tratta di una nostra chiusura cognitiva, cosa che certamente esiste e della quale solo lo sciocco, lo sprovveduto o il superbo si illudono di non dover tenere conto.

Qui il caso è diverso; e cade all'interno del nostro perimetro cognitivo. Ti manderò domani, spero, brevi mie considerazioni.

Gli esponenti dell'autorità Tradizionale cui mi riferivo non erano dei – se così possiamo chiamarli – burocrati dello Spirito; in questo caso, sarei stato sciocco io a cercare l'acqua a mezz'aria. Erano persone, per quanto si può giudicare di queste cose, gratificate da autentici carismi spirituali; eppure, per certe cose erano del tutto cieche.

Avrai capito che il caso delle Scritture monoteiste mi tormenta. C'è qualcosa che non quadra. Diverso il Nuovo Testamento, quasi sempre limpido e conseguente; semmai, qui i problemi sono cominciati dopo, con l'avvento di quella ciclopica organizzazione che è la Chiesa Cattolica Romana, vera trasmutazione dell'antico Impero.


Dario Chioli, 21/4/2011

Attendo allora le tue considerazioni. Vedrò con interesse cosa dirai su Isacco (che infine non venne ucciso, è questo che per me rende più semplice il caso, anche se richiedere il sacrificio del figlio è qualcosa di così violento, di così contrastante coi sentimenti umani – così disumano, come dicevi tu in un messaggio precedente).

Quanto a I Fratelli Karamazov sono veramente un magnifico libro.

In relazione poi al Vangelo, va detto che molto del loro contenuto è non troppo dissimile dal contenuto della predicazione farisaica dell'epoca, tant'è che molte affermazioni simili a quelle del Cristo sono presenti nel Talmùd. L'epoca era più "razionale" di quella dei patriarchi: di qui l'apparente minor presenza di aspetti ostici e inumani negli scritti del tempo, anche se nella letteratura apocalittica i "nemici della luce" vengono sic et simpliciter sterminati, secondo la prassi antica seguita contro i nemici d'Israele.


Darth, 21/4/2011

Gli episodi di Giobbe, Davide e Abramo, oltre a non essere evidentemente congeneri, suscitano questioni per affrontare le quali occorrono strumenti diversi. In ogni caso, eviterò di trattare questo argomento in "dottese"; sia perché non amo quella parlata, sia perché se non riesci a farti capire ed essere conseguente nei termini di un linguaggio semplice, ci riuscirai ancora meno con uno complesso.

Generalmente sono i primi due casi, soprattutto il primo, a indurre nelle persone di coscienza un certo sconcerto. In Giobbe sembrerebbero violate la giustizia e lo stesso ordine del mondo; e, per la prima volta in modo così radicale, viene posto il problema dell’origine del male e del suo ruolo nel mondo. Cominciamo col dire che il Libro di Giobbe non è un testo di filosofia. Se lo fosse, la sortita finale di Dio «Quando io ponevo le fondamenta del mondo, tu dov’eri?» sarebbe la risposta/domanda di un pessimo filosofo, ma rimarrebbe una battuta perfetta sulle labbra di un satrapo mediorientale. Questa è, di fatto, la nozione di onnipotenza che devono avere i monoteismi. L’altro Mondo – che poi sarebbe però il Mondo Vero – è rappresentato come una monarchia imperialista e guerrafondaia, a capo della quale , assiso su un tremendo trono, sta il Dio degli eserciti.

Ora, è cosa certa che davanti al Dio degli eserciti (che magari ogni tanto si rabbonisce, ma al minimo sgarro spalanca la Geenna), quale povero cristo si sognerebbe di chiedere: «Scusi Dio, con tutta l’umiltà possibile, ma che Le ha fatto quel disgraziato di Giobbe per meritare il trattamento che gli ha inflitto?», sapendo in anticipo di sentirsi rispondere: «Quando io ponevo le fondamenta del mondo, tu dov’eri?»

Non occorre alcuna ispirazione ermeneutica per capire che – con pochissime eccezioni – nelle comunicazioni veterotestamentarie Dio parla quasi sempre per marcare la propria onnipotenza. In una situazione di questo genere, a nessuno è lecito chiedere; giacché su qualsiasi domanda può rimanere sospeso come una spada di Damocle il «Quando io ponevo le fondamenta del mondo, tu dov’eri?»

Non c’è partita, insomma; e dunque non può esservi risposta, precisamente perché non è ritenuta lecita la domanda. Io qui mi riferisco al rapporto Dio-uomo, e non a quella specie di “psicologia del Divino” (mi si lasci passare il termine) che è in fondo la teologia. Questa, infatti, si arroga il diritto, ed esige da se stessa il dovere, di spiegare al volgo ciò che Dio non ha avuto il tempo o la voglia di dire. Da qui, quella proluvie di “scuole”, di correnti, di filosofie...

La domanda che a me viene naturale a questo punto è: come mai le Upanishad, i Sutra, Laozi o Zhuangzi possono essere letti e compresi senza l’intermediazione di un esercito di teologi, esegeti ed ermeneuti? Non sto dicendo che nelle dottrine orientali siano assenti le scuole ed i commentari; ma che, intanto, sono quantitativamente di molto inferiori ai corrispettivi occidentali, ma soprattutto non necessitano di introduzioni all’introduzione dell’introduzione, ecc.

Per me la risposta è molto semplice: l’orizzonte spirituale di queste dottrine non deve tenere conto delle insolubili contraddizioni derivanti dalla presenza di un Dio monarca.

Tornando a Giobbe, il tentativo di conciliare il dispotismo divino, la paterna benevolenza e la giustizia – salvo che qualcuno mi contraddica – è sempre fallito. Questo fallimento – a mio parere e, ancora, salvo che qualcuno non mi contraddica – è dovuto all’estrema difficoltà che i monoteismi hanno sempre incontrato nel conciliare il finito e l’infinito. Questa conciliazione, infatti, come magistralmente insegnò a suo tempo Guénon, può essere compiuta soltanto dalla metafisica; disciplina, sempre secondo li francese (ma anche secondo tutti coloro che hanno davvero fatto i compitini), che latita, o fluttua incompleta, o è tenuta in non cale, nei monoteismi.

Sto leggermente divagando, ma ci vengo tirato dal discorso. Torno a Giobbe e provo a concludere. Come si risolve, allora, il caso dell’episodio del patriarca idumeo? Teologicamente è impossibile. A meno di riuscire a ingollare la storia che Dio può fare quello che vuole, perché 1) non deve rendere conto a nessuno; 2) qualsiasi cosa faccia ha senso su una scala inaccessibile alle limitate capacità umane (e potrebbe anche non averlo un senso; giacché in entrambi i casi non è lecito chiedersi se ne abbia uno).

Ma questo – almeno per me, ad altri una Divinità e una prospettiva siffatta possono andar bene – equivale a dire che è letteralmente impossibile parlare di Dio, e che non ti è lecito neppure interrogare te stesso circa la comprensione di ciò che Egli ti ha detto; giacché, il farlo equivarrebbe a cercare in te stesso una chiarezza che neghi a Lui.

Questi sono i labirinti cui porta – sempre che si voglia essere conseguenti – la concezione imperiale della Divinità. Che dopo millenni si sia ancora persi dentro un infinito rincorrersi di interpretazioni, ciascuna delle quali va a trovar posto in un’infinita piramide di scatole cinesi, vuol dire che qualcosa di poco chiaro alla base deve pur esserci.

La vicenda di Giobbe, tuttavia, si risolve senza il minimo problema al solo considerare che l’opposizione – che nei monoteismi è radicale ed inconciliabile – tra creatura-servo e Signore-Padrone equivale, analogicamente, a quella tra finito ed Infinito. Cominciamo col dire che l’esser privo di limite (Infinito) non vuol dire essere opposto al limite (finito); ma non è solo l’Infinito a non potersi opporre al finito (essendo questi una sua autolimitazione generata, come possibilità, dalla sua stessa infinitezza); ma la stessa cosa vale anche per il finito, non potendo questi avere la minima realtà se non nell’Infinito, al di fuori dal quale nulla può porsi. È questo, metafisicamente, il significato dell’essere l’uomo “fatto a immagine e somiglianza di Dio”; ossia essere ”della stessa natura di Dio". Solo che la prospettiva monoteista non può accettare una cosa simile (che però, paradossalmente, sta nella sua stessa, inevitabile, premessa). Per questa prospettiva, la frattura tra Creatore e creatura è radicale ed inconciliabile; in una parola, ontologica. In oriente, come negli esoterismi di matrice monoteista, questo non accade; l’illusione della separatività si dissolve nell’Illuminazione o nel Risveglio, ed è prefigurata nella Dottrina.

Vedo che mi sto inevitabilmente dilungando; adesso concludo davvero. L’errore metafisico del considerare la natura dell’Originale, Dio, e quella della sua copia “fatta a Sua immagine e somiglianza”, l’uomo, eterogenee e dunque inconciliabili ed opposte (se qualcuno avesse da ridire su questo, consideri quanto segue: Dio è Infinito, l’uomo è finito, dunque non-Infinito, dunque, l’uomo è non-Dio; dunque, inconciliabile ed opposto ad Egli. ”Non “ segna opposizione), deriva proprio da una confusione tra finito ed Infinito, giacché l’opposizione è una caratteristica distintiva del finito, non dell’Infinito.

Ergo, l’ingiustizia subita da Giobbe – da questa prospettiva e soltanto da questa – si risolve in un gioco delle parti tra possibilità divine.

Giobbe, in quanto manifestazione finita, deve di necessità, vivere come incomprensibile l’azione divina; ma incomprensibile solo fino a un certo punto, diversamente la sua ribellione sarebbe stata non solo inevitabile, ma persino legittima.

In area indù, ad esempio, una storia simile non potrebbe far sorgere alcun problema. L’induismo è provvisto di quella categoria culturale e metafisica chiamata Lila (gioco cosmico della Divinità), che illustra con grandissima pregnanza ed eleganza lo snodarsi della tragicommedia cosmica. Le prospettive di matrice semita si svilupparono, invece, all’interno del circuito dominatore-dominato/potere-dominio-controllo. Su questo ci sarebbe ancora moltissimo da dire, ma è tempo di chiudere.

Purtroppo non ho potuto fare neppure un accenno a Davide, e soprattutto al caso del sacrificio di Isacco. Posso solo dire che mentre per la vicenda Giobbe abbiamo trovato un lieto fine, per il sacrificio di Isacco questo non c’è. Rimane, come ti ho già accennato, un punto davvero oscuro.


Dario Chioli, 21/4/2011

Ho letto con interesse le tue analisi, evidentemente ragionevoli, ma forse un po' troppo.

Intendo dire che la tua analisi del monoteismo come rapporto di dominio, di dispotismo divino, mi sembra un po' riduttiva.

Intanto noto che non mi pare neppure esatto che i testi orientali siano meno bisognosi di mediazioni: tu citi dei testi molto particolari, ma se prendi i Veda, l'Avesta, lo Yijing, o i nipponici Kojiki e Nihongi, il problema dell'interpretazione è assai spinoso. E sulla frequenza dei commentari penso proprio che ti sbagli: il Canone taoista comprende cinquemila testi, altre migliaia quello buddhista e così pure l'induismo è straricco di testi religiosi. E gran parte di tutto ciò consiste in commenti.

Si tratta più che altro di fase storica: prima c'è quella del mito e poi quella del commento.

Ora, quanto al dispotismo, è chiaro che una risposta teologica "da seminario" non esiste. Ma il dispotismo divino è in fondo il medesimo della natura: un terremoto uccide buoni e cattivi, così pure un'epidemia, o un meteorite. Dunque o il mondo è integralmente cattivo o va interpretato.

In natura poi il disastro crea nuova vita, e così tra gli uomini. Senza i massacri di Gengis Khan, l'Asia centrale non sarebbe stata pacificata per secoli, è terribile ma è così.

Dunque che fare: immaginarsi un'utopia irrealizzabile senza di cui tutto è orribile, e quindi vedere la vita come orribile, o cercare altro?

Si può metterla sull'illusorio, come paiono fare il Vedanta o il buddhismo, ma secondo me si tratta più che altro di errori di interpretazione.

Anche il mito di Lila, è appunto un mito, ovverosia un parlar tacendo, che in fondo non sana affatto il dolore di chi lo sperimenta.

La mia risposta è che non c'è risposta per la mente. La mente è configurata quasi del tutto sulle necessità attuali del suo corpo. Bisogna dilatarne la portata, e questo si può ottenere solo sul sentiero mistico (o esoterico, fa poca differenza, è più che altro questione terminologica).

Questo sentiero consiste delle rivelazioni sensoriali e cognitive che ciascuno di noi può avere sperimentate nel corso della sua vita, ed è un sentiero lungo il quale l'impressione non è quello di averlo scelto, bensì di esserne stati scelti (la stessa situazione del classico sciamano, che lo può diventare anche controvoglia).

Questo sentiero – che porterebbe alla cessazione del dolore nel senso del Buddha – è tuttavia perlopiù partorito dal dolore e dalla solitudine, e l'uomo che lo percorre non ha utilità nel tracciare grossi schemi metafisici. Ciò che gli serve davvero è ciò che può sopravvivere alla morte. Tutto il patrimonio dei suoi pensieri comuni e delle sue pur raffinate analisi è come preso in prestito, svanirà semplicemente di fronte alla morte. Ma quel che in lui si cristallizza come un punto di fede irrinunciabile, inafferrabile ma presente sia nello star bene che nello star male – questo è veramente importante.

In questo contesto, le varie opposizioni servo/padrone, creatura/creatore, ma anche amato/amante, amico/amico, padre/figlio, madre/figlio non sono che stadi esperienziali, che possono appartenere al cammino di questo o di quello, anche se tutti insieme, ognuno di essi esprime una possibile interpretazione del cammino umano. Possibile ma selettiva e incompleta. Nessuno schema o nessuna dialettica dà conto della Presenza, apparsa la quale null'altro sussiste.

Che poi i testi sacri che ingiungono, per esempio, il genocidio ci sconcertino, è normale. Ricordiamo a questo proposito che sacer vuole anche dire "maledetto". E quanta maledizione le religioni hanno riversato sul mondo. Esse infatti, ove non vengano dalla ricerca vera e propria, intrisa d'amore e passione di conoscenza, non possono farsi che vettrici di desolazione e distruzione. Tertium non datur. È forse qui la ragione delle varie etiche guerriere, di Arjuna, del samurai: riconoscere che non è la pace lo stato normale del mondo, ma che la pace va cercata all'interno di noi stessi mentre combattiamo la nostra guerra.


Darth, 21/4/2011

Dell'Avesta non so quasi nulla; salvo che è il Libro di una religione estinta ma che, a giudizio di professionisti del settore farebbe parte della linea Tradizionale. Per il resto, la grafomania di noi umani è ben nota (guarda noi due); pertanto non mi danno scandalo i cinquemila testi (o quel che sono) di commentatori taoisti sul taoismo; comunque incomparabilmente meno numerosi della quantità ciclopica dei commentari biblici.

Posso solo dire questo: pur non essendo depositario di particolari carismi spirituali, ho colto l'essenza del taoismo che non avevo ancora 25 anni; e chiuso i conti con la comprensione del buddhismo e dell'induismo 5 o al massimo 10 anni dopo. Mi è bastata, da una parte la lettura dei principali testi originali, e poi, dall'altra, quella di autori qualificati (cito i maggiori) come Guénon, Coomaraswamy, Pallis, Filippani Ronconi, Sri Ramana, Suzuki, ed altri (per i moderni): per gli antichi, Zhuangzi, Shankara, Nagarjuna ecc. Le biblioteche le ho ingollate, dopo, a cose fatte; e solo per amore della lettura (semmai, da allora – forse ciò ti darà scandalo – qualcosa l'ho imparata dalla moderna filosofia analitica).

Ebbene, la stessa cosa, per le ragioni che ho cercato maldestramente di esporre nella mia precedente, non credo sia possibile in ambito semita; salvo che – magari sbaglio – per intervento diretto dello Spirito Santo. Io mi permetto di dire che secondo me sottovaluti le questioni legate alla struttura monarchica delle religioni abramiche; l'onda lunga di questa concezione dispotica e guerrafondaia – e solo per restare alle cose del "secolo" – ci ha raggiunto ancora oggi, facendo di quei luoghi un focolaio di guerra inestinguibile.

Per il resto credo che ci si trovi d'accordo: tutte queste sono chiacchiere, e forse facciamo male a sprecarvi del tempo. Però, tra le tante altre, in una cosa Tommaso aveva ragione: una concezione dottrinalmente errata, o poco chiara, genera errori devastanti nel rapporto col Divino.

Alla fine, comunque, siamo reali solo nell'atto dell' "orazione" (a me piacciono i termini di una volta); giacché in quel non-spazio non-tempo, Dio stesso trova se stesso in noi. È solo da lì che può nascere quell'amore/comprensione cui tu accenni. Tutto il resto, prima ancora che illusorio, è davvero noiosissimo.


Dario Chioli, 22/4/2011

Per quanto creda di capire e quindi condividere cosa intendi nel dire che hai colto l'essenza del taoismo prima dei 25 anni e del resto 5-10 anni dopo, tuttavia ti invito a non trascurare il fatto che evidentemente hai mediato il tutto, in base a quanto dici, prima con le tue predisposizioni individuali familiari e culturali e poi con gli schemi tradizionalisti.

Ora, la prima cosa è evidentemente inevitabile, e la seconda è comprensibile. Però ogni tradizione plurimillenaria, occidentale o orientale, contiene senza dubbio una quantità di aspetti che possono essere colti solo dall'interno, e impossibili invece da percepire dall'esterno. Gli schemi tradizionalisti poi danno un buono strumento di analisi (anch'io mi sono riletto tutto Guénon mediamente 2-3 volte), ma sono ben lungi dal conferire una comprensione integrale.

Credo poi che sbagli nello stimare la quantità dei testi. Se io parlavo di cinquemila testi taoisti, alludevo solo al canone ufficiale, ma poi ci sono i testi che nel canone non entrano, tra cui tutta una serie sterminata di testi tradizionali di clan e di famiglia che non sono mai neppure stati stampati. L'India poi ha milioni di dèi, ed ognuno o quasi credo abbia i suoi testi. Mi sembra poi che siano decine o centinaia di migliaia i testi inediti sia sciiti che cabalisti ecc. ecc.

Cioè, per quel che conta, ovvero poco, è probabile che la letteratura biblica ci appaia più vasta solo perché ce ne giunge più vasta notizia. La cosa però spiega perché in realtà ci sia più difficile capirla: troppi dati ci rendono più difficile sistemarli secondo schemi semplici. È per questo che soprattutto con la propria tradizione di origine dovremmo confrontarci, perché la nostra inevitabilmente miglior conoscenza ci impedisce di compiere in buona fede delle semplificazioni inattendibili. La cosa ci riesce invece benissimo con le tradizioni meno note, che ci giungono già filtrate con schemi occidentali che nessuno ci impedisce di filtrare ulteriormente secondo i nostri schemi individuali.

Il senso di questo discorso è: proprio quelle cose che ci riesce difficile disporre in caselle precostituite sono vie reali di conoscenza, portandoci alla consapevolezza che la ragione è solo mezzo per l'intuizione intellettuale mentre non può conferire autonomamente conoscenza né di tipo tradizionale né di tipo storico. Quanto alla metafisica, è chiaro che va vissuta, se no non significa nulla. Ho conosciuto troppi meditatori vedantini o buddhisti adagiati nella loro presunzione di conoscenza che poi risultavano ridicoli ogniqualvolta si prospettasse un problema scientifico o pratico o una necessità umana diretta.

Quanto all'orazione, non posso che essere pienamente d'accordo con te.


Darth, 22/4/2011

Quanto a Guénon, pur con l'enorme debito verso questa eccezionale personalità, non sono un guénoniano.

Con quanto scritto al termine del mio ultimo messaggio, intendevo significare che il Cielo non sempre parla così oscuramente come – sempre che sia davvero e sempre stato il Cielo a parlare – è stato il caso della Bibbia e del Corano.

Uno dei sistemi quasi infallibili per perdere la fede, lo dico spesso come una specie di acre battuta, è la lettura del Vecchio Testamento e del Corano. Sono certo che capisci di che parlo.

Ma perché lo stesso non accade col Rigveda? Al massimo puoi rimanere perplesso; ma questo è tutto.


Dario Chioli, 22/4/2011

Sul Corano e il Vecchio Testamento capisco, sono convinto dell'esistenza del rischio in tutta una serie di casi, ma non sono convinto in assoluto. Forse perché avendo letto Il Libro delle Soste di Abd el-Kader, ho troppo presente la pratica di "far scendere su di sé" le sure del Corano. Corano la cui lettura del resto, per quanto finora non integralmente compiuta, mi affascina abbastanza. E poi ho passato troppo tempo a scandagliare la Bibbia col po' d'ebraico (poco) che so e mi ci sono affezionato.

Certo in questi testi esistono passi di violenza e oscurità terribile, che corrispondono in tutto, sembra, alla violenza della natura rispetto a cui l'uomo è qualcosa che può essere schiacciato in un attimo. E le leggi... leggi a noi ostiche, opprimenti, discriminatrici. Qualcosa che comprime l'egoismo del singolo nell'egoismo del gruppo. Cabalisti e sufi danno spesso dei passi più terribili interpretazioni mistiche, ma è chiaro che, nella quaterna di sensi del PaRDeS, non è che la presenza di un significato anagogico (Sod) escluda quello storico-letterale (Peshat). La violenza sarà anche un segnale anagogico, ma rimane. E siamo di nuovo lì...

È poi vero che il Rigveda non ha di queste violenze, ma la forzatura sociale c'è per esempio nel Manavadharmashastra, e la violenza c'è ben chiara nella Bhagavadgita.

E d'altro canto, testi come il Qohélet o il Cantico dei Cantici per me sono insostituibili.

Insomma, sembra che le parole di Dio creino problemi agli uomini...


Darth, 22/4/2011

D'accordissimo; l'Ecclesiaste ed il Cantico sono delle perle. Il che pone il problema della discontinuità del testo generale.

Sapevo – credimi – che mi avresti citato la Bhagavadgita.

Tuttavia, se mi concedi la licenza, accostare il clima della Bhagavadgita a quello di molti passi (non alcuni, molti, moltissimi) veterotestamentari e coranici, equivale a mettere sulla stesso piano “Le iene“ di Quentin Tarantino e “Crash” di Paul Haggis. In entrambi i film la violenza e la conflittualità in ogni sua forma sono dominanti; ma il primo è un’icona splatter, il secondo è un’opera d’arte. (Se non avessi visto “Crash”, derogando alla regola di non dare consigli non richiesti, te lo raccomando con forza. È davvero un capolavoro).

Nella Bhagavadgita sia l’intento, che la modalità simbolica ed anagogica sono chiare come la luce del sole. In una gran quantità di passi veterotestamentari e coranici, al contrario, ci si trova immersi in truculente carneficine, e bestiali macelli nei quali nessun lettore attento non può non percepire, evidente, un compiacimento sadico. Allora, però, spunta il santo rabbino e comincia a spiegarti che non hai capito niente, perché non tieni conto del fatto che... e lì, calcoli, trasmutazioni, simboli che si nutrono di altri simboli; cose che non sono quello sembrano e altre, miracolosamente, sembrano quello che non sono.

Il fatto è che un procedimento di questo genere è fratello gemello di quel bizzarro processo mentale che dà vita alla famose “profezie che si auto-avverano”. Se una mente acuta e sofisticata cerca significati simbolici nella disposizione della casse della frutta in una bancarella del mercato, è certo che li troverà. Ma questa è l’anticamera della follia.

Non sto dicendo – lo sottolineo e lo ripeto, non sto dicendo – che tali significati occulti ed anagogici non siano presenti in entrambi i testi; infatti, deve essere così di necessità. Il punto è: quale autorità ultima ci assicura che siamo in presenza di una autentica interpretazione, e non di un delirio?

Altra domanda non meno importante: perché se leggi il Sutra del Diamante lo capisci e basta; mentre se leggi la Bibbia o il Corano devi avere a portata di mano un secchio di Optalidon?

Perché se leggo Dogen mi appare tutto chiaro come la luce del mattino; mentre se faccio lo stesso con un qualsiasi omologo semita mi sento perduto?

Per finire: perché riesco con meno di trenta parole a spiegare i principi del buddhismo persino a un umanoide della curva sud; ma non saprei neppure come cominciare per fare lo stesso con la Bibbia?

Altro tema da te più volte proposto: il grande dolore della Storia, le catastrofi naturali, Gengis Khan, Hitler, Gilles de Rais, Tamerlano, Stalin, ecc... le pestilenze... per non parlare dell’olocausto del mondo vegetale ed animale.

Tu sai meglio di me che noi pagheremo per il dolore inflitto agli animali; le infinite ed inutili torture verso queste creature innocenti spezzano la mente ed il cuore. Se penso alla zootecnia, mi viene in mente l’inferno. Ma tutto questo è a carico dell’infinita stupidità e crudeltà umana. Metafisicamente, questo è il male necessario. Ok, ma se di questo male noi uomini – o almeno alcuni di noi – piangiamo, come può essere che un Dio se ne compiaccia?

È questo che non torna.


Dario Chioli, 22/4/2011

Siamo sempre lì: io capisco benissimo quel che dici e perché lo dici, e dal tuo punto di vista non si può che darti ragione.

E come non condividere il tuo lamento dell'ultima frase, su come sia possibile che Dio si compiaccia del male più dell'uomo?

Però... quando dici che il senso anagogico dev'esserci, nella Bibbia e nel Corano, allora ti rendi insicure, mi pare, le fondamenta della tua negazione.

E che si tratti di interpretazione autentica o di delirio, è un dilemma che può non porsi. Per me in effetti non si pone, nel senso che è l'intenzione (la scelta nei lombi di Adamo di islamica memoria) che fa sì che l'interpretazione sia veritiera o delirante. Dunque si tratta di aver cura che le nostre intenzioni siano anagogiche, se vogliamo percepire l'anagogico. Per converso, in un discorso apparentemente più chiaro, può essere che la chiarezza illuda, e venga scambiata per conoscenza ciò che non è che ripetizione, coazione a ripetere della mente.

E poi, non posso condividere il discorso sullo smarrimento davanti all'omologo semita perché ho sempre letto e studiato con gran passione le tradizioni sufi e quelle chassidiche, con le quali non mi sento affatto perduto.

Diciamo che di sicuro condividiamo l'avversione verso ogni fanatismo, e il senso di necessità della compassione. Per il resto ognuno accentua secondo le sue propensioni. Per esempio le istituzioni religiose: si può vederle come oppressione sociale di gente che comanda e non sopporta opposizioni, ma si può vederle anche come contenimento del caos entro certi limiti. Sono vere ambedue le cose, dipende dal momento cosa l'uomo sincero scelga di considerare di volta in volta.

Perché come ricordavi tu, la vita reale è la sincerità.


Darth, 22/4/2011

«Diciamo che di sicuro condividiamo l'avversione verso ogni fanatismo, e il senso di necessità della compassione. Per il resto ognuno accentua secondo le sue propensioni»

La compassione sta alla “legge” come una barzelletta sta alla sua spiegazione. La legge comincia quando la compassione si è esaurita, ed essa è diventata bottino dei farisei. Nel mondo e nella prospettiva della "legge", furfanti e poliziotti sono funzionali allo spettacolo.

La sincerità è la condicio sine qua non di ogni rapporto, lo è in sé. Da quello con un salumiere a quello con l’Altissimo, un rapporto insincero si chiude nel circolo vizioso dell’auto-inganno. È un’ovvietà, della quale, tuttavia, difficilmente si arriva a capire la portata.

Ma questo non ha relazione alcuna con le modalità del nostro approccio cognitivo al mondo. Per costruire un ponte, per decifrare un codice, per creare una condizione di empatia con altre culture, per cogliere il linguaggio non formale della musica, la sincerità – pur se sempre auspicabile – serve a poco. Posso essere un viscido Giuda, ma un vero artista nell’immedesimarmi nella mentalità di un boscimano. Per risolvere problemi, occorrono criteri certi (o almeno ipotesi fondate), non sincerità. Questa, non può salvarti dall’illusione e dell’errore. Partire da intenzioni anagogiche è la condizione necessaria, ma non sufficiente. L’intenzione potrà essere premiata solo laddove l’anagogia esiste.

E qui vengo al tuo appunto:

«Però... quando dici che il senso anagogico dev'esserci, nella Bibbia e nel Corano, allora ti rendi insicure, mi pare, le fondamenta della tua negazione».

Se mi rileggi, ho scritto che questo senso deve esserci, ma non che tutti i punti oscuri, assurdi, raccapriccianti, ed a volte anche ridicoli, cessino di essere tali in una spiegazione anagogica. Qui si tratta di capirci su un punto: cerchiamo la Verità, oppure una “spirituale sicurezza” tra le braccia della sacra autorità dei testi?

Ipotesi di terzo tipo: se Cristo afferma che 2+2 fa 39, e l’Anticristo afferma che fa 4, a chi si deve dare ragione? Questa mia domanda provoca sempre una reazione infastidita; di solito si contesta la consistenza dell’ipotesi, ed allora devo spiegare cos’è un’ipotesi di terzo tipo, e che tale strumento è una chiave di volta fondamentale dell’atto cognitivo. Devo spiegare che in questo tipo di strumenti, non importa il contenuto ma la correttezza della forma (come quasi sempre in logica). Alla fine, la quasi totalità di coloro che obtorto collo accettano di rispondere (un po’ sbuffando) dice che darebbe in ogni caso ragione a Cristo. Ed allora io cerco di spiegare loro che lo hanno appena tradito Cristo, ed hanno compiuto un atto di perfetta idolatria. Ma sai, questa cosa pare la capiscano in pochi, ed a quel punto lascio perdere.

Cosa c’entra col nostro discorso? Caspita! È precisamente questo il nostro discorso! Un testo sacro è tale perché afferma la Verità, o afferma la Verità perché è un testo sacro? Questa è una versione meno traumatica della dura verità racchiusa nella precedente ipotesi; ma si tratta dello stesso discorso. Qui è più facile scegliere la prima alternativa, la questione, però, è che la si sceglie ma non la si applica. Giacché, poi, di fatto, si continua ad adottare la seconda alternativa. In soldoni, se tu mi scrivi:

«E come non condividere il tuo lamento dell'ultima frase, su come sia possibile che Dio si compiaccia del male più dell'uomo?»

come puoi poi pensare che nello stesso testo (che ti mostra un Dio sadico) il medesimo Dio manifesti la Verità? Una cosa bianca che è al contempo nera!

Allora, qual è il punto? È che questo genere di testi sono spuri; lo sono perché è evidente che lo sono. La parte più complicata sta nel fatto che non è semplice discernere le parti veramente ispirate o rivelate dalle commistioni. E lo è anche perché, pressati dal sacro timore, non si accetta neppure l’ipotesi che – come in tutte le cose umane (la Bibbia fa parte dell’universo umano) – la “sola”, l’inganno sono sempre in agguato.

Altro punto; su questo devo darti pienamente ragione:

«in un discorso apparentemente più chiaro, può essere che la chiarezza illuda, e venga scambiata per conoscenza ciò che non è che ripetizione, coazione a ripetere della mente».

Nulla di più giusto. Il fatto è che ad essere troppo giusto si casca nella paralisi. Un enunciato come “chi mi assicura che ho davvero compreso il messaggio del Buddha?”, è dello stesso genere di “chi mi assicura che mio figlio non sia un marziano?”. Insomma, chi mi assicura che non sono pazzo? Chi mi assicura che non sono ora, da desto, la farfalla (come direbbe Zhuangzi) che ho creduto di sognare stanotte come Darth? La tua obiezione porta a questo.

Circa la natura “protettiva” od “oppressiva” delle istituzioni Spirituali, tutte le volte che mi imbatto in questo tema penso alla storia che ebbe protagonisti al-Hallaj e Junayd. Sforzandomi, facendo quasi violenza alla mia natura, devo riconoscere che Junayd ebbe le sue ragioni. Ma il mio cuore sta tutto con Hallaj. Cos’è la Via, se non la Via del Cuore? Tutto il testo è burocrazia.


Dario Chioli, 22/4/2011

Per la verità io non credo che un "viscido Giuda" possa davvero cogliere nel boscimano quel che è fondamentale. Suppongo invece che la sua menzogna lo ostacoli, e che riesca al massimo a simulare anticristicamente gli aspetti formali più identificabili della fede del boscimano, ma giammai a cogliere veramente nel segno.

In secondo luogo, tu dici: «dove l'anagogia esiste». Ma l'anagogia esiste ovunque. Ciò che non avesse il suo aspetto anagogico non esisterebbe... sarebbe come dire che nel mondo esiste qualcosa che sfugge al dominio di Dio.

E poi, quando ci venga posta una scelta tra due alternative che non ci vanno, quali un'assurdità proferitaci da chi ci piace e una verosimiglianza proferita da chi riteniamo menzognero, c'è sempre una terza soluzione: il silenzio. Nessuno può costringerci a scegliere, o meglio nessuno può decidere i campi della nostra scelta. Noi dobbiamo scegliere solo là dove siamo convinti di dover scegliere. Ci mancherebbe che uno dovesse rispondere a tutti gli assurdi quesiti che vengono di continuo posti da questo o da quello!

Non si tratta di rispondere a tutto, ma di rispondere alle domande nostre, che vengono poste dalla divina Sapienza (o dal nostro dharma, se preferisci) specificamente a noi.

Quanto alla distinzione testo sacro/verità, ovviamente non è reale. Sacro e verità non possono distinguersi. Se c'è una distinzione vuol dire che manca l'uno o l'altra o tutt'e due. Se sappiamo come stanno le cose, possiamo dare una risposta. Ma se non lo sappiamo con la massima certezza, è meglio tacere.

Quanto alla mia condivisione del tuo lamento che Dio si compiaccia del male più dell'uomo, questo vuol semplicemente dire che la mia mente non trova risposte che leniscano il dolore dell'esperienza, non che tali risposte non ci siano. Vivaddio, non pensi che magari le nostre sinapsi non siano in grado di pareggiare quelle della mente di Dio?

Tutti i mistici sanno che per giungere a Dio bisogna attraversare luoghi di solitudine e follia. Il primo di questi luoghi, nella nostra esperienza terrena, è il nostro stesso mondo; altri gli succedono se c'inoltriamo per una via di conoscenza. Ma nel cammino le domande cambiano, e non sono domande qualunque, ma le domande per noi funzionali ai fini della nostra prosecuzione del cammino.

Chi voglia rispondere a domande che non gli appartengono, è – per dirla con Castaneda – come colui che, nel suo viaggio a Ixtlán, si fa incantare dai fantasmi ed esce dal sentiero.

Un abbraccio di cuore (nella memoria di Hallaj).


Darth, 23/4/2011

C'è tanto materiale; qui vorrei solo puntualizzare una cosa, che spero non ti sembri solo un sofisma. Giacché non lo è.

«Per la verità io non credo che un "viscido Giuda" possa davvero cogliere nel boscimano quel che è fondamentale. Suppongo invece che la sua menzogna lo ostacoli, e che riesca al massimo a simulare anticristicamente gli aspetti formali più identificabili della fede del boscimano, ma giammai a cogliere veramente nel segno».

Il confine tra una simulazione perfetta e l'originale simulato sta solo nell'approssimazione. Questa cosa è stata oggetto di una rigorosa ed inconfutabile dimostrazione da parte di un filosofo contemporaneo – Daniel Dennet – del quale non condivido quasi nulla, se non il rigore metodologico e certe soluzioni secondarie; come quella presente. Il limite dell'approssimazione è dato dal "principio degli indiscernibili" formulato da Leibniz. Ma si tratta di un ovvio limite ontologico, non operativo. Un sistema qualsiasi che si avvicini alla simulazione di un altro sistema oltre un certo limite, può di fatto essere considerato indistinguibile da quel sistema. Quello che tu dici, dunque, non può essere condivisibile, salvo che tu non ti riferisca all'ontologia; in questo caso avresti ragione (ma non è a questo che mi riferivo nel mio esempio, e neppure agli aspetti etici). Tutto ciò che conta, bada bene, limitatamente a questo specifico discorso, è la capacità operativa di produrre un risultato. La simulazione, il "come se", sono strategie insuperabili per raggiungere scopi. L'uomo li adopera da sempre; la donna pure, e con maggior profitto dell'uomo... Mi ripeto, qui sto parlando di operatività, non di ontologia, né di etica.

Ultima cosa, non resisto:

«Ma l'anagogia esiste ovunque. Ciò che non avesse il suo aspetto anagogico non esisterebbe... sarebbe come dire che nel mondo esiste qualcosa che sfugge al dominio di Dio».

Capisco cosa vorresti dire, ma enunciati simili – che sembrano volere dire qualcosa – in realtà non hanno significato alcuno. Odifreddi ti riprenderebbe, ed in questo caso avrebbe ragione: predicare qualcosa di tutto equivale a predicare niente di niente. È una regola alla quale non si sfugge, ed è un pericolo sempre presente quando si parla di cose spirituali. I concetti di Infinito ed Assoluto, che evidentemente sono immediatamente associati alla Divinità, sono dinamite da manipolare con cura. È per questo, oltre che per il piacere del bel ragionamento, che leggo i filosofi analitici. Sbagliano – almeno quasi sempre – nelle premesse e dunque nelle conclusioni; ma quello che c'è in mezzo è uno straordinario strumento di salute mentale (non in senso psichiatrico, naturalmente).


Dario Chioli, 23/4/2011

«Un sistema qualsiasi che si avvicini alla simulazione di un altro sistema oltre un certo limite, può di fatto, essere considerato indistinguibile da quel sistema».

Scusa, Darth, ma questa è la miglior apologia possibile dell'Anticristo...

Ovviamente rifiuto totalmente questo approccio. Come rifiuto di distinguere tra operativo, etico e ontologico. Non stiamo parlando di scienza applicata alla tecnologia, campo dove tutto ciò avrebbe senso, ma di conoscenza spirituale.

Quanto all'anagogia, anche in questo dissento totalmente. Tanto nella metafisica cristiana quanto in quella indù o in quella ebraica, vengono distinti quattro stati, o quattro manifestazioni del logos. Il PaRDeS (paradiso) è la sintesi armonica di tutt'e quattro, non puoi azzopparlo (puoi però credere di averlo azzoppato). Il senso letterale (Peshat) corrisponde allo stato di veglia; l'allegorico (Remez) al sogno, il morale (Derash) al sonno profondo, l'anagogico (Sod) al quarto stato. Nulla esce da ciò, di quanto riguarda la comprensione umana.

E poiché la comprensione è rivolta a cose reali (se no sarebbe fantasticheria), così pure il reale deve avere quei quattro volti, perlomeno nella sua relazione con il logos dell'uomo. Sta poi a questi identificarli, ed è qui che si distingue il filosofo vero e proprio...

Se poi la comprensione è letterale, identificherà il mondo materiale, se è allegorica sarà sospinta nell'analisi, se è morale vorrà dare risposte alle proprie domande, e se sarà di natura anagogica, entrerà nel sod, nel paradesha che costituisce l'anticipo dell'eterno nel seno della mortalità.

L'insieme di questi quattro approcci costituisce l'Harmonia mundi, ed è sotto il segno di Ermete, cioè del principio del discernimento, che cammina volando.


Darth, 23/4/2011

«Scusa, Darth, ma questa è la miglior apologia possibile dell'Anticristo»

È evidente che non stiamo parlando della stessa cosa, sennò vorrebbe dire che da un banale relais ad una centralina telefonica – ma io comincerei ancora prima dalla semplice ruota – si stia preparando la venuta dell’Anticristo. Non comprendo, poi, il tuo uso del termine apologia, cosa ha a che fare (sempre che qualcosa possa averci a che fare) un discorso in difesa dell’Anticristo con la simulazione di sistemi semplici o complessi, finalizzata a riprodurre il comportamento del sistema simulato con altri mezzi? Mi sono perso. Scusa se mi permetto, ma sei sicuro di aver letto con attenzione la mia mail?

Sono d’accordo con quanto tu dici appresso (la dottrina dei quattro stati ecc.), salvo per il fatto che:

1) a mia conoscenza – ore 15,22 del 23/4/2011 – una metafisica cristiana non esiste. Se esiste, confesso di non averne notizia (ma questa cosa lasciamola in sospeso, sennò i vari discorsi non potranno mai trovare un abbozzo di conclusione). Dell’ebraismo so poco; dunque, di cose di cui poco so, poco o nulla dico;

2) la dottrina dei quattro stati non ha alcun rapporto con la logica delle simulazioni operative. Sono cose radicalmente eterogenee. Sarebbe come trovare una relazione tra le paramita ed un microprocessore.

Mi permetto di chiederti ancora: sei certo di avermi letto con attenzione?

Resta comunque definitiva la verità che predicare qualcosa di tutto è lo stesso che predicare nulla di nulla. Produce enunciati che non sono né veri né falsi, ma senza significato. E questo non lo può cambiare neppure Dio; giacché è una legge stabilita proprio da Lui attraverso il Suo stesso Logos.


Dario Chioli, 23/4/2011

No, te l'ho detto: «Non stiamo parlando di scienza applicata alla tecnologia, campo dove tutto ciò avrebbe senso, ma di conoscenza spirituale», per cui relais e ruote non c'entrano.

Ma forse mi sono spiegato male: con "apologia" dell'Anticristo intendevo solo dire che carattere tradizionale di costui è per l'appunto una profonda simulazione; intendevo quindi che mentre dire che un sistema simulato equivale all'originale può avere, e ha, senso in campo scientifico-tecnologico, non ce l'ha invece in campo metafisico.

Quanto alla metafisica cristiana, come giustamente dici tu, lascerei perdere, perché naturalmente bisognerebbe intendersi sul termine metafisica eccetera, e non la finiremmo più.

Temo in effetti che ci stiamo impantanando un po' troppo in ragione di due diversi approcci che tuttavia partono forse da posizioni non troppo dissimili.

In ultimo non capisco bene a cosa alludi quando dici che «predicare qualcosa di tutto è lo stesso che predicare nulla di nulla». Seguendo il decorso delle email direi che alludi alla mia affermazione che «l'anagogia esiste ovunque. Ciò che non avesse il suo aspetto anagogico non esisterebbe... sarebbe come dire che nel mondo esiste qualcosa che sfugge al dominio di Dio». Ma questa affermazione è conseguente alla dottrina dei quattro stati, che dici di accettare, non capisco perciò in che ti paia strana. Il senso anagogico è l'ambito in cui si esercita la percezione propria del quarto stato; vuoi forse dire che c'è qualcosa che non può essere percepito nel quarto stato? Ma sarebbe al tempo stesso reale? Qualcosa che ha un senso in terra senza averlo in cielo?

Ad ogni modo, è chiaro che il mio linguaggio si basa più del tuo su radici "abramiche", e che quello che io accetto di chiamare, conforme al senso originario, "filosofia", implica un'azione concreta di trasformazione spirituale ed etica, e non un'analisi astratta del reale che permetta di vivere "come se" il filosofo fosse uguale agli altri una volta uscito dal suo ambito specifico.

Nella mia visione, per il ricercatore non c'è ambito specifico, nel senso che tutto lo è, perché la sua vita va globalmente arricchita man mano reinterpretandola da un punto di vista anagogico. Il che implica ovviamente un evolversi delle percezioni del quarto stato e una perdita di importanza della dimensione storico-materiale e legalista (il senso letterale).


Darth, 23/4/2011

Al solo scopo di non accavallare temi ed argomenti, mi limito qui, adesso, a questo:

«In ultimo non capisco bene a cosa alludi quando dici che "predicare qualcosa di tutto è lo stesso che predicare nulla di nulla". Seguendo il decorso delle email direi che alludi alla mia affermazione che "l'anagogia esiste ovunque. Ciò che non avesse il suo aspetto anagogico non esisterebbe... sarebbe come dire che nel mondo esiste qualcosa che sfugge al dominio di Dio". Ma questa affermazione è conseguente alla dottrina dei quattro stati, che dici di accettare, non capisco perciò in che ti paia strana. Il senso anagogico è l'ambito in cui si esercita la percezione propria del quarto stato; vuoi forse dire che c'è qualcosa che non può essere percepito nel quarto stato? Ma sarebbe al tempo stesso reale? Qualcosa che ha un senso in terra senza averlo in cielo?».

Limitiamoci dunque a questo. Perdonami se farò un passo alla volta, proprio uno appresso all'altro; non intendo essere pedante, ma solo chiaro, e, se ci riesco, inconfutabile.

A) È possibile parlare o scrivere, nel senso di usare il linguaggio parlato o scritto, senza parlare o senza scrivere? La risposta è un no definitivo. Qualunque autorità, anche con la A maiuscola, qualsiasi dottrina, per quanto sacra e venerata affermasse il contrario, sarebbe in errore, ed in contraddizione; giacché, non potrebbe affermare il contrario se non dandone comunicazione scritta o parlata. Dunque, per parlare bisogna parlare, ossia usare il linguaggio, in uno degli innumerevoli idiomi naturali.

B) È possibile guidare un’automobile – in mezzo ad altre automobili – senza conoscere, anche solo empiricamente, le basilari leggi della fisica, senza conoscere la dislocazione e l’uso dei principali comandi, senza fare pratica nella coordinazione e nella conduzione, senza aver appreso le regole del codice della strada? Tutte queste condizioni devono essere soddisfatte, contemporaneamente, se si vuole usare un’automobile senza provocare disastri.

C) La stessa cosa vale per l’uso del linguaggio. Si pensa, comunemente, che per parlare-e-comunicare sia sufficiente una buona scolarizzazione, una adeguata conoscenza della grammatica e della sintassi, magari qualche approfondimento stilistico. E si pensa bene, infatti, comunemente è così. Nella comunicazione sociale ordinaria questo è sufficiente. Ma non lo è quando si tratta di temi legati alla religione, alla metafisica, ed a ciò che una volta si chiamava filosofia. L’uso del linguaggio in queste discipline necessita di un approfondimento tutto sui generis, in assenza del quale ci si trova impantanati a discutere di casi come il presente (e senza il quale ci si espone alle critiche irridenti – e spesso inconfutabili – degli Odifreddi). Pertanto, quello che sto per dire adesso, per questo specifico e limitatissimo argomento, vale per ogni altro argomento analogo.

Tu mi chiedi come mai sostengo che quanto da te affermato – «Ma l'anagogia esiste ovunque. Ciò che non avesse il suo aspetto anagogico non esisterebbe... sarebbe come dire che nel mondo esiste qualcosa che sfugge al dominio di Dio» – è privo di significato.

Mi ripeto, non che sia vero o falso – per esserlo dovrebbe prima significare qualcosa – ma proprio che non significa nulla. Se mi concedi ancora qualche minuto del tuo tempo provo a spiegarlo. Sarai certamente d’accordo che affermare «l’anagogia esiste ovunque» è la stessa cosa che dire «tutto è anagogia»; e che «Ciò che non avesse il suo aspetto anagogico non esisterebbe» è come dire «non può esistere una cosa (o un processo, aggiungo io, ma se non ti piace non considerare la mia aggiunta) che non sia anagogica». Se poi dovessi trovare arbitrario il mio “in altri termini”, fa nulla. Il discorso che sto per fare vale pienamente anche per i tuoi termini.

Abbiamo appurato che per parlare bisogna fare uso del linguaggio parlato (o scritto, naturalmente), e che questo ha le sue regole, la mancata osservanza delle quali produce o un’alterazione nella comunicazione – che è lo scopo del parlare – oppure una sua alterazione.

Fino a qui confido che tu non possa non essere d’accordo. I mattoni del linguaggio, per esprimermi nella maniera più semplice, sono le parole; sintassi e grammatica servono alla loro coordinazione. L’utilizzo corretto di questi tre elementi apre la via alla semantica; ossia all’area del significato. Se tutto questo è vero, e mi pare impossibile che si possa sostenere il contrario, chiunque, a qualsiasi titolo, per qualsiasi scopo, utilizza questo mezzo – il linguaggio – deve rispettarne le regole. Altrimenti, nessuno lo obbliga a parlare. Nel caso in cui (questi casi esistono, ma mi sono imposto di limitarmi al tema in oggetto), infatti, un soggetto dovesse ritenere che quanto ha da comunicare non può esserlo per via dei vincoli linguistici, allora deve rinunciare a parlare tout court. E cercare un altro mezzo. Il quale, però, come è ineluttabile che sia, avrà i suoi vincoli e le sue regole.

Bene; cos’è una parola? La prima cosa da dire è che – qualsiasi cosa sia – è un evento pubblico; per comunicare, infatti, bisogna essere almeno in due. La seconda cosa, è che essa può essere molto adeguatamente paragonata ad un contenitore; questo per due ragioni: la prima è che deve accogliere al suo interno il significato; la seconda, è che tale significato può essere definito – per esclusione e/o contrasto – solo da ciò che resta fuori dal contenitore. E questo ci porta dritti alla nostra questione. La parola "tutto" – salvo che usata come “collezione di ogni oggetto di un limitato sottoinsieme” – è un contenitore illimitato, e come tale, non lascia fuori da sé (altrimenti non sarebbe “tutto”) qualcosa che possa servire a definirlo. Non la si può definire, la parola “tutto”, neppure come un contenitore vuoto, giacché non è neppure un contenitore. Per esserlo dovrebbe essere limitato, ma non potendo essere limitato – sennò non potrebbe essere “tutto” – è semplicemente qualcosa di impossibile. Infatti, lo si potrebbe chiamare una specie di fantasma cognitivo.

Mi resta da farti notare che affermare – come tu hai fatto – «x esiste ovunque», o «ciò che non avesse la caratteristica di x non esisterebbe» equivale ad affermare che x è ubiquo e sostanziale all’esistenza; ossia che nulla può esistere che non sia x, ossia che tutto deve avere le caratteristiche di x.

Ove “x”, nel nostro discorso sta per anagogia. Dunque, la tua affermazione è priva di significato.

Mi sono riletto con attenzione, e so di essere stato chiaro.

Una ragione, la principale, per la quale il mistico sceglie il silenzio, è la sua precisa comprensione dell’estrema difficoltà di comunicare il contenuto del suo sapere, giacché, esattamente per le ragioni da me esposte, esso non può essere “alloggiato” nelle parole. Oltre a questo, qui ne accenno soltanto, l’altro vincolo del linguaggio è dato dalla logica grammaticale. Questa è nella sua stessa essenza duale, e solo con estrema perizia si può tentare di dare conto di tutto ciò che è, non dico non-duale (vedi la lezione di Shankara), ma anche solo di provenienza non duale.

Tu mi parli di una metafisica cristiana... La metafisica è impossibile in ambito monoteista. Ci hanno provato i sufi – non conosco l’ebraismo ma il sufismo sì – ed hanno fatto naufragio davanti all’impossibilità di conciliare il monismo con la molteplicità. Il massimo che (l’incompleta) metafisica sufi ha potuto esprimere si condensa nel Wahdat al-Wujud; ma la riconciliazione tra Uno e molteplice non è stata compiuta.

Tutto ciò che ha potuto esprimere il cristianesimo, l’approccio più prossimo alla metafisica, e comunque il più legittimo, è stato la Teologia Negativa (grandioso ossimoro: parlare di Dio senza parlare di Dio), ed il neoplatonismo; di fatto considerato eretico.

Per concludere: gli avversari dello Spirito continueranno nella loro opera di irrisione, e saranno sempre vittoriosi nella loro propaganda, fino a quando da una certa rarefatta aria di sublimità non scenderanno al piano terra coloro che – dotati di mezzi ed ispirazione – non capiranno che le altezze rarefatte della Dottrina sono una cosa, una sua descrizione non contraddittoria nel linguaggio dei mortali, altra cosa.

Diversamente, è meglio starsene zitti.

P.S. – Altra cosa: tu hai potuto rettificare Odifreddi sul piano della corrispondenza e veridicità dei dati, perché questi, facendo il passo più lungo della gamba, è sconfinato in un seminato a lui sconosciuto. Francamente, come ti ho già espresso, di questa cosa sono stato contentissimo. Tuttavia, uno come Odifreddi, o anche molto meno preparato di lui, in un dibattito fra persone competenti, se non rispetti tutte le regole condivise dalla cosiddetta “comunità dei parlanti”, non lo scalfisci (tu impersonale) neppure. Ho visto in tv un dibattito fra lui e Messori, ovviamente su questioni religiose; ebbene, non c’è stata partita. Per quanta poca simpatia possa avere per tutto ciò che Odifreddi rappresenta – e non è che Messori sia un campione, quanto a simpatia – se lo è mangiato. E questo non accade perché il mondo è crudele e siamo vicini alla venuta dell’Anticristo, ma per le ragioni che ti ho esposto molto, forse troppo, succintamente nella mia ultima. Se si sceglie di comunicare, sia che si scriva un libro, sia che si apra un sito, o che si parli soltanto, per il solo fatto che usiamo le parole, siamo vincolati alle regole linguistiche. È solo a partire da queste che possiamo difendere le nostre posizioni. Già dalla mia primissima mail, ricorderai, ho espresso dei dubbi sulla opportunità di farlo; ma se lo si fa, allora bisogna che sia secondo le regole dell’arte.


Dario Chioli, 24/4/2011

Capisco ma non condivido.

Circa il linguaggio, tu sottovaluti la dimensione non verbale, evocatrice, del linguaggio stesso. La poesia, il linguaggio potente dei sogni, il linguaggio dell'entusiasmo.

In particolare il linguaggio poetico non si presta affatto alla dissezione che ne fai tu. Ma anche nel linguaggio ordinario, lo schema logico non determina affatto un discorso accettabile, ci vuole altro. Ed è in quest'altro (dhvani, rasa, mercurio...) che va identificato il senso vero e proprio, tramite le appropriate facoltà (nel caso delle esposizioni mistiche, servono intelletto spirituale, acumen mentis).

Convincere Odifreddi è totalmente fuori dai miei intendimenti. L'ho scritto nel mio saggio su di lui: perché lui cambi idea gli devono probabilmente succedere eventi particolarissimi. Perché l'idea non è svincolata dall'etica, per niente. Uno pensa come vive.

Che io peraltro comunichi benissimo a un certo numero di persone, mi è evidente dai miei riscontri tramite SuperZeko. Una quantità di persone capisce benissimo, fin nelle sfumature, ciò che voglio dire.

Ma l'affermazione di un sistema non è il mio intento. I sistemi vanno usati quando servono, né più né meno. La cosa mi è chiarissima fin da quando avevo diciott'anni. Se vuoi leggi qui un mio breve scritto del 1974:
..\doc_dariochioli_saggistica\DarioChioliScetticismoSofisticaEclettismo.html
.

E poi perdonami, ma mi sembra un po' discutibile che tu possa ergerti a giudice supremo e sanzionare che cristianesimo e islàm non hanno metafisica. Anche qui sarà questione di termini, ma bisogna andarci cauti a tranciare giudizi su migliaia d'anni di tradizioni. Anche perché, se elenchiamo le tue "richieste di credito", vediamo che:

1) a venticinque anni hai raggiunto l'essenza del taoismo;
2) in altri 5-10 anni quella del buddhismo e dell'induismo;
3) conosci il cristianesimo e l'islam così bene da affermare che non vale la pena occuparsene perché non hanno metafisica e sono fondate sull'oppressione...

Mi sembra un po' troppo, tu padroneggeresti come niente dieci-quindicimila anni di storia religiosa complessivamente e saresti in grado di esprimerne una corretta valutazione...

Io penso che sull'anagogia dovresti documentarti, e che per capire qualcosa del cristianesimo non puoi ignorare tutto dell'ebraismo. E che ignorando tutto dell'ebraismo non puoi esprimere valutazioni sul Vecchio Testamento e neppure sul Corano. In fin dei conti potresti riprendere in mano Guénon e rinfrescarti le idee sulla filosofia perenne...

Quanto a Messori, non è certo un esponente della suddetta filosofia perenne, e convengo che non è neppure simpatico, mentre mi è abbastanza simpatico Odifreddi, per cui l'esito del loro confronto mi sta bene. Ciò non vuol dire che Odifreddi di religione capisca qualcosa; è che quella cosa che propina Messori è spesso solo una stanca apologia. [Nota del 23/6/2019 – La mia opinione su Messori, sorta forse un po' troppo affrettatamente per effetto di qualche suo articolo o intervista, è alquanto cambiata dopo aver letto il suo Ipotesi su Maria, libro eccellente che consiglio a chiunque voglia approfondire la tematica mariologica]

Scusa il tono un po' polemico, ma come dire... un po' te la sei tirata...


Darth, 24/4/2011

«Scusa il tono un po' polemico, ma come dire... un po' te la sei tirata».

Non hai nulla di cui scusarti, se ci fosse qualcosa, o ti chiederei di farmi delle scuse, oppure smetterei di parlare con te. Sei una persona corretta, che difende il proprio punto di vista; lo fai con forza, e mi sta bene.

Al volo: confermo la storia dei 25 + altri 10 per taoismo, buddhismo ed induismo. Qui mi riferisco alla comprensione dottrinale; quanto all’insight spirituale, questo è ovviamente un segreto tra me e Dio; ma non credo ci sia nulla di male, né di sbagliato, nell’affermare che esso non ha potuto che confermare ed illuminare quanto appreso solo sul piano teorico. Cosa, d’altro canto del tutto ovvia e conseguente.

Il cristianesimo e il sufismo li ho compresi solo dopo, e solo alla luce che mi si è aperta, come detto in precedenza.

Il Vecchio Testamento... Ho detto, con onestà, che non conosco questa religione, intendendo, ma mi sembrava ovvio, che non la comprendo. Diversamente, se non la conoscessi in senso letterale, come avrei potuto esprimere giudizi? Salvo che non abbia dato l’idea di essere un vanesio.

Per la verità, e le cose scritte per fortuna rimangono, non ho espresso giudizi diretti sull’ebraismo ed il Vecchio Testamento, salvo una volta; precisamente quando ho detto che deve per forza trattarsi di testi spuri. Tra episodi il cui livello è quello de “Il grande fratello”, e le vette del Cantico, dell'Ecclesiaste, ed altre, solo un cieco può non vedere un abisso. Questo non pone legittimi e seri problemi? O dobbiamo starcene a capo chino zitti e mosca? Vabbè, magari li pone, ma tanto fa lo stesso..

Comunque sia, ho letto questo testo con estrema attenzione, più volte. Recentemente ancora l’estate scorsa. La prima sensazione, molti anni fa, quella a pelle, è stata di non sentirmi a casa mia. Stessa cosa per il Corano. Questa sensazione di estraneità perdura tuttora.

Ovviamente so di non essere la misura di tutte le cose (lo devo ripetere o è definitivamente chiaro?); ed infatti credo sia molto probabile che questa profonda sensazione di estraneità dipenda in una qualche misura da certe mie idiosincrasie individuali; ma sono certo che, parimenti, essa dipende anche da molte colossali assurdità che si trovano in questi testi; e che nessuna lettura simbolico/anagogica potrà mai emendare.

Non giriamoci intorno: dammene una per Davide (ma ti potrei porre almeno altri 50 casi non meno agghiaccianti), e ti rimarrò per sempre in debito per avermi aperto gli occhi. Fa questo per me, e se non vuoi farlo per me, fallo per un debito di coerenza verso le tue stesse idee.

Tu difendi le tue posizioni con forza, ed in questo hai la mia totale stima, credimi, ma dammi una ragione – una comprensibile, non una da Iperuranio – che possa giustificarsi anche per me. Ma io so già che quando si osa fare domande simili, ci si rifugia nell’eccelso (o in seconda battuta nel "come posso io osare sondare la Mente di Dio?”); il che, detto senza giri di valzer, mi pare un tantino scorretto; giacché in tutti i casi si casca in piedi.

Rifugiarsi nel sublime (cosa che ho visto accadere con mortale monotonia tutte le volte che, per dritto o per storto, si arriva a questo punto), significa farsi precedere dall’Autorità Divina in mancanza di argomenti propri; argomenti che però,con bella coerenza si sciorinano quando disponibili. Affermare che nulla sfugge al dominio di Dio (che fa il paio col rifiuto di prendere di petto casi come quello di Davide), per fare un semplice esempio, è una ridondanza del tutto inutile; equivale ad affermare che ogni cosa è. Grazie della notizia; ma dove sta l’informazione in questo enunciato? Dirlo o non dirlo è la stessa cosa; così come per tutti gli enunciati vuoti appartenenti a questa classe. Non è difficile da capire. È quanto ho cercato di spiegarti nella mia ultima; ma, evidentemente, la mia capacità di dimostrare cose ovvie si è appannata. Mettere in mezzo Dio, quando si tratta di questioni di metodo e non di dottrina, e rimandare poi tutte le volte ai Sacri Testi, quando invece si sta trattando del modo in cui di questi Testi si deve parlare per evitare di seminare il discorso di assurdità, ecco, questo non solo mi pare del tutto alieno e persino ostile allo Spirito di Verità, ma è anche il modo infallibile per fare il gioco dell’avversario.

Sinceramente faccio fatica a credere che possa essere equivocabile quanto da me scritto circa Odifreddi. Dimmi dove ho detto, per favore dimmelo, che Odifreddi è da convincere? Evidentemente non merito la tua attenzione; giacché una cosa simile non l'ho mai affermata. Io ho scritto che: o ci si ritira nella propria torre madreperlata, e si discute fra amici che già sono d’accordo prima, in perfetta autoreferenzialità; oppure, se si accetta l’interlocuzione, bisogna far proprie le regole che fanno di questa una cosa pubblica. Qui la Dottrina non c’entra, e neppure l’apostolato verso miscredenti. Fino ad ora, non ho mai parlato di Dottrina, né di apostolato; ma solo di metodo.

Per chiudere questo capitolo, per il cristianesimo è accaduta le stessa cosa. Dai tre sinottici a Giovanni, fino agli Atti ecc... salvo alcune “cadute” veterotestamentarie, ed alcune posizioni molto discutibili di Paolo, si respira un’aria del tutto diversa da quella del Vecchio Testamento. Cristo, nella specie di Dio fatto uomo, è abissalmente lontano dal Dio geloso, iracondo, vendicativo, compiaciuto mandante ed ispiratore di stragi e genocidi.

Ma, al di là dei fatti personali (che ho dovuto tirare in ballo solo perché tu ci sei tornato, e che vedo sia stato un errore mettere nella discussione; errore di cui mi attribuisco la colpa), la sola cosa che conta è la seguente. La comprensione delle dottrine orientali, un po’ meno quella del cristianesimo, è semplice. Hai sbagliato se hai visto superbia in quella mia affermazione; la superbia può nascere solo dal compiacimento per un’impresa straordinaria (o presunta tale), ma la Verità mostrata da quelle dottrine è talmente abbagliante che gloriarsi di averle comprese sarebbe come vantarsi si vedere la luce del sole. Detto questo, sulle cose personali non torniamo più.

«Circa il linguaggio, tu sottovaluti la dimensione non verbale, evocatrice, del linguaggio stesso. La poesia, il linguaggio potente dei sogni, il linguaggio dell'entusiasmo.

In particolare il linguaggio poetico non si presta affatto alla dissezione che ne fai tu. Ma anche nel linguaggio ordinario, lo schema logico non determina affatto un discorso accettabile, ci vuole altro. Ed è in quest'altro (dhvani, rasa, mercurio...) che va identificato il senso vero e proprio, tramite le appropriate facoltà (nel caso delle esposizioni mistiche, servono intelletto spirituale, acumen mentis)».

Tutto quello che vuoi ed anche di più; possiamo aggiungere le danze sciamaniche, la telepatia, la glossolalia carismatica, la cosiddetta “lingua segreta della natura” dei Nativi Americani, ed altre cose strabilianti di cui non siamo a conoscenza. Ma non è di questo che sto parlando; fin dall’inizio ho detto fino allo sfinimento che non è di questo che sto parlando.

Io sto fermo al primo piano, e tu mi rispondi dal trentesimo. Ci provo per l’ultima volta. Siamo nell’aprile del 2011, non al tempo dei rishi vedici, e neppure a quello dei profeti biblici. Quando parli con la gente (non è questo lo scopo di un sito internet?), ti esprimi in metrica, fai danze sacre, articoli la potenza del linguaggio onirico? O magari, di presenza, nei faccia a faccia che pur avrai con conoscenti che frequentano questi temi, cosa fai, ad un certo punto ti libri sul linguaggio dell’ebbrezza entusiastica? Se fai queste cose, costi quel che costi, almeno una volta voglio incontrarti.

Essendo precisamente uno appassionato di linguistica, le dimensioni di cui tu parli non solo non le sottovaluto, ma le ho approfondite, e non solo teoricamente. Ad esempio, tra gli ultimi autentici conoscitori della “Via dei sogni”, così loro la chiamano, ci sono i Nativi Americani, una tribù dei quali ho avuto modo e sorte di conoscere bene anni fa. Ma qui mi fermo, si è detto che il personale resta fuori. Ma, ancora una volta: cosa c’entra questo con la comunicazione pubblica quotidiana?

Se devo scrivere un commento a Nagarjuna, un commento da postare su internet, o pubblicare su un libro, cosa faccio, uso il “dhvanese”, il “rasese”, il mercuriese”? Da quelle fonti posso – se mi è stata donata questa Grazia – trarre ispirazione; ma poi – ed è di questo che parlo fin dall’inizio – devo per forza esprimerlo in una lingua volgare. E per farlo devo seguire le regole ed i criteri che ho illustrato nella mia scorsa mail. Se non lo faccio, avrò magari il plauso della cerchia degli eletti che respirano nelle altezze rarefatte dei piani alti; ma sarò, giustamente, spernacchiato dal resto dell’umanità. Che magari sarà fatta da disgraziati (è un’ipotesi, ovviamente, ironica), ma che si aspetta che gli si parli ad altezza d’uomo.

«[...] anche nel linguaggio ordinario, lo schema logico non determina affatto un discorso accettabile».

Ecco un perfetto esempio di patente, abbagliante, assurdità. Tu hai detto «anche nel linguaggio ordinario lo schema logico non determina affatto un discorso (ossia, da dizionario: "costruzione linguistica dotata di significato complessivo”, oppure “prodotto concreto della comunicazione linguistica“) accettabile».

Davvero non ti salta all’occhio la ciclopica contraddizione? Hai detto che nel linguaggio ordinario lo schema logico non determina un discorso – che per inciso deriva e prende significato precisamente da logos – accettabile; ossia hai negato nella secondaria quello che hai affermato nella principale. Ridotto all’osso; hai affermato che uno schema logico non determina un enunciato logico. Questa cosa va oltre ogni mia capacità di comprensione. Avrà significato nei mondi “dhvaniani”, “rasiani”, o “mercuriani”; ma tra noi mortali in questa Terra di esilio non significa niente.

Stasera faccio dei carciofi, con aglio, pan grattato, e formaggio. Precedentemente sfumati nel vino.


Dario Chioli, 24/4/2011

Voglio solo, per ora, far presente due cose:

1) D'accordo, non sei vanesio o superbo; del resto non intendevo questo, caso mai ti facevo carico di un po' troppa approssimazione nella valutazione delle tradizioni abramiche.

2) Io non ho detto «che nel linguaggio ordinario lo schema logico non determina un discorso» bensì «che nel linguaggio ordinario lo schema logico non determina un discorso accettabile». In quell'accettabile sta tutta la differenza in termini di dhvani, rasa e mercurio... Quindi non ho «affermato che uno schema logico non determina un enunciato logico» bensì che uno schema logico determina un enunciato logico che non necessariamente è accettabile, in quanto può non coinvolgere l'interlocutore. Per esempio, se viene qua Rubbia e mi spiega come funziona l'acceleratore di particelle, il suo enunciato sarà logico comunque, ma se io non lo capisco, se non ha operato una mediazione a mio beneficio, per me non sarà realmente accettabile, nel senso che non posso accettare ciò di cui non capisco nulla (en passant, è la ragione per cui reputo folle la pretesa di far credere agli altri dogmi che non capiscono).


Darth, 25/4/2011

Faccio copia-incolla dalla mia ultima. Mi spiace dovermi citare:

«Ecco un perfetto esempio di patente, abbagliante, assurdità. Tu hai detto "anche nel linguaggio ordinario lo schema logico non determina affatto un discorso (ossia, da dizionario: 'costruzione linguistica dotata di significato complessivo', oppure 'prodotto concreto della comunicazione linguistica') accettabile"».

Accettabile c'è; è l'ultima parola; ti ho citato correttamente.

Ho dimenticato di aggiungere che nei carciofi, alla fine, ci va abbondante prezzemolo tritato, e un soffio di pepe nero.

Ho appena finito di leggere I mostri della ragione 2 di Rino Cammilleri; libro interessante sotto molti aspetti – detto senza ironia – anche per l'iperbolica faziosità e partigianeria dell'autore. Costui è sodale di Messori, il quale, a proposito, è certamente tutto fuorché un advaitin. Se ti avanza tempo, potresti farci un pensierino. L'autore riporta una quantità notevole di notizie interessanti circa il tema dell'Utopia; anche se chi sa come si costruiscono i libri non può mancare di notare, che la documentazione è troppo, davvero troppo, de relato. Insomma, scatole cinesi di citazioni, se mi sono spiegato.

In realtà, devo confessare che vanesio e superbo lo sono; se il santo pecca enne volte al giorno, figurarsi il sottoscritto che alla santità non ci tiene. Però, questo intendevo, non lo sono stato, nella circostanza, nella sostanza del nostro rapporto epistolare. Il rispetto per le persone è una cosa che ho ereditato da un'educazione molto vecchio stampo. Se rubi del tempo ad una persona, devi essere corretto. Superbia e svaporatezza sono il contrario della correttezza. Tutto qui.


Dario Chioli, 25/4/2011

Lo so che accettabile l'hai riportato, ma poi hai interpretato la frase come se non ci fosse.

La tua ricetta di carciofi è sempre più interessante, anche se mi fa un po' soffrire. Stasera infatti non ho cenato e penso di resistere fino a domattina (dovrei smaltire parecchi chili ma penso non sarò molto costante).

Quanto a vanità e circostanti, che vuoi... detto a me stesso: chi è senza peccato scagli la prima pietra...


Darth, 25/4/2011

Quanto alla "prima pietra", dopo una certa età ci si stufa davvero di se stessi, ci si conosce troppo per pensare di poterla dare a bere al prossimo. Siamo quello che siamo; è una tautologia; ma in questo caso, benedetta sia!


Dario Chioli, 25/4/2011

Non credo che riuscirò a raccapezzarmi nella sterminata mole di commenti e commenti su commenti che abbiamo prodotto. Tuttavia, visto che mi hai scritto lamentando le «molte colossali assurdità che si trovano in questi testi; e che nessuna lettura simbolico/anagogica potrà mai emendare» e mi hai aggiunto: «Non giriamoci intorno: dammene una per Davide (ma ti potrei porre almeno altri 50 casi non meno agghiaccianti), e ti rimarrò per sempre in debito per avermi aperto gli occhi», allora almeno su questo mi sento di dover rispondere.

Riprendiamo Agostino di Dacia: «littera gesta docet, quid credas allegoria, moralis quid agas, quo tendas anagogia».

1) Senso storico-letterale (gesta): un uomo – Davide – che ha operato molti atti di giustizia, per il suo popolo, nella sua fedeltà a Saul anche quando questi lo perseguitava ecc., a un certo punto commette un'inqualificabile ingiustizia. Abusa del suo potere per prendere a Uria ittita la moglie Betsabea: in un solo atto si macchia di violazione dell'ospitalità verso lo straniero, omicidio e adulterio. Successivamente si pente del suo gesto. Dal suo matrimonio con Betsabea nascerà Salomone, uomo sapientissimo, ma dopo di lui il suo regno si sfalderà. La vicenda è chiara; non c'è nulla da spiegare sul piano storico-letterale.

2) Senso allegorico (quid credas): l'uomo giusto cede all'ingiustizia; questo gli porterebbe sventura (la morte del figlio Salomone), ma posto che si penta, riacquista parzialmente lo stato iniziale, di conseguenza la sua ingiustizia verrà scontata dalle generazioni successive quando cederanno al male (p. es. dai nipoti di Davide, figli di Salomone, che non saranno saggi come il padre). Questo significa che il pentimento anche dai peggiori delitti può ripristinare la comunione con Dio, per quanto la giustizia segua automaticamente il suo corso, che può essere solo, al massimo, deviato per un poco, fino a che non si manifestino le condizioni adatte alla sanzione (non è in fondo il karman degli indù?).

3) Senso morale (quid agas): l'uomo deve perseguire la giustizia, perché solo in essa mantiene la comunione con Dio, e non vi è modo di scansare le conseguenze dell'ingiustizia, che siano su di sé (la decadenza di Saul, per es.) o sui propri vicini (il popolo che paga con l'epidemia le colpe del re, per es.) o parenti (i nipoti che perderanno il regno). Qualora si sia commessa ingiustizia, ci si deve pentire, e cercare per quali strade ripristinare la giustizia il più possibile. Nel contempo, Dio trae dal caos dell'ingiustizia il cosmo della sapienza (Salomone), usa a fini creativi gli atti distruttivi dell'ingiusto, senza che ciò modifichi le responsabilità di quest'ultimo.

4) Senso anagogico (quo tendas): noi siamo come Davide, o Saul, o tutti gli altri colpevoli della storia; dobbiamo percepire come Dio tragga dalle nostre menzogne e dai nostri errori gli elementi di una più alta verità (i Salmi, la figura splendente di Salomone). La storia, che ai nostri occhi appare un tessuto di luci e ombre, concorre, nella visione divina, a una luce ulteriore, quella del sole nero che i nostri occhi ordinari non sanno fissare. Se, come diceva il bizantino Cabasilas, scopo della vita presente è costruire gli organi percettivi della vita futura, il nostro compito è troppo gravoso perché perdiamo tempo dedicandoci ad altri scopi. Nella misura in cui ci riusciamo, dunque, dobbiamo indagare per speculum in aenigmate fino alla visione, gratuitamente concessa per effetto del più alto amore, del disegno divino e del divino Volto. Se poi questo Volto vogliamo chiamarlo Dao o Shunya o in altro modo, poco muta.

Qualcosa mi dice che non accetterai di ritenerti in debito, ma tant'è, di meglio al momento non riesco a dire...


Darth, 25/4/2011

Hai ragione: raccapezzarsi nella spirale multidimensionale dei commenti prodotti è impossibile. L'unica cosa è limitarsi ad un solo tema, e stare attenti a non sconfinare in altri.

Hai invece torto nel pensare che qualcosa mi trattenga dal sentirmi in debito con te. Qualsiasi persona appena normale, infatti, dovrebbe sentire naturale l'obbligazione verso ogni interlocutore; costui, infatti, ti dedica una parte della propria attenzione, della propria intelligenza, degli sforzi cognitivi dell'intero suo percorso, ed infine della cosa più preziosa: del suo tempo. Non è la vita fatta di tempo? Non ti dona egli, allora, un pezzo della propria vita?

Per il resto, se riesco ti rispondo stasera; sennò domani.

La partizione del dominicano danese è pressoché identica a quella di Dante, a proposito della multilivellare lettura della sua opera.


Darth, 26/4/2011

Caro Dario, confido tu stia bene.

In effetti, prima di auspicare il bene dell’interlocutore, occorrerebbe – così come fa il personaggio interpretato da De Niro in “Taxi driver”, scrivendo ai suoi – sperare che questi sia vivo. Infatti il tassista, rivolgendosi per iscritto ai genitori scrive: «Cari papà e mamma, per prima cosa spero che siate vivi». L’ho fatto una volta con un amico; ma il suo senso dell’umorismo non fu all’altezza...

Ho letto con molta attenzione la tua mail. Ho lasciato decantare, ed oggi ho riletto nuovamente. Le mie considerazioni sono le seguenti.

Se io ho già deciso a priori – in tutti i casi, a dispetto di ogni contraria evidenza, e in forza di una superiore ragione di principio – che x deve avere un significato, allora si può stare certi che un significato lo troverò. Anzi e di più: quanto più il contenuto di x sembrerà assurdo – o degradante, o comunque segnato da disvalore – tanto più la mia ingegnosità darà bella prova di sé, e la sublimità trascendente di x sarà provata.

E questo ci riporta ad una antica e perenne vexata quaestio: «Una certa cosa è vera (giusta, buona, ecc.) perché si presume sia stata detta da Dio, oppure è stata detta da Dio perché è vera?»

Da tutto quello che ci siamo scambiati finora, ti apparirà evidente che ritengo cogente e normativo solo la seconda risposta. La prima, infatti, sempre che si voglia discutere con onestà, manifesta in modo evidentissimo il vizio logico definito petitio principii, che è notoriamente quella ingenua fallacia logica che vede nella conclusione una riscrittura della premessa (o di una parte vincolante di essa). Che poi le due cose possano – non debbano, solo possano – finire col coincidere, dipende unicamente dalla seconda opzione, non dalla prima.

In questo genere di questioni, ciò che chi si ostina a porle non comprende, si riallaccia fortemente con le fondamenta stesse della comunicazione: se parli, devi farlo secondo le regole che tu stesso hai accettato di rispettare nel momento stesso in cui hai deciso di comunicare.

Vedi, non è che il discorso da te fatto non possa trovare una qualche legittimità; non sto dicendo questo. Esso è del tutto legittimo nell’ambito dell’opinabilità, dell’adesione cieca ed acritica, dell’esercitazione letteraria, persino – entro certi limiti – della ricerca filosofica (è noto in questo campo il ruolo, come strumento, delle ipotesi di primo secondo e terzo grado). Tutte queste cose sono ben legittime; ed infatti, entro questi precisi limiti, il tuo discorso è legittimo. Non lo è quando si presenta come una verità di fatto, o una acquisita, o come la dimostrazione di una rivelata.

Ma, un discorso come quello da te fatto (che poi è paradigmatico alla maggior parte dell’ermeneutica biblica) che non può legittimare se stesso con uno dei punti elencati nella frase precedente, dimmi, che valore ha? Nessuno. Un altro ermeneuta potrebbe trovare altre soluzioni; 100 ermeneuti potrebbero trovarne 100 differenti in tutto od in parte, o parzialmente coincidenti in funzione della particolare “scuola” presso la quale si sono formati.

Ma qui siamo ancora dentro la completa e volatile inconsistenza della petitio principii; si trova ciò che si è già deciso debba per forza esserci. Nulla cambierebbe se si prendesse come testo di partenza una storia di Silvestro e Titti il canarino. Se ci vuoi scovare un significato simbolico-analogico ed anagogico, ce lo troverai di sicuro.

Ultima cosa. Si trattasse solo dell’episodio di Davide, uno spiraglio, potrebbe restare. Si potrebbe magari pensare che Dio abbia voluto divertirsi con una specie di iperbolico, ed indecifrabile enigma. Ma anche se così fosse, proprio prendendo atto della indecifrabilità, ne conseguirebbe, semplicemente la messa da parte dell’episodio stesso; giacché, la sua stessa indecifrabilità ne farebbe un “oggetto” cognitivamente, simbolicamente, analogicamente, e tutto quel che si vuole, impossibile. Il fatto è che storie analoghe sono la regola nel Vecchio Testamento; e dunque, mi pare pressoché obbligatorio ipotizzare che si tratti di un testo spurio, contaminato da fonti incontrollabili, e che nulla hanno a che vedere con “la Parola di Dio“ (per eccesso di chiarezza, mi riferisco solo alla parte spuria, ovviamente).

Mi pare una questione alla fine molto semplice. Nessun altro testo sacro – salvo il Corano – presenta, ma neppure alla centesima diluizione, problemi simili. Perché?

Chiudo. Una volta uno sprovveduto chiese a Abd al-Wahid Pallavicini per quale ragione Dio avesse proibito ai musulmani di mangiare carne di maiale. Lo Sheikh, dall’alto di una imperturbabile sicurezza sconosciuta al mondo dei poveri cristi (del novero dei quali faccio parte), dopo una pausa da Actor's Studio, alzato il sopracciglio rispose: «Io non lo so, ma Dio lo sa». Bravo! Per come la vedo io, una risposta del genere (che mi trattengo dal qualificare) suona eccelsa presso coloro che hanno già stabilito che qualsiasi cosa affermi lo Sheikh sia eccelsa; ma potrebbe far perdere la fede a qualsiasi persona che, per credere, non si appoggi su qualcosa di più della “semplice” fede.

Tutto qui.


Dario Chioli, 26/4/2011

Io penso alla morte un giorno sì e uno anche, e sto più dalla parte di chi si fa detestare perché ne fa cenno che da quella di chi si adonta per paura di morire... comunque sono vivo.

Devo dire, carissimo, che non sono molto interessato a questo labirinto paralogico di x che hai messo in piedi per fare smarrire la mia povera mente di poeta convertito in mistico esoterico (e suppongo che tu lo stia facendo per piacere erudito un po' sadico più che per intima convinzione). E poi mi chiedo come fai a condividere il contenuto del mio testo sul buddhismo se davvero parti da queste premesse, perché è vero che hai detto che ti chiedevi perché si debbano scrivere cose che servono solo a chi le capisce, ma è anche vero che tu stesso sembri averle capite, e che non partono affatto dalle tue premesse...

In secondo luogo, mi rifiuto di distinguere tra Dio e verità, quindi non è per me possibile dire cosa sia subordinato a cosa, trattandosi appunto della stessa cosa.

C'è del vero quando dici che si trova ciò che si vuole. È per questo che il primato va all'etica, perché questa inibisce dal volere qualunque cosa.

Invece veramente non capisco cosa ci sia di indecifrabile nell'episodio di Davide. Davide è un uomo, pecca e si pente. Causa conseguenze negative e altre positive. Salomone è un altro uomo, cerca la sapienza e la trova. Da loro, attraverso il bene e il male, cresce la stirpe del Messia. Che c'è di illogico? Forse il Messia dovrebbe nascere da una stirpe tutta santa? Non sarebbe umano.

L'attendibilità o meno della risposta di Abd al-Wahid Pallavicini dipende dalla circostanza e soprattutto dal tono e da ciò che si portava dietro. Se si trattava di una formula fatta, era pura immondizia; se invece era qualcosa di veramente vissuto, era una risposta ottima.

Voglio tornare a una tua domanda del 24/4:

«Quando parli con la gente (non è questo lo scopo di un sito internet?), ti esprimi in metrica, fai danze sacre, articoli la potenza del linguaggio onirico? O magari, di presenza, nei faccia a faccia che pur avrai con conoscenti che frequentano questi temi, cosa fai, ad un certo punto ti libri sul linguaggio dell’ebbrezza entusiastica? Se fai queste cose, costi quel che costi, almeno una volta voglio incontrarti».

Beh, che mi esprima in metrica è ovvio, ci sono centinaia di poesie mie sul mio sito. Quanto alla danza non sono granché atletico, forse è meglio che gli altri non mi vedano danzare, mentre il linguaggio onirico l'articolo nei sogni, come tutti, o nella poesia o nella prosa poetica. Quanto all'ebbrezza entusiastica, non nego che talvolta in rarefatte circostanze, possa essere capitato. Morale della favola: almeno per uno dei punti da te elencati potresti incontrarmi, così discuteremmo di persona...


Darth, 26/4/2011

Sorrido, senza ironia e senza malizia.

Comunque sia, nessun piacere erudito; l'erudizione serve a pochissimo. Le poche persone cui ho attribuito un certo "spessore" spirituale erano quasi sempre affatto erudite. A poter tornare indietro, a 18 anni, eviterei tutto questo eccesso di parole e di libri. Ma non si può. Salvo che non si abbia qualche missione particolare, direi che 50 libri bastano. Il resto è tempo perso.

Detto ciò, un vantaggio, almeno, le mie forsennate (soprattutto fra i 25 e i 40) letture me lo hanno dato: distinguere un enunciato corretto nella forma e significante nella sostanza, da un paralogismo. Di paralogismi, nelle lettere che ti ho inviate, non ve ne sono; e neppure labirinti. Tutto quanto il mio parlare si è limitato a girare attorno due o tre concetti davvero elementari. Ma direi che è tempo di non tornarci più.

Infatti, la sola cosa che conta, è quanto noi riusciamo a "produrre" in termini spirituali; cosa che, per me, si riduce ad un unico semplicissimo oggetto: la Preghiera. Quella, diciamo così, rituale, e quella (sempre che la distinzione sia davvero possibile) che continua nell'ombra, anche quando assorti in attività anodine. "Produrre", naturalmente, è da intendersi in senso del tutto esteso e figurato; e non come accumulo di punteggio per la scalata alle vette spirituali. Questa è roba da bottegai.

Niente altro conta.

Quanto al pensiero della morte, esso, come per te, mi è sempre presente; e persino caro. La morte, la Grande Signora, è la nostra più grande amica. Libera la nostra vita dalla sua stessa putrefazione, e la nostra mente dall'insopportabile accumulo di inutili memorie. Dunque, sia la benvenuta. Anche adesso.

Niente altro conta. Il resto è solo rumore di polvere, in un mondo fatto di polvere.

I carciofi son venuti buonissimi. Ieri ho fatto il baccalà alla vicentina; superiore ancora ai carciofi.

Un saluto davvero caro. La tua pazienza rivaleggia con quella di Giobbe; insomma... quasi.


Dario Chioli, 27/4/2011

Non ho inteso dire che tu utilizzassi dei paralogismi, ma la differenza pare risiedere nel fatto che, come già credo d'averti scritto in altra forma, io reputo la ragione dover fungere di supporto all'intuizione intellettuale, ma non la ritengo autonoma. In pratica, la ragione serve a mio avviso a gestire la grazia di Dio, e il rapporto non può invertirsi, e pertanto è impensabile fondare analiticamente la conoscenza del reale, per questo chiamo "paralogico" ogni tentativo, per me paradossale, di farlo. Naturalmente questa è la mia visione.

Per il resto della tua ultima email, direi che convergo praticamente su tutto, salvo forse che essendo sempre stato molto isolato, sono poco propenso alla preghiera rituale se l'intendiamo come quella d'una specifica assemblea. Quanto ai cinquanta libri, bisogna vedere come uno è fatto. Non che ne servano tanti, ma per qualcuno la curiosità è una parte ineliminabile della propria natura, come suppongo tu ben sappia.

Altra cosa su cui proprio non convergo, invece, è il baccalà, in primo luogo perché vegetariano, e in secondo luogo perché non ne sopporto l'odore. Mi manterrei sui carciofi.


Darth, 27/4/2011

La cosa bizzarra, in questo nostro parlare, è che – precisamente come te – neppure io reputo la ratio autonoma dall'Intellectus. Né potrei farlo; almeno sapendo di che parlo. Come che sia, si è anche visto che servirebbe a poco tornare su cose già trattate.

Con "preghiera rituale" mi riferivo, in senso lato, al momento ed allo spazio dedicato in modo esclusivo al "ritiro". Come te, amo pochissimo – anzi diciamo pure che non amo affatto – qualsiasi cosa abbia parvenza assembleare. Per mio conto, si tratta del temperamento anarchico con cui sono nato.

Hai ragione, di conseguenza, anche sulla propensione alla lettura: ci si nasce. Tuttavia, contrariamente al temperamento anarchico – che non ti prende tempo – la lettura prende tempo; ossia vita. Vale davvero la pena spendere parte della vita a soddisfare il superfluo?

Vegetariano ideologico, o fisiologico?


Dario Chioli, 27/4/2011

Caro Darth, è che spesso si legge per sostituire qualcosa di meglio. Non essendoci di meglio, si fa quel che si può. Per esempio, se per la mia ricerca avessi dovuto basarmi sulle persone incontrate, sarei poco meno che disperato. I libri per me hanno avuto importanza, subito dopo la poesia; ora in realtà, per quanto mi ci dedichi prolungatamente, ne hanno di meno.

Il temperamento anarchico non si può non averlo, se si va cercando qualcosa di proprio, pur essendo consci che la maggior parte della gente tramuterebbe l'anarchia in dittatura del peggio...

Il mio vegetarianesimo, mi chiedi se sia fisiologico o ideologico. Non sono sicuro di capire cosa intendi esattamente con questi due termini, ma una risposta ce l'ho bell'e pronta. Guarda qui:
http://www.superzeko.net/doc_dariochioli_saggistica/DarioChioliPercheSonoVegetariano.html


Darth,  27/4/2011

Il temperamento anarchico si può non averlo. Come perfettamente intuì Aristotele, la maggior parte delle persone senza il filo della spada dell'autorità sopra la capoccia non riuscirebbe neppure a fare pipì. Hai ragione, se è questo che intendevi sul fatto che l'anarchismo politico si trasformerebbe nella più feroce delle dittature, tempo 15 giorni. Pertanto, non ci resta che l'insignificanza della democrazia.

La natura è cannibale; di più, lo è l'intero Mondo manifestato. Dal sacrificio di Purusha allo smembramento rituale del corpo di Cristo, ed alla sua ingestione, passando per una miriade di miti e rituali analoghi. Il Mondo è un gigantesco nastro di Moebius impegnato in un'autolisi.

Questa regola parte dalla metafisica, o se si vuole dalla cosmologia, e finisce alla fisica (come scienza). Infatti i tre principi della termodinamica sono, o possono essere considerati, l'ultimo anello di questa catena causale. Non c'è scampo: la vita si nutre di vita. Ora, stabilire quale vita possa essere ingerita, e quale no, mi pare una questione destinata all'arbitrio. Chiedi ad una carota se è lieta di essere preferita ad un dentice!

Quanto tu affermi sui vari tipi di vegetarianesimo mi trova d'accordo; salvo che sul finale. Ovviamente, ciascuno può regolarsi come meglio crede, ma, nella mia opinione, non per le ragioni da te addotte.

La questione, sempre nella mia opinione, è stata risolta dalla cultura, da molti considerata primordiale/iperborea, dei Pellerossa. Costoro cacciano e pescano; ma lo fanno in modo perfettamente rituale (rito nell'accezione guénoniana; che è corretta e soddisfacente). Il punto non sta in quell'arrampicarsi sugli specchi che è il tentativo di nutrirsi di vita senza nutrirsi di vita; ma nel farlo, posto che è inevitabile, senza infliggere dolore. E "ripagando" in modo rituale ciò che si è tolto al "sistema natura".

Ti ho scritto che gli uomini pagheranno ciò che da sempre fanno agli animali; e che l'odierna zootecnia ha qualcosa di infernale. Ma questo non ha rapporto con la questione vegetariana. Non ha relazione col nutrirsi (che è e non può essere altro che nutrirsi di vita); ma solo con le sue modalità.

Non siamo noi cibo tra altri tipi di cibo? Sul piano terrestre siamo diventati una rarità, visto che siamo più furbi di altri cibi. Ma su altri piani? Essere masticati è il solo modo per essere mangiati? Ma questo ci porterebbe lontano.

Per concludere: il vegetarianesimo è perfettamente legittimo come regime alimentare, ma per il resto, e per le ragioni che ti ho molto succintamente esposto è... beh... non lo so cos'è.


Dario Chioli, 28/4/2011

Condivido ciò che condividi; non condivido quanto non condividi...

Non ho ragioni diverse per essere vegetariano, e quelle che ho mi paiono valide.

Asini e pecore mi paiono vicini più stretti di tanta gente. Viceversa non sento altrettanto parentela con la carota, e comunque in qualche modo devo nutrire il mio corpo. Spiegami poi magari una volta come si fa a uccidere senza infliggere dolore fisico e psichico all'ucciso e ai suoi congiunti (anche la vacca ha dei vitelli, la coniglia dei coniglietti ecc.), e con quale acuto senso tradizionale gli animali accettino la morte per ragioni rituali.


Darth, 28/4/2011

A nessuno piace essere ucciso. Ovvio.

A tutti piacerebbe vivere per sempre (beh, quasi tutti, a me non piacerebbe). Eppure, è evidente che non esiste creatura in ciascuno di tutti i possibili mondi che non sia uccisa da qualcosa. La sofferenza? Inevitabile! È il prezzo della percezione. Tutto ciò che una persona normale –scusami, ma non mi sento “tradizionale” – può e deve fare è di porre in essere tutti i mezzi per non causarne di superflua. Infatti, ho scritto già due volte che gli uomini pagheranno per come trattano gli animali.

Il punto di vista della carota ti è lontano. Certo, è comprensibile. Una volta, circa 25 anni fa, parlando con un maestro buddhista vietnamita (non è che poi ne ho conosciuti tanti) gli sollevai proprio questo tema. Dopo un momento di riflessione mi rispose (cito a memoria): «Il non considerare il punto di vista di un vegetale, in rapporto alla sua distruzione, deriva da ciò che si potrebbe definire un vizio antropomorfico»; ed aggiunse che il dolore di ciascun essere era per questo essere tutto il dolore possibile.

Ti confesso che la risposta di questo maestro mi recò un certo sollucchero; anche perché la sua risposta rispecchiava alla perfezione, nel dettaglio, ciò che pensavo. Allora feci un altro passo e gli chiesi con quale coerenza, allora, la dottrina buddhista prescrivesse l’obbligo di astenersi dall’assunzione di carni, mentre lo stesso, alla luce di quanto mi aveva appena detto, non faceva col mondo vegetale. E gli chiesi anche, proprio alla luce di quanto lui stesso aveva ammesso in precedenza (e la stessa domanda giro a te) come facciamo noi ad arrogarci il diritto di determinare quale sia l’orizzonte percettivo delle creature viventi. Il fatto che la nostra idiosincrasia antropocentrica ci impedisce di andare oltre il nostro perimetro, ci autorizza a fare di questo nostro patente limite la misura dei diritti altrui?

(Non è un paralogismo, è una questione dalla forza dirompente).

Il maestro tacque a lungo. C’erano dei discepoli occidentali che già si leccavano i baffi in attesa che il maestro tirasse fuori una risposta capace di stendermi. Ma i maestri buddhisti sono completamente diversi da altri da me incontrati: sono modesti e realisti; non pretendono di avere ragione per forza, anche a costo di sposare l’impossibile.

Infatti, non rispose. Per meglio dire, mi disse, nello sgomento dei buddhistini presenti, che non aveva mai considerato la questione da questo punto di vista. Allora lo incalzai e gli chiesi se considerava legittimo e fondato il mio punto di vista. Qui rispose immediatamente: «Sì». Ci lasciammo con la promessa da parte sua che ci avrebbe pensato. Ora, siccome, come dicevo i maestri buddhisti sono – tra quelli da me conosciuti – i soli coi piedi saldamente per terra, ed i soli che praticano un’umiltà fatta di cose e non di parole, mi chiese di lasciargli nome ed indirizzo, e che quando avesse trovato una risposta mi avrebbe scritto.

Lo fece, circa due anni dopo. In breve, mi scrisse che avevo ragione al 100%. Aggiunse che, però, non avrebbe fatto menzione di questa cosa con alcuno, perché – e questa fu per me la cosa più importante di tutta questa storia – le persone che davvero cercano la verità per la verità sono pochissime, e che proprio per una questione di compassione bisogna evitare di dare motivo di “scandalo” a chi potrebbe essere turbato dalla messa in discussione di un elemento (per la verità secondario, questo lo aggiungo io) della Dottrina. E mi scrisse anche, per dirla tutta, che lui avrebbe continuato la dieta di sempre, giacché era abituato così.

Ora, credo senza dubbio, tu ribatterai che quel maestro non era degno di essere tale. Ed a questo punto io non avrei altro da aggiungere.

La questione, in realtà, è semplicissima. Dukkha non può essere eliminato; esso è da una parte il principale prodotto metabolico dell’esistenza, dall’altro una delle sue condizioni fondanti. Questa curiosa fissazione vegetariana nasce, nella sua forma più alta, dal non considerare, ontologicamente, il Reale come un processo polare vita/morte; esistenzialmente, come una diade inscindibile piacere/dolore. L’uno non può darsi senza l’altro. Può certamente darsi, invece (ed quello che ho sostenuto), una condotta mirata al contenimento “fisiologico” della sofferenza. Questo è ciò che è possibile fare, realisticamente. Il resto è legittimo, come lo è sognare.


Dario Chioli, 28/4/2011

Secondo il tuo concetto, perché non ti mangi il vicino di casa, tanto dukkha è ineliminabile...

In realtà io non ho intenzione di discutere del vegetarianesimo. Ho espresso quanto penso in merito nel mio testo ad hoc (http://www.superzeko.net/doc_dariochioli_saggistica/DarioChioliPercheSonoVegetariano.html), concepito proprio per evitarmi tediose discussioni:

«Concludendo si può sintetizzare dicendo che il vegetarianesimo ha senso se è effetto di un desiderio più generale di non nuocere, di capire la natura e anche il nostro ruolo sovrannaturale in essa. Perché il vegetarianesimo non è naturale, perlomeno in questa natura che noi vediamo, che è piena di violenza, di sopraffazione, anche di torture terribili. È invece eminentemente sovrannaturale, come si confà al ruolo originario di Adamo, che – secondo quanto afferma la Bibbia, e con altri termini più o meno tutte le diverse tradizioni religiose – era quello di governare e nominare le cose del mondo, di deciderne pertanto le caratteristiche, che avrebbero dovuto essere conformi alla sua natura luminosa. Fu infatti quando cadde e la sua mente si offuscò che portò con sé tutto il creato, e nacquero la violenza e la morte.

Il vegetariano dovrebbe avere nella sua speranza il proprio prototipo umano luminoso, l’Adamo dell’Eden, altrimenti la sua posizione sarà difficilmente sostenibile.

Infatti al primo Adamo “Dio disse: «Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo.

A tutte le bestie selvatiche, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde». E così avvenne” (Genesi 1,29-30)».

Checché tu dica non cambierò idea, anche perché tu ti poni in questo caso su posizioni naturalistiche che non m'interessano. E poi manifesti un'idea di etica astratta che non ha senso: io sento parentela con gli animali perciò non voglio ucciderli; che m'importa se tu non la senti?

O pensa a quelle persone che dicono di soffrire e meditano per tutta la sofferenza che c'è nel mondo ma poi non sanno aiutare il vicino di casa: che m'importano le loro masturbazioni mentali? Io estendo la mia amicizia fin dove sento in qualche modo corresponsione; di più non so fare, devo permettere al mio corpo di vivere proprio per perseguire il prototipo luminoso. Meglio qualcosa di niente.

Il maestro buddhista probabilmente ha voluto darti una risposta cortese, o non vedeva davvero come risponderti sul piano razionale, perciò ha trovato supporto nella sua tradizione, e bene ha fatto, perché se, quando non si riesce a risolvere un problema, non si cerca aiuto, il rischio di sbagliare è fortissimo.

Tu hai espresso più volte il tuo disgusto per le tecniche di zootecnia; oltre alle mie già espresse motivazioni, mi pare che astenersi dalle carni di quegli esseri che da tali sadiche tecniche sono stati martoriati potrebbe essere un degno segno di ribellione etica; se no, se ci si rende conto ma non si fa nulla, non si merita forse il nome di ignavi?


Darth, 28/4/2011

Naturalmente, ho letto il testo cui rimanda il tuo link; infatti è da quello che sono partiti i miei commenti.

Caro Dario, forse il punto sta qui. Tu ti muovi su un piano soprannaturale, e non fai un passo se questo non trova il pari analogico nella Bibbia. Io no. La mia vita spirituale – sicuramente povera ed imperfetta – è quella di un umano di questo mondo.

Strano che io riconosca la legittimità di questo tuo porti, mentre, almeno mi pare, non accade il contrario. Né, ancora più ovvio, dovrebbe importarti qualcosa di quello che io non sento. Chi ha mai detto che dovrebbe importartene? («io sento parentela con gli animali perciò non voglio ucciderli; che m'importa se tu non la senti?»). Mi ripeto: quando mai ho detto che dovrebbe importarti?

Una determinata sensibilità, che può entro certi limiti persino essere lodata, non autorizza nessuno a porre la stessa come criterio di elevazione spirituale.

Cristo moltiplicò i pesci affinché fossero mangiati, e ne mangiò; e mangiò carne tutte le volte che ci fu carne da mangiare. Cos'è, era distratto? O un buzzurro privo di sensibilità? Uno come Cristo poteva ignorare quello che tu dici a proposito del mangiar carne? Suvvia! Per non parlare di una schiera davvero innumere di perfetti santi e realizzati, della cui scelta vegetariana non si ha notizia. Ma forse non erano abbastanza soprannaturali, o magari furono scarsi conoscitori della Bibbia. Sennò come si spiega?

«Checché tu dica non cambierò idea».

Tu cambieresti idea, forse, solo se il Cielo si aprisse; ma dovrebbe accadere esattamente alla maniera biblica, come da manuale; sennò, neanche quello basterebbe.

Quel maestro buddhista non mi ha "scaricato" per pura cortesia. La sua risposta, che mi giungeva dopo due anni, era ponderata, dettagliata, ed argomentata; e corrispondeva – salvo sfumature di poco rilievo – alla posizione che ho cercato di esporti («anche perché tu ti poni in questo caso su posizioni naturalistiche che non m'interessano»). Si vede che anche questo poveretto si poneva su posizioni naturalistiche; dato che sottoscrisse il mio argomento, nella premessa e nella conclusione. Aveva 65 anni, credo, all'epoca. 45 anni di pratica spirituale buttata alle ortiche. Cosa siamo!

« [...] concepito proprio per evitarmi tediose discussioni».

Mi scuso, pertanto, di averti tediato. Non succederà ancora.


Dario Chioli, 29/4/2011

Spero tu non ti sia offeso per quel "tediose". Devi capire che sono trentatrè anni (da che sono vegetariano) che più volte all'anno (o magari al mese) qualcuno mi chiede di spiegargli perché sono vegetariano, e la mia risposta, come hai potuto constatare (so benissimo che il testo l'hai letto), non è semplice da mandar giù. Pertanto è proprio vero che ho steso quella pagina per non rispondere più direttamente. Cioè: sono disposto a rispondere a specifici quesiti inerenti alla coerenza interna della mia posizione, non a quesiti che pongano in questione la posizione stessa. Non per arroganza, ma per stanchezza. Tanto chi vuole rimanere carnivoro non si convincerà mai; è chi ha già di suo deciso di astenersi dall'uccidere che è disposto ad incontrarsi con le mie posizioni, magari per confermare meglio qualcosa che già gli appartiene.

È sempre il motivo iniziale del perché scrivere: sull'orlo tra una posizione e l'altra, pronto a incontrare chi voglia passar di qua ma abbia bisogno di una mano; nessuna invasione di campo però: chi vuole proseguire con le sue abitudini faccia. Del resto l'ho detto io stesso che non si tratta di obbligo, né penserei mai di chiedere all'eschimese (se ne esistono ancora di quelli d'una volta) di nutrirsi di alimenti che non ha a disposizione. Del resto per non morire di fame si possono divorare anche i morti. Ma dove è possibile si può ragionare.

È vero, io sono convinto che una posizione puramente "umana", sia in fatto di etica che di religione, sia un nonsenso. L'uomo è un essere in transizione, quel che conta è la sua entelechia.

Cristo mangiò pesci è vero, né si può pretendere che chi voglia rivoluzionare la vita dei suoi simili possa assumere posizioni troppo distanti da quelle comuni nella vita ordinaria. Una religione come quella jaina, i cui aderenti non dovrebbero usare l'auto, bensì mettere la mascherina e stare attenti a dove mettono i piedi per non uccidere degli insetti accidentalmente, non è accessibile alle masse. Così pure la vita dell'eremita.

Ma io non devo fondare religioni, e poi il vegetarianesimo è oggi, sia pure per ragioni spurie, molto più noto e diffuso di duemila anni fa.

E ad ogni modo te lo vedi Gesù, o san Francesco, a torcere il collo alle galline o tirare con la mazza sulla testa dei buoi? E poi, chissà, se fossimo in grado di moltiplicare i pesci, probabilmente le nostre prospettive sarebbero diverse dalle attuali...

Non volevo dire che il maestro buddhista volesse scaricarti. Probabilmente non ha trovato risposta diversa alla domanda che gli hai posto. Tuttavia ha mantenuto la sua posizione, ovvero le proprie abitudini dietetiche, forse perché non ha trovato modo di nutrirsi di sola aria. Ma io non parlo solo di rispetto della vita, bensì di parentela: anche tu ti occuperai più spesso dei tuoi cugini di primo grado che non di quelli di quindicesimo, che probabilmente neppure conosci. Certo quindi che è una posizione antropocentrica; come potrei, uomo, non esserlo in campo etico? Teocentrico, in campo spirituale; antropocentrico, in quello etico. «Se non ami il fratello che vedi come puoi amare Dio che non vedi?»

Che il Cielo si apra per farmi cambiare idea, è un'ipotesi che dà troppa importanza alla mia persona. Diciamo che le tesi che espongo le ho collaudate negli anni e fino a un certo punto funzionano. Oltre quel punto lì c'è solo star zitti e ascoltare.


Darth, 5/5/2011

Uno degli ammonimenti più ricorrenti del Buddha fu la messa in guardia contro il pericolo, che lo Svegliato vedeva incombere, come una minaccia micidiale sulla Dottrina e sui discepoli, dell’adesione cieca e dogmatica; sul “se così ha detto il Buddha deve per forza essere vero”. Insomma, sull’a priori.

Alle insidie di questo pericolo – che tutti riconoscono a parole, e persino con zelo (quando si tratta di metterne in guardia altri) – pochissimi oggi ed ieri sono sfuggiti. Il senso di sicurezza che si ha nell’essere – o sentirsi – nel giusto mette in riga la ricerca della Verità.

«Esaminate la validità dei miei insegnamenti come esaminereste la purezza di una pepita d’oro, colpendola con un martello e facendola fondere. Non accettate ciò che dico per semplice rispetto verso di me e la mia autorità».

Questo affermò Gautama: parole di galantuomo per galantuomini. Dario, io non devo venderti alcun prodotto; non mi procura alcun piacere avere ragione; ed anzi, alla ragione preferisco il torto. Dalla prima non apprendo nulla, dal torto – se si dimostra tale – ho la possibilità di correggere un errore. Se è la stessa cosa anche per te, allora c’è la possibilità che questo scrivere abbia un senso, diversamente no.

È dalla fine del liceo che sto dietro allo studio delle dottrine spirituali. Questo non mi ha portato solo alla metabolizzazione di migliaia di testi, ma anche alla conoscenza diretta (ed in alcuni casi quasi diretta) di molti maestri, o cosiddetti tali. Alcuni, anche di gran nome e con seguiti sterminati, si sono rivelati dei semplici pendagli da forca; altri erano davvero dei sant'uomini, con tutti i carismi che frequentano i sant’uomini. Ma nessuno di loro – sottolineo nessuno – era infallibile, come sosteneva di essere, per tutti gli aspetti della dottrina. Questa, almeno, è stata la mia personale esperienza; ed entro i limiti di questa parlo.

A questa regola ho però trovato eccezione in un solo caso: il mondo buddhista. I tre o quattro maestri buddhisti che ho incontrato erano tutti disponibili ad un ascolto vero (e non di supponente cortesia) dell’interlocutore e, soprattutto, salvo che le questioni base, erano sempre aperti a cambiare idea su qualsiasi aspetto relativo della loro dottrina. È la struttura stessa della dottrina buddhista, infatti, nella sua essenza antidogmatica che permette – di fatto, e non soltanto in una remota teoria – la differenziazione tra Verità di Principio e verità relative. In presenza di fatti ed argomenti che provino l’errore (totale o parziale) di una verità relativa fino ad allora ritenuta inattaccabile, il buddhista, sempre che non sia proprio ottuso di proprio, cambia idea. Gli altri no; o, perlomeno, la disposizione a cambiare idea – in base alla mia lunga esperienza – segue i seguenti gradi di difficoltà.

In generale, quale che sia la “fede” professata, è praticamente impossibile discutere coi convertiti. Puoi mostrargli la luce di un mezzogiorno di ferragosto, ma, se questo fatto contrasta con l’idea che questi si sono fatti della dottrina, allora negheranno che ci sia luce. La cosa tragica e singolare è che lo faranno in buona fede: la loro ossessione dogmatica impedisce loro di vedere la luce.

Diversamente, come detto, nella quasi totalità dei casi i buddhisti sono aperti, disponibili e persino lieti di accogliere eventuali apporti (ricordo per l’ultima volta che mi riferisco alla revisione di punti relativi, ma non per questo di scarsa importanza).

Con gli indù la cosa rimane ancora possibile; ma è già più dura. Taoisti veri ne ho conosciuto solo uno, non avevo da contestargli nulla, anzi, gli rimango in debito di avermi chiarito alcune cose. Davanti ai tre monoteismi, il discorso cambia radicalmente. Chi ha respirato altri climi avverte questa cosa come, per farmi capire, si può avvertire la differenza tra l’aria che si respira in una città e quella che si respira in montagna. Quest’immagine non è mia; mi è stata proposta da un indù colto, alle prese con lo studio dei tre monoteismi. Convincere un monoteista a cambiare idea su qualcosa – anche punti del tutto secondari – è quasi come persuadere Pippo Baudo a starsene finalmente a casa e rinunciare alle telecamere.

Qualche chance la si ha, per il vero, coi cristiani, soprattutto quelli d’oriente. Con qualcuno di costoro si può azzardare una discussione; anche se per evitare di respirare l’aria da primi della classe che producono ad ogni parola dovresti chiuderti in uno scafandro. Gli ebrei – i tentativi seri sono stati tre – ti ascoltano per educazione. Anzi, per la verità, ti ascoltano senza ascoltarti; in realtà non hanno nessuna vera curiosità, o se preferisci interesse, per qualsiasi cosa tu avessi da dire. Loro hanno il Libro; e questa è una cosa definitiva, irreversibile; un fatto assoluto, come la Parola di Dio. Però, dato che è gente sofisticata, ti lascia parlare. Ci può essere l’universo intero ad urlare le sue ragioni, una montagna di fatti, argomenti inconfutabili: vale meno che zero. Se anche una virgola del Libro contraddice un universo di fatti, allora significa che quei fatti sembrano fatti; e magari lo sono. Però, ed è il massimo della concessione, sono fatti naturali, mentre la virgola che li contraddice è soprannaturale.

Ora, questo è il preciso contrario non solo dell’insegnamento del Buddha, ma di qualsiasi mente di contadino dal cervello fino. È contrario al buon senso, all’etica, alla ragione, ed allo Spirito di Verità.

E qui torno ad un discorso che ti ho già proposto: una cosa è vera perché la dice la Bibbia, o la dice la Bibbia perché è vera? Ossia, gli insegnamenti del Buddha sono veri sulla base della sua autorità, oppure la sua autorità deriva – a posteriori, a posteriori, a posteriori – dalla verificata verità dei sui insegnamenti?

Per un non monoteista la differenza dei due casi è abbagliante; così come le sue conseguenze.

Ma il monoteista che fa? Certo, non può eludere la questione, ed allora finge di affrontarla e risolverla col seguente stratagemma: «È una falsa alternativa – egli dice –, il fatto che Dio affermi una cosa ed il fatto che questa si rivela vera coincidono; non sono due fatti, ma uno solo».

Ora, verrebbe da ridere, se non fosse che questo atteggiamento (che si allarga ad uno “stile mentale” generale) ha portato ad una serie interminabili di sciagure nel corso della storia (ne accenno dopo). Ci si chiede come possa darsi che persone di intelligenza anche elevata non si rendano conto che quel ragionamento è di una fallacia abbagliante. Ossia è falso! Precisamente si tratta di quel genere di fallacia conosciuta come petitio principii, che, in termini semplici è questo: la tesi che sta alla base della dimostrazione dà per scontato che sia vera l'affermazione che deve essere dimostrata. Fatto questo giochino, ci si basa su questa affermazione per dimostrare il fatto che essa è vera. È una cosa pazzesca, demenziale, eppure non si riesce a far rinsavire chi ci casca. Ma se proprio si insiste, se non si molla la presa e si porta l’interlocutore quasi con la forza a confrontarsi con l’insensatezza della propria posizione, allora avviene il miracolo finale: con uno svolazzo al pari del quale quelli di Pindaro erano solo dei saltelli, il monoteista con la testa da monoteista ti informa (con un certo fastidio) che i tuoi ragionamenti sono solo naturali! Dunque, fino a quel momento il ragionamento solo naturale andava bene, ed il monoteista lo accettava , lo seguiva, e vi argomentava; ma non appena il ragionamento solo naturale ha mostrato una patente ed inconfutabile insensatezza nel discorso del monoteista, allora, zacchete, con un volo tra le rarefatte altitudini delle Sacre Scritture si tronca il discorso (che, diciamolo pure s’era fatto troppo profano).

Ebbene, questo, intellettualmente parlando, è di una scorrettezza che si qualifica da sola; oltre al fatto che produce frutti avvelenati. Chissà come mai non si conosce un solo caso di guerra provocata da buddhisti. In Cina, le guerre tra dinastie e fra feudatari furono sempre provocate dal mandarinato confuciano; mai dall’elemento tao-buddhista. In Giappone, quasi idem; qui la differenza consiste nella presenza e nell’incidenza dello scintoismo; che, potendosi in qualche modo apparentare al monoteismo, è bellicoso di suo. In India, se si escludono i resoconti del Mahabharata e del Ramayana (a proposito dei quali si potrebbero fare interessanti considerazioni che però ci porterebbero fuori tema), pur in presenza di numerosi conflitti, siamo ad anni luce dalla guerra di religione perpetuata che ruota attorno ai tre monoteismi. Ed infatti, a parte piccoli focolai locali, non mi risulta che oggi l’India sia in guerra.

Per un verso o per un altro, le tre religioni monoteiste non hanno mai finito di confliggere; e come avrebbero potuto, partendo dalla “postura mentale” cui accennavo prima? In verità il cristianesimo, in questi ultimi tempi storici, ha dato segni di una certa differenziazione rispetto ad ebraismo ed islam; ed infatti, le sue guerre di religione sono cessate da un pezzo. Ma chi può davvero pensare che teste e mentalità come quella ebraica e quella musulmana possano convivere sulla Terra senza provare l’irresistibile impulso a scannarsi a vicenda? I fatti umani sono sempre conseguenti ad una visione del mondo. Quella di ebrei e musulmani è una visione, se così posso dire, assoluta, senza fessure. La differenza tra i due casi sta nel fatto che gli ebrei, incomparabilmente più sofisticati del musulmani, sono più adattabili alle condizioni di fatto del mondo in cui vivono. I musulmani no; ed infatti, non rimanendo loro altro che la violenza, sono i più pericolosi del pianeta. Tout se tient. Ebrei e musulmani hanno ragione a priori nelle cose assolute, giacché assoluto è il loro Libro; ergo hanno per forza ragione sul contingente. Non c’è cesura tra le due cose; sta qui la tragedia. La controprova? Chissà come mai la Terra Santa è un’oasi di pace!

Far cambiare idea ad un ebreo o ad un musulmano è un’impresa impossibile; salvo nel caso di ebrei del tutto laicizzati. Coi musulmani è impossibile e basta.

Il caso di Davide.

Tu mi chiedi cos’è che non mi convince; ed io, francamente trovo questa domanda stupefacente. Dunque, vediamo. Metti un tuo conoscente che per scoparsi una tipa si finge buon ospite, e poi, non avendo neppure le palle per fare il lavoro con le sue mani, inscena una specie di incidente per ammazzare l’ospite; ed infatti lo ammazza e quindi si scopa la moglie dell’assassinato. Bel tipo, vero! Si potrebbe dire, a sua scusante, che il tuo vicino assassino e testosteronico sia stato indotto a tale azioni banditesche dal comportamento generale – dall’educazione insomma – di quel galantuomo di suo padre, il quale, non contento di aver cercato di uccidere il figliolo, tanto per gradire ed anche un po’ per il caratterino ordina una stragina (ma roba da poco), e scatena una guerra di quartiere (ma roba da poco). Certo, c’è da considerare che con un padre così il tuo vicino di casa qualche attenuante l’aveva. Una bella famigliola, insomma. Ok, al tuo conoscente riconosciamo qualche attenuante, anche perché, alla fine pare che si penta, e combini qualcosa di buono.

Ma dopo quello che ha fatto, tu penseresti lontanamente di chiamare uno così Messia? Certo che no, come potresti? Infatti, il tuo vicino, magari, si chiama Esposito. Ma quello, quell’altro si chiama nientemeno che Davide e quindi, ovviamente è tutt’altra cosa. Si chiama Davide, e deve essere un Messia. Deve esserlo per forza, giacché è l’etichetta che conta; se hai quella giusta sei un Messia, se hai quella sbagliata, sei un poveraccio fantozziano con un padre da manicomio. Quello giusto fa precedere le sue azioni dall’etichetta “Davide”, quello sbagliato fa precedere le identiche azioni dall’etichetta “Esposito”. Vuoi mettere? E poi, come che sia, chi siamo noi per discutere di queste cose visto che non c’eravamo all’atto della creazione del mondo? Giusto, vero e conseguente! È così che si ragiona.

Un episodio isolato? Come ti dicevo il Vecchio Testamento è zeppo di storie che fanno accapponare la pelle per la loro allucinante assurdità. La sequenza che porta alla maledizione di Canaan, per esempio, lascia senza fiato. Non si sa se ridere, piangere, mandare a quel paese o cosa. Insistere per trovare una spiegazione a storie come queste, tirando in ballo simboli, numeri, analogie, criptologia, ispirazioni celesti, trasmutazioni alfanumeriche, lascia in qualsiasi persona di buon senso un sapore sgradevole.

In ogni caso, dato che alla fine dovremo dar conto dell’uso che abbiamo fatto della nostra intelligenza, ciascuno è libero di regolarsi come crede.

Vegetarianismo.

Sono andato in cantina a cercare la lettera di quel maestro buddhista di cui ti avevo parlato. Ho messo un po’ sottosopra, ma alla fine l’ho trovata; assieme ad altri ricordi. È una lettera molto lunga, in un inglese approssimativo; te ne estraggo i punti salienti, ovviamente con degli omissis. Ho aggiustato qualcosa del testo originale, qua e là, solo ed esclusivamente nella forma e nella punteggiatura.

«Ho riflettuto a lungo sugli argomenti da lei sottopostimi nel nostro incontro; ho anche parlato di questo tema con alcuni miei allievi qualificati. [...] Le ragioni da lei poste a sostegno della sua tesi sono inconfutabili. [...] Tutti i suoi argomenti sono corretti; ma quello decisivo riguarda l’impossibilità di determinare quale sia il confine della commestibilità. Perché un pollo no e una mela strappata dall’albero sì? La mela è meno essere vivente del pollo? Qual è il criterio oggettivo da seguire per determinare ciò? Per non cadere in contraddizione si dovrebbe aspettare che la mela cada, e solo dopo mangiarla. [...] Lei ha ragione nell’affermare che solo ciò che proprio lei stesso ha chiamato “idiosincrasie soggettive” possono determinare il confine della commestibilità. Ma questo, cioè l’utilizzo di tali idiosincrasie soggettive, non è compatibile coi principi della Dottrina Buddhista (il sottolineato è mio). [...] Comunque sia, io continuerò il mio regime alimentare, e la stessa cosa, forse con l’eccezione di uno, faranno quegli allievi di cui le ho parlato. Il fatto è che sono buddhista e vegetariano da 45 anni, e non sento alcun bisogno di cambiare e mangiare prodotti del mondo animale o da esso derivati. [...] Inoltre, per onestà devo comunicarle che eviterò di parlare coi miei allievi della nostra questione. Su questo le devo una spiegazione: molte persone cercano nella via spirituale un mezzo per gratificare se stessi con una vita che abbia significato. Lei capisce bene che questo è uno scopo egoico; ma un maestro deve lavorare col materiale che ha, e cercare di sfruttare tutto quanto è possibile, anche inganni a fin di bene, per arrivare allo scopo. È per questo che non cambierò il mio insegnamento su questo punto; non perché lei non abbia ragione, ma perché per molti la sua ragione sarebbe poco comprensibile. Quanti sono quelli che veramente cercano la verità? [...] La lascio coi migliori auguri di pace».

Mi pare che ogni commento sia superfluo.

Voglio aggiungere, e finisco, che se non sbaglio pochi testi come il Vecchio Testamento sono così grondanti del sangue di animali di ogni genere (per tacere di quello degli animali umani). Ad ogni stormir di fronda era prescritto e gradito a Dio uno sgozzamento, una macellazione, un’azione violenta e cruenta verso animali.

Ancora oggi, negli ordinari macelli, si ammazza la vittima con un colpo alla testa di pistola captiva con una punta di metallo di almeno 6 centimetri. L’animale muore e basta. Dalle parti veterotestamentarie e coraniche la macellazione implica un’agonia…

Potrei continuare per settimane. Pietro, il fondatore della Chiesa di Cristo era un pescatore: un serial killer, dunque; così come Giacomo e Giovanni. Cristo se li è scelti proprio bene!

Vedi, io non avrei mai scritto: «non mi farai mai cambiare idea». Davanti ad argomenti veri, non solo non ho difficoltà a farlo; ma anzi ne sono lieto. Correggere un errore è salutare. Le sole Verità immutabili sono quelle metafisiche. Ma anche qui bisogna andarci coi piedi di piombo. Se non si è data almeno un’occhiata “di là”, l’affermazione precedente patisce il rischio di diventare dogmatica; ossia suona falsa. I dogmi vanno bene in ambito religioso, e solo in quello.

Non mi aspetto che tu cambi idea; non è per questo che ti scrivo. L’intelligenza e la buona fede non c’entrano; tu hai l’una e l’altra; ma non cambierai idea. È la mente umana che è fatta così. Einstein negò fino alla fine l’evidenza assoluta del fallimento del suo modello deterministico. Col famoso esperimento EPR ebbe la dimostrazione irrefutabile che, circa la meccanica delle matrici, lui aveva torto, e Bohr, Schrödinger, e Heisenberg avevano ragione. Ma negò l’evidenza.

P.S. – Per la cronaca, mangio pochissima carne e pesce. Potrei morire, ma non mangerei uova di galline torturate nelle gabbie, e cose simili. Il mio solo criterio di selezione è che le bestie non vengano torturate e siano trattate con dignità. Per il resto, mangiamo e siamo mangiati.


Dario Chioli, 5/5/2011

Sulle parole del Buddha, niente da dire, se non che, applicando le sue parole adeguatamente, secondo me si giunge alla posizione delle Madhyamakakarika di Nagarjuna (uno dei testi che forse più sento vicino), e pertanto al paradosso, oltre cui la comprensione è per forza metarazionale. È per questo che il chan ha sviluppato lo strumento del koan, che certo non è una manifestazione della dialettica aristotelica.

Non condivido che si possa esprimere valutazioni generali sugli aderenti alle varie tradizioni basandosi sui casi a noi noti. Ogni essere è unico, a prescindere dalla sua adesione a una tradizione, per cui il discorso generalizzante lascia il tempo che trova. Ti ripeto poi che è molto più facile trovare corretta una tradizione che non ci è prossima, perché di quelle prossime si sono sperimentati molto meglio i difetti, mentre quelle dell'altra parte del mondo ci mostrano solo i loro tratti più accattivanti.

Ti ricordo altresì che in India si è ripetuto spesso il massacro tra indù ortodossi ed islamici ortodossi, e non è sempre colpa degli islamici. All'atto della separazione di India e Pakistan morirono a milioni, e non da una parte sola. Quanto alla benevolenza indù, amici che ci sono andati mi raccontavano dell'invisibilità dei fuoricasta, che possono morire di fame e stenti senza che gli altri – i puri dvija – li vedano. E quanto ai buddhisti, vorrei sapere dai tibetani del primo novecento quanto apprezzassero davvero doversi sobbarcare il mantenimento di una moltitudine di preti ignorantissimi (uno ogni due laici, se ben rammento, e studiavano a memoria senza capire cosa), e ricordo che il Tibet aveva e praticava la pena di morte.

Quanto alla tua polemica sul monoteismo, ne conosco benissimo le ragioni logiche. Mesi fa emersi alquanto disgustato dalla lettura della Città di Dio di sant'Agostino, e sto in questi giorni leggendo le critiche feroci alla Chiesa della Blavatsky (Iside svelata), che sono spesso motivate, anche se non sempre.

Quanto agli ebrei e agli islamici, sono gli uni una minoranza con le strategie di difesa classiche delle minoranze, e gli altri una tradizione giovane, ancora in epoca medievale rispetto al cristianesimo, e che per giunta ha dovuto a lungo fare i conti col colonialismo travestito da cristiano agnello.

Quanto a Davide, evidentemente tu parti dal principio che gli antenati del Messia debbano essere tutti santi, ma dovresti prendere in considerazione l'idea che Dio sia sufficientemente santo di suo da mettere a frutto anche le bestialità degli uomini.

Dopodiché la storia di Davide e le altre storie bibliche sono solo storie realistiche, molto più, p. es., dei Jataka buddhisti, che di razionale non hanno proprio niente, e di storico nemmeno. Ed anche l'idea che il santo non pecchi mai si scontra con constatazioni del tutto contrarie, anche in campo buddhista – pensa ad Ashoka che massacrò a lungo prima di convertirsi.

Quanto a Canaan e ai genocidi, certo è difficile mandarli giù. Ma vogliamo magari paragonare gli stermini del Ramayana? Non per scusare gli uni o gli altri, ma per segnalare che il dilemma è universale.

Riguardo alla lettera del maestro buddhista, non è che mi colpisca molto. Evidentemente le sue ragioni di vegetarianesimo non gli erano chiare. Per me si tratta, te l'ho già detto e ripetuto, da un lato di una sensazione di "parentela" con l'animale, e d'altro canto della ricerca, destinata a non attuarsi finché vivo nel mio corpo fisico, di una vita nonviolenta e perciò non naturale bensì sovrannaturale.

Io non mi baso sulla Bibbia, se non come uno dei tanti riferimenti che mi vanno a genio. Per parlare con i cristiani, la trovo utile, e la trovo utile per affrontare la mia propria storia personale, visto che al cristianesimo ci sono nato in mezzo.

La mia via è in primo luogo poetica e in secondo luogo segue quanto espresso trentasette anni fa nel mio testo su Scetticismo, sofistica ed eclettismo. L'esperienza ha preminenza sulla speculazione; non negherò ciò che sperimento sulla base di una contestazione razionale. La ragione deve piegarsi e spiegare il vissuto; non già il vissuto limitarsi per inquadrarsi in un modello sedicente logico. 

  

 

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