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Sommario del sito

LA RELIGIONE E LA STORIA

PROBLEMI E IPOTESI

Clericus

 

Sommario: 

 Introduzione - Forma o contenuto? - Attualità di un’analisi sul contenuto religioso nella Storia - La dimensione autonoma del sacro - La dimensione storica del sacro - Le religioni come vie di salvezza - Affermazione dell’io individuo e Divinità suprema - La dimensione culturale del sacro e della rivelazione - Fissità delle religioni storiche - La questione del potere: 1.Rilevanza dell’argomento - 2.Le varie forme del potere - 3.Differenziazione o integrazione - 4.Alcuni problemi sulla consistenza del concetto di potere religioso - 5.Altri problemi sull’unicità del concetto di potere religioso - 6.Ulteriori considerazioni - 7.Rapporti tra potere secolare e forme religiose nelle epoche passate - I limiti dell’analisi - Certezza e indeterminazione - Razionalità e significazione religiosa - Religione e ideologie - Appendice: l’assoluto

 

Introduzione

Quanto segue trae spunto occasionale dal fenomeno integralista, ma intende analizzare alcuni problemi inerenti al rapporto tra religione e storia.. Avevo considerato l’estremismo islamico - in particolare il ruolo di Bin Laden e al-Qa`ida (*) - soprattutto alla luce di categorie interpretative politiche e sociali di uso comune, che fino a un certo punto ci permettono di definire il fenomeno esplorandone la dinamica e il significato storico. Ma ogni interpretazione ha dei limiti, e in questo caso il limite sta nella valenza religiosa dell’integralismo (non faccio nessuna ipotesi sulla sincerità o meno di un adepto, o sull’autenticità nel senso della coerenza con la tradizione religiosa). È difficile sistematizzare manifestazioni religiose (nel senso di eventi cui viene intenzionalmente dato o riconosciuto un significato religioso) secondo le categorie razionali, essendo queste essenzialmente a-religiose [per categorie razionali intendo gli strumenti concettuali del discorrere politico sociale ed economico, con la pretesa che lo sviluppo degli eventi sia interamente interno al processo storico e che questo sia in sé concluso e definito]; si può tentare di riuscirvi solo nella misura in cui si distingua tra contenuto storicamente determinato (per es. un conflitto tra comunità diverse) e una forma, appunto religiosa, che interpreta il contenuto. L’approccio contemporaneo delle scienze storiche e sociologiche procede in questo modo, ma i limiti di tale impostazione sono evidenti.

(*) Cfr. Clericus - Interpretazioni dei fatti dell'11 settembre (aprile 2002).

 

Forma o contenuto?

Che le religioni possano rivestire di particolari significati non solo il vissuto individuale, ma la stessa materia storica, è assolutamente fuori discussione. Resta da vedere se si tratti solo di un rivestimento (al limite, di una mera forma espressiva) e, nel caso in cui non sia così, in cosa consista lo specifico contributo religioso come sorgente autonoma nel e del dispiegarsi della Storia. (*)

(*) Onde evitare equivoci, intendo la “Storia” nel senso stretto, diciamo scolastico, del termine, in contrapposizione alla Preistoria, come totalità degli eventi passati e presenti documentati. Lo sviluppo arcaico dell’umanità, oggetto della paleontologia, non fa parte del processo storico. Formalmente, la “Storia” può essere intesa come il diversificarsi nel tempo delle modalità associative a partire da una presupposta struttura originaria statica, o quasi statica

Si potrebbe accettare un punto di vista per es. cristiano, che ammette la Provvidenza, e vedere l’intera Storia come permeata di significato religioso - così era pure per l’antico Israele, e s noti che tutti i calendari ammettono un punto di separazione ante e post un evento di significato religioso, come la nascita di Cristo, o l’egira - come si può interpretarla senza ricorrere al trascendente.

Ma si può anche ipotizzare ironicamente che un dato principio interpretativo valga quanto qualsiasi altro: il valore di una teoria interpretativa dipende o no dalle previsioni corrette che essa riesce a fare? Da questo punto di vista, la prima legge di Murphy (*) vale altrettanto, se non più, del materialismo storico di Marx. Il fatto è che nessuna interpretazione della Storia riesce a prevedere alcunché: e se qualcuno talvolta vi riesce, si tratta appunto di un caso. Anche per questo motivo, possiamo adottare di volta in volta punti di vista diversissimi e scoprire che ci soddisfano se applicati a certi eventi, fallendo miseramente con altri. Infatti non c’è, né verosimilmente vi sarà mai, una teoria deterministica della Storia.

(*)  “Se una cosa può andar male, lo farà” - incontestabile.

Il difetto di un approccio genericamente provvidenziale è che fornisce un senso agli avvenimenti, anzi addirittura li crea, ma non giunge alla loro spiegazione logicamente consequenziale. Cercherò di chiarire: prendiamo la vicenda dell’Impero Romano. Su un piano provvidenziale, il suo formarsi e il suo dissolversi hanno un significato: l’Impero consente lo sviluppo del Cristianesimo, e dissolvendosi ne invera la definitiva affermazione, integrando i popoli germanici nella nuova società cristiana. Analoga è la visione tradizionale degli Ebrei e dei Musulmani. Da questo punto di vista, non importano le cause immanenti al divenire: importa solo il suo significato rispetto al disegno divino. Ignorare le cause interne al processo storico è mistificante, ma trascurare i significati religiosi rende ogni vicenda priva di senso inteso come valore - un puro processo sequenziale. Il fatto è che significato religioso e causalità sono reciprocamente esclusivi, pur sviluppandosi su piani intersecantisi.

Ammesso e concesso che esista non solo una forma religiosa della materia storica, ma anche un contenuto specifico come principio generatore di situazioni concrete, ben presente nella stessa sostanza degli eventi [chiariamo: non faccio qui riferimento alle interpretazioni di natura religiosa quali possono essere quelle di tipo provvidenziale o escatologico, ma alla presenza di un materiale religioso attivo, considerato fuori dalle sopraddette interpretazioni], ebbene come deve essere analizzato? Un metodo è quello di ricostruire un certo tipo - per esempio, l’Uomo Medievale - o una certa forma artistica - per esempio, l’Architettura Gotica - o uno stile di pensiero - per esempio, la Filosofia di Tommaso d’Aquino. È constatazione banale che queste descrizioni implichino necessariamente il contenuto religioso; ma sono descrizioni statiche di tipi, stilemi, costruzioni compiute. Qui il problema non è solo il riconoscimento dell’elemento religioso in una immagine fissa. Qui si tratta di analizzare il religioso come una causa materiale ed efficiente nella catena infinita degli eventi che sono la sostanza della Storia, senza adottare un punto di vista religioso.

Un metodo più adatto al carattere diveniente della Storia parte dalla considerazione che la religione non esiste come principio isolato, allo stato puro, ma viene manifestata nelle sue produzioni, anzi nelle sue commistioni con le cause reali che producono materialmente gli eventi storici. Le religioni permeano strutture e sovrastrutture tradizionali (l’arte, il diritto, il pensiero…), ma se ci limitiamo alle connessioni con il divenire storico, nel senso principalmente delle trasformazioni politiche ed economiche, allora emergono alcuni nodi centrali, in particolare: il problema del potere, il formarsi del mondo moderno (secolarizzato), la consistenza reale delle strutture religiose nel mondo secolarizzato, l’irreversibilità o meno del processo di secolarizzazione. Questi quattro punti sono intimamente legati tra di loro.

 

Attualità di un’analisi sul contenuto religioso nella Storia

Ma perché considerare certe questioni? Non si può non avere la sensazione, molto forte, che negli ultimi venti-trent’anni siano avvenuti certi mutamenti. Queste cose non succedono improvvisamente: quando te ne accorgi, buona parte del processo ha già avuto luogo, a latere del processo storico). A ben guardare, nell’ultimo trentennio abbiamo assistito all’insorgere di qualcosa che potrebbe ancora regredire, o assurgere fino a un massimo controllabile, o progredire fino a riformare le strutture del mondo attuale.

Tra le novità dell’ultimo scorcio del XX secolo, ve n’è una largamente imprevista fino a tutti gli anni ’60 (o forse siamo semplicemente ciechi. Colpa dei mass media, che parlano solo dell’attualità più invadente citando opinioni alla moda?). Si tratta del risorgere del potere religioso. Intendo non solo il risorgere delle religioni, o per essere più precisi dell’attenzione verso le religioni, ma il ricostituirsi dell’influenza e della capacità di agire delle strutture religiose. È da vedere se ci troviamo all’interno di un processo di ricostruzione di comportamenti o di una coscienza autenticamente religiosa; ma che sia in atto - in misura molto variabile da Paese a Paese - un riaffermarsi del potere di natura religiosa, è fuori discussione. Nel caso dell’Islàm, il fenomeno assume dimensioni notevoli. Inoltre è evidente la simultaneità con l’attuale fase di mondializzazione dell’economia nota volgarmente come globalizzazione; sorge il dubbio che vi sia qualche connessione. Anzi il rapporto c’è, dato che fondamentalmente non esistono né realtà locali, né momenti separati del divenire.

[Semmai, si può dissentire sull’inizio cronologico di tale processo. Si potrebbe osservare che il fenomeno del revival religioso era diffuso negli Stati Uniti, specie negli Stati del Sud, già negli anni ’60 (come non ricordare Jimmy Carter? e che dire di Ronald Reagan, che voleva (re)introdurre le preghiere a scuola?), e che la setta del reverendo Moon risale agli anni ’50. Ma le manifestazioni più evidenti operano dagli anni ’80: espansione dell’integralismo islamico, riaffermazione del Cattolicesimo e delle Chiese ortodosse nell’Est europeo] .

La cosa è abbastanza sorprendente, tant’è che gran parte della cultura accademica - autentica sovrastruttura ideale del mondo attuale - non usa neppure una terminologia specifica, nemmeno quando analizza i fenomeni religiosi o pseudoreligiosi in base alle sue categorie socio-psicologiche. Inoltre, su un piano storico, sembrava che la dimensione religiosa, e in particolare la presa sulla società, fosse in continuo ridimensionamento, a parte recuperi temporanei forzati da cause politiche, almeno a partire dal XVIII secolo. In effetti, la fine del “socialismo reale” e il contemporaneo esplodere dell’integralismo islamico sembrano segni di una nuova pausa d’arresto del processo di secolarizzazione, se non un punto di svolta. Chi l’avrebbe mai detto, negli anni ’60, che all’inizio del XXI secolo ci saremmo ridotti al confronto con l’Islàm? E inoltre, con quali strumenti analitici e secondo quale punto di vista definire tale confronto? le ideologie trascinatesi per tutto il XX secolo e nate in realtà nel XIX se non prima? la lotta di classe? il terzomondismo? la psicologia delle masse? il liberalismo? il neoliberismo? E quale soluzione adottare? il principio della libertà di religione? la creazione di una nuova sintesi religioso-culturale, pur nel rispetto delle differenze? la coesistenza pacifica? promuovere massicci investimenti in loco? o ha ragione Le Pen? In certi momenti non si parla d’altro che dei rapporti con l’Islàm.

[Anche i nostri ecclesiastici parlano spesso dei rapporti tra Cristiani e Musulmani. Non riesco a capire se parlano solo in quanto Cristiani e per i Cristiani, o se intendono assurgere al ruolo di maestri della mediazione tra Occidente e Islàm. Tra l’altro: chi sono i Cristiani? Peraltro non esternano tutti lo stesso pensiero: per esempio, il Cardinal Biffi è, diciamo, un po’ freddino con gli immigrati di altre religioni, mentre Papa Wojtyla ha espresso rincrescimento per le Crociate…Parlano come se oggi il Cattolicesimo possa veramente porsi sullo stesso piano dell’Islàm. Come se una ideologia religiosa che non controlla quasi nessuno dei centri nevralgici del mondo occidentale abbia il potere di parlare a nome degli occidentali. Quasi che l’alternativa sia quella tra Cristianesimo e Islàm, e non tra una religione tuttora presente nelle strutture e nelle menti e il mondo secolarizzato].

Non è solo l’insorgenza dell’Islàm, a stupire. Anzi, sullo stupore è necessario soffermarsi ancora per un istante. Ormai ci siamo già un po’ abituati, ma gli inizi del fenomeno furono un po’ duri da digerire. Sulle prime, infatti, a molti parve che la presa del potere da parte degli ayatollah in Iran fosse una questione più che altro di forma, insomma un prodotto del folklore locale, sotto il quale c’è l’immancabile progresso. Non solo: ci sono la televisione, la conquista della Luna, l’inquinamento, il compromesso storico, i diritti acquisiti dei lavoratori, le multinazionali, i missili intercontinentali, i diritti dei gay e soprattutto il Campionato (di calcio, ovviamente): semplicemente, il rumore di fondo degli avvenimenti che non sono novità e le vecchie abitudini han fatto sì che il fenomeno non fosse visto, nella sua reale portata, al suo insorgere sul finire degli anni ’70. Ci ha pensato Bin Laden a renderlo ben visibile, esagerando un po’. Quando in Iran il regime dello Shah fu rovesciato, giornalisti, politici, politologi, sociologi, storici (con qualche eccezione, per es. Bausani) e Bani Sadr interpretarono le cose secondo il linguaggio momentaneamente prevalente, straparlando di Rivoluzione Islamica, da inserirsi nel contesto progressista dell’antiamericanismo, della liberazione dall’influenza occidentale, nonché dell’immancabile rapporto Est-Ovest. Aiutati in ciò dall’astuto ayatollah Khomeini, che si atteggiava a rivoluzionario mentre desecolarizzava l’Iran e conduceva la guerra contro l’Iraq attraverso la pratica dell’altrui martirio.

E anche gli ultrasettantenni capi del regime sovietico presero un abbaglio, quando proprio in quegli anni promossero il colpo di Stato comunista di Taraki, in Afghanistan. Gli Afghani? una massa tribale immersa nell’ignoranza, evidentemente matura per il socialismo... (*)

(*)  Il colpo di Stato comunista in Afghanistan è del 1978, proprio mentre cominciano i disordini che porteranno al potere gli ayatollah nel febbraio 1979. Bani Sadr, intellettuale formatosi in Francia, è stato il primo presidente dell’Iran.

Ma non è solo il mondo islamico, a presentare sintomi di effervescenza. Che dire della popolarità del Dalai Lama? Quando i cinesi della Repubblica Popolare invasero il Tibet, la cosa passò quasi inosservata, e nessuno pensò di indignarsi: una teocrazia su un altopiano, non ci sono nemmeno le strade per le automobili, un monaco su quattro abitanti, una volta erano quattro o sei milioni e adesso sono solo più uno o due…quindi i Cinesi portano il progresso ecc. Non si può negare che l’atteggiamento sia molto cambiato - e non solo per le qualità morali del Dalai Lama.

E che dire della sorprendente setta Falung Gong? Nell’aprile del ’99, a Pechino, diecimila membri della setta sfilano - dico sfilano, ovviamente senza autorizzazione - in prossimità dei palazzi del potere come protesta contro l’atteggiamento del governo nei loro confronti. Pare che addirittura rifiutino di fare autocritica [il regime ha preso la faccenda molto sul serio, arrestando centinaia di persone e inscenando processi di massa] e la questione è lungi dall’essere risolta. Si notano pure segni di ripresa dell’ Induismo, che ha influito non poco sulla fine del predominio del Congress Party a favore dei nazionalisti di Vajpayee, attuale premier (2002) dell’India. Ci manca solo che il Giappone restauri il culto ufficiale dell’Imperatore.

Perfino il Cattolicesimo ha recuperato qualche posizione. Può darsi che ciò sia dovuto alla personalità di Papa Wojtyla, come può essere che sia l’effetto della fine di certe illusioni e dei sistemi politici che le sorreggevano: spiegazione che, con i dovuti aggiustamenti, può applicarsi in tutti i casi. Ma la stessa politica di restaurazione e riaffermazione del ruolo della Chiesa e del Papa perseguita da Giovanni Paolo II, anzi il fatto stesso della sua elezione (1978), possono essere interpretati come segno di una volontà di ripresa, e non solo sul piano dottrinario.

[Sulla consistenza effettiva di tale ripresa è però lecito avere qualche dubbio. Intanto, in Occidente il processo di laicizzazione non ha subito finora sostanziali inversioni, nonostante le pressioni, e nei paesi dell’Est europeo - Polonia compresa - sembrano affermarsi tendenze liberistiche. Come non convincono certe analisi sul ruolo politico del Papa. Per esempio, si è talvolta preteso che Papa Wojtyla sia stato determinante nella fine dell’Unione Sovietica. Non intendo affatto negare che la sua azione sia stata in qualche misura efficace: ma l’Unione Sovietica aveva tali e tanti problemi di origine interna ed esterna, non dovuti solo alla natura del regime, da poter benissimo collassare sua sponte]. (*)

(*)  Si vedano p.es. i saggi di Amalrik.

In realtà, il revival religioso in Occidente c’è, ma non riesce ad assumere una consistenza strutturale, insomma ha difficoltà a materializzarsi in un’effettiva riforma del potere, forse perché la sovrastruttura ideologica è frammentaria - e quindi anche la risposta sul piano religioso è frammentaria, individualizzata, senza un indirizzo predefinito, o perché non ci si riconosce nelle forme della Chiesa cattolica, o perché l’orizzonte culturale si è allargato (?!) o forse piuttosto perché l’enorme forza d’attrito della sottostante struttura a-religiosa e dei fortissimi interessi che essa mette in movimento ne provocano la dispersione sul nascere. In effetti, sette e gruppi pullulano, come dilagano maghi, astrologi, cartomanti.

Vi sono molti problemi, a questo proposito. Sempre ammesso che il revival in Occidente non sia semplicemente una moda comportamentale (in un mondo secolarizzato e post-scientifico, dove il concetto di mercato delle idee riesce a trovare concreta applicazione, la distinzione tra prodotto commerciale e mondo ideale si attenua fino al punto da creare forme di reciproca integrazione) o l’effetto di politiche programmate (il potere di persuasione dei mass media è enorme), ci si potrebbe chiedere se esso sia il riemergere spontaneo di un forza originaria sovrastorica, che può essere oscurata temporaneamente dal processo storico, ma che alla fine ritorna alla luce, o se riaffiora solo perché altre ideologie di tipo a-religioso hanno esaurito la loro presa, o se è una reazione-compensazione alle conseguenze concrete (visibili) dello stesso processo storico (in sé invisibile) che costruisce strutture a-religiose cioè intrinsecamente non sensate, o se addirittura è una riformulazione, in termini compatibili con l’attuale struttura e quindi espressa in termini fortemente soggettivi, di forme mentali che debbono trasformarsi per poter persistere. Infine, come non citare una delle ipotesi più semplici, secondo la quale il recupero della religione è una difesa della propria identità storica e culturale - questa spiegazione pare a molti soddisfacente nel caso dell’Islàm, e forse può essere applicata anche all’Occidente, anch’esso un po’ scosso dai processi di trasformazione che pur da esso hanno origine. Azione e reazione si mescolano, ed è quasi impossibile, nel groviglio, individuare il capo d’inizio.

D’altronde, nessuna di queste spiegazioni esclude le altre, anzi è molto probabile che la verità sia una sovrapposizione di istanze e moventi distinguibili ma convergenti. È un po’ come la formazione di onde di grande altezza in mare aperto: se un enorme numero di piccole oscillazioni vibrano in concordanza di fase, l’effetto complessivo è ancora un’oscillazione, ma di dimensioni enormi. Con una differenza però, che questi fenomeni fisici sono essenzialmente reversibili - la grande onda dura per un tempo finito - mentre gli eventi storici creano talvolta situazioni irreversibili che - dopo un certo tempo - appaiono come punti di partenza di una nuova fase.

 

La dimensione autonoma del sacro

L’analisi del rapporto tra sacro e profano - e quindi tra Religione e Storia - dipende fortemente dal punto di vista adottato, cioè dall’ideologia. E, dato che ogni ideologia è storicamente determinata, ne consegue che ogni trattazione di tale rapporto sarà un prodotto storico. In linea di principio, vi sono due posizioni opposte: ammettere l’autonomia - cioè la sovrastoricità - del sacro, (*) o affermare la sua dipendenza più o meno totale da elementi ritenuti “concreti” quali cause economiche ecc. Questo secondo punto di vista è stato adottato da ideologie genericamente definibili “materialiste”, che riconducono l’idealità a espressione di situazioni e strutture storicamente definite. La storicità di siffatto approccio è evidente: anche perché, nel periodo in cui si definisce compiutamente (prima metà del XIX secolo), le informazioni sui popoli etnografici erano scarse, e comunque viziate dall’atteggiamento di superiorità dell’Europeo nei loro confronti. Senza l’autonomia del sacro, il rapporto tra Religioni e Storia diviene indefinibile, essendo il contenuto religioso riconducibile a istanze materiali o genericamente psicologiche La Religione si riduce a una particolare rappresentazione del reale, una fase della coscienza collettiva.

(*)  "Girare intorno al fenomeno religioso per mezzo della fisiologia, della psicologia, della sociologia… significa tradirlo e lasciarsi sfuggire il quid unico e irriducibile che contiene: il suo carattere sacro… la religione… è anche un fatto sociale, linguistico ed economico… ma sarebbe vano proporsi di spiegare la religione con una di queste funzioni fondamentali" (M. Eliade, Trattato di Storia delle Religioni).

Questa scelta implica numerosi problemi: è impossibile definire universalmente il significato del “sacro”, anche se ogni cultura fissa una sua propria distinzione tra ciò che è sacro e ciò che non lo è (facendo un’eccezione per la fase attuale, nella quale il divino si è a tal punto ritirato dalla coscienza collettiva, che tale distinzione è questione personale). Un punto di vista meno eurocentrico ha consentito di riconoscere l’originalità dell’esperienza del sacro nelle ierofanie dei popoli “primitivi”: contrariamente a quanto s’è creduto, le culture di questi popoli rivelano strutture complesse, e sono generalmente caratterizzate dalla pervasività del sacro e dello spirituale. (*)

(*) A proposito della mentalità primitiva nell’Africa Nera: “in una comunità non distrutta da influenze esterne essi sanno che il mondo è completamente spirituale; ciò che noi consideriamo come universo materiale… è per essi composto di grumi di materia assolutamente neutri di per sé, che assumono le qualità… dello spirito che vi dimora” - R. Haynes, Le Sorgenti Occulte nel mondo extrasensoriale, che riporta in sintesi brani di Africa Dances (Londra 1935) di G. Gorer.

È quindi legittimo chiedersi se, per quanto riguarda la coscienza collettiva, l’intero processo storico non possa essere letto come una progressiva anche se non lineare desacralizzazione e conversione del contenuto originario in ideologie e sapere scientifico. Ciò implicherebbe un progressivo distacco dalla comunione originaria tra il soggetto e il reale (di cui la sacralità è il simbolo) mediante una serie di oggettivazioni e concettualizzazioni che culminano finalmente nella costruzione di imponenti sovrastrutture, svuotate di ogni contenuto religioso, all’interno delle quali il mondo viene razionalmente interpretato attraverso strumenti logico-concettuali.

Si può facilmente ammettere che tale percorso sia indotto e governato da influenze strutturali: trasformazioni economiche e conseguenti rivoluzioni sociali e culturali sono necessarie per forzare il passaggio e portare il processo alla sua conclusione. In realtà, la coscienza collettiva evolve più lentamente delle circostanze materiali, quando non reagisce cercando rifugio nel vecchio modo di pensare: quindi, la dimensione religiosa tende inizialmente a integrare e giustificare gli apporti dell’evoluzione sociale e culturale. Perciò, almeno fino a un certo punto, anche i rapporti tra i membri della comunità conservano tratti religiosi (i giuramenti, per esempio, a tutela dei contratti, o il medievale Giudizio di Dio nei processi e nelle dispute). Il passaggio alla “legittimazione” - cioè la giustificazione sovraumana della struttura sociale, in particolare delle disuguaglianze ereditarie, dei rapporti di potere e della sovranità - porta al costituirsi del potere religioso come elemento ben identificabile: emanazione del potere della Divinità. Tale passaggio sembra giustificare il punto di vista per cui la Religione sia una forma di ideologia conservatrice dell’ordine esistente: il quale, peraltro, è effettivamente il risultato di forze del tutto profane. Ma ciò non esclude la dimensione originaria, autonoma, della sacralità, che continua a operare efficacemente secondo nuove forme. Il punto di vista per il quale è fondamentale la ricerca di legittimazione dei rapporti concreti di dominazione, e la Divinità è un pretesto per tale legittimazione, è lecito, nel senso che la Divinità può essere rappresentata in modo opportuno a tal fine. Come può essere figurata in opposizione. Ma non è sufficiente: esso implicherebbe una causalità unidirezionale dal materiale al religioso, fondata su un rapporto asimmetrico di causa ed effetto. Nulla, nella struttura mentale, suggerisce che sussista tale rapporto, anzi: la capacità di operare attivamente deriva dall’autonomia di tutti gli aspetti del pensiero - discorsivo e non discorsivo - dal reale. Possiamo farci immagini soggettive dei fatti ed essere creativi. È presumibile che la coscienza collettiva si orienti secondo le forme della coscienza individuale, non secondo schemi concettuali prestabiliti e storicamente condizionati.

 

La dimensione storica del sacro

Non è che manchino le obiezioni a tale impostazione. Lasciamo da parte quelle che derivano da ipotesi di fondo che negano a priori ogni consistenza del sacro in quanto elemento autonomo; la discussione precedente mi sembra bastante per riconoscerne l’insufficienza. Piuttosto, son da esaminare quelle che nascono all’interno dell’analisi svolta.

La più evidente e immediata richiede una miglior definizione del rapporto tra l’elemento religioso originario e la vicenda umana. Ammesso che la religione sia fondamentalmente irriducibile ai movimenti interni alla Storia, si deve supporre solo la sua presenza costante in ogni contesto storico, o accettare la sua origine trascendente? Dal punto di vista dell’analisi, la scelta è indifferente. Un elemento persistente e irriducibile è un a priori dal punto di vista storico, e non importa molto quale ne sia il fondamento ultimo. Vi è una certa affinità con i fondamenti della Matematica, e, credo, di qualsiasi forma originaria della coscienza: chiedersi se l’origine di quella sia nel mentale, o se questo rifletta una struttura preesistente, assolutamente astorica, non cambia di una virgola l’influenza che la Matematica ha avuto nella e sulla Storia attraverso lo sviluppo del pensiero scientifico.

Una seconda difficoltà, più consistente, nasce dall’impossibilità di definire universalmente il “sacro”. Ne può conseguire la riduzione a semplice categoria, senza un contenuto determinato una volta per tutte: il che indebolisce non poco la posizione finora assunta. Una categoria senza un contenuto fissato rischia di ridursi a una cornice vuota: non solo, ma il tentativo di uscirne mediante definizioni negative - es. il sacro non è il profano - non migliora la situazione. Se il contenuto è variabile, la consistenza stessa del concetto è in discussione, e si porrebbe la questione di quali fattori determinino di volta in volta ciò che è sacro e ciò che non lo è. Dato che tali fattori sono contingenti, il sacro sarebbe - nel contenuto - ricondotto alla storicità, vale a dire all’insieme delle circostanze materiali, in particolare economiche e sociali, che ne plasmano il contenuto.

In questa obiezione vi è un errore di ragionamento: che il sacro si manifesti in modo variabile a seconda del luogo e del tempo non significa che le circostanze materiali e ambientali di quel luogo e tempo determinino e neppure che condizionino il contenuto del sacro. Questi rapporti ineriscono alla causalità intesa in un senso particolare, e questa va assunta a priori in qualsiasi argomentazione che abbia valore dimostrativo, non potendosi dedurla dall’osservazione dei fenomeni religiosi in generale.

Vi è poi una contro-obiezione, sia pure indiretta e di tipo analogico. Si ammette, generalmente, che l’arte intesa in senso molto generale come creatività percorra tutta la Storia: non vi sono culture prive di capacità di espressione artistica. È chiaro che i prodotti sono assai eterogenei, e ci può essere qualche dubbio sul fatto che alcuni di questi siano arte. Non per questo tuttavia si può negare l’autonomia fondamentale dell’arte dalle circostanze di tempo e luogo. Se il ragionamento è corretto in questo caso, lo sarà anche per la questione del sacro.

Una definizione positiva può essere: sacro = manifestazione della presenza del divino (nel mondo sensibile, e nella coscienza). Non interessa che il “divino” sia reale o meno, importa che la coscienza lo riconosca. Una definizione negativa implica: sacro = non profano, quindi ciò che sfugge alla comprensione e al potere dell’io individuo, e che quindi appare ultra-umano e sovramondano. Poiché il potere dell’uomo è storicamente variabile, mutevoli sono anche i confini del sacro e la sua stessa identità.

Un terzo problema nasce come sviluppo del secondo. Se il contenuto del sacro è variabile, in che misura possiamo definirne gli sviluppi come prodotto storico? Abbiamo visto che non esiste una prova certa della dipendenza di tali mutazioni dal contesto materiale, pur tuttavia sembra ragionevole ammettere una correlazione di qualche tipo tra modalità del sacro e circostanze di tempo e luogo. In effetti, nemmeno il punto di vista per cui la storia delle religioni sia completamente autonoma può reggere: l’autonomia fondamentale non implica l’estraneità assoluta tra sacro e profano.

Concretamente, il problema si evidenzia quando si consideri come nelle culture etnografiche la rappresentazione del sacro passi attraverso il pensiero magico, mentre le religioni storicamente affermate - Cristianesimo ecc., pur non respingendo completamente tale componente magica [se ci sono dubbi, si tenga presente che in alcune Comunità protestanti americane i malati, anche gravi, vengono talvolta sostenuti con preghiere, con esiti non sempre conseguenti ai propositi; si consideri anche il significato originario dell’Estrema Unzione, e, infine, la presenza costante di elementi magici nel Cattolicesimo], sembrano affermare piuttosto il valore della fede (fondamentale in Lutero), della testimonianza, del vivere secondo certe regole (Israele antico, Islàm) ecc…È chiaro che tra la dimensione, per cui ogni oggetto contiene uno spirito, e il rilievo dato alla fede non vi sembra essere continuità. Tanto è vero che le stesse religioni “evolute” respingono moltissimi elementi delle precedenti forme religiose (ma solo fino a un certo punto: di nuovo, si può considerare quanto del paganesimo si sia trasferito nel Cristianesimo).

Credo vi siano due possibili interpretazioni. Secondo la prima, la coscienza collettiva si eleverebbe, attraverso rivelazioni, verso forme più “pure” e “alte” , liberandosi dagli aspetti oscuri e demonici. Ciò implicherebbe una interiorizzazione del sacro, prima esteriorizzato (“oggettivato” in forme sensibili). Questo è la posizione delle religioni storicamente affermatesi.

Una seconda interpretazione (decisamente migliore) assume che il sacro fosse assai più pervasivo e universale nelle fasi primordiali dello sviluppo della coscienza collettiva e perciò percepito come magicamente attivo, per poi ritrarsi gradualmente attraverso un processo inconscio durato millenni, a mano a mano che si differenziavano le attività umane e i ruoli sociali: il che avrebbe portato allo scoprire una logica dove prima vi erano forze ignote e, perciò, sacralizzate. Il ritrarsi del sacro dal mondo (*) - o, se si vuole, il suo definirsi negativamente come ciò che non è a portata dell’uomo - l’avrebbe proiettato in una dimensione sovramondana, ponendo le basi dell’Assoluto trascendente e irraggiungibile. Questo processo sarebbe effettivamente indotto dall’evolversi delle strutture sociali e avrebbe carattere sovrastrutturale: ma il fatto stesso che sia avvenuto, e le modalità della trasformazione, sono interni alla coscienza collettiva. Questa interpretazione non esclude l’autonomia originaria del sacro: solo ne sposta il contenuto verso i limiti dell’io empirico, limiti del suo potere sul mondo, e verso l’Assoluto come superamento del limite e delle opposizioni. La necessità di un recupero del sacro, di una sua reintegrazione nel mondo sensibile attraverso le rivelazioni, lo conferma come centro originario di attrazione nei confronti della coscienza individuale e collettiva.

(*) Un simbolo metafisico del “ritrarsi” o - più esattamente - “contrarsi” del divino dal mondo - visto come necessario al costituirsi di questo - potrebbe essere lo tzimtzum di cui si parla nella Qabbalà. Forse, anche il simbolismo di luce e tenebre del IV vangelo può intendersi in questo senso - le tenebre rappresentano una assenza del principio luminoso cioè divino, piuttosto che un polo autoconsistente. Anche il male come “non essere” in S. Agostino potrebbe esserne - su un piano etico - una interpretazione in termini ontologici. Da un punto di vista ormai post-religioso, idem per la posizione di Epicuro, per il quale gli dèi oziano negli intermundi.

Peraltro, anche nelle religioni di alcuni popoli primitivi si afferma esplicitamente che la divinità suprema - generalmente, un Dio celeste - si è ritirato dal mondo, per cui il culto si rivolge piuttosto a divinità secondarie o agli antenati ecc., sentiti come forze tuttora efficaci. Ne potrebbe seguire che lo stesso concetto del “ritrarsi” di Dio dal mondo sensibile sia prefigurato prima degli sviluppi sociali che lo avrebbero realizzato: ulteriore conferma dei problemi che insorgono se si cerca di derivare le forme religiose dall’evoluzione delle strutture sociali.

 

Le religioni come vie di salvezza

Ritengo indubitabile che la sorgente dell’efficacia di ogni forma religiosa storicamente riconoscibile sia nella sua pretesa salvifica. Anche qui, non importa che vi sia qualcosa da salvare o che vi si riesca attraverso la religione; interessa che vi si creda, in quanto si riconoscano problema e soluzione. Che relazione c’è col sacro? Questo attesta il divino, e nella divinità (o nelle forze spirituali) è la soluzione del problema, la via d’uscita. Il “problema” può essere di qualsiasi tipo: dal semplice procacciarsi il cibo alla ricerca dell’immortalità, passando attraverso tutte le gradazioni intermedie dal livello della fisiologia al più sublime tentativo di comprendere Dio. Se volessimo tentare una classificazione, potremmo affermare che la via per il conseguimento di risultati “empirici” è la magia, mentre la religione in senso stretto ha mire più alte. In sintesi: il sacro testimonia la possibilità della salvezza, e questa lo riveste di un certo significato senza il quale sarebbe solo un “modo di sentire”, rendendolo in un certo senso strumentale. Anzi, diventa strumentale lo stesso Principio trascendente, direttamente o indirettamente. Sotto questo rapporto, il sacro non ha autonomia totale rispetto all’autoconservazione dell’individuo, intesa sia in senso fisico che spirituale (desiderio di immortalità), ma la riacquista nei confronti delle circostanze di tempo e luogo, dato che la tensione verso la vita eterna non dipende evidentemente da queste. Si può forse pensare che il Dio personale sia un prodotto storico, ma la tensione all’immortalità (cioè l’affermazione del trascendente come via della propria salvezza oltre il mondo sensibile, a prescindere dagli attributi, eventualmente antropomorfi e storicamente determinati, di cui viene rivestito), comunque intesa, non sembra riconducibile alla dimensione pratica. Se non - forse - come negazione della propria finitezza e quindi come speranza. E sempre ammesso che il trascendente sia afferrato in negativo - appunto come ciò che sta oltre il limite - e non in positivo - come l’irrompere nella coscienza di una forza estranea irresistibile, che talvolta si afferma contro la stessa volontà cosciente del soggetto. (*)

(*) La conversione di S. Paolo, l’inizio dell’esperienza profetica di Maometto, ma anche gli episodi biblici di Giona, Balaam ecc. testimoniano la possibilità di un’esperienza radicale e immediata di questo tipo.

Probabilmente, l’unico mezzo per esaurire definitivamente ogni forma religiosa è la realizzazione biologica dell’uomo immortale, che morirebbe solo per una causa esterna. (*) Bisogna aspettare ancora qualche tempo, per sottoporre a verifica una simile ipotesi: ma si potrebbe benissimo ipotizzare che il senso religioso non sarebbe ancora estinto del tutto.

(*) Non è da escludere che l’ostilità più o meno manifesta di esponenti religiosi nei confronti della genetica nasconda il timore inconscio (?) di una simile possibilità, e della perdita definitiva del potere religioso, che ne conseguirebbe.

Ovviamente esistono vie di salvezza non religiose - nel senso della religione tradizionale - quali sono le ideologie politiche e lo scientismo. Tuttavia, queste non hanno la stessa efficacia: si limitano alla dimensione terrena, anche se la loro presa è stata fortissima fino a un recente passato.

Sul piano psicologico, la ricerca della salvezza in assenza di visibilità del divino (una situazione molto diffusa, a partire già dall’antichità) assume il carattere della fede, ovvero del credo religioso. Questo passaggio, reso inevitabile dal ritrarsi del sacro, è storicamente e logicamente una ulteriore transizione verso le ideologie, che si attua se si intravedono altre forme di salvezza più concrete. L’intero processo è forzato dal mutare delle circostanze di tempo e luogo, cioè dallo stesso processo storico nel quale si producono nuove strutture. Il recupero della forza originaria del sacro può avvenire ancora attraverso rivelazioni parziali, che senza riformulare il credo religioso riconfermano la presenza del divino, o totali, che ricostruiscono lo stesso credo. (*) Ma stranamente, da qualche secolo, non si vedono più grandi profeti (salvo il considerare come tali Joseph Smith o i guru delle religioni indù), e la fede da sola non basta più.

(*) La prima variante ha luogo attraverso la figura del santo, specie nel Cattolicesimo. Dal Protestantesimo, dogmaticamente e strutturalmente meno definito, si sono evolute come forme della seconda Mormoni, Testimoni di Geova, Quaccheri  e Shakers, la “Chiesa” del reverendo Moon, ecc.

 

Affermazione dell’io individuo e Divinità suprema

È ingenuo pensare che il materiale storico oggettivo (produzione dei beni, organizzazione sociale, rapporti di potere, ecc.) ponga la forma della divinità, cioè contribuisca a determinarne gli attributi, secondo un processo meccanico spontaneo e necessario e soprattutto diretto. Ma pensare che gli sviluppi delle forme religiose siano indipendenti dal momento storico e dai rapporti uomo-uomo e uomo-ambiente è come camminare sulle nuvole: il fatto che i tentativi di ridurre il fenomeno religioso alla struttura siano insoddisfacenti anche sotto un’analisi superficiale può derivare e dallo scarso interesse dei loro autori verso la religione in sé e dalla conseguente mancanza di interpretazioni adeguate. Una tesi generale può esser valida e fallire, se non viene sviluppata con strumenti adeguati.

Le religioni storiche attuali si sono formate, per l’appunto, in epoca storica. In parte, il momento storico può essere inessenziale, in parte no. Il sorgere del Dio Unico trascendente e onnipotente non è una costante: è solo una fase - quella terminale, almeno in Occidente e nel mondo arabo - di un processo durato millenni. E può darsi che si possa estendere il giudizio all’Induismo, che pure riconosce Divinità supreme. Elaborare teorie in proposito è assai rischioso, e si possono solo considerare ipotesi, che però - vista la natura associativa del pensiero comune (non specializzato) - potrebbero identificare processi realmente avvenuti, di cui ora vediamo solo più i prodotti.

Il passaggio dalla Preistoria alla Storia opera la diversificazione dei ruoli, costituendo identità nazionali e classi sociali. È fin troppo facile affermare che gruppi sociali e nazioni si siano identificati in qualche Divinità: come può accadere per una classe, per una corporazione, ecc. Valga il caso di Indra, per gli Kshatriya. Si osservi anche come nel Cattolicesimo ogni Paese, anzi ogni città, ogni professione ecc. ha o ha avuto il suo santo protettore. Può essere che il Dio del Cristianesimo rifletta simbolicamente, nella sua unità, la totalità del mondo romano, respingendo nell’oblio gli dèi particolari simbolo delle singole unità che tale mondo componeva in un tutto organico. Che poi tale Dio diventi politicamente utile può essere altresì affermato senza tema di smentita: e può darsi benissimo che il processo simbolico, raffigurante e trasfigurante il senso di appartenenza a un mondo comune, si accompagni efficacemente al processo politico, razionale e strumentale, per cui la Monarchia fonda la sua legittimità sul dio unico di una ortodossia religiosa.

Vi possono però essere molte fonti “terrene” di tale forma religiosa, che ascende sino a un Uno da cui tutto deriva. Può esservi un’intenzione di comprendere (non necessariamente in senso intellettuale) la totalità del mondo: tale esigenza si manifesta più chiaramente nell’antichità, quando l’istanza di capire il mondo (un mondo dinamico, per il quale le forme simboliche del mito erano insufficienti) pone la ricerca di principi da cui dedurre le forme della vita sociale e gli stessi fenomeni fisici, sia per operare in modo efficace, sia per semplice soddisfazione del pensiero; non si deve dimenticare che l’Essere nella Grecia classica sorge dalla riflessione filosofica, che sarà pure stata congiunta alla dimensione religiosa (giacché tale dimensione vi era ben viva e operante), ma che opera secondo le strutture del pensiero, mediante una indagine che s’appoggia al discorso. Col processo di secolarizzazione, la comprensione razionale e discorsiva del mondo si libera delle veste religiosa (la quale infatti non le è necessaria, anzi è una superstizione fastidiosa) e produce gli edifici della Filosofia contemporanea e delle scienze. Ma, inizialmente, vuoi per l’inerzia della coscienza collettiva, che fatica a liberarsi delle vecchie forme mentali, vuoi per motivi politici, vuoi perché una nuova forma di pensiero giunge ad autoriconoscersi autonoma solo dopo che si è solidamente costituita, il pensiero razionale convive con le categorie religiose e assume una forma religiosa, anche se il contenuto è affatto neutro.

Vi è infine una terza possibile causa - o meglio, insieme di cause omogenee - che ha luogo nei rapporti di potere. Benché non vi sia alcuna prova nel senso che questo termine ha nel pensiero logico-deduttivo, ipotizzerei che si tratti di quella fondamentale. La diversificazione sociale ed economica rompe l’unità originaria (la coscienza tribale) e frammenta la coscienza collettiva in classi sociali e io individuali tra i quali vi è opposizione oggettiva e quindi discordia, potenziale o reale. Certamente, la religione funge da colla sociale e garantisce la stabilità delle istituzioni, quindi il potere costituito (instrumentum regni), e sembra che il Dio unico sia, sotto questo aspetto, l’ideale. E infatti lo è, solo che il Dio unico non lo fabbrichi per decreto. Il potere politico, in particolare quello monarchico, sfrutta un Dio unico già bell’e pronto, e non se lo lascia più sfuggire: ma deve pur trovarlo, cioè bisogna che qualcuno o qualcosa lo abbia prodotto. Ma anche la “produzione” del Dio unico potrebbe essere, in qualche modo, “politica”, sia pure mediatamente e non consciamente.

Il processo storico differenzia tre entità: il monarca, l’aristocrazia, le classi popolari. Più in generale: il potere incarnato, i ceti medi, le classi inferiori. L’io individuale si trova di fronte alla ingiustizia di una differenziazione secondo una scala sociale che non può consapevolmente giustificare, giacché le ragioni oggettive che hanno prodotto lo stato di cose in atto gli sfuggono, generando appunto per ciò l’”ingiustizia” - d’altronde, nulla vieta di pensare che qualcosa sia ingiusto anche qualora se ne conosca la causa. Si può benissimo giustificare dal basso l’«ingiustizia» riportandola ad un ordine delle cose deciso da un Dio; ma deve essere un Dio supremo, un creatore e ordinatore del mondo, le cui ragioni ultime sfuggono alla comprensione, non un dio qualunque. Si può anche giustificarla in altro modo, specialmente se il Dio supremo ha esso stesso subito una grave ingiustizia - e questo è proprio il caso del Cristianesimo, che è appunto perciò una religione estremamente conservatrice, in quanto dà alle disuguaglianze un doppio fondamento, l’ordine divino e la valorizzazione di ogni situazione di sofferenza nell’identificazione con la vicenda terrena del Cristo.

Inoltre, può benissimo essere che l’io individuo, confrontandosi con il potere terreno, e rifiutando più o meno consciamente la propria subordinazione, cerchi una compensazione e una rivalsa simbolica nell’affermare un’Autorità al di sopra del potere temporale: autorità che non potendo essere terrena, sarà ultra-terrena. Non solo, ma, giacché il potere politico è già legittimato da qualche Dio, tale autorità viene ad essere proiettata al di sopra dello stesso Dio - o degli dèi - e assume le dimensioni di un’Unità suprema, di un grande Dio sotto il quale stanno gli altri dèi, i monarchi, i popoli. Questa operazione - se veramente ha avuto luogo, giacché il processo può solo essere ipotizzato - ha spianato la strada all’affermarsi non solo di un Dio supremo ma della stessa natura degli altri dèi, bensì del Dio supremo, di dignità superiore e incommensurabile, appunto Dio. Ma tutto ciò non è sufficiente per costruirlo, come non lo è nessuno dei processi ipotetici elencati, né separatamente, né in sintesi, per quanto sia interessante e come al solito paradossale osservare come istanze divergenti conducano alla stessa posizione. Non basta porre una forma per realizzare il risultato: la sostanza del divino può essere plasmata da processi inconsci collettivi, ma non può essere posta all’interno di tali processi.

 

La dimensione culturale del sacro e della rivelazione

Vi è tuttavia una serie di obiezioni molto più insidiose di quelle che pongono il fondamento del divenire e di ogni manifestazione della coscienza nel momento economico e sociale. Il problema nasce non appena si osservi come l’esperienza, cioè il vissuto colto elementarmente, come dato incontrovertibilmente presente alla coscienza, non può essere essa stessa posta come principio originario. La questione è logica, e non c’è modo di risolverla attraverso l’appello all’autonomia del fatto, perché riguarda proprio la consistenza di tale autonomia. Si può esprimerla in vari modi: che non esistono fatti senza mediazione del soggetto, che il noumeno è un’ipotesi, mentre immediatamente presente è solo il fenomeno, che ogni elemento del vissuto appare in forme condizionate e fissate dal contesto culturale, che la conoscenza non è solo empiricamente determinata, che ogni osservazione non è pura passività, ma coinvolge un elemento teorico preesistente (un pregiudizio nel senso letterale del termine), ecc… in poche parole: su un piano puramente logico, non c’è modo di affermare la priorità dell’esperienza sul pensiero, giacché le modalità di questa sono fissate dalle strutture di quello.

La forza dell’argomentazione sta nella constatazione, estremamente banale, che se così non fosse, non vi sarebbe lo stesso pensiero. L’esperienza come fluire ininterrotto di sensazioni riempirebbe completamente la coscienza, e non vi sarebbe alcun momento di arresto, che permetta di riconoscerla come un insieme di eventi colti nella loro continuità e unità fondamentale - l’io empirico, appunto. Qui non interessa analizzare nei dettagli gli aspetti filosofici del problema, nel quale, sotto diversi aspetti, si è perso più di un illustre pensatore. Basta limitarsi alla dimensione culturale intesa però in un senso particolare, non tanto come insieme delle nozioni credenze abitudini ecc, ma come forma che inconsciamente significa il contenuto dell’esperienza. Forma che, essendo generalmente condivisa in una comunità, possiamo a ragione ritenere parte della sua cultura e della sua psicologia collettiva. Cercherò di esprimere la questione attraverso una categoria di fenomeni ben nota: molti disturbi della personalità, che nell’attuale contesto culturale sono patologie, o comportamenti dissociati, sono effetto di possessione demoniaca o invasamento da parte di spiriti nell’ambito di culture magico-religiose. Gli esempi sono infiniti: a parte l’idea, molto diffusa tra i popoli etnografici e nell’antica Grecia, che la pazzia abbia qualcosa di divino, si possono citare la Santeria, la Macumba, il Candomblè, il Vodu ecc, che - rispetto alle ierofanie dei popoli etnografici - presentano il vantaggio di sussistere in contesti più moderni. La questione non è il giudizio che può essere formulato in termini di categorie discorsive, cioè l’aspetto culturale in sé, ma il fatto che la categoria genera il fenomeno. Il vissuto dell’invasato da uno spirito non può essere quello dell’alienato o del dissociato, esattamente come il vissuto di chi si crede Napoleone non è quello del monomaniaco in camicia di forza - anche se, molto stranamente, le due rappresentazioni possono coesistere nella stessa persona.

È paradossale come il rapporto tra la categoria preformante e il manifestarsi della profezia possa condurre a esiti assolutamente opposti. L’esempio più clamoroso è la stessa figura del Cristo, che rivendica per sé il ruolo del Messia, per essere riconosciuto da alcuni e respinto da altri. La categoria - che è culturale, in quanto parte della mentalità di Israele - condiziona il manifestarsi della profezia, anzi ne definisce il significato supremo, salvo opporsi alla stessa profezia, nel nome della stessa categoria. Sembra quasi che la figura del Messia debba e non debba concretarsi, nella stessa tradizione religiosa: dovrebbe, per emergere nel mondo e assolvere il suo compito, l’instaurazione del Regno messianico, cioè la risoluzione di ogni ingiustizia; non può, perché la sua venuta significherebbe la fine della forma religiosa presente, della quale è parte integrante. Non si capirà mai se il rifiuto del Cristo come Messia sia stato un episodio politico - come l’apparenza farebbe supporre - o se in tale rifiuto vi fosse il desiderio, invero non separato da ragioni di potere, di conservare la religione giudaica così come era: appunto, in attesa del Messia, come tenebra che non vuol riconoscere la luce, secondo il IV Vangelo. Peraltro, è pur vero che qualcuno - tale Bar Kokhebà - fu effettivamente riconosciuto come tale, qualche tempo dopo, salvo ammettere poi che ci si era sbagliati. Alla fine, anche questa figura, non riuscendo a storicizzarsi - e forse non riesce, perché ha un aspetto eterno che resiste all’incarnazione ed è potente in quanto non realizzata, cioè di là da venire per sempre - è stata gradatamente spinta nel trascendente, assolutizzata come astorica e quindi non più contaminabile da una incarnazione. Non si creda che la cosa sia così assurda nella sua unicità. Anche il Cristianesimo esprime la stessa contraddizione, nel desiderare e nello stesso tempo temere la fine del mondo: e così, paradossalmente, si prega perché il mondo finisca e perché duri. Simbolo, probabilmente, della difficoltà di separare la salvezza terrena voluta dall’io empirico e quella ultraterrena destinata all’anima.

Più in generale, l’esperienza di chi vive religiosamente è ben diversa da quella del non religioso, anche se gli episodi vissuti possono apparire gli stessi. Solo che l’esperienza è preformata dalla “dimensione culturale” o, se vogliamo, dalla “forma psicologica” del soggetto, che legge il proprio vissuto secondo modalità ben diverse, esattamente come vi sono indefinite possibilità di lettura di un testo. Il quale è significativo non perché dice qualcosa, quasi parlasse di per sé, ma perché viene letto. Se si vuole, si può recuperare l’autonomia originaria del sacro proprio nella possibilità individuale di tali forme. È però chiaro che le possibilità individuali non sono assolutamente libere: il concetto della libertà totale del soggetto nei confronti delle circostanze di tempo e luogo è una assurdità che rifiuto di discutere, neppure nel caso delle esperienze più radicali e distruttive dell’io individuale precedente. E il contesto culturale non è indipendente da tempi e luoghi. Ne è prova che le apparizioni di Maria Vergine, o le statue o icone che lacrimano, ecc, avvengono in paesi cattolici, non in paesi protestanti, dove la categoria della “Vergine Madre di Dio” non ha avuto fortuna. Ed è anche molto difficile che le statue lacrimino o si muovano o parlino in una cultura o fase storica iconoclasta, per il semplice fatto che in tale cultura le statue o le immagini non ci sono. Il fatto è che tali manifestazioni, autentiche o fasulle, sono a pieno titolo delle ierofanie; e se il sacro è condizionato dal “contesto culturale”, dove va a finire la sua autonomia esistenziale? Esaurito quel contesto culturale, anche la relativa forma del sacro si dissolverebbe, giacché viene a mancare la cornice che ne permette la manifestazione. Detto altrimenti: se una cultura non ammette profezie, come fanno a sorgere i profeti?

 

Fissità delle religioni storiche

In effetti, l’Islàm riconosce in Maometto il sigillo dei profeti: e, guarda caso, da quelle parti non ne sono effettivamente sorti altri. O, se pur ve ne erano, sono stati stroncati sul nascere. Anche la situazione del Cristianesimo è simile, dato che come Figlio Unigenito Gesù non può avere un fratello minore. Ci può essere solo un ritorno, in un tempo indefinito, o al di là di ogni tempo: concretamente, mai nel tempo profano. Nella loro pretesa di porsi come rivelazioni definitive, le grandi religioni storiche hanno fermato la possibilità di un rinnovamento religioso radicale, fissando la profezia e la dottrina una volta per tutte. Ciò ha vantaggi e svantaggi: la forza di una simile posizione è evidente, essendo sostanzialmente un comportamento collettivo di autoconservazione in una forma statica. In effetti, Cristianesimo e Islàm durano. Volendo fare dell’ironia, direi anzi che prosperano, pur tra alti e bassi. La debolezza sta nella difficoltà di afferrare all’interno del proprio sistema dottrinario il “mondo moderno”: difficoltà che inevitabilmente e irreversibilmente implica una perdita di potenza sulle coscienze.

Nonostante la logica, la dipendenza dal contesto culturale non sembra essere esiziale alla religione. Può essere che nessun contesto culturale possa farne a meno, nel senso che non vi può essere cultura senza la dimensione sacra, sia pure latente e inespressa: così sono contente la logica e la religione. Come può essere che le argomentazioni logiche non abbiano rilevanza, dato che si parla appunto di cose non-logiche. Come può essere che qualcosa mi sfugga. Da un certo punto in poi, ogni discussione sull’autonomia del sacro produce solo più sforzo: tanto vale chiedersi se Gesù Cristo e Maometto erano nel vero o se si sono ingannati. Fondamentalmente, la cosa non ha importanza - non tanto perché sia indecidibile - ma perché le conseguenze, nella Storia, sarebbero state esattamente le stesse. Un fatto paradossale - uno dei tanti, che crea difficoltà insuperabili sul piano logico - è che le religioni rivelate affermano la verità suprema, ma le loro conseguenze non hanno alcuna relazione di nessun tipo con la “verità” o meno della profezia originaria, proprio in quanto il principio cui affermano di attingere non è derivabile in nessun modo da qualcosa d’altro. Quanto appena detto è confermato da come le stesse religioni rivelate considerano le altre forme religiose, evolute o primitive: nella migliore e più caritatevole delle ipotesi, come forme imperfette e non salvifiche, tollerabili sotto certe condizioni, ma in nessun caso ponibili alla stessa dignità della Religione vera. (*)  Il Profeta è uno solo: gli altri devono essersi sbagliati. La differenza rispetto alla posizione di un Voltaire non è poi così grande, è quella che c’è tra l’uno e lo zero.

(*) Non solo, ma l’intolleranza raggiunge il parossismo nei confronti degli eretici e degli scismatici. Ecco un esempio di puro entusiasmo religioso, di matrice sunnita, non privo di vena poetica:

“Gli artigli dell’Islàm torsero le mani dell’eresia e della miscredenza, e fu la vittoria della fede vera. I vittoriosi venti dell’Islàm rovesciarono i vessilli degli scismatici”  (Mirza Muhammad Haidar Dughlat, a proposito della battaglia di Ghajdivan, schiacciante vittoria degli Uzbeki sunniti contro i Persiani sciiti agl’inizi del XVI secolo).

E non si pensi che simili eccessi avvengano solo all’interno delle religioni monoteiste. A partire dal 1450, gli Oirati buddhisti, messo da parte il dharma, diedero inizio a una serie di guerre di sterminio contro i Kazaki che - sia pure intervallate da lunghe tregue - durarono per ben tre secoli. Questi Oirati erano animati da un Buddhismo alquanto attivo, fino al segno di sconfiggere e far prigioniero il Figlio del Cielo nella persona dell’imperatore Ming Ying-tsung, nel 1449.

 

La questione del potere

1. Rilevanza dell’argomento

Può sembrare un po’ strano e riduttivo compiere un’indagine sul contenuto religioso parlandone in termini di potere. In effetti, religiosi e non religiosi si studiano di evitare l’argomento. Non solo: chiunque si riconosca in qualche ideologia ne sviscera la dottrina, il valore etico, il profondo significato storico, ma sulla questione del potere e delle sue conseguenze il silenzio è tanto discreto quanto continuo. (*)

(*) Anche nel caso della fine dell’Unione Sovietica - un evento assai istruttivo - saggi commentatori ci spiegano come sia inevitabile che la Democrazia e il Capitalismo (soprattutto quest’ultimo, il vero idolo della sovrastruttura occidentale) abbiano prevalso sul Comunismo, forma di organizzazione oppressiva e inefficiente (l’inefficienza è, per questo tipo di ragionatori, il traslato del Peccato Originale), in virtù solo della loro natura. Perché abbiano impiegato settant’anni a prevalere, questo non ce lo dicono. Ma non si butta via una tesi così simpatica solo perché non riesce a spiegare qualche milione di fatti. Che ci sia stato uno scontro tra Poteri - cioè non tra forme organizzative della società, ma tra forze concrete - e che in questo genere di scontri si vince se si dispone di mezzi superiori, pare sfuggire molto facilmente all’osservazione di troppi commentatori.

Quando si fanno indagini di tipo storico politico (e nel campo delle religioni), generalmente non si pone in primo piano la questione della natura del potere, anche se è inevitabile parlarne: come si fa a non vedere l’importanza dei rapporti di dominazione interpersonale e infrastrutturale? E poi, le ideologie non manifestano una enorme capacità di condizionamento? Forse l’argomento tocca nervi sensibili. Infine, la pratica del potere è questione quotidiana quasi a tutti i livelli. Forse si dà per scontato (?) il senso del termine. O forse si tende a identificarlo nei processi decisionali e nelle strutture organizzative che ne derivano, per cui curiosamente si studiano gli effetti - le istituzioni e la prassi - e si tace sulla causa - il gioco dei rapporti di forza. È vero che le forme organizzative e i comportamenti stereotipi da queste indotti finiscono con il ricoprire la sostanza originaria fino a oscurarla o travisarla completamente. Ma questo non significa che tale sostanza sia inattiva, tutt’altro.

In ogni caso, se - come abbiamo deciso - la religione non è solo una particolare forma in cui si esprime il materiale storico, ma è essa stessa un principio attivo, è pur inevitabile analizzarne l’efficacia. Ma l’efficacia di una religione non è immediatamente materiale, non è essa una conoscenza tecnico-scientifica , che generi forme di organizzazione sociale. Inoltre, si è sempre fatta distinzione tra potere temporale e potere spirituale. Dunque, dove sta la sua efficacia storica? Nella generazione di un’infinità di simboli o di esperienze dotate di significato? Certamente no. Sta nell’essere essa stessa sorgente di un certo tipo di potere, il potere religioso appunto, derivazione, trasformazione del primordiale potere magico? Forse. Ma non è il caso di perdersi nel ricercarne l’origine.

Il fatto è che i simboli religiosi sono spesso simboli di potere, e viceversa. In ogni società tradizionale nella quale una religione opera efficacemente, la sorgente del potere regale è nel principio trascendente postulato da quella religione.

 

2. Le varie forme del potere

L’identificazione della sostanza del potere con persone o istituzioni - e la conseguente confusione tra istituzione e persona (*) - si è diluita nelle forme dell’organizzazione politica moderna e nella regolamentazione dei rapporti sociali. Ma la natura del potere è complessa, e forme vecchie e nuove possono coesistere nella stessa era, o riemergere se si presenta l’occasione. Un dato sistema appare costruito su basi stabili e ideologicamente giustificate: la forza originaria del potere si è sublimata in queste giustificazioni. Ma le cose possono andare in senso opposto: un’ideologia rivoluzionaria abbatte le giustificazioni e apre la strada a un nuovo potere. È in queste fasi dinamiche che ne emerge il principio originario. Fatti eccezionali - una guerra distruttiva, una trasformazione radicale dell’economia, la predicazione di un grande profeta - stravolgono l’ordine stabilito, rivoluzionano i rapporti di forza, fino a modificare in modo irreversibile nel corso dei secoli la stessa struttura mentale. Le religioni e le ideologie sono principi attivi - cioè sorgenti di potere - proprio come i fattori di tipo economico e materiale. Di qui il terrore dei regimi autoritari nei confronti delle nuove idee, e delle vecchie.

(*) “L’état c’est moi”  (Luigi XIV re di Francia).

Vediamo ora la questione della natura del potere, e dello specifico potere religioso. “Potere” è parola che indica un elemento sovrastorico. Esso si esercita nel corso degli eventi storici e caratterizza figure storicamente concrete, ma la sua sorgente è prima e fuori dalla Storia. Una prova indiretta di questa tesi è che nelle società tradizionali (= culturalmente precedenti il mondo occidentale dal XVIII secolo in poi) la giustificazione del potere politico supremo è di origine divina, o addirittura il vero Re è un Dio (si noti come, nella Bibbia, Yahwé appaia riluttante a concedere un Re a Israele).

Sembra che le comunità primitive riconoscano prevalentemente due forme di potere (forse, sarebbe meglio dire prestigio o ascendente): quello magico e quello derivante dal lignaggio. Può essere che l’origine effettiva dei rapporti di dominazione sia pratica - nel senso che una gerarchia implica un’organizzazione più efficace della comunità, in quanto fonte di stabilità. Non ne sono tanto sicuro: perché la dimensione fantastica, ideale, spirituale del potere magico è irriducibile a ragioni pratiche. È verosimile che - pure attraverso le infinite differenziazioni prodotte dalla civilizzazione, e pure considerando gli effetti derivanti dalla suddivisione del lavoro, che ha creato nuovi rapporti gerarchici di tipo economico - almeno fino a tempi recenti la natura del potere abbia conservato la doppia forma originaria. Simbolo di questo dualismo nel Medioevo cristiano sono le figure dell’Imperatore e del Papa.

 

3. Differenziazione o integrazione

Vi sono tuttavia alcuni problemi da risolvere. Innanzitutto, tale separazione tra potere temporale e potere spirituale non è sempre così netta, anzi. Anche in Occidente, il sovrano deve essere consacrato (in Francia, fino a Carlo X) e i Papi aspirano a un ruolo politico; di più, sono pure sovrani temporali (lo sono attualmente). Nell’Islàm, fino al 1920 il Sultano ottomano è anche Califfo. Nel Regno messianico, non vi è distinzione. Anche il Tibet ha realizzato una sintesi nella persona del Dalai Lama. Che il potere sia uno solo? Certamente no, anche perché se così fosse non esisterebbe il mondo moderno. Un processo di secolarizzazione esige che i poteri siano almeno due - non i centri di potere, i tipi. Infatti, come inizia un processo di secolarizzazione, se non separando le due tipologie? Si deve pure desacralizzare il potere politico, o no? Ma desacralizzarlo significa separarlo dalla sua valenza religiosa-carismatica, e questa deve pure essere scindibile dal diritto a governare. Quindi siamo sicuri, ci sono almeno due forme del potere, e una può essere separata dall’altra. Ciò non toglie che le diverse epoche abbiano visto accentuarsi talvolta la distinzione, anzi l’opposizione (Lotta delle Investiture), talaltra la sintesi (nella forma estrema, il governo del Dalai Lama).

 

4. Alcuni problemi sulla consistenza del concetto di potere religioso

Vi è un’altra obiezione, e va esaminata subito. Che cosa è il potere religioso (o spirituale)? Potrei cercare di fornirne una definizione - per esempio, “una forma di condizionamento, di dipendenza psicologica del soggetto da un’autorità non politica - una personalità carismatica, una gerarchia visibile depositaria della tradizione religiosa” o simili. È chiara l’insufficienza di tali formule. Intanto, sono puramente esteriori. Inoltre, non è semplice definire universalmente il concetto stesso di religione, e non solo perché ce ne sono molte. Infine, tra le infinite modalità di condizionamento e dipendenza, ve ne sono alcune che si distinguono con estrema difficoltà - se pure si differenziano - da quelle tipicamente religiose: non per nulla si parla di religioni e di pseudoreligioni. Non solo, ma le ideologie - comprese quelle dichiaratamente antireligiose - sembrano avere un potere fascinatore del tutto analogo. In certi casi, è difficile distinguere tra la dipendenza da un leader religioso e quella da un leader politico (non parlo dei politici attuali: e mi sorge il sospetto che la mancanza di politici dotati di carisma potrebbe essere la non ultima causa del riaffiorare religioso). Alcune figure politiche del XX secolo hanno suscitato forme di fanatismo che neppure le sette più estreme riescono a raggiungere. E che dire di Scientology o delle varie sette - che spesso pretendono di rappresentare tradizioni religiose orientali - sotto accusa proprio per le forme di pressione psicologica esercitate nei confronti degli adepti? A tali sette, se fanno riferimento dichiarato a religioni tradizionali, applicherei senza problemi il concetto di potere religioso. Per quanto riguarda le ideologie, è impossibile definire la questione, in quanto, obiettivamente, la distinzione netta tra ideologia politica e religiosa è talvolta impossibile. Se vogliamo, la differenza sta nella giustificazione dichiarata: l’ideologia religiosa afferma la propria origine divina, quella politica si appella ad altre fonti.

Si noti comunque come il potere ideologico (di cui quello propriamente religioso è per certi aspetti una sottocategoria) abbia bisogno del riconoscimento da parte di una comunità - altrimenti non ha efficacia, anzi non esiste proprio. In un certo qual senso, viene dal basso (Nemo propheta in patria è un simbolo di ciò che intendo). (*) Un profeta senza seguaci non è un profeta, e non c’è culto senza celebranti. La cosa può sembrare paradossale, in quanto il potere religioso trae la sua giustificazione esplicita dall’essere espressione della Divinità autosufficiente. Idem per le ideologie di massa: si affermano attraverso il coinvolgimento delle folle, ma si giustificano con principi sovrastorici o presunti tali (il materialismo dialettico, la Nazione, la Razza…).

(*)   Luca 4, 24 . Il versetto completo dice: “nessun profeta è ben accetto in patria” , che ha un significato un po’ diverso da quello che intendo. Ma in altri punti Gesù afferma esplicitamente la fede come necessaria, per esempio, per operare guarigioni.

 

5. Altri problemi sull’unicità del concetto di potere religioso

Accertata la realtà del potere religioso in sé, resta la questione della sua unicità. Siamo sicuri che si tratti di una forma specifica, omogenea, e non, piuttosto, di un insieme di modalità differenziate, che sfumano l’una nell’altra e travalicano dall’ambito religioso tradizionale? Abbiamo visto che la demarcazione tra ascendente religioso e pseudoreligioso è tenue, anzi, è un’ipotesi, o se vogliamo una convenzione, fondata sulla nozione di tradizione religiosa - che è abbastanza precisa per una data epoca, ma che sfuma nell’indeterminazione se si attraversa tutto il percorso della Storia. Non è forse vero che da un gruppo minoritario, marginale e sospetto di eterodossia, può nascere una religione diffusa e millenaria? La indefinitezza di tale distinzione fa sì che il dubbio sia lecito. In realtà, è facile vedere che le modalità manifestate dal potere religioso - i suoi strumenti, per così dire - non sono omogenee. C’è una notevole differenza tra il carisma - e i poteri taumaturgici e soprannaturali - attribuiti a un profeta o a un santo e l’autorità morale, per quanto grande possa essere, di un vescovo o di un Papa, come c’è tra gli aspetti rituali-liturgici e quelli normativi (il rispetto dei precetti, la legislazione religiosa tipo la sharî`ah…). Eppure si pretende che tutto ciò derivi dalla stessa origine. In questo, e solo in questo, cioè nel rimando a un Principio o a una Rivelazione, può stare il fondamento dell’unicità del potere religioso. La questione sta nella forma di legittimazione, (per esempio, nelle religioni monoteistiche, col rimando costante all’unico Dio e a un fondatore), non nelle modalità di manifestazione. L’unità del concetto è realmente una congettura, che si invera però attraverso l’intima connessione di una varietà di elementi: l’unità di Dio, un testo sacro, una dottrina (il dogma), una gerarchia riconosciuta (il clero), il corpo dei fedeli (la Chiesa), la testimonianza dei santi, dei profeti e dei martiri, una norma di comportamento…. In effetti, le scissioni interne a una tradizione religiosa - quando non siano scismi di natura dottrinaria e politica, come lo scisma d’Oriente (1054) - passano, talvolta, attraverso una riformulazione dei rapporti tra le varie componenti: si veda la Riforma protestante, che spodesta la gerarchia (l’incarnazione visibile, ma non più autentica del potere religioso) e la sua pretesa di interpretare la dottrina, sostituendola con il testo sacro, cioè con la necessità della sua diretta interpretazione. Queste trasformazioni sono rivoluzionarie e, come tutte le rivoluzioni, implicano la fine di un vecchio potere a vantaggio di uno nuovo o, più esattamente, la conversione da una forma del potere religioso ad un’altra. Ma, come in tutte le rivoluzioni, se la forma cambia, molto del contenuto resta: anzi il Riformatore pretende che questo venga salvato. Nelle rivoluzioni politiche, il potere politico passa di mano e cambia d’aspetto; ma resta potere politico, e così avviene per il potere religioso. Anche se alla lunga, nel caso dei processi ultimi innescati dalla Riforma protestante, questo si è di fatto quasi estinto.

 

6. Ulteriori considerazioni

Restano alcune obiezioni, o riserve, circa il lessico impiegato. Primo: perché parlare di potere religioso e non di teocrazia ? Perché i due termini non operano all’interno degli stessi contesti. In senso rigorosamente etimologico, “teocrazia” significa potere divino - ha senso parlare di regime teocratico, come forma di governo per la quale il potere politico è subordinato a quello religioso, o meglio ancora quando la gerarchia religiosa governa direttamente. Non si tratta del contesto in cui il potere religioso generalmente opera. L’Iran attuale è una teocrazia; non lo è l’Arabia Saudita, anche se in quel Paese il potere religioso è fortissimo.

Un’altra questione. Ammesso che le religioni siano lo sviluppo - diciamo, la manifestazione collettiva - di una esperienza fondamentale, per la quale l’individuo empirico si riconosce nell’Unità originaria, potrebbe darsi che la categoria del potere religioso sia illusoria, nel senso che esso si ridurrebbe a una mediazione, se vogliamo una commistione, tra l’esperienza religiosa e le forme del mondo empirico. Da questo punto di vista, la sorgente di tutto è la tensione tra l’unità originaria e la pluralità dei soggetti. Non vedo obiezioni a tale punto di vista, salvo il fatto che non è immediatamente applicabile all’effettivo svolgersi del processo storico. Di fatto, le religioni - salvo alcune come l’Ebraismo e l’Induismo, le cui origini si perdono in un passato indefinito - nascono in epoche storicamente definite. Nel loro affermarsi, incontrano resistenze e sviluppano forme di coercizione, che si materializzano in norme, gerarchie, rapporti di dipendenza. Inoltre, l’esperienza religiosa compiuta è un limite generalmente non raggiunto. Si potrebbe riconoscere un simbolo di tale incompiutezza nella figura hegeliana della Coscienza Infelice. In questi termini, l’aspetto autoritario della religione sarebbe la materializzazione reale, sul piano storico, di una scissione mai risolta completamente.

 

7. Rapporti tra potere secolare e forme religiose nelle epoche passate

Gli studi etnografici hanno dimostrato come l’attributo del potere inerisca originariamente alle divinità supreme, ben prima che si costituissero complesse strutture sacerdotali e politiche. Certamente, il nascere delle civiltà antiche ha influenzato profondamente le modalità del sacro. Ma sarebbe un errore identificare, per esempio, nel monoteismo, o nel culto del Dio supremo di un pantheon, una proiezione o un mero simbolo del costituirsi dei grandi Imperi. Certo, il materiale a favore della tesi non mancherebbe, (*) né mancano - anzi sono ben noti e documentati - tentativi concreti, spesso riusciti, di modellare la religione su istanze politiche. Le dispute teologiche dei Bizantini sono solo un esempio dei tanti: il potere politico centralizzato esige spesso l’unità religiosa, forzandone lo scadimento a forma ideologica, travestimento di istanze profane. E che i monarchi, in epoca moderna, abbiano difeso la propria posizione attraverso il sostegno alla Chiesa, ha contribuito non poco al discredito in cui questa è caduta. Ma sono sforzi condotti all’interno di una tradizione religiosa ben costituita, ben lontani dall’essere rifondazioni di vasta portata.

(*) Per esempio, in Cina l’Imperatore è il “Figlio del Cielo” , rappresentante del Dio del Cielo (T’ien o Shang-Ti).

Il sigillo di Genghis Khan recava l’iscrizione “Un Dio in Cielo e il Khan sulla terra. Sigillo del Padrone della Terra” - vedi M. Eliade, Trattato di Storia delle religioni.

Tale tesi non solo urta contro numerose eccezioni (la compresenza di culti diversi sopravvive per tutto l’Impero Romano fino al termine del IV secolo, anzi è politicamente opportuna, e il sorgere del monoteismo con il Cristianesimo ne segna piuttosto la fine, almeno in Occidente; Maometto profetizza l’Unità di Dio operando in una società tribale; ecc.), ma soprattutto i popoli etnografici generalmente riconoscono un Dio celeste a fondamento dell’ordine cosmico: il quale può essere inattivo (Deus otiosus) e il suo culto è allora assai ridotto; può essersi “ritirato” dal mondo, e allora sacrifici e preghiere sono rivolte a divinità subordinate ma più attive. Tale culto è comunque anteriore al sorgere dei grandi Imperi. Anche in questo caso, il potere monarchico si avvale, per la propria legittimazione, di elementi preesistenti opportunamente rimodellati nella forma del potere religioso.

 

I limiti dell’analisi

Si può con ragione osservare che ogni esperienza individuale e collettiva si sviluppa sotto il condizionamento delle circostanze ambientali e culturali. (*) Non è forse vero che la sovrastruttura, religiosa e non, determina o, meglio, orienta il vissuto individuale, preformandone in una certa misura contenuto e senso? Se le cose stanno così, tutti gli elementi del reale storicamente determinato possono rivendicare un ruolo originario nei confronti della coscienza individuale, anche quando scadono a mediazioni della realtà economica e sociale.

(*) “L’uomo è ciò che mangia” (Feuerbach)..

Non è possibile dare una risposta definitiva. Qualunque soluzione sembra essere una questione di scelta o consapevolezza, in sé non analizzabile. Se il vissuto individuale è il punto di partenza (e in un certo senso lo è, nella sua immediatezza), allora qualsiasi sua interpretazione è fondamentalmente una costruzione mentale, il cui effettivo ruolo sarà al più strumentale. Al limite, sarà la volontà individuale a decidere gli sviluppi. Se invece il reale ammette una struttura intrinseca (cioè, se vi sono leggi necessarie), allora esso è anche razionale (o può diventarlo), e il vissuto individuale e collettivo diventa analizzabile e interpretabile secondo una logica predefinita: resta da scoprire quale sia questa logica. Questo approccio porta al il punto di vista scientifico, che decomponendo il reale ne scopre le leggi e le strutture, trascurandone senso e valore. Per questo, il pensiero scientifico è diventato il sostegno (ma non la giustificazione ideologica e storica) del processo di secolarizzazione.

Per la verità, vi è una terza alternativa, che spesso non viene colta: il vissuto individuale - come ogni singolarità - è un momento di un processo (il divenire), del quale non siamo in grado di cogliere interamente logica e significato. Non importa che realmente vi siano o meno una logica e dei significati, semplicemente non siamo in grado di formularli, o di applicarli. Forse che non abbiamo dei limiti cognitivi e linguistici insuperabili? (*) Da questo punto di vista, ogni analisi si risolve in un tentativo mai completamente riuscito, e ogni valore è fondamentalmente inautentico.

(*) In campo scientifico, questioni del genere emergono positivamente negli studi sui fondamenti della Matematica, nella teoria dell’informazione, nell’epistemologia del XX secolo (la questione del metodo), nell’interpretazione corrente della Meccanica quantistica….

 

Certezza e indeterminazione

Il pensiero scientifico è solo un aspetto speciale della razionalità, vale a dire della significazione discorsiva del mondo. Quando si affrontano argomenti quali il contenuto religioso in rapporto alla Storia, sarà bene rimanere razionali, ma non si può pretendere di essere scientifici (sembra una banalità, ma molte persone ci raccontano come è fatto il mondo). Le scienze (almeno quelle cosiddette esatte quali la Fisica, la Chimica, la Biologia; non saprei se si possano definire tali l’Economia o la Psicologia) (*) hanno successo nella misura in cui permettono di fare previsioni corrette, controllabili sperimentalmente, e il fallimento delle previsioni implica una selezione tra teorie valide e non valide. Lasciamo stare le complicazioni che gli epistemologi sono riusciti a escogitare; non hanno rilievo, in relazione al nostro problema. Quello che importa, è che le teorie scientifiche sono formalizzabili, cioè usano un linguaggio e una logica definiti. Ma che dire dell’approccio a un problema storico? A priori non sono definibili né il linguaggio, né la logica, e neppure le categorie significative. Le prove? la Provvidenza è una categoria volutamente ignorata da uno storico “laico”. Prima - credo - di Bentham, mai s’è parlato di lotta di classe. Da Hegel in poi, la Dialettica si propone come la forma della causalità storica. Marx individua l’opposizione, appunto dialettica, tra struttura e sovrastruttura, fino ad allora mai chiaramente formulata. In compenso, non trova dove collocare la religione - che non gl’interessa, perché lo intralcerebbe sul piano teorico - e la interpreta come forma di alienazione la cui origine è nella dinamica dei modi di produzione. Qui emerge l’enorme potenza del pensiero discorsivo (ideologico, nel senso originario del termine): per formulare una interpretazione, servono un linguaggio e una logica opportuni, cioè intenzionali. (**)

(*) Per scienza esatta intendo una disciplina in grado di produrre previsioni numeriche e metodi di controllo.

(**) “La dialettica è rivoluzionaria” (Marx).

E, a quanto pare, tale potere ha scavalcato il fascino di quello religioso. Trovati i termini, la logica e le categorie, si può cercare di sostenere non dico qualsiasi tesi, ma poco vi manca: e basta considerare la proliferazione delle ideologie nel XIX secolo, per rendersene conto. Ma anche in assenza di intenzionalità - una condizione ideale - i problemi sono gravi. Per esempio: uno scienziato può - anzi deve - confrontarsi con gli esperimenti, che prepara egli stesso, e che può considerare in isolamento. (*) I fatti storici non sono esperimenti. In realtà, appartengono a due categorie assolutamente opposte: o sono vissuti in prima persona, o sono testimonianze indirette. Ma non c’è modo di produrli artificialmente, per vedere se una certa idea funziona o no. O meglio, si può cercare di produrli - per esempio, in un’ottica rivoluzionaria - per essere però, di solito, smentiti. E, soprattutto, non sono isolabili. Non c’è la religione allo stato puro - c’è nelle sue manifestazioni, che raccolgono anche altri elementi. (**) Non ci sono neppure realtà locali: tutto è interconnesso. Inoltre, non è chiara la causalità del reale, vale a dire l’insieme dei rapporti di causa ed effetto. Il Cristianesimo ha contribuito a minare l’Impero Romano, o la crisi dell’Impero ha portato all’affermazione del Cristianesimo? O le due cose sono indipendenti? Il processo di secolarizzazione è stato generato dall’ideologia protestante, o tale ideologia è già un momento del processo? Che cosa ha veramente originato tale processo? Altre questioni interessanti, sul piano delle definizioni. Chi è Cattolico, oggi? I battezzati? coloro che vanno regolarmente a messa? o bisogna credere a tutti i dogmi? La questione non è poi così astratta. Il senso di un’argomentazione dipende dal significato dei termini che si usano; a diversi possibili significati corrispondono altrettanti possibili discorsi. Il reale sarebbe razionalizzabile, ma secondo un numero indefinito di interpretazioni, nessuna delle quali esaustiva.

(*)  “Bisogna defalcare gl’impedimenti” (Galileo).

(**) Vedi Eliade, nella Prefazione al Trattato di Storia delle religioni.

È inutile annoiare il lettore con altri esempi, la conclusione è ovvia. Fuori dal campo scientifico non si dà certezza, ma indeterminazione: è il soggetto giudicante a decidere quali fatti considerare, e come. Ma è necessario formulare qualche ulteriore considerazione sulla causalità storica. Normalmente, la logica dovrebbe rispecchiare la causalità. Non vi può essere, ovviamente, nessuna deduzione logica di tale asserzione, che quindi è una ipotesi di lavoro tanto necessaria quanto indimostrabile. Peraltro, noi esprimiamo la causalità attraverso la logica, la quale non è dedotta dalla causalità ma è a priori, o meglio, attraverso una logica, giacché ve n’è più di una (succede anche nella Matematica). (*) Ma il processo storico deve rispecchiare, in una certa misura, la struttura mentale, giacché i suoi attori sono gli individui concreti. E la mente contiene molto materiale non strutturabile nella consueta logica discorsiva: basterebbe considerare i sogni. Non è forse vero, che nel mondo antico si consultavano indovini e àuguri? In quanto ai sogni… ebbene, chiedete alla moglie di Giulio Cesare, il quale non le diede retta. I profeti, poi, danno veramente fastidio: di che cosa sarebbero effetto? Il simbolico, il sacro e il fantastico invadono il campo della Storia, e non possono essere soppressi. Perciò, qualsiasi spiegazione in termini causali è sempre dubbia, specie se si toccano certi problemi.

(*) Per esempio: gli Intuizionisti rifiutano le dimostrazioni per assurdo.

 

Razionalità e significazione religiosa

Parrebbe che un’analisi del ruolo storico della religione debba comprendere uno studio delle sue origini. È da vedere se tale studio sia possibile: l’inizio nel tempo risale a un passato lontanissimo, e le tradizioni religiose assumono che origini e significato ultimo siano fuori della Storia.

L’efficacia di una religione - cioè la sua presenza attiva nella coscienza collettiva - non deriva tanto dalla sua capacità di spiegare le cose, ma dalla sua pretesa salvifica, dal contenuto simbolico, poetico e affettivo, insomma dalla sua funzione anagogica nel dare significato e fine all’esperienza e alla Storia. A ben vedere, non è che non si diano spiegazioni di tipo religioso: è che queste implicano una causalità significante, di una specie assolutamente diversa da quella scientifica. (*) È noto dai Vangeli che talvolta le infermità erano interpretate come conseguenza di un peccato; questa associazione pseudocausale persiste nel Cristianesimo. (**) Peraltro, la prosperità materiale, la vittoria in guerra, ecc. sono viste come favore o ricompensa di un Dio. (***) Sotto quest’aspetto, non vi è differenza tra Antico Testamento e religioni “pagane”. Il miracolo attesta la presenza di Dio nel mondo, riconfermando la Rivelazione originaria, ecc…

(*) Sono del parere che tra religione e scienza non vi sia opposizione, ma assoluta estraneità.

(**) La regina Anna d’Inghilterra attribuiva la morte precoce dei suoi figli alle cattive azioni del padre, re Giacomo II. Analogamente, Kierkegaard riteneva causa della morte prematura dei suoi fratelli qualche gravissimo peccato del padre, forse un’orribile bestemmia.

(***) L’ideologia protestante, in particolare calvinista, nella misura in cui ha rivalutato l’Antico Testamento, ha riscoperto questa valenza ancestrale e primitiva della religione, compiendo sotto questo aspetto un arretramento rispetto alla religiosità del Nuovo Testamento. Il mito moderno del successo materiale non è altro che il residuo secolare di forme magico-religiose primordiali.

[“Spiegare” è un termine il cui significato reale dipende dal contesto culturale. Lo spiritismo “spiega” certi fenomeni paranormali, autentici o presunti. Un incidente può essere “spiegato” come effetto di un sortilegio. Le “spiegazioni” di natura religiosa sono di questo genere. Da notare che certi fenomeni non esisterebbero, o non ne sarebbe possibile una certa interpretazione, se non come parti di “spiegazioni” che si avvalgono di certe categorie. Senza la “legge di natura” non si hanno il paranormale, il supernormale e la fenomenologia relativa. Senza la personificazione del Male nel Diavolo non vi sono le streghe del Malleus Maleficarum e dei cacciatori di streghe. Sembra che certe “spiegazioni” abbiano carattere riflessivo: spiegano ciò che senza di esse non esisterebbe. Potenza del Pensiero].

Riassumendo: il punto di vista magico e religioso è analogico, anagogico e ha una sua causalità, che non è di tipo scientifico.

Perciò, nel considerare i rapporti tra Religione e Storia, un punto di vista funzionale sembra più adeguato di un approccio causale, proprio per il carattere particolare del pensiero religioso, il cui svolgersi è irriducibile alla struttura razionalizzata e discorsiva che regola l’analisi economica ecc., mentre si può tentare di svelare la funzione di un elemento religioso o ideologico mediante la sua capacità di significazione. Un metodo analogo può applicarsi benissimo alle ideologie recenti: il marxismo si è affermato non in quanto le “masse” cogliessero il significato dichiarato del materialismo storico o della teoria del plusvalore, vale a dire la peculiare causalità di quell’ideologia, ma perché, esprimendo una situazione reale di conflitto sociale, era funzionale nei confronti della realtà sociale e culturale del XIX e del XX secolo, rendendo esplicite le forze latenti che ne hanno fatto un’ideologia dominante. Il marxismo è anche una soteriologia antireligiosa. Perché si è affermato? Perché la salvezza offerta dalla religione tradizionale non sembrava più adeguata. O perché offriva un’altra via di salvezza, storicamente realizzabile (le forme di salvazione concrete o presunte tali prevalgono facilmente su promesse non realizzabili storicamente, e viceversa queste vincono in assenza di quelle). O perché ha prodotto una nuova coscienza, per la quale le vecchie formule non avevano più valore. Ciò che era stato posto al di là della Storia, veniva reintegrato nella Storia stessa e reso accessibile. C’è insieme continuità e opposizione rispetto al Cristianesimo (questi paradossi, che si succedono ininterrottamente in tutte le analisi di questo genere, rendono impossibile la ricerca su un piano di causalità scientifica nel senso comune del termine - anzi diventa difficile anche l’applicazione della logica aristotelica - e impediscono la formulazione di un qualsiasi giudizio definito. Ogni posizione può essere rovesciata e vanificata a seconda dell’aspetto che il soggetto intende evidenziare).

 

Religione e ideologie

La continuità tra il marxismo e le religioni tradizionali come Cristianesimo ed Ebraismo è stata notata da molti. Si può formulare un’ipotesi: non è forse che le religioni, o alcune almeno, si siano storicamente affermate o riformate nella misura in cui hanno riscoperto e reintegrato nella coscienza collettiva gli aspetti negativi e marginali del vissuto, o hanno recuperato e difeso una visione dell’esistenza in via di emarginazione, ricostituendola secondo una nuova forma? Le ideologie politiche del XIX e del XX secolo hanno svolto una funzione di questo tipo. Anche nel Cristianesimo si possono riconoscere istanze siffatte. E l’insorgere dell’Islàm tradizionalista? È solo effetto di politiche governative conservatrici? Nella rivoluzione iraniana del 1979, gli elementi complementari sopra citati sono ben evidenti.

A onor del vero, il Buddhismo sembra aver proceduto per negazioni, piuttosto che per riaffermazioni e rivalorizzazioni: si direbbe che la forza del negativo (il dolore, la morte….) venga esorcizzata svuotando, nullificando il reale, svalutato a forma impermanente e illusoria. Ciò dimostra come si possa trasformare il polo attualmente negativo in positivo, e viceversa. In qualche modo, la Rivelazione religiosa è rivoluzionaria. O la Rivoluzione è una rivelazione desacralizzata? La mistica della rivoluzione, che ha avuto così tanti seguaci negli ultimi due secoli, sembra confermare un simile punto di vista, così come la fine di molti Profeti, condannati come impostori e sovversivi.

Con ciò non intendo sostenere che la religione sia un’ideologia, cui manchi l’aspetto razionale discorsivo, e quindi espressione formalmente imperfetta del pensiero, o una prefigurazione incompleta di qualcosa che deve affermarsi, anzi che c’è, e che nel suo pieno manifestarsi alla fine del XVIII secolo fu a sua volta divinizzato nella Ragione. Questa è la posizione che, a partire dal XVIII secolo attraverso filoni diversi - Hegel, i positivisti, Marx - avvalendosi dello sviluppo di molte scienze e in particolare della fisica, della chimica, della biologia, dell’economia, della psicologia e della sociologia, ha prevalso nel XIX e nel XX secolo soprattutto in Europa, per indebolirsi verso la fine di questo: un po’ per il materiale emerso dagli studi etnografici, molto per il fallimento di certi sviluppi politici, e molto anche per ragioni affatto pratiche. In una certa misura la visione religiosa ha recuperato credibilità.

La ricchezza espressiva, emotiva ed estetica delle religioni, e la presenza in esse di un nucleo sovrastorico che si riconosce nel sacro, escluderebbero una loro riduzione a mera fase intermedia dello sviluppo storico della coscienza collettiva, anche se le ragioni a favore di una siffatta interpretazione sono tutt’altro che trascurabili. Non escludono però la continuità storica e parzialmente di contenuto dalle religioni alle ideologie (e viceversa). Da un punto di vista evolutivo, le ideologie politiche e certe costruzioni razionali, invero di dimensioni imponenti (si consideri l’Idealismo romantico), sembrano prolungamenti o riformulazioni della tradizione religiosa, della quale respingono gli aspetti metafisici e devozionali, anche quando si pongano in opposizione a questa, attraverso l’affermazione della superiorità del “concetto” (Hegel) o la negazione del trascendente (Marx). Ma ne conservano altri, per lo più inespressi, che potrebbero essere gli stessi all’origine dell’affermarsi storico della tradizione religiosa, in particolare quella cristiana. Insomma, le forme mentali collettive sorte in Europa (*) nel XIX secolo, prolungatesi nel XX e attualmente estinte o in via di estinzione, hanno tutta l’aria di volersi sostituire alla religione, conservandone certe valenze e certe forze latenti ma liberandosi della giustificazione originaria. O si può anche dire che le suddette forze, non trovando modo di erompere all’interno della tradizione religiosa vecchia e ingessata, si sono cercate altre modalità di espressione e altri profeti, trovandoli in effetti. Abbiamo già visto come sia difficile distinguere tra potere religioso e potere ideologico. Né la distinzione tra religione e ideologia è sempre netta e costante, in particolare nel mondo attuale.

(*) Non nel mondo anglosassone, né in particolare negli Stati Uniti.

Si potrebbe ipotizzare l’attuarsi, in Europa nel XVIII e XIX secolo, di una successione ormai conclusa di passaggi, durante la quale il declino dell’attrazione verso la religione tradizionale, cioè il processo di secolarizzazione, spinse le coscienze verso la ricerca di nuove formule che - qualunque sia il loro contenuto espressamente dichiarato - si alimentano delle forze efficaci della religione ormai in declino ma ancora operante e condizionante (né tale efficacia sarà mai esaurita del tutto). Forse le grandi ideologie sono (erano) solo una forma di transizione verso una coscienza desacralizzata, che riduce tutto il reale sotto la forma del concetto? (*) O sono addirittura una riforma selettiva della vecchia religione che abbandona certi elementi per recuperarne altri, portandoli alla luce e trovando per essi una nuova legittimazione? Le due tesi non concordano, ma paradossalmente potrebbero coesistere, poiché entrambi gli sviluppi si sono verificati nel corso del XX secolo e perdurano tuttora. Le ideologie del XIX secolo avevano ancora un carattere totalizzante, cioè consideravano il reale sotto l’aspetto dell’unità Perciò la diversificazione del loro significato ha origine più tardi, quando la visione totale del mondo è diventata impossibile, e la coscienza collettiva si dissolve nella somma delle scelte individuali.

(*)  “Ciò che è reale è anche razionale, e ciò che è razionale è reale” (Hegel).

A favore di entrambe le tesi, è perfettamente plausibile che l’efficacia - il potere condizionante - del pensiero tradizionale persista nelle nuove forme che tentano di soppiantarlo: per il semplice fatto che la coscienza collettiva, appunto in quanto condizionata dalla religione, anche quando questa cominci a perdere la sua forza, cerca spontaneamente forme di tipo religioso, e simili a ciò che respinge. Generalmente, la coscienza collettiva non passa attraverso discontinuità radicali improvvise - anche se ciò può benissimo avvenire, talvolta, a livello individuale (si pensi alla conversione di S. Paolo). La gradualità del processo di trasformazione è visibile anche nel caso delle più radicali rivoluzioni politiche: esaurita la fase parossistica, nella quale si afferma violentemente la negazione del vecchio ordine, alcuni elementi dell’antico stato di cose riprendono forza, e si stabilisce una sorta di continuità attraverso il cambiamento. Che vi sia stato cambiamento o continuità, è questione di parere soggettivo; dipende dagli aspetti che si considerano. E anche le rivoluzioni scientifiche mantengono molto del precedente modo di vedere le cose. Copernico opera la sua rivoluzione, ma usa gli strumenti concettuali dell’epoca. Nessuna nuova teoria rompe completamente con la vecchia.

Più concretamente: si consideri la forte componente mitologica, simbolica e rituale del nazionalsocialismo, che regredisce addirittura al livello magico primitivo, e il suo identificarsi in un capo carismatico, ovvero il senso di missione presente nel comunismo, il culto della personalità del capo, le deviazioni considerate come eresie, l’illusione della palingenesi, il riferimento costante a un pensiero unico e onnicomprensivo, insuperabile, basato su testi veridici, nonché il costituirsi in entrambi, nazismo e comunismo, di menti collettive sotto forma di partiti totalitari. Per non parlare del nazionalismo a cavallo tra XIX e XX secolo, loro sorgente immediata - il nazionalsocialismo come ulteriore regressione, il leninismo come opposizione radicale - con la sacralizzazione della Nazione e il concetto pseudomistico di Patria, sconfinante nella malattia mentale e nella demenza collettiva della I guerra mondiale.

 

Appendice: l’assoluto

La religione non coincide col sacro, giacché non si limita al passivo riconoscimento della presenza dello spirituale nel mondo sensibile. Le forme della religione sono estremamente varie, al punto che è lecito dubitare dell’unità del concetto. È difficile accettare l’affinità tra le religioni afro-americane come il Vodu e la comprensione spirituale di un Francesco d’Assisi. In effetti, le religioni più “evolute” respingono le forme religiose precedenti, pur salvandone alcuni aspetti. Sembra esservi polarità tra estremi opposti: il magico originario, che integra lo “spirituale” nell’esperienza attraverso la funzione sciamanica - la quale è funzione sociale oltre che esperienza individuale - e l’assoluto trascendente oltre ogni forma, l’origine di ogni cosa. Pare che tutte - o quasi - le rappresentazioni ed esperienze di natura religiosa oscillino tra questi due poli.

Si può ipotizzare che, in epoche variabili tra il II millennio a.C. e il I d.C., a seconda delle situazioni, con modalità diverse e attraverso processi assai complessi e differenziati solo in parte documentabili, nella Grecia classica e poi nel mondo romano-ellenistico, nell’antichissimo Israele, e anche in India, nasca, o a partire da una particolare divinità tra le tante, il cui rango si eleva al di sopra di tutte fino ad abolirle o ad assorbirle, o attraverso la riflessione filosofica che pone l’Essere o Brahman al di sopra degli dèi senza esaurirne il culto, un Uno assoluto al di là delle forme e delle esperienze individuali. Si può tentare di delinearne l’origine storica, sia pure in forma estremamente ipotetica.

Potrebbe essere che la coscienza individuale, che teme la propria estinzione con la morte, in origine risolvesse la tensione attingendo alla funzione sciamanica, che mediante il contatto con gli “spiriti” e gli antenati riduce l’opposizione tra vita e morte, ponendo almeno una continuità tra i due momenti, se non una integrazione del secondo sotto il primo. Con l’indebolirsi della mediazione sciamanica originaria, effetto dei processi di diversificazione sociale, dello sviluppo delle tecniche, della razionalizzazione del pensiero e della costruzione di nuove strutture di potere, la tensione all’immortalità, superata la forma semirazionale e immaginifica del mito, che la esprime simbolicamente senza risolverla, avrebbe finalmente trovato un’espressione unitaria nel porre di fronte alla coscienza l’Altro da sé (immortale opposto al mortale, infinito al finito, informale al formale), lontanissimo e “Altissimo”, ovvero, secondariamente, il Sé, centro originario dell’io empirico, ugualmente opposto ai limiti di quello. Data l’identità funzionale e la comune posizione nei confronti della coscienza finita, i due centri confluiscono infine in una unità originaria, aprendo la via alla forma ultima della religione. Infatti, oltre alla sintesi nell’Assoluto non vi può essere alcuno sviluppo: di qui, forse, il carattere fisso, statico per non dire regressivo, delle religioni attuali.

 

[Maggio 2002]

   

 

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