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Sommario del sito


 

Dario Chioli
ALFESIBEA PERDUTA
Poesie dei ventidue anni
 
 
Sommario
1978Quarto canto alla dea oscuraOdisseo navigai alla tua isola
 EnigmaMille nomi
Alfesibea perdutaI fiordalisi 
Agili nel sognoQuattro colori1979
La caduta dal mondoLa Guardiana 
Erich ZammaDalla terra dei MoriLo stupore e la morte
Sulla faccia dell’acquaUn canto per l’esuleLa morte e il sogno
Ad AfroditeMi tuffo in giùIl sogno delle colline
Nella limpida profondità del mattinoLegherai i LeoniMoira
Su di noiGli estuariCom’era bella la morte azzurra
Primo canto alla dea oscuraIncatenami a teL’eremita alla donna
Secondo canto alla dea oscuraUniti torneremo viviAi Poteri del mondo
Terzo canto alla dea oscuraUn ruscello che sgorga dietro i montiLe parole di Mencio
 
   
 

Alfesibea perduta

 

ADE
 

Oggi che si compie l’anno ventidue
io a letto in procinto d’iniziare
la prolifica giornata dormendo
per nove dieci ore chissà e poi andare
in nessun modo mutato in nessun luogo
(o forse è scuro l’occhio, e infatti miope
in più concreto senso già lo sono;
o forse è muto il cuore, non persuaso
di veementi parole odio amore,
forse rimpianto e noia ed è già troppo,
troppo stende le mani in sete eterna
ahankàra la morte il falso io)
cosa farò nel tempo che mi spetta?
(nel giorno breve nelle poche ore
pochi minuti, spettri, ballo tenue
d’Ore danzanti nella breve notte
il sabba idiota grondante di satanassi
per il Mystik Power senza fantasia
che confonde la tiptologia
dei Napoleoni evocati e la teologia)
O potere incombente del kolchòz,
potere dei re della definizione!
Io povero schiavo fuggitivo come Spartaco
destinato su croci a perire dissanguato
tra quest’orda di ribelli e flagelli di Dio,
povero come chiosa d’una vecchia Vita
di suor Maria Agostina della Congregazione
delle Suore di San Giuseppe in Torino,
povero come un inutile protendersi
verso le cosiddette parole inutili del cielo,
mentre tuonano le profetiche imprecisioni
dei notabili al culmine della querimonia.
O regno da cui fugge Scaramelli
col suo Direttorio interessato a condurre
1857 sulla via della contemplazione
le anime, figurati un po’,
le anime, ohibò.
Fuori del tempo, stantio come un ritratto
di uomini che raro parlano,
in quest’era sociale,
dentro la folla densa di multiformi amori,
io al compiere ventidue il Tau del vivere
(shalòm)
 nessun uomo, nessuna donna rinnego
neppure i chiosatori strizzaocchi seri e faceti
dei ministri di Mammona. Solo
consolandomi con ira e con fragile interesse
contemplo la Morte incarnata per æones.

ERACLE
 

Mettiti la maschera rossa,
mettiti la sciarpa nera,
mettiti il mantello dorato,
mettiti il cappello colorato.
O mia Chimera, mentre così inveivano,
ho volto gli occhi e sono corso via.
Essi non m’hanno visto,
han continuato a parlare,
sicché credo come i Titani
ancora rotolino massi.
Ho volto lo sguardo al Sole,
ebbi fatica a guardare;
immerso nel grigiore connesso
in diecimila connessioni,
ci voleva Eracle perché
potessi accendere il rogo.
Più forte di lui fui:
la camicia di Nesso
immersi nel gran lago di neve
e ancora non cessa di bruciare;
certo brucerà tutto il mondo.
Nel mondo riarso io, uomo arso,
carpirò al vento la vita.

DIANA
 

Giusto è inaugurare se stessi con versi,
giusto e bello, e vero come l’autunno,
stagione senza prezzo, sommersa
dal ghiaccio di un’età a venire,
scuro esito che porta di là dal mondo...
Iperborei, e voi che fuggiste
nascosti nella notte...
O Diana, tu che hai dato riposo presto svegliali
e ricacciali a vivere. Per me
preferisco star solo e non guardarmi
mai alle spalle se qualcuno rida:
rida pure e ne possa trar coraggio,
ovvero suoni nella gran marea
come il fastidio d’un rumore inutile,
labile fuoco sul mare.

DIONISO
 

Venne al mondo:
lo imprigionarono perché era nudo.

ERMETE
 

La cosa inutile è stare soli al mondo
piangendo Alfesibea perduta. Per voi è
scartabellare dizionari e libri.
I diecimila vocaboli in più
Tommaseo conobbe, forse centomila.
Altri copiarono pedissequamente.
Guardaci! gridano, ma l’Ombre e il loro specchio
tacciono sempre: di là arsero i libri.
L’Akh e il Ba danzano cento balletti incomprensibili.
Guardati dentro nel cuore, sii felice
a contemplare hevél, sii felice.
Sii felice alla porta di Ghehinnòm,
sii felice, dammi la tua mano,
voglio legger la sorte.
Vuoi scappare?
Ben mi sta che tu fuggi,
ben ti sta che tu fuggi,
vo i’ cantando
come Arnaut e Jaufré con la mia lira
echi di Pound.
Può darsi anche
che il mondo si fermi un istante.
Può anche darsi
che sbocci un fiore nel vuoto più vasto.
Ah, un istante!
Arnaut chiude la porta,
di là rimangano le stelle e la luna,
i fiori e il sole.
Arnaut se n’è andato;
Cheiro, Croiset, dateci ragione:
non c’è verso di raggiungere lo Swami.

ANANKE
 

Spesso danzando al suono delle parole
(Parigi Londra Tokyo Turku Pietroburgo
Malaysia Swaziland Terra del Fuoco
Bukhara Manciukuò Siàm
e luoghi anche un poco più remoti)
viaggiai lontano.
Viaggi? domandano;
mentire è necessario.
Quando una volta il mondo era com’era,
nessuno chiedeva così poco, forse:
Lontano è il cielo?
Le stelle erano atomi,
soffocava l’umanità di Empedoklès
nel vulcano del mondo.
Eràclito, splendido Eràclito,
sapevi tu dare un’occasione dorata?
Tornano dal mare lontano
navigatori d’Indie, ed i racconti
s’accordano coi miei, navigatore dell’ombra.
Alfesibea la chioma lunga e sottile
mi offre, e la tenera
necessità di vivere. Così
io guardo nel ventre doloroso della notte:
oltre il cammino mi si offre Ananke, la Necessità,
madre struggente. Io rivolgo le mani
a afferrare la pioggia del cielo.

28.I.1978

 

 

Agili nel sogno

Oh, dov’è la stirpe
di coloro che cantano,
agili bimbi nel sogno?

10.2.1978

 

 

La caduta dal mondo

Talvolta - quando cado dal mondo
sulle sponde riarse d’un deserto
in margine alla valle impenetrabile
dove si perdono i vivi, porta di Ade -
tra le mani il calice fresco d’un fiore
sboccia, e baciando il suo cuore
scendo giù per la ripida erta verso valle
ove sorge, sommesso, in lontananza, un lago,
che vaghezza non cinge che a morirvi.
E io, che le sue onde scruto,
compongo canzoni a risvegliar memorie,
a dar ali alla mente ed al pensiero.

12.III.1978

 

 

Erich Zamma

Erich Zamma volava sul vento.
Erich Zamma raccoglieva cesti di fiori.

Chi vide Erich Zamma gettarsi nel vasto deserto
sotto la luce di Venere quando
illuminava la Terra come un sole?
Chi vide Erich Zamma danzare
tra i silfi gli elfi e i folletti
nell’impenetrabile dolcezza d’un’epoca di fate
all’inizio del mondo, prima
che scoppiasse la vita, principio dell’uomo?
 

Erich Zamma tra l’abisso e il caos
spesso procede, per la strada della memoria.
I suoi ricordi, la sua anima che fu
Erich Zamma con parole non sa esprimere.
Egli canta alla Luna, un essere beffardo
che lo beffa crudele, ma Erich Zamma non sente.
Egli conosce l’agglomerarsi del tempo,
i secoli informi come presero esistenza
sopraffacendo l’Uomo, la Donna resa schiava
dall’illusione eterna, e i figli della morte
avvolti in un sudicio vischioso manto,
e il fuoco spento che cova sotto la cenere,
che Erich Zamma da sempre cercò di riaccendere,
il fuoco del Sole, dal velo delle sfere
libero come un canto che nessuno può udire.
 

Chi non morì mille volte non è degno di essere,
passa beffando se stesso una vita senza scopo
e nell’abbraccio freddo conclude la propria speranza.
Chi non morì mille volte non è degno di splendere,
la sua esile fiamma è soffocata dai vapori
e si dissolve in basso sfrigolando con raccapriccio.
Chi non morì mille volte non può darti la mano,
è un lago di specchi infranti, una madre nera,
polo d’incontro delle soffocazioni.
Chi non morì mille volte non sa guardarti negli occhi;
i tuoi occhi, Erich Zamma, sono una lampada ardente,
il fuoco inestinguibile d’un abbraccio che uccide.
 

O tu dipinto in mille versi dalla vita,
incoronato di gemme, di germogli giovani,
come potrebbe vedere il tuo cuore,
la spada del tuo essere colui che oscuramente,
pronunziando per noia in una sera di morte
parole buie, su monti senza tregua
corre sapendo di dover cadere?
 

Chi non morì mille volte non è degno di vederti,
Erich Zamma dalle mani d’oro, dal passo senza confine.

Gli Dei trassero se stessi dai vortici della morte,
si tessé il loro essere con le maglie della distruzione,
la gioia emerse da oceani di dolore.

O tu che voli sopra i mondi, lanciato
come un sasso da una mano ignota, chi ti coglierà?
Chi saprà raccontare la storia, la verità dei tempi
in cui tu colpisti te stesso nell’insopportabile disperazione
e una mano ti raccolse, come un fiore nel grembo del mondo,
e un volto ti apparve, che ricolmò il tuo essere,
e una parola fu detta, adeguata al tuo rimpianto?
 

O Erich Zamma, nostalgia infinita,
chi non morì mille volte non merita di udirti,
non sa comprendere il tuo abbraccio, la carezza
del grande oblio. Veder la Dea non sa,
l’origine e il vuoto non ha raggiunto, mano non ha
da colpire le Porte, le vede e non può dirne ed ogni volta
vuole sfondare, ma senza uno sforzo
trova se stesso di là, ma senza luce,
senza una mano che gli accenda il fuoco.
 

Così Erich Zamma scelse mille volte
di morire, e arrivò proprio sull’orlo;
si gettò ad occhi chiusi e fu confitto
nel doloroso spazio della morte.
Poi emerse dal nulla e intrecciò con le mani
una stuoia volante, una speranza insensata,
e oltre la follia, nella radice perduta dell’uomo,
volò sul margine tra abisso e scienza,
tra la Corona e il Nulla.
Così gli spiriti della terra più non conobbero l’uomo,
così gli spiriti dell’aria più non videro la sua intelligenza,
così gli spiriti dell’acqua più non ebbero la sua anima.
Erich Zamma volò e si perse,
attraversò il fuoco e la morte.
 

Chi ha visto Erich Zamma, dite, chi lo ha visto?
Datemi le sue mani per prendere in mano la morte,
datemi il suo cuore per fissare lo sguardo nel sole,
datemi la sua splendida coraggiosa vittoria.
 

(Ho visto Erich Zamma un giorno, errava sui secoli,
al suo sguardo risposi con la mia cautela:
diede un riso beffardo e, stupefatto,
vidi mutarsi il mondo in uno specchio,
e il vortice della morte si dissolse nel cuore,
e con lo spirito bruciato dall’incendio
vidi me stesso).

14.III.1978

 

 

Sulla faccia dell’acqua

Solo è vivere dare a larghe mani
sulla faccia dell’acqua vita e amori.
 
Chi si ferma in un porto non può fare
la via che porta all’isola lontana.
Ha lasciato una traccia sulla terra
presto dissolta in sabbia: non esiste.

23.III.1978

 

 

Ad Afrodite

Non fuggire, Afrodite, antica amica:
mi guidasti dal seno della giovinezza.
Figlia di Dio non andare lontano,
Afrodite splendente non lasciare la casa.
Io sono un tempio, e un altare per te
sempre ho approntato, né mai t’ho rifiutata,
dolce amica compagna delle estati d’oro.
Spesso lasciai la terra per venire a te,
Venere Urania inaccessibile e lieta.
Ti ho conosciuta dalla giovinezza,
non avevo rispetto e tu ridevi allegra.
Tu sei bambina per chi bambino è,
fuggitiva per chi vuole inseguire;
ma a me che non voglio rincorrer questa vita
da’ tra i tuoi doni un canto e un abbraccio
per cui mai non scordi, o figlia di Dio,
d’esserti compagno nelle epoche oscure.
Colui che tu conduci per mano ha un grande dono
dal cielo, se sa fare del canto sentiero:
su questo sentiero io e te corriamo
veloci inseguendoci, splendida Afrodite,
quasi nel tempo di colui che visse
attimi eterni d’infanzia e poi dormiva,
Endimione figlio del sonno, e poi dormiva,
e a lui Selene dolce veniva e lo guidava
nei meandri del sogno. Così anch’io
possa con te sognare senza fine
cantando inni lucenti verso il cielo,
verso il cuore del cielo che tu sai
quanto spesso ho guardato per cercare
il tuo volto, il tuo vivere gioioso,
Afrodite del mare.

4.IV.1978

 

 

Nella limpida profondità del mattino

Ho saputo di te che fallisti
una meta della tua vita - subito
il ricordo m’è tornato dei giorni
in cui ti rincorrevo. Tacito,
come un sopito lamento
mai portato alla fine,
lo sguardo s’è chiarito e t’ho veduta
nella limpida profondità del mattino.

29.V.1978

 

 

Su di noi

Su di noi rimani.
Il tuo sguardo percorre tutto il mondo,
né mai in luogo alcuno sosta.
Non posso fermarti,
non posso invitarti.
Chiudi tu le silenziose labbra
con un bacio.

29.V.1978

 

 

Primo canto alla dea oscura

Io sono per te come il vento,
le foglie e i rami.
Io sono per te come il mare,
il gorgo e le scure alghe del fondo.
Sono per te l’amante
che morendo t’avviva.
Tu sei per me la vera
tristezza del vivere, il vero
inganno senza fine.

18.VI.1978

 

 

Secondo canto alla dea oscura

Che cerchi, dolce apparendo,
donna che sollevi il volto della bellezza
a risplendere nell’ampio circolo
della saggezza senza fine?
Che cerchi, tenero specchio,
nel tuo lago di ori intatti,
di argenti incorrotti dalle viscere del male,
di esseri umani vivi come mai furono vivi altrove?
Che cerchi, o dispetto del vivere,
disciogliendo nel buio la tua lunga chioma,
colorando nei fumi d’incenso di ampi spazi il tuo errare?
Vieni, coglieremo insieme
il bel fiore biancodorato della levità,
la carezza dei bambini che fummo e il ricordo,
il sottile rimembrare
cose lasciate.
Vieni, castelli neri
costruiremo nel mare per noi due
e le onde con freschezza scioglieranno
il nostro nodo d’angoscia.

18.VI.1978

 

 

Terzo canto alla dea oscura

Nostro non è il morire:
così la riflessione ci spinge al largo.
Indietro non torniamo:
tu segui i miei passi, i tuoi io seguirò.
Per diverse strade camminando,
quando tutto sarà spento,
uniremo le mani sopra il nulla.

18.VI.1978

 

 

Quarto canto alla dea oscura

Dammi solo l’anello,
il piccolo anello di giada
che chiude i mille draghi,
che chiude i mille mondi,
che chiude i mille segreti.
 
Dammi solo l’anello,
il piccolo anello cesellato
che contiene i mille occhi,
che contiene i mille dèi,
che contiene i centomila errori.
 
Dammi solo l’anello,
il piccolo anello fiorito
che rivela i mille canti,
che rivela i mille colori,
che rivela le centomila verità.
 
Dammi solo l’anello,
il piccolo anello di giada.

18.VI.1978

 

 

Enigma

Il bene ritorna,
il male ritorna.
O tu che andasti oltre la notte e il giorno,
non lasciare che imperi il signore della morte.

Il bene che feci è tornato,
il male che feci è tornato.
Ogni cosa è legata alle sue proprie cause,
né mai si scuote il giogo che le tiene.
O tu che andasti oltre le sfere del tempo,
portaci al di là del regno della morte.
 
O tu che chiami, perché mai mi chiami?
Ecco le tue catene, toccale con mano.
Il bene ritorna,
il male ritorna,
e dal gioco che include le loro conseguenze
uscirà, se apri gli occhi, il tuo viso ridente.

Il bene ritorna,

il male ritorna.
Se tu mi chiami,
io ti raggiungerò.
Ma non vuoi tu alla fine
lasciarmi con un abbraccio?
 
Chiamerà nel silenzio,
nessuno conoscerà.
Tutto il grigiore del mondo
lo spezzerà.
Così morte e vita
raggiunte lascerà,
e non sarà che vento.
Tu lo conoscerai.

Giugno 1978

 

 

I fiordalisi

Spesso vidi il cielo, poi
ebbi paura e fuggii. Ora
mi fermerò in un campo di fiordalisi
conoscendoti e cercando senza fine con te
l’orma un tempo smarrita.

19.VIII.1978

 

 

Quattro colori

Quattro colori ho conosciuto:
uno era il colore della morte,
l’altro il colore della vita,
il terzo il colore del destino,
il quarto il colore del ricordo.
In questo mattino
ho rivolto lo sguardo al di là,
nell’infinito tra le costellazioni,
e corrisposero a me come in un canto
cento figure di danza, cento mari
dove profonde immagini raccolsi.
La troppo nota infamia del domani,
larva perenne vuota di ogni Idea,
sgorgò nel fondo e cupa vi rimase
senza rivivere.
 

11.IX.1978

 

 

La Guardiana

Dolce Guardiana posta alla mia soglia
per ricacciarmi indietro, per negarmi
di vedere la Piena, per proteggere
il mio fragile incombere in regioni
scevre d’ogni pietà, prive d’amore,
lascia perdere, donami il tuo scettro,
la mia vile ripulsa non guidare;
dammi invece il tuo chiaro inattaccabile
profondissimo sguardo.

11.IX.1978

 

 

Dalla terra dei Mori

Dalla terra dei Mori son tornato, o forse non ancora.
Parrebbe che si staglino all’orizzonte barlumi,
però da gran tempo così pare, un’illusione
è forse, un pervadere della morte il mondo,
un disperdere le chiome della Virtù nel Vizio,
un ricorrere di temi da lungo tempo cadaveri.
Il mio cuore s’inceppa, la mia fronte
di sudore s’imperla. Non so dire
che cosa sia, se Lei o Lui, la causa.

11.IX.1978

 

 

Un canto per l’esule

Per te quest'oggi modulo il mio canto,
io cantore accecato dal cosmo
perduto in spazi che non vedo,
proteso a luoghi che non conosco.

Dammi la purezza di neve
di una parola imperiale,
l’albero di melograno
coi suoi frutti raggianti.

Donami il sentire
che viaggia oltre gli uomini
di là dall’intrico
dei sogni e delle finzioni.

Di sterili lamenti
mi sono stancato:
il dolore e la guerra
dilettano il cuore dell’uomo.

Il suo cuore ha crepe
onde tralucono inferni,
meteore scagliate
contro cielo e paradiso.

Io non so donde partire
o già sarei partito
verso l’Isola Bianca
madre degli esiliati.

Mentre i cavalli scuri
corrono nel silenzio
che mai dirò, o mia dea?
Tacerò all’infinito.

Eternità trascorrono,
con noi giocano a scacchi,
perduti asili, terre
a cui nessuno arrivò.

Odo il loro accordo
e l’armonia del vuoto:
sull’arpa decacorde
muoion l’occhio e la voce.

Guidami sulla rotta
avvolta dalle nuvole,
mentre alla Verde Terra
conduco il mio scafo.

Vermi e parole pullulano
nel ciclo temporale;
aldilà me ne andrò
ove non sono che stelle.

15.IX.1978

 

 

Mi tuffo in giù

- Mi distolgo da te, amico della terra.
Mi tuffo in giù, nel Caso.
- Risali? O non ti perdi
giù nella vasta Eternità?
- Mi getto come in un fosso omo ebbro.
Poi sale da me una strofe che loda il canto e il vivere.
- Di chi figlio è il vivere?
- Non risalgo dal mare, come puoi
chiedermi tanto?
- Tanto o poco è lo stesso.
- E però è il segno
della tua morte.

15.IX.1978

 

 

Legherai i Leoni
 

Di là dalle sponde del mare della vita,
o Madre, tu m’abbracci e ridi,
e il tuo riso mi prende come in un cielo di stelle
inarrivabile oltre il regno del sole.

O dolce Donna, dietro il paravento
quante volte intravidi cosa che ignoravo
e distoglievo gli occhi temendo di trovare
un troppo profondo azzurro che non potessi guardare.

Madre, tu delle epoche del mondo
illuminata Signora, legherai i Leoni:
sotto il riflusso chiaro delle stelle
per quanti secoli abbraccerò il tuo cuore!

E danzeremo in serena rivalsa
sino alla fine del mare.

25.X.1978

 

 

Gli estuari

Quando poi avremo conosciuto
la nostra splendida eterna vicinanza,
nella veste di mille colori degli estuari
verseremo noi stessi nell’oceano.

Sarà spento il ricordo delle nostre brame,
né io mai sarò stato, né tu mai sarai stata.
O Madre, correremo intatti e senza forma
nel regno invisibile versando pace sul mondo.

25.X.1978

 

 

Incatenami a te

Incatenami a te... oh, tu non hai catene...
Affascina il mio cuore... oh, tu non hai magia...
La dolce parola che disvela
sola tu hai per noi che discorriamo,
e il levare d’un volo la mente appresso agli occhi
allorché io ti guardo, insensato, oltre le stelle.

25.X.1978

 

 

Uniti torneremo vivi

O tu, che hai nome solitudine infinita,
o tu, più vera d’ogni parola detta,
lascia che noi restiamo e non compiamo,
lasciaci essere senza rimanere,
lasciaci vivere senza ricordare.
O tu che hai nome immemore ritorno,
lasciaci ancora tornare alla fonte
per rivedere senza rammentare.
Io e te che a lungo vaghiamo senza pace
uniti, forse, torneremo vivi.

25.X.1978

 

 

Un ruscello che sgorga dietro i monti

Sempre nella vita ho cercato la bellezza,
sempre ho cercato l’essere amoroso
che conduce i viventi alla luce,
sempre ho guardato la Stella del mattino
e fino a Vespero ho seguito
il suo corso invisibile.
Sempre ho indagato ove nascesse il mio mare,
questo fiume che corre infinito,
e ho diretto lo sguardo dentro il tuo silenzio
e il tuo volto, o Madre, o dea fanciulla,
quante volte ho ammirato.
Lacero, solo, abbandonato, stolto,
i cani del mondo han condotto la mia vita,
e ho baciato talvolta i piedi della morte,
eppure sempre in verità ho gettato
il mio stendardo al sole, eppure sempre ho alzato
il cuore al canto, destreggiandomi con forza.
Ora del correre sazietà m’ha raggiunto
e della stupida cerca cieco son diventato;
non esiste per me che la tenue illusione
onde mi pare iddio chi è trascorso in silenzio.
Sempre ho cercato la gloriosa forma che dissipa le ombre e rinnova le canzoni;
ora non so che fare, non so dove andare,
ma conosco un ruscello che sgorga dietro i monti:
limpide sono le sue acque,
verdi muschi le accarezzano.

25.X.1978

 

 

Odisseo navigai alla tua isola

Ancora una volta m’hai donato un canto;
non cesserò dunque d’essere un poeta?
Spesso nei giorni dico: Ecco è seccato
il gran fiume e non torna più angelo nessuno,
e però tu te ne vieni e le fiumane sonore,
dentro il mio cuore penetri e ti fai
dilagante parola. Eppure mentre scrivo
tu sei silenzio e nulla perverrà
di ciò che odo a chi non sa ascoltare.
T’ho conosciuta in un giorno come questo,
quand’ero entrato in un regno ove nessuno
era vivo, e tu eri un sorriso, solamente un sorriso
vagante e sperduto, finché t’afferrai
e illuminasti la vasta caverna,
più luminosa d’ogni luce mortale.
Odisseo navigai alla tua isola
e tu, Circe o Calipso, avesti vita.

25.X.1978

 

 

Mille nomi

Hai mille nomi e alcuni hanno pericolo:
oh, è forse vero che Amore è la morte?
E tuttavia, potessi consumarmi
bruciato a morte senza alcuna grazia.
Lasciami essere; consunto nelle ossa,
svanirò infine nel regno del non essere.
Così ti dico, ma tu non devi credere,
sta’ attenta, invero in me non v’è che inganno:
forse alla fine brucerai tu nel vento.
E del resto che muta, qual è la differenza?
Quale che sia di noi quello che muore,
forse che uno non siamo e non vivrà
l'uno nell’altro? Nel mezzo dei tuoi sogni
stacchi le cose per vederle chiare;
quando però la luce ti dissolve
regalandoti cento parole infuocate
tu, divenuto centomila esseri,
non avrai forse pietà per il tuo amante?
O dolce Madre, o tu forma dell’essere
circoscritta eppur viva, un luogo ci daremo
certamente a vicenda, e sarà ricco
dei nostri fiori.

25.X.1978

 

 

Lo stupore e la morte

Datemi stupore e morte,
ch’io consideri il caso
e il suo incidere in forme
uomini, donne ed esseri
senza nome. Come oscuri
sono il procedere e il lago
ove si perde l’idea e il modo
come si costruì l’universo:
la prima Era del mondo,
sotto la prima madre
il primo essere vivo
tuffato nel vento, nel mare
dei desideri dissolti. Pure
non è il segreto se non,
limpidi specchi luminosi,
lo stupore e la morte.
 

7.I.1979

 

 

La morte e il sogno

- O Cavaliere che lento te ne vai
sullo scheletro d’un cavallo esausto,
puro fantasma infernale,
qual è la tua meta,
dove guidi te stesso?
 
- O viaggiatore, credi forse, cieco,
che ti risparmierà la morte, e il vento
non gelerà le tue marcite ossa?
Vago intorno senza guida né scopo,
soltanto conoscendo la morte e il sogno.
 
- E che è, Cavaliere, sogno?
che è morte?
 
- Questo tuo vivere, il magico flautista
che conduce la folla dei ciechi all’oceano,
le onde alto levate e il canto dei gabbiani,
lo stridere dei corvi nei campi,
tutto, tutto è sogno,
tutto è morte.
 
- Perché vuoi tu produrre
spavento e timore, o Cavaliere?
Che ne ottieni, che stemma,
che limpido sonno?
 
- Solo, o vivente, la morte
e il sogno onde tu chiedi
che sia il turbato mio vivere,
il mio andare continuo.
 
- Sai dunque dirmi che siano
realtà, giustizia, il regno di là dai venti?
 
- Ombra per ombra,
ombra ti dono e cerchi.
Ombra tu resti e all’ombra vai chiedendo
della morte e del sogno. O Cavaliere,
tu lotterai con me nella notte.
Le nostre guerre intarsieranno di gemmati rilievi
i regni della morte e del sogno.

7.I.1979

 

 

Il sogno delle colline

Conoscevo sulle colline un sogno
che mi guidava nell’oscura
valle dell’esistere, ero
un uomo ricco d’un mistero,
d’un segreto possessore, artista
del disporre i pensieri, e l’ordine
era nel mio cuore, grande orma
di Dio, architetto e signore.

Che potrei dire dei giorni in cui
conoscevo sulle colline un sogno
che mi guidava nell’oscura
valle dell’esistere?

Ho sentore dagli antichi racconti
che esista un segreto giù nella valle,
tra i fiori e i sepolcri,
un mistero che sboccia tra le tue mani.
L’ho veduto, l’ho scelto,
l’ho conosciuto e preso.
Ora ho un segreto, un mistero
da nascondere con cura.

Che posso dire se ho un sogno
che mi guida giù nella valle
oscura del vivere?

7.I.1979

 

 

Moira

Moira tesse la trama,
la chioma Ebe discioglie.
Io risollevo il capo e guardo
il bacio ardente della luminosa primavera.

7.I.1979

 

 

Com’era bella la morte azzurra

Di là da notte e giorno sono andato
e ho conosciuto la morte azzurra.
Com’era bella la morte azzurra,
lo sguardo dolce e libero sopra l’esistenza.
Com’era bella la morte azzurra,
quando la vidi partire.

Fu doloroso il distacco, l’addio, la libertà.
E seppi che dovevo girarmi
e non potei girare,
né di qui né di là.
Neanche qual ero me ne potei stare
e alla fine dei giorni non saprei,
se me ne stessi così, che sarei.

10.I.1979

 

 

L’eremita alla donna

S’esser sedotta vuoi, e tu seduci.
S’essere amata vuoi, ama tu stessa.
S’esser lodata vuoi, apri la bocca.
S’esser guardata vuoi, socchiudi gli occhi.
Se non vuoi nulla, e tu non chieder nulla.
Qui vive un eremita senza intenti,
che dà soltanto ciò che gli si chiede.

10.I.1979

 

 

Ai Poteri del mondo

O Poteri del mondo,
alzo le mani e vi chiamo.
Padre del vento che li conducesti,
me conduci
sulle parole dell’abisso alate
verso il lago ricolmo di sangue
dove si abbeverano le ombre,
puro fiume sotterraneo del tempo trascorso,
immagine fatata del paese scomparso
e dell’enigma d’esistere ogni giorno.

O Poteri del mondo,
alzo le mani e vi chiamo.
Il cuore e il pensiero del cuore dirigo più in là
della mente e dei sensi.

O Fanciulla d’abisso,
l’acqua sorgiva e il fiore della conoscenza
porgici tu nel cavo eburneo delle tue mani.

21.I.1979

 

 

Le parole di Mencio

Dio, ho letto le parole di Mencio.
Egli diceva: L’uomo che è vecchio ha diritto
di esser lasciato solo a familiarizzarsi
con l’idea della morte. O Dio, quanto vicina
è quella sua vecchiezza!
Ho passato i miei anni a cercare
un fiore che sboccia solo in solitudine.
Ho udito spesso
le parole volgari che conducono,
massa, potere, dominio della morte,
ma io seguo le orme di Mencio; solo chiedo
che mi lascino in pace a riposare
nella cerca impossibile e fatata
dove cerco le silfidi e gli dèi
e rifuggo dal dire vano, sazio
di parole e di vento.

21.I.1979

 

 
 
   

 

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