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DIALOGO CON SIMONE PAOLI

SUI MEZZI DELLA RICERCA INTERIORE

  

I.

28 aprile 2016

Simone Paoli ─ Casualmente (o forse no) mi sono imbattuto nel tuo bel sito. Da anni sono un “ricercatore del Sé”, attraverso lo studio dello Zen, dell’Advaita ecc. Pratico meditazione Vipassana. Sinceramente però, pur a livello intellettivo avendo compreso la Verità non duale dell’esistenza, ho sempre quella latente condizione di incompletezza nella mia ricerca. È vero, sì, che forse dovremmo smettere di ricercare. Cosa mi dici a tal proposito?

Dario Chioli ─ Diceva Georges Lapassade che l’uomo è un esempio di “neotenia”, ovvero di essere incompleto destinato a trovare in altra forma la propria completezza, così come il bruco nella farfalla, per intenderci. Io credo che ci sia del vero. Certamente la nostra mente non è strutturata per comprendere tutto, bensì per permetterci di perseguire la nostra metamorfosi spirituale. Vale a dire che da un lato non bisogna accettare nulla frettolosamente, perché della ragione si deve aver rispetto, è un grande strumento di igiene mentale; d’altro canto non ci si deve illudere che la suddetta ragione ci porti di per sé alla conoscenza.

La ragione ha il compito fondamentale e ineludibile di “sgombrare il campo”, dopodiché in tale “campo” può irrompere lo Spirito (Grazia, Barakah, Shakti...) attraverso l’intuizione spirituale.

Perché la ragione possa svolgere efficacemente il suo compito, è però necessario che si sia identificata una etica propria a cui attenersi, non supinamente accettata da altri, e che ci si attenga ad essa. Tale etica deve comprendere misericordia e compassione, sia verso se stessi che verso gli altri; essere compassionevoli verso se stessi non implicando tuttavia che si cerchino scuse per sfuggire i propri compiti.

Quindi, allorché siano rispettate le premesse etiche (rispettare la parola volontariamente data, sempre) e razionali (nulla accettare che non si sia compreso davvero), il quadro si fa interessante.

Intanto, di compagni con queste caratteristiche se ne troveranno pochi, ma quei pochi varrà la pena tenerli in considerazione.

Delineato così il quadro di base, apparirà evidente che la nostra vita deve essere in continua dialettica con la morte, essendo questa il limite che la specifica e ne dà il senso.

La metamorfosi deve compiersi in parte prima e in parte attraverso la morte. La memoria deve saturarsi di libertà, di stupore, perché è di questo che sarà fatto il nostro “corpo spirituale”. Diceva il mistico bizantino Cabasilas che compito della vita presente è sviluppare i sensi della vita futura, e questa è anche la mia opinione. Conta solo ciò che può mantenere un significato anche di fronte all’imminenza della morte. Il resto, che sia cultura o ricchezza, val meno di nulla.

S. P. ─ Un’ultima cortesia: un testo che porteresti con te da ogni parte, una sorta di manuale esistenziale, se ovviamente gli dai questo valore, me lo consigli?

D. Ch. ─ Di testi profondi ce n’è una quantità, dipende dalle tue propensioni.

Io sono partito nella mia ricerca con Ramakrishna e Tagore, Juan de la Cruz, la Bhagavadgita, il Daodejing, i Vangeli.

Un manuale adatto a tutti non credo ci sia, sarebbe molto generico. Io mi sono fatto il mio promemoria scrivendo Il santo filosofo, dove ho come distillato quel che ho tratto dalla mia personale esperienza.

Ad ogni modo, per ben valutare gli andirivieni dell’esistenza, Daodejing e Yijing sono fondamentali, se se ne sa seguire lo spirito. I discorsi del Buddha sono profondissimi nell’analisi della mente. La Bhagavadgita nella presentazione del dharma. I Vangeli presentano nella risurrezione di Cristo una speranza accessibile all’uomo moderno. E il sufismo (Rumi, Hallaj, Sohrawardi ecc.) offre vertici mistici entusiasmanti.

Molte cose ho ricavato da Guénon, da Gurdjieff, Castaneda, Jung. Ognuno però ha il suo linguaggio, e nessuno in genere capisce quello dell’altro...

Quel che conta non è un libro, ma essere costantemente aperti verso lo Spirito. In questo caso, i libri verranno, insieme alle esperienze.

29 aprile 2016

S. P. ─ Un’ultima cosa: per coltivare il Qui e Ora, vivere l’Adesso e fermare il “chiacchiericcio” della mente-scimmia che consigli pratici mi daresti? Credo che intraprendere questa azione con successo sia uno dei fondamenti di tutte le filosofie, giusto?

D. Ch. ─ Il problema non è fermare la mente. Il problema è: perché? La motivazione è fondamentale. E bisogna prima impostare una vita eticamente corretta e poi, eventualmente, operare sulla mente.

Secondo me è più facile indirettamente: affidandosi alla provvidenza del Mistero (o di Dio, come preferisci), si sperimenta un’intensità che toglie gusto ai pensieri comuni e pertanto ci abitua ad uno stato in cui non ci si appiglia ad essi. Lo stesso si ottiene facilmente col pensiero della morte, se si lega, come dovrebbe essere, il pensiero della morte all’aspettativa del Mistero.

Se invece si volesse fermare il chiacchiericcio della mente per la semplice soddisfazione di farlo, già tale soddisfazione farebbe in realtà parte del chiacchiericcio, perché le cose che riguardano l’anima vanno gestite con serietà, se no rientrano nel gran carnevale solito.

Diceva Gurdjieff che bisogna avere il “terrore della situazione”: rendersi conto che potremmo morire oggi stesso, e che non è auspicabile morire da ignoranti squilibrati... Nulla ci garantisce che attraverso la morte i nostri squilibri si sanino e la nostra ignoranza si compensi. Pertanto conviene fare il possibile, far fruttare i talenti invece di sotterrarli. Incominciando naturalmente dai doveri primari.

8 maggio 2016

S. P. ─ In un percorso realizzativo, ritieni necessaria la frequentazione di Centri, Organizzazioni, Maestri oppure ritieni la Via individuale un percorso “incontaminato” e più obiettivo?

D. Ch. ─ Per quanto mi riguarda non frequento e non ho frequentato mai alcun centro od organizzazione e non mi riferisco ad alcun maestro. Ho frequentato sì individualmente dei massoni, dei gurdjieviani, dei kremmerziani, dei sufi ed altro ancora, ma mai ho avuto sentore che mi fosse utile associarmi loro.

L’impressione è che la scuola diventi troppo facilmente un asilo per persone insicure che cercano una dubbia conferma e un sicuro nascondiglio.

Il discorso del maestro sarebbe forse diverso, ma il maestro bisognerebbe trovarlo e che sia tale. Ora, certamente maestro non è chi si dichiara tale, chi ha creato un’organizzazione, chi si lascia venerare, chi si fa pagare (questa si chiama simonia), né qualcuno lo diventa perché molti lo proclamano tale. Io ho trovato poche persone che avevano qualcosa di serio da dire, e me ne sono giovato grandemente.

Molto dipende poi da quanto impegno tu vuoi metterci nella tua ricerca. La ricerca spirituale tende a diventare qualcosa di onniassorbente, bisogna però stare attenti a che non diventi un comodo alibi per rifuggire dalle proprie responsabilità sociali e morali. Al tempo stesso, se non si aderisce ad alcun gruppo, si proverà certo una gran solitudine interiore, ma anche una grande libertà, laddove si sia già provato lo stupore della conoscenza.

Quanto all’obiettività, è una categoria equivoca. Il sentiero interiore si percorre passo passo, ogni passo una scelta che ci viene imposta dal destino, e mai si sa prima quale sarà il passo successivo. Lo splendore dell’anima non è in alcun modo prevedibile o sistematizzabile. Ci si apre alla grazia, e la grazia arriva, per le sue vie però, non secondo le nostre previsioni. Quel che conta è la sincerità con noi stessi. E bada che il 99% di coloro che si dedicano all’esoterismo la perde ben presto. E temo che il 100% delle scuole non serva a nulla, se non per chi se ne avvalga come di una spinta iniziale. In quel caso contano le sue buone intenzioni, che rendono utile anche ciò che altrimenti danneggerebbe.

 

II.


16 agosto 2016

S. P. ─ Ti disturbo per un tuo parere circa ciò che ti chiesi tempo addietro riguardo al percorso realizzativo. Mi dicesti che poche persone (insegnamenti) ti sono state di notevole aiuto. Se ovviamente puoi, mi indicheresti quali? E poi volevo chiederti cosa pensi di Nisargadatta, Ramana Maharshi, U.G. e Jiddu Krishnamurti.

26 agosto 2016

D. Ch. ─ Le persone che mi sono state di aiuto sono stati come degli upaguru, cioè persone che mi hanno insegnato cose utili pur senza rivestire alcun ruolo, ma non erano personaggi importanti, persone invece semplici, amici, conoscenti. Delle persone un po’ più simili a un insegnante, l’unico era Giancarlo Frassinelli, una delle guide dei gruppi di Gurdjieff di Torino, persona veramente notevole che io e mia moglie invitammo a cena mediamente una volta ogni quindici giorni per un anno o forse più, finché non ebbe un ictus che lo invalidò e col quale iniziò un processo che terminò drammaticamente. Ne ho parlato nel mio sito.

La mia ricerca si è dunque avvalsa più che altro delle memorie scritte o dello scambio con persone più o meno comuni. Sono partito con Ramakrishna, Tagore, Aurobindo, Vivekananda da una parte, Juan de la Cruz e Teresa de Avila dall’altra. Ma anche con Laozi e Buddha, Ramana Maharshi e i Chassidim di Martin Buber, Vasugupta, Rumi e tanti altri. Inoltre per me è stata fondamentale l’ispirazione poetica, senza cui non sarei andato da nessuna parte. L’attendere che venga un verso ci pone in uno stato che ha delle analogie con quello della meditazione o della preghiera, anche se l’arte è spesso troppo inficiata dal narcisismo dell’autore, narcisismo da cui certo non sono stato esente.

Dei tre personaggi che tu citi, Ramana Maharshi è sicuramente indiscutibile, Nisargadatta non lo conosco altrettanto bene anche se ne ho lette diverse cose, ma mi pare comunque attendibile, mentre di Jiddu Krishnamurti e U.G. apprezzo la sincerità e l’evidente ricerca del vero, ma non sono così convinto delle loro analisi. O meglio: le loro analisi stanno in piedi benissimo, ma io cerco forse di più.

Tuttora, ad ogni modo, io sono molto legato più che altro alla figura di Ramakrishna. “I Pitagorici” hanno pubblicato due grossi volumi di suoi discorsi che costano parecchio, ma potrebbe aver senso procurarseli. Se no c’è il Vangelo di Ramakrishna pubblicato da Vidyananda, che è la versione ridotta ma comunque interessantissima. I dati bibliografici su Ramakrishna e Vivekananda, personaggio anch’esso rimarchevolissimo, li trovi su SuperZeko.

I maestri sono un po’ un mito, la coperta di Linus con cui confortarsi delle proprie manchevolezze. Tutti i santi e gli illuminati hanno conosciuto cadute, smarrimenti, esitazioni, aridità. Questa è la natura umana, solo che i biografi hanno riportato di loro solo i “mirabilia” e ci sembrano dunque così lontani. Ma in ognuno di noi risiede il sadguru, il polo segreto del Mistero, basta che si lascino da parte gli scopi secondari della propria vita e ci si concentri su quello primario, la ricerca di Dio. Allora la percezione si raffina, la nostra natura si ammorbidisce, la solidarietà si accresce e almeno in certi attimi avvertiamo un modo di sentire le cose che non è quello comune. Allora subentra anche il piacere estetico dell’analogia, la scoperta del simbolo, ma sono effetti secondari, quel che conta è la nudità di fronte al Mistero: nessun secondo fine, nessuna aspirazione egoica, solo il desiderio più profondo del nostro essere.

Tutto ciò ho cercato di rendere nel mio libro Il santo filosofo, di cui vado lentissimamente scrivendo anche una seconda parte.

Un’aggiunta importante: per andare da qualunque parte nel mondo dello spirito, bisogna perdonare, perdonare tutto. Ogni perdono non dato è un macigno che ci ostruisce la strada. E bisogna dare tutto senza contraccambio: ogni dono che si aspetta un contraccambio è una perdita. E bisogna mantenere la parola data: darla poco, ma quel poco mantenerlo senza eccezione, perché non può chiedere rivelazioni alla Parola di Dio colui che valuta così poco la propria da darla con facilità e senza rispettarla.

 

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