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Prima di copertina del volume «Stanze della mia sposa» di Roberto Rossi Testa, riproducente «La Glorificazione della Teologia» di Andrea Di Bonaiuto (sec. XIV)

Prima di copertina, riproducente
«La Glorificazione della Teologia»
di Andrea Di Bonaiuto (sec. XIV)

 

Roberto Rossi Testa

STANZE DELLA MIA SPOSA

Presentazione di Giuseppe Conte, postfazione di Carmelo Mezzasalma
Hellas, Firenze, 1988
Collezione Hespèrion, n. 6


   

Mi sei comparsa troppe volte in sogno
sempre diversa e senza una parola
umana di rimprovero o pietà -
e negli occhi un amore indecifrabile.
 
Bambina, vecchia, orripilante bestia -
Dalla tenera età
ad ogni tua venuta un nuovo enigma -
E sprofondavo gli occhi
in un pozzo d'amore e d'inquietudine,
o fuggivo, fuggivo solo il volto
che a stento adesso riesco a intravvedere.
 
Impassibile tu che mi vedevi
correre in smanie o stare tramortito
non facevi alcun cenno -
Già sicura
che per qualunque strada t'avrei colta?
Ma mi stavi davanti come pietra,
come animale che tranquillo aspetta
accanto a me il risveglio -
Come attesa che ha in sé il suo compimento.
 
Erano lampi, a volte, erano frane
con cui manifestavi all'improvviso
quella dolcezza troppo amara all'uomo.
Perdevo allora presa ed equilibrio,
mi ritrovavo a un tratto a fondovalle.
Ma quando vidi in ogni cosa il fuoco
del limpido tuo riso
nell'incendio soltanto ebbi la pace.
 
Se ad intervalli sei impallidita,
se t'ho creduta vana,
subito dai miei libri usciva il canto
di chi già ti conobbe - sempre vergine.
Anche loro, sedotti, in ogni tempo,
con gli occhi resi acuti dal tuo fulmine
levavano gli sguardi verso il centro...
Dall'orbita sortita,
senza potersi avvicinare o andarsene,
senza più alternative d'altra vita.
 
Quanto vagare, donna, quanti inciampi
lungo la via percorsa al lume fioco
che s'attenuava fino a oscurità -
 
Ma proprio di quel poco tu, sapiente
maturità, mi nutri: forse a erompere...
Tu che bene conosci l'occidente,
che sospingi la barca prigioniera
di notturne correnti e sordi influssi.
 
Donna che mi trattieni in questo cielo,
che mi sostieni nella vana guerra
contro stelle che vietano il salire;
specchio da costeggiare all'infinito,
sposa che muti, amando,
per farmi intuire una figura salda -
Non confondermi più, non vacillare,
dammi un ordine infine...
Sia guida amore alla memoria imbelle.

 p. 9

   

   

   

Manca il respiro, a volte,
per il sentiero impervio e per l'altezza;
ma il sasso infrange la vetrata opaca;
e il petto s'apre, e la parola è piana,
«cielo» sento squillare dentro me;
e a quel suono per sempre
l'azzurro che si specchia tinge l'alte
correnti, allaga l'anima.
Allora finalmente in sogno volo,
non temo più gli sguardi
di chi fissa tremando,
né conosce altra vita che quel tremito.
E in un candore trasparente vedo
l'infinito sereno che mi accerchia;
che mi promette giorni, e lieto scorrere,
e una luce senz'ombra né tramonto
in cui perdere gli occhi sia preghiera.

 p. 14

   

   

   

Una è la voce, molti sono gli echi.
Anche da riva si potrebbe udire
il grido di chi mangia ed è mangiato,
il tuffo dell'uccello, della pietra,
lo scorrere dell'acqua che smeriglia...
 Tutto è presente, nulla giudicato.
 
Ma c'è l'angoscia, ancora,
l'impulso delle mani a trattenere...
L'occhio rivolto a riva sconta il volo,
sconta la luce ventilata e immemore.
 
Io non sarò salvato,
 tu non ti perderai;
ma se è dono la morte inferta e chiesta
è nel mio incespicare il tuo innalzarti -
Sei senza nome, e quando grido il mio
stride un gabbiano e mi sommerge un'onda.

 p. 16

   

   

   

 Ora non posso dare né rispondere,
m'infrangerò nel sole,
non potrò penetrare lo splendore:
non mi rivelerà la trasparenza
quella luce abbagliante,
non vedranno i miei occhi i fabbri all'opera.
«Massiccio per entrare»: e tu non chiedere,
scendi da sola dove non riesco,
dove tutto si muove e niente muta;
osa versare il tuo zampillo ardente;
e di' se dovrò urlare di andar via,
che non c'è più da mordere per loro,
che mangeranno quando avrò finito...
Perché la pietra, a volte, si fa opaca;
si sfalda, fra le mani; ed io la spargo,
e mentre segni affondano e riemergono
cammino in strade in cui ti sfioro e bruci:
straniera, e non sei frutto né parola,
tu sei soltanto gesto, e sguardo torto.

 p. 20

   

   

   

 Sii con me specchio e lampada,
non sperdere la luce,
quella luce segreta e preziosissima,
indifferente ai più:
ciò che deve si compia,
senza nessun intralcio di pietà.
Chi ha il vuoto in sé fa il vuoto intorno e avanza,
chi pensa al mondo sta,
rimane a incanutire alla riviera
del mare, mai non sale
sui battelli che ad ogni poco partono;
anche per lui, la sera;
e nemmeno la gloria della prova...
Ma noi ci imbarcheremo,
insieme apprenderemo
lentamente a morire, fusi in uno,
sulla torre che attende in fondo al tempo
che l'inganno del tempo sia deciso.
Salire scale e riposare in seggi
preparati da sempre,
dare colore ai fiori e gusto ai frutti
di stagioni remote:
non abbiamo altro compito.
E se qualcuno ci minacci o preghi,
stare fermi, sereni, non rispondere:
le parole fra noi non abbian suoni
umani, sian brusìo,
come di pioggia su un'ardente plaga.

 p. 23

   

   

   

Ti cacciavo per l'aria, mia lucente;
ma se fuggivi, il grido era un richiamo,
e il tuo volo spezzato mi guidò
dove non c'era terra a cui far ombra.
Lì ti voltasti, e vidi un volto umano,
vidi una forma ancora
stranamente terrestre nei tuoi occhi:
dolce, che solo in sogno oso sperarla,
e sì tremenda, che marchiò la mente.

 p. 26

   

   

   

 Donna che sei la sorte, e che conosci
ciò che ancora non so:
sorridimi una volta,
non sospingermi sempre dove imparo
solamente a morire.
Ogni ramo si tende incontro al sole;
per me, fa' che non tardi:
fu già irriconoscibile l'aprile,
nell'estate che volge alla sua fine
fammi almeno sentire il dolce alito,
la tua carezza, che doveva crescermi.
Lascia che viva un poco, ormai che parto;
e poi, sul tuo cammino,
sia vera la promessa, e chiaro il giorno...
Tu sei la luce in forma di sorriso,
ti guardo, e col tuo sguardo vedo il dio
che dentro al petto canta;
anche se non mi ascolti e non mi parli,
anche se fuggi: e mi rimane un velo,
 solo un velo di te,
nella mano protesa, mentre affondi.

  p. 30

   

   

   

Amo la donna che non fa voltare
che silenziosa lascia andare e va
nella sua solitudine di fiera.
 
Già lontana e presente ad un destino
che non ci riunirà
per essere fedeli ognuno a un modo.
 
Così ogni cosa parlerà per lei,
come fosse veduta dai suoi occhi,
quando ci sembrerà d'essere persi.
 
La sua mano mai stretta non ricordo,
ma qui la chiamo, chino a questa polla.

  p. 32

   

   

   

 Tu mi hai vegliato a lungo nel cammino
da vecchi altari presso cui sostavo
leggendo le iscrizioni che mentivano,
fissandoti negli occhi che non mentono.
Ora che giungo in fondo e sono solo
mi volto indietro e vedo tutti i volti,
tutti i tuoi volti, e i nomi, e ti ritrovo.
Davanti ho ancora strada,
la stessa strada forse già percorsa
nella giostra dell'anno...
Si sale anche così,
anche restando presi nella danza
che disperde ogni cosa:
ma non Amore, che ci fa cantare.

 p. 40

   

   

   

 Il bosco mi sembrava addormentato,
erano muti i viali.
Io ti voltavo il dorso e non vedevo
i tuoi nastri sui rovi,
la palla e il cerchio che perdevi apposta
lungo il fiume, per me.
Ora ti so regina degli incanti,
 in te so gli elementi veri e stabili:
ti scorgo nera e bianca, azzurra e verde
soggiogare le belve,
sorvolare gli incendi degli sguardi.
E la tua barca è pronta al mare calmo,
allo specchio dorato:
la tua barca, che è stata fra le rapide.
Riposa fra le canne;
solo un filo la tiene.
E lo spezziamo sorridendo, insieme.

 p. 48

     

     


Roberto Rossi Testa (*), nato il 17 settembre 1956 a Torino, vi ha vissuto e lavorato finché non si è trasferito a San Raffaele Cimena, dove è morto il 28 gennaio 2016. 
In poesia partecipò all'opera collettiva Pharmakos (Torino 1984) e pubblicò le raccolte Stanze della mia Sposa (Hellas, Firenze, 1988), Poca luce (Nino Aragno Editore, Torino, 2002), da cui è tratta La notte dell'impresa Eunoè. Poesie 1988-1995 (Manni Editori, Lecce, 2005), Sposa del vento. Poesie 1984-2004 (Aragno, Torino, 2007) e Poesie per un no (Aragno, Torino, 2010). Collaborò inoltre a numerose riviste sia italiane che estere, fra cui L'anello che non tiene (cfr.  Pentecoste, poi riedita in Eunoè), Poesia, Schema, Testo a fronte, Yale Italian Poetry (cfr.  Grazie).
In prosa pubblicò il libro di racconti Storie di dèi e di animali (Petrini, Torino, 1995), da cui sono riprodotti sul nostro sito Il toro bianco e Il cigno di Leda.
Collaborò al blog letterario La Poesia e lo Spirito. Una sua silloge intitolata La notte dell'impresa è scaricabile in forma di libro elettronico all'indirizzo http://www.larecherche.it/public/poesia2punto0/La_notte_dell_impresa_di_Roberto_Rossi_Testa.pdf. Sue poesie sono presenti anche all'indirizzo http://www.italian-poetry.org/rossi_testa_roberto.html.

Svolse un'intensa attività editoriale come traduttore e curatore, in primo luogo di testi poetici e di opere riguardanti il mondo arabo-islamico, la critica letteraria e d'arte (da Tagore a Gibrân, da Ortega a Huysmans, da Ibn `Arabî a Blake). Nel 2007 uscì la sua traduzione del Latino mistico di Remy de Gourmont (Aragno, Torino), e nel 2008 uscì quella de L'Interprete delle Passioni («Tarjumân al-Ashwâq») di Ibn `Arabî (Urra-Apogeo, Milano, con prefazione di Gianni De Martino), opere per cui profuse grande impegno. 

Su SuperZeko sono presenti sue traduzioni da Percy Bysshe Shelley, Alfred Tennyson, Younis Tawfik, William Blake e Jaufré Rudel, nonché la sua versione  integrale de L'Interprete delle Passioni («Tarjumân al-Ashwâq») di Muhyî-d-Dîn ibn al-`Arabî  (cfr. parte I parte IIparte IIIparte IV). 

Poco prima di morire ha pubblicato la sua ultima opera di poesia: Il sole della notte, alla chiara fonte editore, Lugano, gennaio 2016.

 

(*) Per l'anagrafe è Roberto Rossi, ma dal 1989 firmò i suoi lavori con l'aggiunta del cognome materno al fine di evitare confusioni con omonimi.

     

     

 

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